Arrigo Arrigoni
Jazz foto di gruppo
Mito, storia, spettacolo nella societĂ americana
www.saggiatore.it
Š il Saggiatore s.p.a., Milano 2010
Jazz foto di gruppo ai miei figli e a Rocco, giudizioso bracchetto dei Pirenei, non è mai troppo tardi
Sommario
prima parte.
La schiavitù è genocidio
1. Negro! 2. I grandi fiumi africani seconda parte.
Il jazz classico
3. New Orleans 4. Hey! Buddy Bolden! 5. Chicago story 6. Il jazz arcaico 7. Pionieri 8. Il jazz classico e i grandi maestri neri 9. Kansas city blues 10. Jam session e dislettura 11. New York 12. Il jazz come improvvisazione terza parte.
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29 43 49 59 67 87 95 101 111 122
Genio e spettacolo
13. The jazzman as entertainer (appunti per una storia alternativa del jazz) 131 14. The joint is jumpin’ 158 15. The band and the big band 167 16. Miti minori: boschi e foreste, il treno, gli hobo e il boogie-woogie 187 17. Qualche utile divagazione, anzi indispensabile 201 18. Duke, o dell’ambiguità 208
quarta parte.
Forme del jazz moderno
19. Il bebop secondo Tadd Dameron dal tramonto all’alba 20. Cronologia del jazz moderno 21. Afrocuban bebop 22. Cool jazz 23. Hard bop 24. Road to California 25. The Third stream 26. Free jazz 27. La morte di Albert Ayler e l’apoteosi del jazz
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appendici
Religioni tradizionali e religione di salvezza Religioni dei neri, religione del blues Marijuana, eroina Le oscure notti del jazz Parigi Django Analogie: il rebetiko Analogie con certe musiche rom Testimonianze, testimonianze, ancora testimonianze! L’impatto della tecnologia sulla comunicazione musicale di massa e sulla comunità dei musicisti di jazz Il ruolo sociale del jazz Moondog
360 364 374 380 386 395 399 402 405 414
Note
447
Indice dei nomi
505
425 435
PRIMA PARTE
La schiavitù è genocidio
1. Negro!
Il jazz è una musica bella e complessa, carica di storia, di sociologia, di letteratura, di vita e di spettacolo, di neuroscienze e, naturalmente, di musicologia e di valori estetici. Nasce e si sviluppa nella comunità afroamericana, negra e creola, attingendo copiosamente anche alla cultura musicale bianca particolarmente attiva e ricca a New Orleans già durante la colonizzazione francese e spagnola della Louisiana. Saprà parlare anche ai bianchi, seppure con intensità diverse negli anni. Non è difficile confondere i sentieri labirintici che guidano al jazz. Alcuni portano dappertutto, altri in nessun luogo. La bibliografia sul jazz1 è sterminata. Enciclopedie. Dizionari. Storie generali. Biografie di musicisti. Monografie e studi di specifici periodi e di singoli eventi. Ricerche discografiche, note di copertina, riviste specializzate, interviste, analisi tecniche. Perché allora un ennesimo libro sul jazz? Perché il jazz e i generi che si rifanno al jazz, nel decennio 1970-1980 hanno palesemente imboccato la strada dell’involuzione e del tramonto; le fonti dell’innovazione si sono inaridite e gli ultimi protagonisti stanno anagraficamente assottigliandosi senza che una nuova generazione si affacci al proscenio per raccogliere una sfida creativa, sorprendente e originale. A fronte di questa fase finale l’atteggiamento più diffuso è di ignorare che il jazz sta concludendo la sua storia, e di fingere business as usual. Si continua a suonare jazz e si alimenta l’illusione che il jazz sia ancora vivo e vitale, mentre ci allontaniamo dagli anni orgogliosi del passato, verso l’assenza di futuro. Non parlerò di questi sviluppi, ma parlerò invece del valore estetico di questa musica, dei miti del jazz, della sua storia conclusa e definita, del ruolo dei suoi protagonisti, dei comprimari, delle comparse, dei luoghi e delle capitali del jazz, della notte, dell’alcol e della droga.
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Dei riti della comunità dei musicisti di jazz. Parlerò di schiavitù, di religione, di razzismo. In modo asistematico, disordinato, perché il filo conduttore di una storia così complessa si è dissolto nel labirinto dell’America del nero. Dobbiamo lasciare che tutta la grandiosità tragica della vicenda «Africa in America» occupi completamente la scena. Senza la storia sociale degli afroamericani, antagonistica, simmetrica, parallela e speculare a quella dei bianchi, il jazz sarebbe incomprensibile, così come senza i «ritratti» dei musicisti di jazz, anche dei minori, la storia dei neri d’America sarebbe scialba, stinta, triste e forse non esisterebbe neppure. In un’America mitica e mitizzata il genio profetico di Kafka aveva intuito l’equivoco di fondo, il destino subalterno del nero e il dramma mai nominato della sua invisibilità in quanto non americano, ma anche in quanto non più africano. Così inizia l’ultimo capitolo di America, romanzo più che interrotto, sospeso: All’angolo di una strada Karl vide un manifesto con la scritta seguente: «Oggi al campo delle corse di Clayton, dalle sei a mezzanotte, all’ippodromo di Clayton si assume personale per il teatro di Oklahoma. Il Grande teatro di Oklahoma vi chiama! Chiama solo oggi, una volta sola! Chi perde l’occasione, la perde per sempre! Chi pensa al proprio avvenire, è dei nostri! Chiunque è il benvenuto. Chi vuol fare l’artista, si presenti! Noi siamo il teatro capace di impiegare chiunque, ognuno al proprio posto! Con chi ha deciso di essere dei nostri ci felicitiamo fin d’ora. Ma affrettatevi, in modo di poter entrare prima della mezzanotte. A mezzanotte si chiude tutto e non si riapre più! Chi non crede a noi peggio per lui! Venite a Clayton!2
Karl Rossman, l’ottimista e pragmatico protagonista, è affascinato e al tempo stesso sconcertato da quanto sta accadendo nell’ufficio assunzioni del Grande teatro di Oklahoma, e ancora dalla vastità dell’impegno che ritiene sproporzionato alle esigenze di personale del Teatro. Finalmente, a dispetto di contrattempi, ritardi, contrarietà viene condotto in un ufficio dove un funzionario impettito e un impiegato svogliato e disattento gli porranno delle domande insidiose e indiscrete. Il fatto che Karl sia sprovvisto di documenti non lo frena, ma al contrario, lo spinge inizialmente a ostentare il titolo di «ingegnere», per poi ridimensionarlo in un silenzio imbarazzato. Così Karl modula le successive risposte riducendo man mano l’importanza che attribuisce al proprio curriculum vitae, da ingegnere a «personale con cognizioni tecniche», e quindi a «ex allievo di scuola media», e infine a «ex allievo di scuola media europea». È come se a ogni diminutio, Karl
1. Negro!
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si rimpicciolisse man mano e la sua voce divenisse un bisbiglio appena intelligibile e lui diventasse non solo di nessuna importanza, ma anche pressoché invisibile agli occhi di tutti, e prima ancora ai suoi stessi occhi. Ma ci fu ancora un piccolo ritardo, quando gli fu chiesto come si chiamava. Non rispose subito, provava ripugnanza a dire il suo nome vero e a farlo scrivere. Appena avesse ottenuto un posto sia pure umilissimo e se ne fosse dimostrato degno, allora si sarebbe potuto conoscere il suo nome, ma adesso però no; per troppo tempo lo aveva taciuto per poterlo rivelare adesso. Disse perciò, poiché sul momento non gliene venivano altri, il nome con cui veniva chiamato nel suo ultimo posto: «negro».
Il funzionario sbalordito oppone una smorfia di disappunto, ma viene preceduto dall’autorevole scrivano che taglia corto: «Allora le comunico io che lei è assunto per il Teatro di Oklahoma e che ora sarà presentato al nostro Capo».3 Kafka aveva colto l’essenza degli Stati Uniti, la vocazione, la volontà, la missione di redimere il mondo, ma anche la volgarità della sua retorica e il cinismo dei suoi comportamenti. L’aveva colta nella grandiosità dei suoi scenari naturali, della silenziosa immensità degli spazi, nella libertà della frontiera, e al tempo stesso nel brulicare delle metropoli, grattacieli che si perdono nelle nuvole basse, alberghi colossali attraversati da corridoi labirintici e da ascensori ovattati, treni che compiono viaggi che durano giorni e sfrecciando sfiorano la prateria infinita e boschi scuri sull’orizzonte, montagne luccicanti di neve, e infine gli oceani attraversati da milioni di migranti in cerca di riscatto e forse di fortuna.4 Aveva colto l’intraprendenza dell’individuo, e al tempo stesso la frustrazione, la disperazione, l’amarezza del fallimento. Tutto ciò era precluso agli schiavi.
Tentativi di definizione Il jazz non è una musica nera, o meglio non è solo una musica nera: tali e tante le diverse influenze che hanno contribuito a definirlo e declinarlo nelle diverse fasi della sua esistenza. A sua volta il jazz ha influenzato profondamente la musica popolare americana. L’industria dello spettacolo, Tin Pan Alley, Broadway, i songs scritti spesso come arie o romanze nel contesto del musical, canzoni che a distanza di più di mezzo secolo mantengono intatta la loro bellezza melodica, ma anche la struttura armonica ideale per l’improvvisazione: tanto che quelli più ricchi di valenze armoniche diventeranno standard, i classici per l’improvvisazione jazzistica.5 L’impatto della black music in generale sulla musica popolare americana ed
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europea è stato travolgente, determinando comportamenti collettivi, mode, che hanno segnato in modo duraturo le abitudini di generazioni. Intorno all’entertainment della black music si muovono grandi somme di danaro nonché sottili aspetti di proprietà intellettuale: nel più povero mondo del jazz ritroviamo gli stessi aspetti oscuri che lasceranno ai musicisti neri solo una quota modesta del profitto complessivo.6 Il jazz e il blues sono stati determinanti per stimolare l’evoluzione delle musiche popolari etnico-nazionali verso modi e forme tradizionali, che si appoggiano su schemi ritmici africani, afroamericani, caraibici e afrocubani. Il comune denominatore della world music è il rhythm and blues che per vie imprevedibili ha fecondato musiche tradizionali, dallo ska al reggae della Giamaica, al raï algerino, all’highlife di Accra, alla musica congo dello Zaire, allo ju-ju yoruba di Lagos e in genere le musiche di tutto il continente africano. Il rapporto fra jazz e musica classica contemporanea è stato particolarmente intenso, ma unidirezionale sino agli ultimi anni trenta, quando anche i compositori europei più attenti rubricarono il jazz fra gli accidenti curiosi, ma poco utilizzabili, del loro armamentario compositivo. Gli accademici scoprirono che il jazz (come il tango, il fado, il rebetiko, la bal-musette) era nato nei quartieri a luci rosse per far ballare sgualdrine, malavitosi, negri rozzi e violenti o bianchi alcolizzati, che non riuscivano a immaginare creativamente le regole sintattiche più importanti del «linguaggio jazz» quali le opportunità dell’improvvisazione e dello swing. Atteggiamento opposto per i grandi compositori e/o arrangiatori di jazz, più preparati tecnicamente ad affrontare una problematica così complessa, salvo rifiutarla per le motivazioni più diverse.
Parlarne o ignorarle? Dell’influenza del jazz sulla musica popolare non parlerò: è sotto gli occhi di tutti, effimera presenza, creatura mostruosa e monotona. Sarebbe necessario un discorso prolisso e noioso che io per primo non mi sento di affrontare. Preferisco ignorare il tema e invito i lettori a fare altrettanto. Delle forme di fusion non parlerò: lascino pure credere che il jazz non solo è vivo, ma che attraversa una fase creativa, opinione che non condivido. La fusion è la banalità del rock coniugata alla sofisticata complessità del jazz. Di fronte alla genialità del jazz la fusion non ha diritto di asilo. Anche l’approccio archeologico pedagogico educativo mette in evidenza i tipici difetti del revival. Le generazioni che hanno fatto il jazz rinnovandolo con sor-
1. Negro!
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prendente regolarità sono ormai scomparse praticamente senza eccezione ed esiste il rischio oggettivo che l’edificio che abbiamo ereditato dai maestri si degradi, privo di manutenzione, o si deformi per restauri mal eseguiti.7 Agnostici (Thelonious Monk, Fletcher Henderson, Jelly Roll Morton, Duke Ellington, Tadd Dameron), ostili (Charles Mingus, Sun Ra, Ornette Coleman), affascinati (John Lewis, Gil Evans, André Hodeir, Lennie Tristano), ognuno di loro è portatore di qualche idiosincrasia, di un’ipersensibilità derivante da un nervo scoperto che troveremo puntualmente nella loro musica. È chiaro che si tratta di tre visioni contrastanti che rispecchiano contrapposizioni ideologiche di fondo, irriducibili, ma non incoerenti fra loro. Una storia del jazz non può che essere sgradevole. Ci sono troppi peccati alla sua origine perché il jazz possa ritrovare una leggibilità lineare che ignori questi peccati peraltro irredimibili. Sono colpe, con le quali la comunità afroamericana, senza averne la responsabilità, ha sempre dovuto fare i conti. Quasi a doversene giustificare. Microstorie, milioni di microstorie che inesorabilmente sono filtrate nella loro musica. L’idea stessa di «storia del jazz» mi rende sospettoso e recalcitrante: il jazz ha una sua storia che non può venire ricondotta a un flusso lineare, dalle origini ai nostri giorni, di stili, di grandi solisti o di orchestre leggendarie in un susseguirsi non necessariamente organico di quadri ben ordinati e catalogati. Né può esserci una storia del jazz costruita come albero genealogico dell’influenza e come storia della dislettura, o meglio, come storia della liberazione dall’influenza.8 Inevitabilmente si riproporrà la visione sostanzialmente tragica di questa musica: il jazz a dispetto della sua vocazione di divertire e di fare spettacolo e della sua missione d’arte è una leggenda nera, una vicenda complessa che si dipana sullo sfondo di scenari che sono stati quasi sempre catastrofici, disperati: la tratta, la schiavitù, la segregazione, le migrazioni, la povertà. La depressione, l’umiliazione, il pregiudizio, la discriminazione, lo sfruttamento, la violenza, la dipendenza dalla droga e dall’alcol. La solitudine. Non è ormai troppo tardi? Studiare ora il jazz non sarebbe soltanto uno sterile, oltre che complicato, esercizio di archeologia musicale? Scomparsi i testimoni, i protagonisti, i luoghi, chi saprebbe guidare il neofita attraverso il jazz, verso il jazz? Quale raro padre cerca di tramandare la propria passione e la propria esperienza a rarissimi figli?
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Può servire un incontro fortuito e furtivo in uno degli innumerevoli brutti festival estivi, pallide imitazioni di originali lontani nel tempo? Il jazz è un mistero musicale. L’accessibilità, la facilità, la banalità non porta che a un ascolto superficiale, intermittente, non a leggere, ma a sfogliare, a cercare conferme anziché sorprese. Ma se una scintilla… un’intuizione folgorante, un dubbio improvviso rimasto senza risposta, appiccasse il fuoco della passione e della conoscenza della storia del jazz trasformandola nel poema epico e tragico del popolo nero perseguitato, umiliato, oppresso dalla schiavitù e dal razzismo, e narrasse senza enfasi e retorica la sofferta ricerca della coscienza collettiva dei neri e del rispetto dei bianchi, di un popolo che ha voluto e vuole vivere la felicità della musica, dello spettacolo e della risata… … allora… verremmo conquistati dall’arte misteriosa, individuale e collettiva, strumentale e vocale, esilarante e desolata che il minuscolo seme musicale squillato dalla cornetta di Buddy Bolden ha trasformato in foresta.