Italia povera

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Massimo Bucchi

Italia povera Fatti, contraddizioni, orrori della nostra storia Un saggio in immagini Prefazione di Gianni Mura


www.ilsaggiatore.com (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore Š il Saggiatore S.p.A., Milano 2012


Italia povera



Sommario

Prefazione di Gianni Mura Italia povera

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Prefazione di Gianni Mura

Per molti lettori di Repubblica Massimo Bucchi è un genio. Anche per me, ma non c’entra, non siamo qui a fargli un monumento. La sua genialità risiede, a mio parere, in una forma di camaleontismo che avvince e spiazza. Non è un vignettista in senso stretto, né un disegnatore, né un illustratore. È un trovarobe, un editorialista e spesso un moralista, ma non noioso. È un trovarobe perché si serve di vecchie pubblicità, cataloghi, spezzoni di film, quadri famosi. Parte da quello che vuole dire, e che non sarò così babbeo da definire messaggio, e poi sceglie l’immagine d’accompagnamento. A volte bastano cinque minuti, altre volte molto di più, perché Bucchi è un perfezionista e magari l’immagine la trova, ma deve deformarla finché non lo convince, e d’altra parte la deformazione dell’informazione è a sua volta un’informazione. Tanto per fare un’invasione di campo, molti cantautori partono dalla musica e poi scrivono il testo. Se Bucchi fosse un cantautore, ma non lo è (pur se circola il sospetto che il maledetto intellettuale scriva poesie), partirebbe dal testo per arrivare alla musica. Il testo non sempre è presente e spesso si tratta di poche battute, se non di un titolo e basta. Tutto ciò non equivale a piazzare la merce, ma a spiazzare il lettore. Questa come gli sarà venuta in testa? L’ho pensato anch’io, davanti alla ferocia con cui prospetta la riforma pensionistica, o alla leggerezza che gli permette di collocare Bartali alla guida d’una Vespa, come Gregory Peck in Vacanze romane, con Togliatti dietro, come Audrey Hepburn. Forse Bartali e Togliatti non si sono mai incontrati, ma le loro vite si sono incrociate in un giorno di metà luglio 1948. Bucchi, si direbbe in tempi anglofoni, cioè oggi, oscilla tra l’hard del quarto grado di giudizio (l’autopsia) e il soft della linea Immaginot e in mezzo, ma più sull’hard, si piazza un piccolo mostro, metà cane metà pescecane (la difesa della squalità). 9


Qui s’innesta un’altra caratteristica di Bucchi: gli piace giocare con le parole. S’era già capito nei primi anni ottanta, quando dirigeva Satyricon, inserto di Repubblica, buona consistenza e non lunga vita. S’era capito, per i meno svegli, da alcuni titoli di suoi libri (Torna a casa Lessico, 1987). Ed è ancora più evidente oggi questo gioco per chi sul Venerdì legge «Sottovuoto». Giocare con e su chi gioca con le parole è una tentazione troppo grande, irresistibile. Bucchi disegnava fin da bambino, ma erano scarabucchi. Poi sognava di diventare perito chimico (per stare tra gli alambucchi) o guardia forestale (per proteggere gli stambucchi, che suona quasi come instant book). In Francia gli estimatori di Bucchi si chiamano bouquinistes. Siccome un bel gioco dura poco, passiamo alla cose serie. Bucchi ha passato gran parte della sua vita tra la carta stampata, le parole, gli slogan, le misure. Cronista di nera (non per molto), sceneggiatore cinematografico prima di abolire il «cinemato» e imporsi come grafico. L’immaginazione al potere era un noto slogan del maggio francese, ovviamente ripreso in Italia. Poi al potere è andata l’impaginazione, ma questo è un altro discorso e ci allontana dal tema. Riavviciniamoci con una notizia (vera) che Bucchi confesserebbe solo sotto tortura. È laureato in Storia dell’arte medievale, ebbene sì: con una tesi su Puccio Capanna e i giotteschi di Assisi. Questa notizia fa parte delle istruzioni per l’uso: se trovate pagine ispirate a Munch, Dalí, Magritte, sappiate che non è un caso. Non è un caso che Repubblica abbia pubblicato e continui a pubblicare Bucchi nella pagina dei commenti. È giusto, perché si tratta di editoriali sotto altra veste. Per molti anni la rubrica si è chiamata «La finestra sul cortile», con chiaro riferimento al film di Hitchcock ispirato da un racconto di quel grande e disperato giallista che fu Cornell Woolrich. Nemmeno questo è un titolo casuale. Fa riferimento alla distanza tra il testimone e il fatto (un delitto). Nel film, il fotoreporter James Stewart usa binocolo e teleobiettivo. Nel suo lavoro, il non etichettabile Bucchi guarda dalla sua finestra il cortile che è l’Italia, l’Europa, il mondo, il cortile che siamo noi. Fa parte anche lui del condominio, la distanza è data dal punto d’osservazione, che per Bucchi non si misura in alto e basso, ma in diverso, in «altro». Ed è l’altrovismo, almeno credo, la dote più solida di Bucchi, paragonabile a una goccia di mercurio: la tocchi per sistemarla, catalogarla, etichettarla e quella ogni volta si sposta, e così via. 10


Il resto è saggezza, lettura delle cose terrene, nesso associativo, divertissement e moralismo. Il moralista non si sottrae a una forma di giudizio, per sintetica che sia, Bucchi non si sottrae, dunque Bucchi è moralista. Dopo trovarobe e editorialista, ho cercato di spiegare le tre definizioni iniziali. Se non l’avete notato, faccio notare che non ho mai usato le parole «satira» e «satirico» (Satyricon era solo una testata che non fa testo). Non le uso perché sono inflazionate. Nemmeno ho usato l’aggettivo graffiante perché lo detesto. Pur considerandomi esperto più di vigne che di vignette, preferisco sottolineare l’intelligenza, in senso etimologico. E comunque Bucchi non è un cocktail e non si è tenuti a precisare le gocce d’angostura o le dosi di gin. Molte cose sue me le sono immaginate sul New Yorker, ma non mi dispiace trovarle all’interno di Repubblica, sulle cui pagine continuiamo a figurare da collaboratori-pensionati (la strategia della pensione). Dunque, godetevi Bucchi a piccole o anche grandi dosi. Non provoca allergia. Allegria sì, ma non sempre. Pessimismo, spesso. Inutile girarci intorno: Bucchi è un sovversivo perché sa pensare e fa pensare. Sappiatevi regolare. O regalare. G.M.

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Non è una storia, non è un trattato, non è una raccolta cronologica. È solo un libro, forse pronto da molto in qualche cassetto della mia testa, aggiornato sempre e continuamente a mia insaputa. È bastato infatti frugare un po’ e mi è apparso subito completo, nel senso di finito e non in quello di scrupolosamente onnicomprensivo. Ci sono solo «icone», non scambi di parole o ragionamenti. La didascalia in alto è soprattutto una semplice presa d’atto di quello che è velocemente e quasi automaticamente emerso. Le associazioni di immagini spesso sovrastano anche in psicologia le associazioni di parole. Non è un quadro particolarmente felice, quello che risulta. Ma l’umorismo, che inscindibilmente fa parte della satira, è sempre stato un airbag della realtà. Attenua l’urto con i fatti, anestetizza per quanto può il dolore e infine offre una piccola sospensione temporale come aiuto per dare un senso al tutto. Pone la domanda: siamo veramente così? È reale una realtà sognata da un folle? Siamo fatti anche noi della materia di cui sono fatti i soldi? E quindi tutto in queste pagine galleggia insieme, intreccia i suoi significati, macera nel contesto attendendo un riconoscimento e una negazione, l’uno impossibile senza l’altra. Il risultato non è un giudizio ma un angoscioso stato d’animo, adesso che il tempo stringe se stesso e il presente sceglie come futuro il passato. La satira come politica, che è un suo aggettivo, vorrebbe gettare tutto insieme sulla bilancia, per raggiunti termini di sopportazione. Ma non è sua la capacità di modificarla, la bilancia. Piaccia o no, il problema è vostro. Massimo Bucchi


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Dibattito sul cuore dello Stato

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Il Babel Paese

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Ustica. Le tracce dei radar

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Bologna 1980. La persistenza della memoria

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