L'impero familiare delle tenebre future

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Andrea Gentile

L’impero familiare delle tenebre future



l’impero familiare delle tenebre future



A nonna Elisa



Narrasi che tutti gli uomini che da principio popolarono la terra, fossero creati per ogni dove a un medesimo tempo, e tutti bambini […]. E che la terra fosse molto più piccola che ora non è, quasi tutti i paesi piani, il cielo senza stelle, non fosse creato il mare, e apparisse nel mondo molto minore varietà e magnificenza che oggi non vi si scuopre. Giacomo Leopardi, «Storia del genere umano», Operette morali



Questa è una storia che non è già storia, è la vita del cervello mio che s’innesca a modo suo, è la vita non è vita, è la storia non è storia, sole, sono: il deserto degli infiniti mondi, il silenzio universale, lo spasmo tremendissimo dei cosmi. La creazione. L’abbattimento: di noi. Tutti recisi i rami. E tremulo il mondo atterrisce il corpo mio. Cosa ci spinge a essere qui, ora, sotto questo cielo bianchissimo. Questo cielo dealbato e incertissimo non è più cielo.

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Dirò l’immenso, nulla.

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Io non sono una persona da incipit. Devo qui pur ammettere che ho a lungo dibattuto dentro il me stesso su un altro tema, tema a questo collegato, e tema che per l’ampio spazio simbolico che occupa nella mia persona è piuttosto significativo: sono io una persona? Perlustrato e scavato per interi lustri tale quesito, non ho potuto fare altro, con una latente delusione, che ammettere che sì: sono dunque una persona. Non sono però una persona da incipit. L’immenso dirò, nulla. E dunque parto da questo schermo. Schermo tv che inquadra l’uomo in attesa fatale del camerlengo, con il rigagnolo sul solco del suo volto. La pelle terrea, gli occhi spalancati, eppure assenti: in un mondo altro. Il baldacchino in cui risiede nelle sue ultime fasi di vi-

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ta è maestoso. Scudieri fedeli agli angoli, tre. Un lato è scoperto. Forse una luce? Poiché l’uomo inquadrato dallo schermo tv nelle sue ultime fasi di vita è davvero maestoso: è Papa R. Tutto il paese, che è Italia, è incollato davanti allo schermo tv. Io, distesa sul divano, avvolticchio la mia ciocca un po’ pastosa, come si fa quando sugli schermi c’è tensione vera. Uno scudiero fa roteare il ventaglio attorno all’Uomo Vicario. Lui sta, morendo il Papa R. La voce del cronista informa che è stata l’azienda Rubelli a donare buona parte dei damaschi in pura seta necessari a confezionare i paramenti sacri or ora indossati dall’Uomo Vicario, in occasione del suo soggiorno all’ospedale Gemelli. Siamo tutti disperati, tutte, tutti, per l’ictus che ha colpito l’Uomo Vicario, l’Uomo della Vita. Dio, mi viene in mente. Tu, che fai le cose cattive. Una stola barocca avvolge Papa R. A un giglio centrale fanno da cornice due decorazioni sinuose che culminano in un intreccio, da cui poi occhieggia una spiga. Papa R, l’uomo, sta male, respira a fatica. Io ho un prurito al piede. Lo calmo con una veemenza scorticante.

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Sulla parete che si scontra con il divano avverto una presenza. Come se qualcuno stesse lì a osservarmi, a capire cosa ne penso di questa malattia, a scavare. Mi sento sotto giudizio. Un esserino è lì, che studia se io sono davvero dispiaciuta per lo stato di Papa R, o se sto mentendo. Mi volto. Mi tocca, guardandomi. È una coccinella. Compio un gesto inconsulto che qui non rivelerò, né per esito né per natura. Sento i passi di mia madre, di là. Sento che dallo schermo tv arrivano parole disorganiche. Sento di esistere, al di fuori dell’esistere. Mi dico che bisogna smetterla con questa fatuità. Me ne sto qui, distesa, sul divano nero. Qua è tutto nero, anche se latteo. Mia madre sta preparandosi, per andare. Vagherà il suo animo nello spazio grigio e indefinito della sospensione: sospese le vite, linee rette assottigliatesi, fili di Kirschner oramai poveri di fibra. Aspetto il niente quando lo schermo ripete che poche ore fa Papa R è stato trovato a terra, privo di sensi. Ictus.

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Un accidente cerebrovascolare. Tutto il paese, che è Italia, è in apprensione. Questo paese dove le bombe hanno deflagrato piazze e stazioni, questo paese dove le bombe hanno sbrindellato corpi e corpicini sublimandoli in macchie su di un muro, questo paese dove neanche più le bombe trovano il tempo di scoppiare, perché privo d’ossigeno è il paese tutto: questo paese è in apprensione, ed è l’Italia. Papa R sta male. Fuori, Masserie di Cristo sta bene. È imperturbabile. Solo un trattore si rende vivo, nel suo scorrere sulla trazzera. Il rumore che sento – io, distesa, mentre lo schermo tv dice che tutto il paese è in preghiera – è quello dei cingoli di carro armato. «Che Dio lo accompagni» dice mia madre. Indossa gli zoccoli Scholl’s, bianchi forati, da infermiera, e si incammina verso la porta. La chiude, con delicatezza. Va in ospedale. L’ospedale: lì dove l’anima traffica affari col corpo. Va e già sento un brivido pulviscolare che parte dalle spalle e giunge sino al collo. Tornerà, mi dico. Tornerà. Chiudo gli occhi. Niente. Chiudo gli occhi. Il letto si chiama rosa, se non ci dormi ci arriposi, diceva mia nonna, e a tutt’oggi adopro quell’escusazione per dormire, serrare i bulbi ocu-

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lari, oscurare gl’iridi. Chiudo gli occhi: immagino i segnali elettrici inviati dal diaframma al cervello; li immagino non segnali elettrici ma scariche. Elettriche. Fulminanti. E i miei occhi privi di polpa, incavi desquamati, che ingenerano eco, occhi invasi poi pa-pa-pàm da larve e larve e larve che s’attorcigliano tra loro, s’ammatassano sfrenando le loro pulsioni meccaniche, e meccaniche come le nostre!, come noi che viviamo ma non siamo, come noi che evacuiamo e come loro che producono secrezioni cerose, loro, larve di Coccinellide, che poi si vestiranno a festa quando sublimeranno; quando ai pargoli verrà detto eccola, la coccinella, porta fortuna, ebbene, quei pargoli saranno ignari delle origini, ignari dell’acquario in cui dall’epoca del loro recente parto, già epoca oramai, saranno finiti. Nulla. È un mio problema, non so cosa succeda, ora, ora che mia madre è uscita. Dovrà guidare. Non so cosa succederà. Ho paura. Qui, in questa casa, qui in questo inutile, vano, supervacaneo batterio di mondo, qui vivo io, e vivono altri due, qui a Masserie di Cristo; dove l’origine del nome è oscura; dove Cristo ha onorato queste quattro casupole facendone le sue masserie?; o dove, con abbrivio metaforico, i fondatori decisero di essere aderenti, con la toponomastica, alla reale ubicazione del luogo, ossia luogo sperduto, dove nessuno può arrivare se non il Messia in persona?

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Davvero quattro le case e bianche, qui a molti chilometri da centri pur di rado abitati, nel niente denso di verde, a pochi chilometri, quello sì, da un unico centro abitato, il camposanto, la Città dei Morti, dove cappelle funebri e cortesi si stagliano nel cielo, sfidandosi a colpi di sobria beltà: qui, a Masserie di Cristo. È l’onore della famiglia, la cappella funebre, e abbisogna scarni sfolgorii. Io la cappella funebre la vedo nei quotidiani stropicciati delle sette del mattino anche, funebre, nelle piazze popolate di automatiche pulsioni, anche nelle istantanee di un tempo senza ossigeno, finanche gli atomi!, e nelle presenze e nelle assenze. Sotto un tale cielo niente. Otto volte ho pensato, negli ultimi otto minuti, che mia madre morirà. Chiudo gli occhi, l’avverto, tremola, è il gomito che tremola, mi rendo conto che la membrana del timpano respinge le onde sonore, ostacolandone il naturale percorso. Il barricamento delle palpebre non è lieve, come l’abbandono; è secco, drastico e metallizzato. Percepisco un prurito nella parte alta del braccio sinistro, e vedo lei. Cadavere nell’automobile oramai lamiera, su chissà quale angolo di quale statale, la 17 o chissà, dove poi e chi lo sa, il luogo del momento diventerà un mazzo di orchi-

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dee, cangianti e vive, e poi rinsecchite, unico e solo in questo labirinto di mazzi rinsecchiti di tutto lo Stivale, però a me non interesserà la quantità, non l’anafora, la retorica tutta, niente più esisterà perché niente sarò io. La vedo nel legno gelido, la bara, la madre, la sento nel suo ghiaccio immoto. Tutti attorno devono manifestare il loro cordoglio, io non li voglio lì attorno. Lasciatemi sola, ora. Ma niente. Vengono, ti abbracciano, ti accarezzano, ma sono gelidi, lo so, pensano solo alla cena, e chi se l’aspettava, e la vita è così, bisogna reagire, io ti sarò sempre vicino, su di me tu ci puoi contare. Devo muovermi ora. Mangiare qualcosa. Mi piace la Nutella, perché mi fa stare male. In fondo non è così lontano l’ospedale, pochi chilometri soltanto. La probabilità che accada un incidente non è poi così alta. È altissima. Lo sento. Siamo fatti di tempo; l’ombra del vento mi avvolga e lasci me stare, stare in pace, ora.

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