La maledetta vecchia signora

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Luca Masali La maledetta Vecchia Signora


Questa opera è per intero frutto della fantasia dell’autore. In particolare, quanto ai personaggi, ai marchi aziendali e agli organi istituzionali, per la struttura complessiva dell’opera e per il filo conduttore del tutto inventato, qualsiasi somiglianza con persone o brand o istituzioni reali è da ritenersi casuale o partecipante dell’immaginario collettivo, come accade in qualunque fiction fondata sull’inverosimiglianza. Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreED Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore

Copyright © Luca Masali. Edizione pubblicata in accordo con PNLA/Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency­­


La maledetta Vecchia Signora



A Morgana, per farmi perdonare di aver corretto le bozze mentre tu volevi giocare



Nebbia del nord. Umida e tagliente. Perché questa è una città senza vento; immobile nella sua fissità borghese, nel suo mutare sommesso e sotterraneo. Qui le cose non debbono apparire; succedono, sì, ma con discrezione sabauda. Emanuela Musso Fiorini, Similitudini Non andare a Torino. A nessun costo. Franz Kafka, Diari 1910-23



I

Ci sono uomini che si dannano per avidità. E ci sono uomini che si dannano per stupidità. Io mi ero dannato per denaro. Avevo venduto la mia fede. Una fede che mi aveva sostenuto sempre. Anche in galera. Per la mia fede avevo sofferto, avevo anche preso più botte di quante ne avessi date. La fede aveva vacillato, qualche volta. Ma alla fine mi aveva confortato. La vera fede. La fede nel Toro. La fede nel vecchio cuore granata. Lo sciacquone manda un singulto rugginoso, vomitando acqua rossastra nella turca incrostata di una patina calcarea che pare sangue rappreso. All’equatore l’acqua vorticherebbe in senso opposto. Incredibile come la galera ti stampi in mente simili minchiate. Un cazzo da fare tutto il giorno, solo balene bianche e pirati della Malesia da leggere in libri senza copertine, finite tutte in filtri, e con le pagine fumate al posto delle cartine. Robe per carcerati. Poi perché leggere se hai una donna con cui sfogarti nelle ore che per gli altri sono di vuoto assoluto? Neanche il tempo di assicurarsi che la bandiera sia andata 11


tutta giù per il cesso che il compagno di cella inizia a miagolare come un gatto in calore. Crepa. Piagnucola qualcosa in spagnolo, sembra uno Speedy Gonzales invecchiato, rallentato. Sfatto. Una puzza terribile, a metà tra lo zolfo e la carne di un moribondo, penetra da sotto la tenda di plastica che separa le brande dalla turca. La faccia sudata ha lo stesso colore delle lenzuola, così giallastre da sembrare grigie. La barba rada e ispida lo fa sembrare un vecchio, anche se tanto vecchio non deve essere. Il sudore ha impregnato la federa di un liquido salato che ha un vago odore acido, con un retrogusto di cavolo. Gli occhi febbricitanti fissano senza vederla la rete della branda di sopra. La mia branda. «Madre de Dios, María, llena de gracia, el Señor es contigo. Bendita tú eres entre las mujeres…» rantola. Che schifo: se l’è fatta addosso. Da quando l’hanno infilato qua dentro ha la dissenteria, perde sangue da quanti ovuli di coca ha ingoiato. E che crepi presto, che crepi prima dell’alba. Sennò tocca a me. Tanto in infermeria non ce lo portano. Non da vivo per lo meno. Fortuna che è troppo idiota per capire che se vuole finire in ospedale invece che in obitorio deve dire agli sbirri dov’è la coca. Agli sbirri, non al giudice. Chi se ne frega del giudice. Agli sbirri, deve dirlo. Agli sbirri. E tenere il becco chiuso col magistrato. Soprattutto. Ma che si fotta. Meglio lui di me. La bandiera rossa è finita tutta quanta giù per il cesso. La bandiera granata, più che rossa. La bandiera del Toro. Giù. Insieme alle altre merde.

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II

L’aria era piacevolmente tiepida per essere quasi gennaio. Nessuno poteva sapere che, sopra i ghiacciai della Groenlandia, l’eccessivo riscaldamento della stratosfera aveva fatto salire troppo in fretta la temperatura e che, lacerato dall’improvviso sbalzo di pressione, il vortice polare aveva ceduto. Negli strati superiori dell’atmosfera, l’aria atlantica aveva favorito la nascita di un’area di pressione alta e livellata, insolitamente ampia e uniforme. Piccole nuvole a forma di sbuffo si formarono altissime sopra il Circolo polare. Una specie di macchia chiara, picchiettata di bianco, inglobò in silenzio l’anticiclone delle Azzorre, facendolo allargare in modo inusitato, fino ad abbracciare il Polo nord. L’aria polare, ghiacciata e umida, scendeva lungo il lato occidentale del continente europeo. Un’area di bassa pressione, che per puro caso in quelle ore si stava allargando sull’Olanda, diventò un improvvisato stantuffo e sparò un proiettile di vento gelido lungo la valle del Rodano, pompandolo a tutta velocità verso Sud. Fino a invadere il Mediterraneo. Il pugno di ferro dell’artico, trasformato in bora, devastò la pianura padana con venti ghiacciati a oltre settanta chilometri all’ora. La rara configurazione barica sarebbe passata alla storia come «la grande ondata di gelo del 1985». Nevicò sull’isola d’Elba, sulla Corsica, sulle Baleari. Perfino Ischia si imbiancò come un pandoro coperto di zucchero a velo. 13


A Torino, la notte in cui il sudamericano si squagliava nella dissenteria da cocaina, il termometro passò da più cinque a oltre dieci gradi sottozero. Non succedeva da cent’anni. Troia, troia, troia quellallà. Mentre il gelo improvviso gli arrossava le orecchie e gli faceva pulsare un dolore sordo all’interno delle orbite, l’agente scelto Pautasso Enrico non aveva le idee molto chiare su cosa gli stesse causando tanto disagio. Non sapeva nulla dell’agonia dell’anticiclone delle Azzorre e dell’aria artica che aveva fatto precipitare di quindici gradi la minima notturna. E nemmeno si ricordava il nome di quellallà, la terrorista che a Rovigo era evasa dalla galera tirando giù il muro con una bomba, causando un giro di vite su tutti i penitenziari italiani. «Vaddoppiave l’attenzione!» aveva ordinato il ministro Scalfaro in persona, con l’odiosa erre moscia da piemontese altoborghese. Pautasso Enrico era pure lui piemontese, da sempre. Ma sfoggiava con orgoglio la erre contadina, quella astigiana della prima Langa, quella che si pronuncia con la lingua leggermente retroflessa verso il palato. Una erre armoniosa, impossibile da imitare se non sei astigiano. Dolce come la cöpeta di Natale con l’ostia, il miele e le nocciole. L’erre moscia torinese, anzi peggio, della Collina, quella falsa da frocio, la lasciava ai fighetti come l’Avvocato e quell’Oscar Luigi della miseria. Tutti e due lo volevano far morire di freddo. Uno per avere prodotto la Centoventisette Sport, che ogni mese gli costava mezzo stipendio in cambiali ma era bella da morire con le minigonne e la carrozzeria nera e arancione, anche se d’inverno gli spifferi erano troppi perché il riscaldamento potesse farci qualcosa. E l’altro, Oscar Luigi, che aveva messo idee idiote in testa al direttore della galera e per colpa di quella là, la terrorista, aveva fatto riaprire le garitte sulle torri per metterci degli sfigati come lui a far la guardia proprio la notte di Capodanno. Torri che da cent’anni nessuno costruiva più, gli avevano detto al corso allievi guardie carcerarie. Quella galera era vecchia da far schifo, la chiamavano «Le Nuove», ma era nuova quando 14


l’aveva fatta edificare Vittorio Emanuele ii, che non voleva che la sua Torino fosse da meno della Parigi di Napoleone iii. Almeno in fatto di galere. Pure questo gli avevano insegnato al corso. Nel 1985 era ora di buttarle giù, Le Nuove. Tanto ormai il supercarcere delle Vallette era quasi pronto. Le Vallette, il quartiere dei terroni. Gli stavano facendo la galera sotto casa, ai terroni. E c’era pure il progetto per lo stadio, gli mancava solo la Fiat e potevano starsene lì senza rompere le scatole a nessuno: casa-fabbrica-stadio-galera, tanto dove altro dovevano andare? All’altro mondo. Lo sfigato sudamericano è andato all’altro mondo. Aveva tirato le cuoia dopo avere rimestato in pancia l’ultimo brodo di cocaina. Nonostante le ispezioni, un ovulo doveva essergli rimasto dentro e alla fine si era rotto. Una supposta da mezz’etto di coca era troppo pure per quel bastardo colombiano. Chissà se aveva un nome. Dall’Ottocento la cella non è cambiata granché. Un bugigattolo di quattro metri per due più una spanna, abbastanza alto per farci stare dentro un letto a castello. La luce della luna filtrava da una finestra a bocca di lupo che faceva vedere soltanto il cielo, un buco allargato negli anni cinquanta per provare a rendere la vecchia galera un po’ più compatibile con la menata dei «diritti umani». Vent’anni dopo avevano aggiunto il lavandino, il cesso e i termosifoni. Tante grazie per i termosifoni: si gela in questo sgabuzzo inumano. Stasera il bianco della luna illumina la melma sul pavimento: meglio pulire subito, prima che diventi un lastrone ghiacciato, termosifone o meno, magari a naso tappato e bocca aperta. Batto il manico del cucchiaio contro il radiatore, facendo un bordello indiavolato a cui fanno eco le grida e le bestemmie di tutto il braccio. Nemmeno le scimmie allo zoo fanno tanto casino. Bestie, ecco cosa sono. Bestie e delinquenti. «Che cazzo hai da agitarti?» La punta del manganello spinta dentro lo spioncino di ferro è tutta graffiata, spellata. Non ci vuole una gran fantasia per capire perché è conciata così. 15


«Buonasera agente, potrebbe per cortesia fare togliere il morto dalla mia cella?» Non mi dimentico le buone maniere, io, neanche con queste facce di merda dei pulotti. Ecco, sorrido anche con l’occhio incollato dietro lo spioncino. Chi sono, ti starai chiedendo. E perché sto prendendo in giro l’agente di polizia penitenziaria Pautasso Enrico. Era contento, questo qui, per aver finito il turno di guardia al gelo della garitta, sul tetto delle Nuove, come un piccione che non capisce che quando arriva il freddo è meglio starsene dentro. E adesso che è dentro, deve occuparsi di una rogna stratosferica, un morto durante il suo turno di guardia. Di Pautasso Enrico, fregatene. È un cretino qualunque che, ammesso che arrivi alla pensione, resterà a fare la ronda in tutte le patrie galere, felice solo quando potrà finire di spellare il suo manganello sulla testa di qualche delinquente. Pure del colombiano puoi fregartene. Era uno qualunque, senza documenti, magari neppure colombiano. Presto le vecchie bagasce che abitano in corso Novara, vicino alle ciminiere del crematorio, si chiederanno se è quest’inverno che fino a un attimo fa sapeva di primavera a renderle così euforiche. Staranno respirando il fumo saturo di droga in cui si sarà dissolto questo stronzo, ma non lo sapranno mai. Non importa a nessuno di lui, la sua storia finisce qui. Di me invece dovrebbe importarti, eccome. Perché questa storia parla di me.

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III

C’è mancato poco che ci finissi io, steso sul pavimento della cella, e non nello stesso modo del colombiano. Io la coca al massimo la faccio salire per la sua via naturale, su per il naso. Il mio guaio è sempre stato che mi fido della gente, per questo ho rischiato di finire a rantolare per terra col manico di un cucchiaino infilzato nella carotide. E questo dannato difetto di fidarmi di tutti è anche il motivo per cui mi trovo qui, in questo gabbio cadente. Proprio io che sono un galantuomo rispettato, uno che tutti riveriscono quando attraverso la città con la mia unica amata: la Porsche Noveunouno cabrio granata, targata TO R0. Una targa vecchissima. Come faccio ad averla su una macchina nuova di pacca è un segreto che non posso rivelare. Sappi solo che mi è costata un delirio. «Giambone, qui c’è una che ti cerca» aveva gridato Mario, il barista. Cioè, che ne so come si chiamava davvero, noi lo chiamavamo così perché tutti i baristi dovrebbero chiamarsi Mario. Tanto uno vale l’altro. Giambone invece sono io: Giambattista Oddone, o Oddone Giovanni Battista come recita il casellario giudiziario. Giambattista Oddone, Giambone. Lo stesso nome della strada dove sono nato: corso Giambone. Posto del cazzo in periferia, quasi a Moncalieri, infilato tra l’ospizio dove mandano a crepare i vecchi e le case della Fiat, piene di terroni che hanno trovato l’America 17


andando a stringere i bulloni per l’Avvocato. Otto ore a sputare l’anima in catena di montaggio per un appartamento da sessantacinque metri quadrati, l’Ottocentocinquanta nel garage e l’orologio d’oro nel cassetto, pronti a diventare relitti da rottamare nel giro di quarant’anni. Tanto il nostro beneamato istituto nazionale della previdenza, con questi scarti umani, ci fa un affare: dopo una vita alla verniciatura, in fonderia o alle presse, se da pensionati durano sei mesi è fin troppo. Io vivevo all’ottavo piano di una topaia alta nove, che faceva sembrare le case Fiat la Reggia di Venaria. Mio padre si era levato di torno che ero appena nato: era scappato con la panettiera. Mia madre si accoppava a lavare le scale. A scuola avevano tutti il padre turnista a Mirafiori, io ero l’unico senza i soldi per la merenda. Le figurine per me erano un sogno inarrivabile. Ma io non ero come loro, terroni sfigati che tifavano Juve, la squadra del padrone. A Natale loro ricevevano i giocattoli della befana Fiat e d’estate andavano in vacanza al mare in colonia. Io non ricevevo niente e tutt’al più andavo al sanatorio. Però una cosa, preziosa più di ogni altra, l’avevo ricevuta anche io, da uno degli zii che mia madre faceva venire in casa quando non ne poteva più di lavare le scale: la figurina di Gigi Meroni, la Farfalla Granata, come lo chiamavano alla radio. Ma per me era solo il Calimero: uno che non aveva paura di nessuno, strafottente, che si sbatteva la donna di un altro in un attico di corso Re Umberto, alla luce del sole, e se ne infischiava se lo insultavano e lo chiamavano beat. Pure io non avevo paura di nessuno, a dodici anni. Io che me ne fregavo che mio padre se n’era andato e tiravo calci alla palla in cortile. Magari non avevo la classe del Calimero, ma la sua furia sì: due o tre gobbi non dimenticheranno tanto facilmente le botte prese a scuola quando la Juve cercò di portarcelo via a suon di milioni, il Calimero. A casa la televisione non c’era, quindi non sapevo mai che succedeva al di fuori del quartiere Mirafiori. Figurarsi se capivo perché quella mattina a scuola tutti, quando mi vedevano, facevano finta di avere il volante per le mani, wrrro-wrooommmhiiii… Baang! E giù a ridere. 18


Non smettevano di martellarmi con quello spettacolino. Più li picchiavo, meno capivo cosa volessero da me. Wrrro-wrooommm-hiiii-baang! Quel giorno, all’ultima ora c’era religione. Il prete ci raccontava barzellette e ci portava le caramelle: le scatolette di cioccolatini erano solo per quelli che avevano con lui un rapporto «speciale». Quel giorno entrò con una faccia da funerale, ma si vedeva che era tutto contento. Lo stronzo. «Cari bambini, (“bambini ’sto cazzo”, borbottai io), ancora una volta la mano di Dio ha punito chi ha scelto di vivere fuori dalla sua Grazia. Non importa quante ricchezze, quanta fama e quanti onori mondani abbiamo accumulato in vita, quando Lui ci chiama dobbiamo fare i conti con la nostra coscienza.» Wrrro-wrooommm-hiiii-baang. Sentii un’ondata di gelo. Il cuore mi stava esplodendo, la vista mi andò insieme. Rischiai di cadere dal banco, davanti a tutta la maledetta classe di gobbi in festa. Il resto lo sanno tutti. La Stampa, il giornale dei gobbi, si mise a strepitare che Meroni non meritava di essere sepolto al camposanto perché era un porco che viveva con una sposata, e voleva la testa del cappellano del Toro che gli aveva officiato ugualmente il funerale, con tanto di fiori bianchi e benedizione della bara. Dalle Nuove, invece, i carcerati rinunciarono alle sigarette per racimolare i soldi e mandargli una corona di fiori. A dimostrazione che i galeotti sono meno delinquenti dei giornalisti al soldo della Vecchia Signora. Ce l’ho ancora nel portafoglio, la figurina di Meroni. Mi porta fortuna. «Giambone, che dico alla signorina?» fece Mario, il barista. «Che ho già un appuntamento con tua sorella» risposi senza neanche ascoltare cosa mi stesse dicendo. «Ma chi è? Che vuole?» «Che ne so, Giambone? È lì, al tavolino.» Mario era un perdente. Aveva nasato odore di donna e dimenticato tutto il resto. Compreso il fatto che quelle lunghe gambe accavallate, bianche e nude fino quasi all’inguine, si erano portate dietro un ragazzotto con baffi, chiodo e Ray-Ban. 19


Si vedeva che venivano dalla Torino bene, facce da studentelli universitari senza gli allucinanti vestiti indiani che facevano tanto alternativo o, meglio, idiota. Sapevo giĂ cosa cercavano, quei due. Un posto tranquillo per scopare. Un nido discreto, non troppo schifoso, in un quartiere operaio. Dove nessuno fa domande. Mi siedo e giocherello con le chiavi della soffitta di corso Unione Sovietica per ingolosirli. Io ti do le chiavi e tu te la chiavi, penso guardando il ragazzotto che non leva gli occhi dal mazzo nella mia mano. ÂŤCe le avete le cambiali?Âť Ce le avevano.

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IV

La cappa di nebbia umida e fredda faceva schifo, alle sei di mattina. Si intravedevano già i primi raggi del sole dietro la cupola di Superga e la nebbia, congelata, stava cominciando a sciogliersi a contatto con l’asfalto in un’acquerugiola scivolosa come una saponetta, specialmente dove il liquame si mescolava con la morchia d’olio colato dai motori delle Centoventisette degli operai e delle Ritmo dei capireparto. Lui era un operaio, eppure aveva la Ritmo. E gliela facevano pagare cara, la Ritmo. In famiglia, più ancora che dal concessionario con le cambiali. «A te ti ammazzeranno le Brigate Rosse» gli aveva urlato la moglie. Litigavano sempre più spesso per questioni politiche. Un modo come un altro per sputarsi addosso il rancore e non affrontare i veri guai di quel matrimonio allo sbando. «A te ti ammazzeranno le Brigate Rosse.» Non aveva aggiunto «spero». «E che vogliono le Brigate Rosse da me? Se arrivano gli dico: signori, avete sbagliato indirizzo. Io sono un operaio, mica il padrone. Quello andatevelo a cercare a Villar Perosa.» La moglie, che era stata consigliere di circoscrizione del Pci, non gli perdonava di avere sfilato coi padroni e i capetti durante la Marcia dei quarantamila. Quarantamila in piazza a rompere lo sciopero di trentacinque giorni che doveva impedire all’amministratore delegato 21


della Fiat, Cesare Romiti, di licenziare ottomila persone. Quadri, impiegati e leccaculo come lui che s’era guadagnato la Ritmo con mezz’oretta di passeggiata per le vie del centro, tenendo un cartello con su scritto «Il diritto al lavoro si difende lavorando». Tre giorni dopo, il sindacato capitolava e firmava un accordo trionfale per la Fiat. Tre giorni dopo la firma, lui veniva promosso dai turni a caporeparto. Tre giorni dopo la promozione, era dal concessionario. Tre giorni dopo, la Ritmo stava nel suo garage. E le Brigate Rosse non avevano avuto niente da ridire. Solo qualche studente mantenuto e imbecille gli aveva disegnato una stella a cinque punte sul muro di casa. Tre anni dopo, il tizio che quella marcia l’aveva inventata era finito in Parlamento, con un gran calcio nel culo della Suni Agnelli. E lui, la Ritmo, averebbe finito di pagarla. La sagoma indistinta della sua macchina in mezzo alla nebbia era uguale a quella delle Centoventisette degli operai. Uguale a quella di quello stronzo della verniciatura che aveva fatto licenziare perché aveva detto che Peci era un infame, ed era ora che le bierre facessero fuori anche lui. Testa di cazzo. Almeno lo avesse pensato sul serio. «A te ti ammazzeranno le Brigate Rosse.» «A me non mi ammazza nessuno, perché io so stare al mio posto. E se puoi andare dalla pennoira a spendere diecimila lire in una messa in piega, è perché io so stare al mio posto, e di me si fidano. A me non mi licenziano, capace che al prossimo giro passo da caporeparto a capofficina. Chissà cosa diranno i Dalmasso quando mi vedranno arrivare con l’Argenta Millesei.» La gente non sa niente della nebbia. La nebbia non è bianca, è grigia. Sbianca solo quando c’è una gran luce, un bagliore. Quella mattina, è diventata bianca cinque volte in mezzo secondo. Devo essere scivolato sul ghiaccio. La nebbia è sempre più fredda. Le orecchie mi fischiano, come a quello delle presse, che il primo giorno di lavoro non si era messo le cuffie e al primo colpo del maglio da tremila tonnellate gli si erano bucati i timpani. Non sento niente, solo un 22


gran tum-tum-tum nel petto. Vorrei tremare ma non ci riesco. La nebbia si fa sempre più grigia. È ancora presto ma attorno a me c’è gente, tanta gente. C’è il tuo volto davanti al mio. Perché piangi? Perché le tue lacrime sono così amare sulle mie labbra? Perché ieri sera abbiamo litigato? Non avrei voluto litigare, avrei voluto dirti che sei bella, che quella pettinatura ti accende gli occhi nocciola che mi hanno fatto innamorare tanto tempo fa… Chi se ne frega delle diecimila lire. Ora sono rossi, grandi, bellissimi. No, non chiuderli, ti prego. Lascia che io li guardi ancora un po’, almeno finché c’è luce. Finché questa nebbia non diventa del tutto nera.

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