La guerra bianca

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Mark Thompson

La guerra bianca Vita e morte sul fronte italiano 1915-1919 Traduzione di Piero Budinich


Introduzione «Italiani, tornate indietro!»

Alcune tra le più spietate battaglie della Grande guerra si svolsero sul fronte lungo il quale l’Italia attaccò l’Impero austro-ungarico. Circa un milione di soldati caddero in battaglia, a causa delle ferite e delle malattie oppure dopo essere stati presi prigionieri. Fino all’ultima campagna, il sangue versato in rapporto al terreno guadagnato fu persino più abbondante di quello richiesto dai combattimenti sul fronte occidentale. Provate a immaginare un orizzonte pianeggiante o dolcemente ondulato come quello delle Fiandre, ma con 30 o 40 gradi di pendenza, di un calcare grigio che d’estate diventa di un biancore abbagliante. In cima le mitragliatrici austriache sono annidate dietro rotoli di filo spinato e ripari costruiti con le pietre. Giù in basso, gli italiani sono accovacciati in una trincea poco profonda. I pochi estranei che assistettero a questo combattimento si dissero convinti che «Chi non l’ha visto con i propri occhi non può immaginare quanto si sia dovuto combattere per risalire pendii come quelli».1 Il fronte correva per tutta la lunghezza del confine italo-austriaco: circa 600 chilometri dal confine svizzero fino al mare Adriatico. Sui settori alpini d’alta quota gli eserciti vivevano e combattevano in un biancore che durava tutto l’anno. Come sugli altri fronti, gli eserciti erano separati da una striscia di terra di nessuno. Un soldato italiano seguiva con lo sguardo un berretto da campo che spuntava dalla trincea nemica annotò queste sue riflessioni sulle condizioni che avevano reso possibile quella carneficina:2 E si ammazza così, a freddo, perché tutto ciò che non giunge nella sfera della nostra vita pare che non esista [...]. Se io sapessi qualcosa di quel poveraccio, se lo sentissi parlare una volta, se gli leggessi le lettere che tiene accartocciate sul cuore, solo allora mi parrebbe di compiere un delitto uccidendolo così.


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Se era reciproco l’anonimato, lo era anche il pericolo. Il nemico che vuole ucciderti conosce la tua angoscia meglio di chiunque al mondo. L’assordante fuoco di sbarramento preliminare, l’inimmaginabile tensione prima dell’«ora zero», il pandemonio della terra di nessuno: gli assalti della guerra di trincea non presentavano una grande varietà nella Prima guerra mondiale. Analogamente, erano simili anche le forme di collusione che rendevano la vita più sopportabile tra una battaglia e l’altra (sparare alto, inscenare finte scorrerie, rispettare tacite tregue per il recupero dei feriti e la sepoltura dei morti, perfino scambiarsi visite e doni).3 Un altro genere di collusione era talmente raro che fu registrato in pochissime occasioni sui diversi fronti: era quello che si verificava quando i reparti che difendevano una posizione cessavano spontaneamente di sparare durante un attacco e gridavano ai loro nemici di fare ritorno alle loro linee. In un’occasione, le mitragliatrici austriache erano state talmente efficaci che la seconda e la terza ondata di fanteria italiana arrancavano sui cumuli di cadaveri dei loro commilitoni. Un comandante austriaco urlò ai suoi fucilieri:4 «Cosa volete fare, li volete uccidere tutti? Lasciate stare.» Poi smettono di sparare [...]. Dicevano ai nostri: «Lasciate stare, noi non spariamo più, lasciate stare, volete che muoiano tutti?».

I reduci italiani descrissero almeno mezza dozzina di casi del genere. In una delle prime battaglie, la fanteria si era sparpagliata nell’attacco sul terreno accidentato, e gli uomini urlavano e brandivano i fucili. La trincea austriaca era minacciosamente silenziosa. La linea italiana si rompeva e si riformava risalendo il pendio finché non vi furono che isolati drappelli di uomini che balzavano dal riparo di una roccia all’altra, «come rospi».5 Improvvisamente una voce proruppe dalle linee nemiche: «Italiani! Tornate indietro! Non vogliamo massacrarvi!». Un solo italiano balzò in piedi, come in segno di sfida, ma venne colpito: gli altri si voltarono e si misero a correre. Poche settimane prima, nel settembre 1915, gli austriaci avevano gridato ai superstiti di una compagnia italiana di smettere di combattere e di fare ritorno alle loro linee, portando con sé i loro feriti, altrimenti sarebbero tutti morti. «Non state a morire così. Vedete da soli che per voialtri non è scampo.»6 Alla fine gli italiani rinunciarono e gli austriaci si affrettarono a scendere con barelle e sigarette. Gli italiani diedero loro in cambio le piume nere dei loro moretti e le stellette dei baveri, come ricordo. Un anno dopo, un battaglione sardo attaccò le linee nemiche sull’altopiano di Asiago dove, fatto inconsueto, la terra di nessuno scendeva verso le postazioni austriache. Mentre gli italiani inciampavano sui massi, i mitraglieri nemici dovevano continuamente abbassare il tiro: solo questo salvò il battaglione dalla distruzione completa. Quando i sopravvissuti si avvicinarono


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alla trincea nemica, un austriaco urlò in italiano: «Basta! Basta!». Altri austriaci che guardavano da oltre il parapetto ripresero quel grido. Dopo che tutti ebbero smesso di sparare, il primo austriaco, che era forse un cappellano, si rivolse agli italiani dicendo: «Basta! Bravi soldati. Non fatevi ammazzare così».7 Non sono riuscito a trovare prove documentate che episodi del genere si siano svolti anche su altri fronti. Pare che, all’assalto del Nek nell’agosto del 1915, durante la campagna di Gallipoli, un ufficiale turco abbia urlato agli australiani di tornare indietro.8 Ma anche se lo fece, i mitraglieri turchi continuarono a sparare e gli australiani seguitarono a morire. Il mese dopo si dice che dei mitraglieri tedeschi abbiano smesso di sparare sull’altura chiamata Quota 70, durante la battaglia di Loos, quando le colonne britanniche «offrivano un bersaglio come non lo si era mai visto prima o non era mai stato pensato possibile».9 Gli episodi del fronte italiano riferiti in precedenza andavano oltre. Per capirne il senso, si tenga conto che su questo fronte non mancava certo l’odio: i soldati potevano provare soddisfazione a uccidere tanto quanto altrove, gli austriaci erano in condizioni di inferiorità numerica e combattevano per salvarsi la vita, e qualsiasi ufficiale o soldato che fosse stato colto nell’atto di aiutare il nemico in questo modo sarebbe potuto finire davanti al tribunale militare. Questi deterrenti potevano essere superati solo dallo spettacolo di un massacro talmente insensato da indurre i soldati, vinti dalla pietà e dall’orrore, a identificarsi con il nemico, superando così l’abitudine alla disciplina e il riflesso naturale dell’egoismo. Sei o sette casi nel corso di tre anni non significherebbero molto se anche su altri fronti si fossero prodotti esempi simili. Ma stando così le cose, questi episodi rivelano che il coraggio, l’incompetenza, il fanatismo e caratteristiche del terreno contribuirono qui a creare condizioni diverse da tutte le altre nella Grande guerra, estreme rispetto a qualsiasi riferimento nel corso della storia. Questa è la ricostruzione storica di quelle condizioni. Pensiamo all’Italia: i confini più netti dell’Europa continentale. Dalla Sicilia alla punta dello stivale, passando per Napoli e Roma, fino a Firenze e Genova, la penisola assume un contorno unico al mondo. Più a nord la situazione è meno definita. Oltre il bacino del Po, le pendici delle Alpi si elevano bruscamente a ovest, più gradualmente a est. Le Alpi orientali non coronano con precisione la penisola: corrono parallele alle sponde dell’Adriatico settentrionale, curvando nuovamente verso il mare dopo 200 chilometri. I fiumi che nascono sul versante meridionale di queste alture scorrono tra colline che scendono di un migliaio di metri fino alla pianura costiera, a circa 60 chilometri dal mare. Quando si atterra all’aeroporto di Trieste in una giornata serena, si vedono i greti sassosi dei fiumi che percorrono la pianura come grigie ghirlande: il Piave in lontananza, poi il Livenza e il Tagliamento. Più vicino di tutti l’Isonzo, che scorre a pochi chilome-


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tri dalla pista di atterraggio. Questo fiume, che nasce tra le Alpi orientali, segue le faglie geologiche, scorre in valli larghe appena pochi metri, dividendo pendii boscosi contrapposti e uscendo finalmente all’aperto presso Gorizia. Il suo basso corso, disseminato da detriti portati dalle montagne, traccia un’ampia curva fino al mare. Il corso d’acqua che si snoda sul letto di ciottoli bianchi sembra un nastro turchese su una manica di ossa. Nelle estati secche, il nastro svanisce del tutto. A est del fiume e dell’aeroporto si innalza il ciglione di un altopiano «come una grande muraglia che sovrasta le pianure del Friuli».10 È l’altopiano del Carso, che segna il bordo della microplacca adriatica. Più a sud, questo corrugamento prosegue innalzandosi come una grande barriera tettonica, un bastione di calcare che corre in direzione sud-est per 700 chilometri, fino all’Albania. Questo angolo del paese tra il fiume Tagliamento e le Alpi orientali non sembra quasi italiano. La maggior parte dei centri abitati sono spogli, e quasi tristi. I versanti delle colline non sono ornati da ville rinascimentali, i musei hanno pochi oggetti familiari da esporre e i campanili delle chiese sono per lo più di cemento. Non si vedono uliveti né fienili dai mattoni rosati, né piastrelle di terracotta, né marmo (tranne che nei monumenti ai caduti). Perfino gli usi alimentari e i vitigni sono diversi. Altre lingue (lo sloveno, il friulano) accompagnano l’italiano sui cartelli stradali, accentuando la sensazione di trovarsi in una terra diversa. È indubbiamente una zona multietnica, fatto che a volte aveva mandato in bestia gli architetti dell’unificazione italiana nel corso del xix secolo. Negli anni quaranta dell’Ottocento, i regnanti del Piemonte, avevano pianificato il modo in cui amalgamare in un unico stato nazione quella mezza dozzina di regni, ducati e province asburgiche. Volevano che il confine settentrionale arrivasse allo spartiacque alpino, o meglio ancora al di là di esso, dalla frontiera svizzera fino alla penisola istriana. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, l’Impero austro-ungarico si stendeva ancora di qua e di là delle Alpi, penetrando a fondo nel territorio italiano. Dopo mesi di turbolenze politiche, le forze di governo italiane si unirono alla guerra degli Alleati contro la Germania e l’Austria-Ungheria. Speravano di sconfiggere l’Austria e riuscire finalmente a rivendicare il loro confine ideale. Meno apertamente, intendevano imporre il proprio controllo sulle sponde orientali dell’Adriatico, dove vivevano pochi italiani, e diventare una vera e propria potenza nei Balcani. Nella loro disperata ricerca di aiuto contro le Potenze centrali, gli Alleati accettarono queste condizioni e acconsentirono anche a riconoscere all’Italia alcune aree dell’Albania e dell’Egeo, a espandere le sue colonie africane e a lasciarle qualcosa nella spartizione della Turchia, quando l’Impero ottomano fosse crollato. L’Italia, fatte accettare queste rigide condizioni, si lanciò in quella che i patrioti chiamarono la Quarta guerra d’indipendenza: il primo obiettivo era


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la conquista del cuneo di terra che coronava l’Adriatico settentrionale.* Inoltre l’Italia voleva ottenere parte della provincia asburgica del Tirolo, dal lago di Garda fino allo spartiacque alpino. La strategia italiana di attaccare a oriente fece sì che non si combattesse molto in quella regione. L’esercito si ammassò in Friuli, sotto l’altopiano del Carso, e si scagliò contro il nemico schierato oltre il suo ciglione. «Saremo a Vienna per Natale» aveva confidato il generale Porro a Bissolati.11 Non sarebbe stato così. Nei due anni e mezzo che seguirono, gli italiani non riuscirono neppure ad avvicinarsi a Trieste, men che meno a Vienna. Le offensive italiane strapparono qualcosa come 30 chilometri di terreno (buona parte nei primi quindici giorni) al prezzo di 900mila morti e feriti. L’epicentro dei combattimenti fu la valle dell’Isonzo, all’estremità orientale del fronte. In Italia i nomi dell’Isonzo e del Carso evocano ancora ricordi come quelli della Somme, di Passchendaele, Gallipoli o Stalingrado. Nell’ottobre del 1917, con l’aiuto tedesco, gli austro-ungarici respinsero gli italiani quasi fino a Venezia. Fu la più grave ritirata provocata da qualsiasi battaglia avvenuta durante la guerra e comportò la più grave minaccia al Regno d’Italia dai tempi dell’unità. Un anno dopo, gli italiani avrebbero sconfitto per la prima volta in campo aperto l’Austria-Ungheria. Sarebbe così crollato l’ultimo impero continentale d’Europa. Quella che segue è la storia di questa crisi, della ripresa e della vittoria. Per i comandanti arenati nelle trincee del fronte occidentale, il fronte italiano era uno scenario minore, abbastanza spiacevole ma non paragonabile al loro, un fronte dove combattevano eserciti le cui tattiche, addestramento ed equipaggiamento erano spesso di seconda scelta. Gli italiani reagivano a questo atteggiamento di superiorità comportandosi in modi che confermavano questi pregiudizi. Durante la guerra molti italiani avevano la sensazione che gli Alleati sottovalutassero il loro sacrificio. L’impressione di essere sottovalutati continuò ad aleggiare anche in seguito, malgrado o forse proprio a causa della consuetudine del regime fascista di esaltare le gesta immortali dell’Italia durante la guerra. Particolarmente irritante era l’indifferenza britannica e francese. Qualche anno fa, due dei migliori storici del paese rilevavano con fastidio che «tutta la nostra guerra viene vista dall’altra parte delle Alpi con quella superficialità vagamente razzista che noi stessi riserviamo ai turchi e ai bulgari».12 Fuori dall’Italia e dai paesi un tempo asburgici, non si è scritto molto sul fronte italiano, sebbene esso sia stato per vari aspetti unico. L’Italia era la sola tra i principali alleati a non poter avanzare ragioni difensive per la guerra. Era un ag* Il Friuli orientale e Trieste comprendevano circa 3000 chilometri quadrati. L’Istria, dove non si svolsero affatto combattimenti, pur essendo anch’essa un obiettivo italiano, occupa una superficie di circa 5000 chilometri. Il Sudtirolo con quelli che gli italiani chiamarono Trentino e Alto Adige, ha un’area di 13 600 chilometri quadrati.


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gressore dichiarato, che interveniva per accrescere il proprio territorio e il proprio prestigio. Gli italiani erano più divisi sulla guerra di qualsiasi altro popolo. Per una minoranza, la causa era lampante: l’Italia doveva lanciarsi nella lotta non solo per ampliare i suoi confini, ma per forgiare la nazione. Nella fucina della guerra, le differenze provinciali dell’Italia si sarebbero fuse e temprate in una lega nazionale. Quanto più grande fosse stato il sacrificio, tanto maggiori sarebbero stati i proventi. Questa convinzione, e la cosa non è affatto sorprendente, appariva incomprensibile alla vasta maggioranza. Quella che segue è la storia di questa convinzione, di chi la sosteneva e di chi ne pagò il prezzo. Anche secondo gli standard della Grande guerra, i soldati italiani venivano trattati con durezza. Costituivano la fanteria peggio pagata di tutta l’Europa occidentale e venivano inviati al fronte dopo essere stati sommariamente addestrati e mal equipaggiati, sacrificati alla dottrina dell’assalto frontale, sostenuti da un’artiglieria inadeguata.13 L’Italia mobilitò lo stesso numero di soldati della Gran Bretagna, ma il numero dei condannati a morte italiani fu tre volte superiore. Nessun altro esercito punì ripetutamente intere unità con la decimazione, fucilando uomini scelti a caso. Il governo italiano fu l’unico a trattare da codardi o traditori i suoi soldati che erano stati catturati, impedendo gli invii di cibo e di abiti da casa. Oltre 100mila dei 600mila prigionieri di guerra italiani morirono in prigionia: una percentuale nove volte maggiore di quella degli asburgici prigionieri in Italia. Statisticamente era più pericoloso per i soldati di fanteria venire catturati che combattere al fronte. Infine, la situazione dell’Italia dopo la guerra fu diversa da quella di tutti gli altri paesi vincitori.14 Se completò effettivamente l’unificazione d’Italia, la guerra fu disastrosa per la nazione. A parte il suo costo in termini di vite umane, essa screditò le istituzioni liberali, facendo sì che potessero essere rovesciate dal primo regime fascista del mondo. La «trincerocrazia» elaborata da Benito Mussolini avrebbe continuato a dominare il paese per un ventennio, con un regime che affermava che la Grande guerra era il fondamento della grandezza d’Italia. Per molti reduci, il mito di Mussolini conferì un significato positivo a un’esperienza terribile. Quella che segue è la storia di come gli italiani cominciarono a perdere la pace quando i loro allori erano ancora verdi. Mark Thompson, febbraio 2008


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