La musica dei neri americani

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Eileen Southern

LA MUSICA DEI NERI AMERICANI Dai canti degli schiavi ai Public Enemy

Revisione e cura redazionale di Melinda Mele


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Prima Parte

CANTI IN UNA TERRA STRANIERA (1619-1775) For they that carried us away captive required of us a song; and they that wasted us required of us mirth, saying, Sing us one of the songs of Zion. How shall we sing the Lord’s song in a strange land?

Oppressori e infami aguzzini ci chiedevan le nostre canzoni, dopo averci condotti in catene, le canzoni di gioia chiedevan: «Intonateci i canti di Sion». Potevamo noi forse cantare salmi e canti del nostro Iddio in quel triste paese straniero? SALMO 137: 3, 4


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EVENTI IMPORTANTI 1619 Jamestown, VA: primo sbarco di africani nelle colonie inglesi in America settentrionale. 1620 Plymouth, MA: sbarco dei Padri Pellegrini. 1626 Fondazione di New Amsterdam. Undici africani vi giungono in qualità di servi a contratto. 1630 Fondazione di Boston, MA, centro culturale e maggiore città delle colonie fino a metà del Settecento circa. 1638 Inizio della tratta degli schiavi nel New England con l’arrivo a Boston dei primi neri a bordo della nave Desire. 1640 Boston, MA: pubblicato il primo libro nelle colonie inglesi, il Bay Psalm Book. 1641 Dorchester, MA: primo battesimo documentato di uno schiavo in chiesa. Sempre in Massachusetts, emanato il famoso codice Body of Liberties che, sia pur implicitamente, sancisce l’istituzione della schiavitù. 1644 New Amsterdam, NY: primo documento che attesta l’affrancamento di schiavi. 1646 New Haven, CT: prima liberazione di schiavi documentata nel New England. 1661 Virginia: promulgati i primi cosiddetti Black Codes, codici neri, che sanciscono l’istituzione della schiavitù. 1664 New Amsterdam passa sotto il controllo inglese e viene ribattezzata New York. 1667 L’Assemblea della Virginia promulga una legge che sancisce che il battesimo degli schiavi non li esonera dal vincolo della schiavitù. 1670 Fondazione di Charles Town, SC, unica «città» del Sud durante l’epoca coloniale. 1681 Fondazione di Philadelphia, centro culturale e maggiore città delle colonie alla vigilia della Rivoluzione americana. 1688 Germantown, PA: primo pionieristico attacco all’istituzione della schiavitù da parte dei quaccheri. 1693 Boston, MA: fondazione della Society of Negroes.

1701 Fondazione della Society for the Propagation of the Gospel in Foreign Parts (SPG), organizzazione missionaria evangelica della Chiesa anglicana che opera presso gli schiavi delle colonie inglesi dal 1702 al 1785. 1704 Alla Trinity Episcopal Church di New York la SPG istituisce una delle prime scuole per schiavi sotto la guida di Elias Neau. 1707 Viene pubblicato a Londra Hymns and Spiritual Songs di Isaac Watts, testo che influenza profondamente lo sviluppo dell’innodia afroamericana (ediz. americana: Boston, 1739). 1712 Insurrezione di schiavi a New York. 1717 Viene pubblicato a Londra The Psalms of David, Imitated... di Isaac Watts (prima ediz. americana: Philadelphia, 1729). 1723 Framingham, MA: primo documento che attesta l’esistenza di un musicista di colore nell’esercito (Nero Benson, trombettiere). Fondazione degli Associates of Doctor Bray, organizzazione legata alla SPG e dedita alla gestione di scuole per schiavi dal 1758 al 1775. 1729 Boston, MA: primo concerto aperto al pubblico nelle colonie. 1735 Northampton, MA: in una celebrazione del movimento di rinnovamento religioso conosciuto come «Great Awakening» (Grande Risveglio), Jonathan Edwards battezza cinque schiavi. 1739 Insurrezione di schiavi, detta «Stono Conspiracy», vicino a Charles Town, SC. 1741 Bethlehem, PA: primo insediamento stabile di moravi; fra i coloni vi sono dei neri. Congiura degli schiavi a New York. 1742 Charles Town, SC: Alexander Garden apre una scuola per neri, nella quale insegnano anche due schiavi fino al 1764. 1756 Guerra franco-indiana (1756-1763). 1764 Baltimora, MD: fondazione della prima società metodista delle colonie.


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Capitolo 1

L’EREDITÀ AFRICANA «Verso la fine di agosto arrivò una nave da guerra olandese che ci vendette venti negri.» Questa testimonianza compare nella Generall Historie of Virginia del capitano John Smith, datata 1619: si tratta del primo sbarco di uomini di colore nelle colonie britanniche sul continente, vale a dire la costa orientale degli odierni Stati Uniti.1 Gli africani avrebbero continuato ad arrivarvi per più di due secoli, trasportati all’inizio in piccoli gruppi (chiamati parcels, «pacchetti») e più tardi come «carico» principale delle navi, incatenati in condizioni bestiali e così stipati da non potersi muovere. Gli africani provenivano principalmente dalla costa occidentale dell’Africa, la regione oggi occupata da Senegal, Guinea, Gambia, Sierra Leone, Liberia, Costa d’Avorio, Ghana, Togo, Benin, Nigeria, Camerun, Gabon e da parte delle due repubbliche del Congo. Prima dell’arrivo dei bianchi, queste regioni erano dominate dagli imperi del Ghana, del Mali, Songhai, Kanem-Bornu, delle etnie mossi e hausa, e da altri stati. La caduta di alcuni degli imperi più antichi lasciò poi il posto a nuove entità territoriali. I regni, stati o città-stato più potenti del periodo della tratta transatlantica degli schiavi furono l’Ashanti (o Asante), il Benin, il Dahomey, gli stati del Delta, il Gambia, il Senegal e l’Oyo. Olaudah Equiano, uno dei primi africani ad avere scritto un libro in lingua inglese, descrisse l’area di provenienza degli schiavi nella sua autobiografia intitolata The Interesting Narrative of the Life of Olaudah Equiano, or Gustavus Vassa the African. Written by Himself (1789): Quella parte d’Africa, nota con il nome di Guinea, in cui viene esercitato il commercio degli schiavi, si estende lungo la costa per circa 3400 miglia, dal Senegal all’Angola, e comprende diversi regni.2

I mercanti di schiavi chiamarono questa regione Costa d’Oro, Costa d’Avorio e Costa degli Schiavi. I primi viaggiatori bianchi giunti nella zona vi trovarono strutture politiche assai diverse: alcune molto organizzate, con re, governatori e nobili (per esempio i capi di palazzo e i capi delle città del Benin); altre ordinate genericamente per clan, tribù o simili gruppi di parentela. A dispetto dell’organizzazione politica dell’Africa Occidentale, però, sin dai tempi più antichi le più


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importanti divisioni della popolazione erano quelle basate sul clan, sul villaggio d’origine o sulla discendenza da antenati comuni. L’area era abitata dalle etnie akan, fon, yoruba, ibo, fanti, fulani, ashanti, jolof, mandingo, bakongo e baoulé.

LA MUSICA IN AFRICA OCCIDENTALE Nonostante la scarsità di fonti scritte locali, le nostre informazioni sulla musica dell’Africa Occidentale all’epoca della tratta degli schiavi (che negli Stati Uniti durò dal 1619 al 1860 circa) sono numerose. In primo luogo, le tradizioni orali dell’Africa contemporanea offrono indizi attendibili sul passato, dal momento che molte pratiche musicali odierne sono sorprendentemente simili a quelle di due secoli fa. Forse ancora più importanti sono le informazioni contenute negli scritti dei primi viaggiatori e mercanti europei in Africa. Alcune di queste cronache forniscono ricchissimi dettagli su uno o più aspetti della musica africana e, a volte, offrono esempi e illustrazioni di strumenti musicali.3

Il ruolo della musica nella società I viaggiatori europei non mancarono di osservare che una delle caratteristiche più singolari della cultura africana era l’importanza della musica e della danza. Il primo resoconto in lingua inglese giunto fino a noi è quello del capitano Richard Jobson, inviato in Africa dalla Company of Adventurers di Londra nel 1620 per esplorare la zona del fiume Gambia e valutarne il suo potenziale commerciale. Al suo ritorno in Inghilterra, Jobson pubblicò The Golden Trade or a Discovery of the River Gambra and the Golden Trade of the Aethiopians, in cui osservò: Senza dubbio non c’è popolo al mondo altrettanto sensibile al suono della musica. Le personalità più in vista considerano la musica un elemento di prestigio, e quando le si visita essa manca raramente [...]. Inoltre, quando i re o le persone di più alto rango ci vengono incontro sul fiume per commerciare, si fanno precedere dai loro musicisti, seguendo in un ordine preciso secondo il loro cerimoniale di stato.4

Un secolo più tardi, il mercante James Houstoun scrisse: «Ho fatto visita al re Conny nel suo castello; il re mi ha ricevuto con le cerimonie tipiche del suo paese, musica, tamburi e strumenti a fiato».5 Equiano l’Africano affermò: «Siamo una nazione di danzatori, musicisti e poeti».6 Altri resoconti del periodo offrono analoghe testimonianze sul primato della musica nella vita delle popolazioni africane.

Occasioni per fare musica A quasi ogni attività individuale o comunitaria corrispondeva una musica specifica; la musica era parte integrante dell’esistenza dell’individuo, dal momento della sua nascita fin oltre la sua morte. Equiano osservò: Ogni grande evento, come il ritorno trionfale da una battaglia o qualsiasi altra occasione di esultanza collettiva, viene celebrato con danze accompagnate da canto e musica. L’assemblea viene divisa in quattro gruppi, ciascuno dei quali balla separata-


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mente o in successione, con caratteristiche proprie. Il primo gruppo comprende gli uomini sposati, che nella loro danza spesso rappresentano gesta guerresche e una battaglia. Seguono le donne sposate, che danzano nel secondo gruppo. Il terzo gruppo è composto da ragazzi e il quarto da ragazze. Ogni gruppo inscena qualche aspetto interessante della vita reale, come una grande conquista, un’attività domestica, una storia commovente o un qualche passatempo rurale; e dal momento che il soggetto della rappresentazione si ispira a qualche evento recente, risulta sempre nuovo. Questo conferisce alle nostre danze uno spirito e una varietà quali ho notato raramente altrove.

Vi era poi una musica cerimoniale che accompagnava le rievocazioni di importanti eventi storici, adatta ai riti agricoli o alle feste che celebravano l’insediamento di un re o la riunione di capi importanti. Thomas Edward Bowdich fornisce una descrizione dettagliata di una di queste celebrazioni, chiamata yam customs o cerimonia dell’igname, nel suo libro Mission from Cape Coast to Ashantee. Un uomo di scienza, Bowdich fu inviato in Africa nel 1817 dalla African Committee of London per avviare relazioni commerciali con gli ashanti. Dal momento che era anche un musicista e un pittore dilettante, nel suo libro incluse varie melodie africane scritte in notazione musicale, descrizioni precise di strumenti e pratiche esecutive, e diversi acquerelli che illustrano scene di vita africana: tutti elementi che rendono la sua testimonianza estremamente preziosa per lo storico della musica. Bowdich descrisse così l’arrivo della sua missione a Kumasi, la capitale degli ashanti (nell’odierno Ghana): Oltre cinquemila persone, per lo più guerrieri, ci vennero incontro accompagnati da tremende esplosioni di musica marziale, discordante solo nella sua molteplicità, dato che ogni corno, tamburo, sonaglio e gong suonava con un impeto al limite della frenesia [...]. Rimanemmo bloccati mentre i comandanti eseguivano la loro danza pirrica al centro di un cerchio formato dai guerrieri.7

La danza durò per circa mezz’ora, dopodiché gli inglesi furono accompagnati dai guerrieri attraverso le strade della città fino a una piazza aperta vicino al palazzo. Erano totalmente impreparati alla «magnificenza e alla novità» della scena alla quale assistettero. Il re e i suoi tributari e i comandanti splendevano in lontananza, attorniati da servitori di ogni tipo [...]. A malapena più sopportabile della calura, il sole si rifletteva in modo accecante sui massicci ornamenti dorati, che scintillavano in ogni direzione. Più di cento bande musicali attaccarono a suonare all’unisono appena arrivammo, ognuno con la melodia che contraddistingueva il loro capo. Gli strumenti a fiato enunciarono le loro melodie a mo’ di sfida, accompagnati dai ritmi di innumerevoli tamburi e strumenti di metallo, per poi lasciare posto a lunghi flauti dal suono dolcissimo e armonioso; a questi si unì felicemente uno strumento piacevole, come una cornamusa senza bordone. Almeno un centinaio di larghi ombrelloni o baldacchini, che potevano riparare trenta persone, venivano sollevati e abbassati dai portatori con un effetto caleidoscopico, grazie alle sete e ai tessuti sfarzosi colorati di giallo e scarlatto [...].


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I preparativi per una guerra o per una importante spedizione di caccia richiedevano a loro volta musiche speciali; nello stesso modo esistevano rituali musicali specifici per la celebrazione di una vittoria, sia che fosse la sconfitta di un nemico o una caccia andata a buon fine. Presso tutti i regni, una delle celebrazioni più importanti era quella in cui i capi locali rendevano omaggio al re nella capitale del regno. In quelle occasioni affluivano in città non solo i capi e i loro seguaci, ma anche dignitari e mercanti da altri stati, commercianti provenienti da dentro e fuori il paese e abitanti di villaggi anche molto lontani. Di solito queste celebrazioni duravano diversi giorni; nel regno del Dahomey, per esempio, si teneva ogni anno una celebrazione in onore degli antenati che si prolungava per parecchie settimane.8 Vi era poi la musica che accompagnava riti religiosi come la venerazione degli dèi, delle divinità e degli spiriti minori, e degli antenati. Bowdich osservò come gli ashanti ritenessero «assurdo» adorare Dio se non con canti e salmodie. Strettamente legati ai riti religiosi erano quelli associati alle esequie, soprattutto delle persone importanti della comunità o dei membri della famiglia reale. Tra alcuni popoli dell’Angola (che al tempo comprendeva le odierne Repubblica del Congo e Repubblica Democratica del Congo) era tradizione che la musica accompagnasse le controversie legali. Nel presentare i casi al giudice capo, i contendenti salmodiavano i loro argomenti con l’accompagnamento di percussioni e voci. Tutta questa musica, cerimoniale e ritualizzata, era spesso eseguita da musicisti di professione associata alla danza e/o alla rappresentazione teatrale. Gran parte della produzione musicale in Africa, tuttavia, si svolgeva in un contesto meno formale ed era fortemente improntata a esperienze socializzanti, che coinvolgevano sia gruppi selezionati sia la comunità nel suo insieme. La nascita di un bambino, la comparsa del primo dente, l’inizio della pubertà, i riti di iniziazione, le cerimonie di fidanzamento e altri eventi analoghi della vita di un individuo avevano tutti una musica appropriata. Di solito, i gruppi di cantanti erano suddivisi in base al sesso; il mercante di schiavi Theophilus Conneau descrisse così un gruppo di donne e bambini che vide nel 1826: Venne presentata la solita danza. Donne e bambini formarono un cerchio intorno a un enorme falò allestito nello spiazzo. Subito dopo entrò in scena una percussionista e un tam-tam diede avvio alla consueta danza nazionale, accompagnata dal canto.9

Solitamente le occasioni associate ai bambini, alle ragazze adolescenti e, in particolare, ai funerali richiedevano musica eseguita da donne. I canti di guerra, caccia, pesca e navigazione e altri canti di lavoro cooperativo, invece, erano appannaggio degli uomini. Il riferimento di Bowdich ai canti dei rematori (canoe men) mette in rilievo un’importante attività lavorativa in una terra dove i fiumi erano le vie di comunicazione principali. Prevalentemente dediti all’agricoltura, i popoli dell’Africa Occidentale avevano una gran varietà di canti associati alla semina, al raccolto, all’allevamento del bestiame, alla preparazione del cibo, al commercio nei mercati e nelle strade e ad attività simili. Naturalmente vi erano anche molte occasioni in cui uomini e donne cantavano insieme; il viaggiatore Hugh Clapperton fu testimone di una di queste nel 1829:


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Le mura di Bussa [...], molto estese, erano allora in fase di restauro. Gruppi di schiavi, uomini e donne, accompagnati da tamburi e flauti, cantavano in coro e andavano e venivano dal fiume portando l’acqua, a cui mescolavano l’argilla usata per riparare le mura.10

Infine, esisteva musica di carattere ricreativo, sia formale che informale. Conneau illustra un tipo di intrattenimento offerto a un capo alla fine della giornata: «Dopo la cena vennero alcune donne che ci intrattennero con un’esibizione musicale. Benché non possa elogiare le loro voci o le loro melodie, devo dire che alcuni dei loro strumenti erano decisamente ingegnosi [...]». Nella comunità, il fare musica collettivo per fini ricreativi era invariabilmente accompagnato dalla danza, un punto su cui torneremo più avanti.

I musicisti di professione Ogni villaggio aveva i propri maestri musicisti, cantanti e strumentisti, incaricati di far musica nelle occasioni formali della vita comunitaria. Spesso essi prestavano servizio presso le corti dei re o dei capi in qualità di musicisti o cantori reali; spesso ereditavano la loro posizione dal padre e la tramandavano ai propri figli. Che fossero musicisti di corte o indipendenti, comunque, dovevano essere interpreti virtuosistici e conoscere la storia e la letteratura tradizionali del proprio popolo. Jobson paragona i cantastorie africani, chiamati griots, ai bardi irlandesi: Essi hanno una perfetta somiglianza al bardo irlandese, seduti come lui per terra, un po’ discosti dal gruppo. Quando accompagnano la loro musica con il canto, lo scopo di tale attività è la narrazione della stirpe del re, l’esaltazione della sua antichità e il racconto di tutte le imprese compiute da lui o dai suoi antenati; essi offrono canti estemporanei in ogni occasione, perché il re ne sia gratificato; e varie volte non tralasciano, in nostra presenza, di elogiare noi uomini bianchi, cosa per la quale si aspettano da parte nostra qualche forma di ricompensa.

Il mercante Mungo Park menziona alcuni doveri dei jillikea, termine con cui indica i cantori o cantastorie: proporre «canzoni estemporanee» (cioè improvvisate sia nella melodia che nel testo) in onore dei propri benefattori, recitare eventi storici relativi ai loro re e alle loro nazioni e accompagnare i guerrieri sul campo, per incitarli a combattere ricordando loro le gesta eroiche degli antenati. I cantastorie impiegavano il proprio talento per «alleviare le fatiche» del gruppo con cui viaggiavano e per ottenere una «buona accoglienza presso i forestieri». I griots non si limitavano a cantare le lodi dei propri signori, ma erano disposti a cantare per chiunque li remunerasse. Park segnala anche un altro tipo di cantanti, [...] seguaci della fede di Maometto, che viaggiano per il paese cantando inni devoti e celebrando cerimonie religiose, per conciliarsi il favore dell’Onnipotente, affinché eviti calamità o assicuri il successo a un’impresa.11

I maestri musicisti erano tenuti in grande considerazione dalla gente. Bowdich osservò che il suonatore di corno d’oro e il direttore delle bande musica-


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li sedevano accanto ai membri ufficiali della corte del re, «circondati da un seguito e da uno splendore tali da rivelare la dignità e l’importanza della loro carica».12 Altri notarono come i musicisti generalmente sedessero vicino al re o al capo, a indicare il loro rango elevato. Mungo Park fu particolarmente colpito dal prestigio di cui godevano i poeti-musicisti africani, che «sono molto richiesti e rispettati dalla gente, e pagati in modo molto generoso», mentre in Europa «la negligenza e l’indigenza [...] accompagnano normalmente i devoti alle Muse». Va notato che questa adulazione era riservata a cantanti di entrambi i sessi.

Strumenti musicali e pratiche esecutive I primi che viaggiarono in Africa ebbero modo di vedere e ascoltare per lo più strumenti a percussione – vale a dire strumenti appartenenti alle categorie dei membranofoni e degli idiofoni. I membranofoni, o tamburi, erano di ogni dimensione e forma e misuravano dai venticinque-trenta centimetri ai tre-tre metri e mezzo di altezza, e dai cinque o sette centimetri a vari decimetri di diametro. Bowdich notò che i tamburi generalmente erano fatti con tronchi d’albero cavi, spesso cesellati con grande cura, per lo più aperti a un’estremità, e di varie misure: quelli rivestiti di pelli comuni (cioè tutte le pelli di animali eccetto quella di leopardo) vengono suonati con delle bacchette la cui forma ricorda il simbolo occidentale usato per indicare la pausa di un ottavo [cioè ]; i più grandi vengono portati sulla testa da un uomo e suonati da uno o più di quelli che seguono; i più piccoli vengono portati appesi al collo o appoggiati al suolo; in quest’ultimo caso vengono suonati principalmente con i polpastrelli delle dita, cosa nella quale i nativi sono molto esperti; fra questi tamburi alcuni sono di pelle di leopardo (che ha l’aspetto di carta pergamena) e suonati con due dita, che vengono sfregate su di esso come si fa col dito medio sul tamburello, ma producendo un suono molto più forte.

La testimonianza di Bowdich è avvalorata da molte altre. Un viaggiatore che entrò in contatto con gli ibo, per esempio, osservò due tipi di tamburi in uso presso questa etnia, uno fatto da un ceppo scavato e l’altro ottenuto tagliando a metà una zucca o una calabassa e tendendo una pelle sopra l’incavo.13 Il maggiore Dixon Denham descrisse un tamburo «costruito con un blocco di legno cavo alto circa un metro, con all’estremità una pelle tesa per mezzo di tiranti».14 Conneau fa riferimento a un tamburo ottenuto dal «tronco di un albero di un metro-un metro e venti di diametro, svuotato o scavato fino a raggiungere i cinque centimetri di spessore; la sua altezza era di tre metri e solo un’estremità era coperta da una pelle di vitello». Mungo Park cita il «tangtang, un tamburo aperto all’estremità inferiore», e il tabulu, un tipo di talking drum o tamburo parlante. Nel 1705 un viaggiatore vide un tamburo a clessidra.15


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«Jelleman di Soolima e Jelleman di Kooranko.» Da Travels of Soolima in the Timannee (1825) di Alexander G. Laing.

Fra tutti gli strumenti, il tamburo era quello scelto più di frequente come strumento reale o sacro, come accade ancora oggi in Africa. Le formazioni che suonavano i tamburi variavano quanto le dimensioni dei tamburi stessi, da uno o due musicisti a ensemble di diverse grandezze. Gli europei notarono con sorpresa che gli africani suonavano i tamburi con le dita, con il palmo delle mani, o con «bacchette ricurve». Gli idiofoni (strumenti fatti di qualunque materiale in grado di produrre suono) erano rappresentati da un’infinita varietà di campane, nacchere, gong di ferro, bacchette, sonagli, xilofoni e zanze o mbira, conosciute anche come «pianoforti a pollice». Come il tamburo, lo xilofono variava per dimensioni e materiali. Generalmente chiamato balafou o balafoo, poteva essere grande, con venti o più tavolette o tasti, o abbastanza piccolo da essere portato appeso al collo con una cinghia. Conneau descrive uno di questi ultimi esemplari: Era qualcosa di simile a un’armonica: grande come un vassoio da tè, aveva una struttura a cui erano legate due corde di giunco, sopra la quale erano fissati vari pezzi di bambù, ben ripuliti dal midollo, disposti in ordine decrescente di grandezza; sotto di questi vi erano sette zucche, a loro volta in ordine decrescente. Lo strumento era portato con una cinghia intorno al collo e suonato con due mazzuoli di legno ricoperti di guttaperca. La sua armonia era peculiare. La musicista che lo suonava portava legate a gomiti, polsi, caviglie e ginocchia numerose piccole campanelle che riusciva a far tintinnare mentre percuoteva i tasti e ballava.


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Jobson notò che lo xilofono era «lo strumento principale» in Gambia; disposto a trenta centimetri di altezza dal terreno, aveva «diciassette tasti di legno». Il musicista, seduto per terra, suonava i tasti con bacchette «lunghe circa trenta centimetri», l’estremità delle quali era ricoperta da «un materiale morbido». Le zucche fissate sotto ogni tasto, «come bottiglie», risuonavano «fragorosamente». Lo xilofono veniva usato molto spesso per accompagnare la danza, come il tamburo. Il viaggiatore Alexander Gordon Laing descrisse una danza accompagnata da sei ballafou a fila singola e da uno a fila doppia.16 La zanza o mbira esisteva in varie dimensioni ed era diffusa nel periodo del commercio degli schiavi almeno quanto lo è oggi. Equiano l’Africano associa la mbira alla musica fatta da donne: Abbiamo molti strumenti musicali, in particolare vari tipi di tamburi, uno strumento musicale che assomiglia alla chitarra e un altro molto simile a uno sticcado17. Quest’ultimo è suonato principalmente da fanciulle promesse in sposa, a tutte le grandi celebrazioni.

Bowdich chiama lo strumento oompoochwa e lo paragona a uno «Sticcado con un timbro molto diverso»: L’oompoochwa è una sorta di scatola con un lato aperto alla cui estremità sono fissati due ponticelli piatti; ai ponticelli sono collegati cinque pezzi di legno, sottili e ben levigati, che (essendo incurvati all’insù) vengono suonati pizzicandoli con forza con il pollice.

Gli aerofoni non erano diffusi quanto le altre categorie di strumenti, o almeno non in tale varietà. Le fonti fanno riferimento a vari tipi di flauti: piccoli flauti con tre fori; strumenti simili a flauti di Pan costituiti da una serie di piccole canne singole di diversa lunghezza legate insieme; flauti lunghi; e strumenti simili a cornamuse. I corni e le trombe venivano ricavati da zanne di elefante e da corna di altri animali. Bowdich nota che «i corni emettono il suono più forte [...] sono generalmente molto grandi e, essendo graduati come i flauti, producono abbellimenti marziali di grande effetto». Come i tamburi, i corni potevano essere adoperati come strumenti «parlanti». Il maggiore Denham descrive trombe e strumenti simili a clarinetti: Il Sultano tornò in città, preceduto da vari uomini che suonavano lunghi pifferi, simili a clarinetti, ornati con conchiglie, e due immense trombe, lunghe dai tre metri e mezzo ai quattro metri, portate da uomini a cavallo, fatte di tronchi di legno cavi, con un bocchino in ottone, il cui suono non era sgradevole.

I cordofoni più comuni erano liuti o fidule, arpe o lire, salteri e un semplice arco musicale che pare esistesse solo in Africa. Bowdich descrive questo arco musicale, chiamato bentwa, come [...] un bastoncino piegato ad arco da una corda di giunco tesa, che viene tenuta fra le labbra a un’estremità e percossa con una piccola bacchetta, mentre all’altra estremità viene occasionalmente stoppata o percossa con una grossa bacchetta; con questo


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strumento, dal quale si ottengono vari suoni con le labbra, vengono suonate solo arie vivaci.18

I liuti erano solitamente costruiti con zucche o calabasse ricoperte da una pelle di animale, con due grossi buchi per «far uscire il suono». Le fidule spesso avevano la forma di «una scatola stretta, con un lato aperto ricoperto con pelle di coccodrillo o antilope, con un lungo bastone come manico e un ponticello per sostenere le corde». Le corde, di crine di cavallo o di mucca, variavano da una a sette o anche otto, e lo strumento era suonato con l’archetto oppure pizzicato, a seconda delle abitudini locali. Clapperton fornisce una descrizione dettagliata di un violino ricavato da una zucca che vide nel Dahomey: [Aveva] tre corde di crine di cavallo, ciascuna composta da diversi crini non torti; lo stesso valeva per l’archetto; il corpo del violino era ricavato da mezza zucca di forma allungata; il ponticello era costituito da due bastoncini incrociati; una pelle di iguana era tesa strettamente sopra l’incavo; il manico era lungo circa due piedi, ornato con piastre di ottone, e con un altro pezzo di ottone all’estremità.

Per quanto riguarda le arpe, le fonti distinguono fra arpe grandi, per esempio il korro a diciotto corde, e arpe piccole, come il simbing a sette corde. Conneau paragonò il suono dell’arpa ascoltato in Africa a quello del banjo americano. Bowdich osservò che l’arpa era appropriata per accompagnare lunghe canzoni narrative, dato che le corde erano ottenute dalle radici fibrose delle palme da vino e quindi producevano un timbro «profondo, pieno e armonioso». Mentre i grossi complessi strumentali potevano includere un’ampia gamma di strumenti – come nel caso del gruppo ascoltato da Bowdich alla cerimonia dell’igname a Kumasi – i piccoli gruppi di solito includevano tamburi, piccoli flauti e uno o due cordofoni. Jobson riferisce di uno strumento a corde suonato «insieme a un piccolo tamburo» per l’accompagnamento della danza. Mentre percuotevano un tamburo o uno xilofono, oppure suonavano un cordofono o una mbira, i musicisti aggiungevano elementi percussivi alla musica grazie a piccoli idiofoni tintinnanti, normalmente anelli di ferro e sonagli, legati a polsi, gomiti, ginocchia e caviglie. Questi suoni supplementari erano un elemento essenziale della performance. Il suonatore di xilofono ascoltato da Jobson, per esempio, portava grandi anelli di ferro alle braccia ai quali erano fissate delle barre orizzontali in ferro, che a loro volta «recavano anelli più piccoli e gingilli scampanellanti». Se un musicista da solo non riusciva a produrre questi suoni «ronzanti» aggiuntivi, c’erano sempre degli altri che venivano in suo aiuto. Clapperton incontrò un violinista itinerante accompagnato da due ragazzi che aggiungevano effetti percussivi alla sua musica percuotendo delle zucche cave, riempite di sassolini e di fagioli, contro i palmi delle mani. La sua voce era chiara e melodiosa. [...] Si accompagnava con lo strumento e i ragazzi si univano in coro. Le sue canzoni erano improvvisate. Avrei voluto trascriverne una, ma scoprii che tutte riguardavano me.


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Quando non vi era null’altro a disposizione, il musicista semplicemente batteva un bastone su uno strumento o contro il suolo, oppure batteva le mani e i piedi. Lo stile vocale si distingueva per l’intensità e l’uso di effetti speciali come il falsetto, le grida, i gemiti e i suoni gutturali. La voce forte e chiara era preferita, tuttavia gli europei descrissero le voci degli africani come «rumore grossolano», «fortemente nasali» o «molto alte e stridule». Durante le esibizioni musicali e coreutiche, gli spettatori partecipavano unendosi al canto nei ritornelli, battendo le mani e i piedi, e a volte entrando nel cerchio della danza. A seconda della tradizione, gridavano parole di incoraggiamento (o di disapprovazione) agli esecutori, così come durante una chiacchierata erano soliti «gemere o sospirare a una descrizione sorprendente o commovente». Anche se l’unico resoconto dettagliato sul ritmo rimane quello tramandatoci da Bowdich, resta comunque evidente che questo elemento della musica africana era importante allora almeno quanto lo è oggi.19 Sia che suonassero lentamente o velocemente, i musicisti erano in grado di tenere rigorosamente il tempo, gestendo i loro complessi ritmi in modo tale da intensificare la pulsazione fondamentale, che poteva essere prodotta ugualmente da tamburi, idiofoni o anche dal battito delle mani. Questo elemento metronomico, chiamato time line dagli studiosi di musica africana, viene descritto da Bowdich come «sempre perfetto, e anche i bambini legati alla schiena delle madri muovono la testa e gli arti in perfetta sintonia con la musica che sta suonando». Per quanto riguarda la melodia, Bowdich è nuovamente l’unica delle fonti che scrive con autorevolezza, mentre gli altri autori generalmente evitano il linguaggio tecnico. Per fare un esempio, Park nota che un canto improvvisato in suo onore aveva «un tono dolce e lamentoso» ma non spiega, o non è capace di farlo, perché risulti tale. Nel suo testo Bowdich include ventitré brani musicali e cerca di identificare le scale usate come maggiori o minori. Un’attenta analisi della musica suggerisce tuttavia che le scale sono prevalentemente pentatoniche e modali, come nell’esempio seguente: Canto empoöngwa (Gabon)

Dobbiamo molto a Bowdich per avere trascritto le melodie. Un compito niente affatto facile, dal momento che gli africani tendevano ad abbellirle; egli era però consapevole del problema e compì uno sforzo particolare per risolverlo.


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Ho avuto la fortuna di trovare uno dei pochi nativi capaci di suonare le note di base [cioè la struttura melodica senza abbellimenti] di tutti i motivi; era il migliore musicista del paese [suonava il sanko, uno strumento a corde] [...]. Aver anche solo tentato un qualche tipo di arrangiamento, che andasse oltre le proprietà già insite nelle melodie, le avrebbe snaturate e avrebbe fatto fallire il mio proposito di farle conoscere così com’erano, inalterate. Non ho osato neppure inserire un diesis o un bemolle.

La musica era caratterizzata non solo dall’improvvisazione melodica ma anche dalla continua improvvisazione delle parole. La prima aveva una certa influenza sulla seconda: un cantante inventava un brano e poi modificava le ripetizioni melodiche per adattarle ai continui cambiamenti del testo. Anche la musica strumentale era influenzata dall’improvvisazione. Bowdich osservò che gli abbellimenti delle melodie si dividevano in due categorie: quelli improvvisati al momento e quelli appartenenti al repertorio tradizionale: I loro abbellimenti, alcuni dei quali improvvisati, altri trasmessi di padre in figlio, sono così numerosi che la ripetizione continua permette solo di riconoscere l’inizio della canzone; tutto dipende dall’estro dell’esecutore, che a volte introduce un paio di accordi nuovi, a volte omette una battuta, a volte riprende il motivo a metà.

In sostanza, l’esecuzione consisteva nel ripetere continuamente una breve cellula musicale, variandone la ripetizione. La trascrizione della breve melodia del canto del Gabon illustrata sopra occupa solo tre misure. Confrontando una delle ripetizioni (battute 4-6) con la melodia di base (battute 1-3), è possibile farsi un’idea di come gli esecutori variassero le melodie. Alcuni strumenti erano accordati in modo diatonico, altri invece in modo da produrre cromatismi all’interno dell’ottava. All’orecchio europeo queste accordature risultavano abbastanza casuali e non stabilite da una logica precisa. Bowdich osservò, per esempio, che il sanko a otto corde veniva accordato dal Do centrale all’ottava sopra secondo la scala di Do maggiore, ma non riuscì a distinguere un criterio di accordatura per gli altri strumenti che ascoltò. Canzone kerrapee

In presenza di più esecutori potevano essere introdotti alcuni elementi armonici, per esempio le voci potevano cantare parti della canzone a una terza, quarta o quinta sotto la melodia originale, oppure cantare l’intera canzone a un intervallo parallelo.


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Aria ashanti molto antica

Lamento funebre fanti mbira

flauti

tamburi ecc.

tamburi ecc.

Una pratica esecutiva molto diffusa prevedeva che un cantante solista venisse accompagnato da uno o due altri cantanti o da un gruppo, che fungevano da coro e intonavano i ritornelli. Ciò determinava uno stile antifonale o responsoriale, chiamato dagli studiosi anglofoni di call-and-response, in cui si alternavano due solisti, o un solista e un piccolo ensemble oppure un solista e un gruppo. Inno idolatrico accra


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Musica e poesia Equiano l’Africano ci rammenta che nella cultura africana la musica, la poesia e la danza erano inscindibili e, come abbiamo già visto, che il poeta e il musicista erano spesso la stessa persona. Il linguaggio poetico si distingueva per l’uso di immagini e di figure retoriche, che a detta di Bowdich erano «iperboliche e pittoresche». Per esempio, invece di «buonanotte» gli accra dicevano: «dormi fino a che il mondo si illumina»; oppure, un canto per celebrare l’anno nuovo diceva che «i punti estremi dell’anno si sono incontrati». Normalmente i testi delle canzoni parlavano di vicende personali o comunitarie; potevano riguardare questioni quotidiane o fatti storici, informare gli ascoltatori su eventi d’attualità oppure lodare o deridere alcune persone, incluse quelle presenti tra il pubblico. Più di una fonte osserva che la gente si sedeva «in cerchio e rideva, lodando o criticando qualcuno della compagnia con rime pungenti». Tuttavia, i testi più importanti erano quelli delle canzoni di carattere storico, che narravano imprese eroiche del passato e ricordavano alla gente le sue tradizioni. Tutti i viaggiatori europei, nessuno escluso, rimasero stupiti dalla pratica del canto improvvisato, e diversi di loro si ritrovarono a essere il soggetto di una canzone, a volte con un certo sconcerto. Mungo Park apprezzò molto la canzone che era stata improvvisata su di lui e trascrisse le parole nel suo libro, fornendoci così il più antico esempio di canto africano tradotto in una lingua europea. La canzone fu concepita in circostanze particolari. Park era stato costretto a cercare rifugio in un piccolo villaggio, ma non riuscì a trovare nessuno che lo ospitasse e così dovette passare un giorno intero seduto sotto un albero senza cibo. Verso sera, mentre giungevano nubi minacciose e Park aveva iniziato a perdere ogni speranza di trovare una sistemazione per la notte, una donna che passava di lì ebbe compassione di lui e lo invitò a casa sua. Gli preparò la cena e gli indicò una stuoia dove avrebbe potuto dormire. La donna e le sue compagne passarono la maggior parte della notte filando il cotone; mentre lavoravano, alleviavano il peso del lavoro cantando delle canzoni, una delle quali fu improvvisata usando Park come soggetto. Park ascoltò attentamente, notando come il brano «veniva cantato da una delle donne più giovani, mentre le altre si univano a lei in una sorta di ritornello». Quella che segue è la traduzione letterale che Park ci ha lasciato del canto delle filatrici: The winds roared, and the rains fell; The poor white man, faint and weary, Came and sat under our tree. He has no mother to bring him milk, No wife to grind his corn.

I venti infuriavano, le piogge cadevano; Il povero uomo bianco, stanco e affaticato, Arrivò e si sedette sotto il nostro albero. Non aveva madre che gli portasse il latte Né moglie che gli macinasse il grano.

CHORUS Let us pity the white man No mother has he to bring him milk, No wife to grind his corn.

RITORNELLO Abbiamo pietà dell’uomo bianco Senza una madre che gli porti il latte Senza una moglie che gli macini il grano.


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La canzone di queste donne è un esempio di forma poetica tipicamente africana, caratterizzata da un’alternanza di strofa e ritornello e dalla ricomparsa, piuttosto comune, del tema della strofa come parte del ritornello. La predilezione che gli africani avevano per l’esecuzione responsoriale si rifletteva sia nella forma poetica sia in quella musicale, come viene illustrato nell’esempio seguente raccolto dal maggiore Denham: Give flesh to the hyenas at daybreak, Oh, the broad spears! The spear of the Sultan is the broadest, Oh, the broad spears! I behold thee now – I desire to see none other, Oh, the broad spears! My horse is as tall as a high wall, Oh, the broad spears! He will fight against ten – he fears nothing, Oh, the broad spears! He has slain ten; the guns are yet behind, Oh, the broad spears! The elephant of the forest brings me what I want, Oh, the broad spears! Like unto thee, so is the Sultan, Oh, the broad spears! [...]

Danno carne alle iene all’alba, Oh, le grandi lance! La lancia del Sultano è la più grande, Oh, le grandi lance! Ti vedo ora – e non desidero vedere altri, Oh, le grandi lance! Il mio cavallo è alto come una grande muraglia, Oh, le grandi lance! Combatterà contro dieci – non teme nulla, Oh, le grandi lance! Ne ha uccisi dieci – eppure le armi gli stanno appresso, Oh, le grandi lance! L’elefante della foresta mi porta ciò che desidero, Oh, le grandi lance! Pari a Te, così è il Sultano, Oh, le grandi lance! [...]

Nel corso delle performance, parlato, recitativo, salmodia e canto spesso si integravano in diverse misure. Secondo alcuni esploratori il canto pareva essere «quasi interamente recitativo». Durante l’esecuzione, una canzone poteva passare dal parlato al canto e viceversa, oppure una storia poteva impiegare dei canti inserendoli nella narrazione. La struttura antifonale permetteva frequenti inserimenti del parlato nel canto; per esempio, il gruppo poteva recitare o salmodiare i ritornelli invece di cantarli.

Musica e danza Ancor più della musica, ciò che apparve veramente esotico agli occhi dei primi viaggiatori europei fu la danza. Essi notarono che la danza rappresentava «il passatempo serale» degli africani e che «per tutta la notte continuavano a danzare, fino a che tutti i musicisti erano esausti». Quando i musicisti non ce la facevano più, altri prendevano il loro posto e le danze proseguivano fino all’alba. I viaggiatori ci hanno lasciato tantissime testimonianze delle danze a cui hanno assistito; alcuni le descrivono con toni di disapprovazione, altri con ammirazione. La danza, come la musica, non era soltanto una forma di espressività creativa e di ricreazione, ma anche una forma di comunicazione; esistevano danze per celebrare gli eventi importanti della vita personale o comunitaria: la


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fertilità, l’iniziazione alla vita adulta, la guerra, il culto religioso, la morte e altre vicende umane. Varie etnie coltivavano diverse forme di danza, ma alcuni movimenti, figure e posture sembravano prevalere presso tutte le popolazioni. Nel 1620, Jobson osservò i «corpi piegati» e le «ginocchia storte» delle danzatrici e come gli uomini danzassero «con la nuda spada tra le mani», mentre per tutto il tempo «gli astanti incoraggiavano i danzatori battendo le mani, come per tenere il tempo». Oltre un secolo più tardi, un viaggiatore nella Sierra Leone osservò che gli uomini e le donne formano un cerchio in uno spiazzo della cittadina e, uno alla volta, mostrano la loro abilità nel gesticolare e muoversi in modo grottesco, anche se con grande agilità, mentre la comunità fa musica battendo le mani, sostenuta dal suono intenso di due o tre tamburi [...].20

Funeral Ceremony at Annabon (Cerimonia funebre ad Annabon), incisione di J.W. Cook da William Allen, Narrative of the Expedition Sent [...] to the River Niger, 1848.

Altri testimoni europei osservarono la disposizione circolare solitamente assunta dai danzatori e la loro predilezione a «limitare il movimento alla testa e alla parte superiore del corpo» e a «muovere pochissimo i piedi» o usare un passo strascicato. Erano molto comuni anche le dimostrazioni di abilità individuale e la posizione dei musicisti all’interno del cerchio. Le danze maschili con la spada e il bastone furono menzionate spesso dagli osservatori, come il fatto che gli astanti battessero le mani, «mostrando con l’acclamazione e la mimica la loro assoluta approvazione». La danza osservata dal maggiore Denham nel 1826 può essere considerata una danza tipica:


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Canti in una terra straniera (1619-1775) La danza fu eseguita da uomini armati di bastoni che, saltando da un piede all’altro, si muovevano intorno a un cerchio; e spesso agitavano i bastoni in aria, o li battevano l’uno contro l’altro producendo un forte rumore. A volte un danzatore usciva dal cerchio e, saltando sui talloni per diversi minuti, faceva roteare il bastone sopra la testa con la medesima velocità, per poi riunirsi al gruppo. Al centro del cerchio si trovavano due percussionisti, con i tamburi poggiati a terra.21

Nell’Africa moderna la musica e la danza possono essere integrate a rappresentazioni teatrali, specialmente durante i grandi festival o le occasioni riguardanti il culto. Senza dubbio queste combinazioni di musica, danza e teatro avvenivano anche nel passato e lo spettacolo a cui assistette il maggiore Alexander Gordon Laing a Talaba, Soolima (ora Senegal), nel 1825 corrisponde esattamente a questa descrizione (anche se nel testo egli non usa mai il termine drama, rappresentazione teatrale). Per più di mezz’ora, trenta guerrieri a cavallo e duemila a piedi simularono delle battaglie di fronte al re e ai suoi ospiti nello spazio adibito alle parate, accompagnati da un gruppo formato da più di cento musicisti. A ciò seguì uno spettacolo a cui parteciparono un jelle, cioè un cantastorie con un costume elaborato, dieci donne «vestite in modo fantasioso, con abiti raffinati», il maestro di guerra (la più alta carica militare) e diversi guerrieri impegnati in dialoghi, canti, pantomime e danze.22

In sintesi Sebbene durante l’epoca della tratta degli schiavi le culture musicali dell’Africa Occidentale variassero da etnia a etnia, condividevano comunque una serie di caratteristiche sufficienti a costituire un’eredità identificabile per gli africani nel Nuovo Mondo. Dai resoconti di esploratori e commercianti, cui possiamo aggiungere elementi dedotti dalle moderne tradizioni orali, è possibile riconoscere la centralità della musica nella vita africana di ogni giorno e individuare le principali prassi esecutive e gli strumenti musicali più comunemente utilizzati.23 Inoltre, dal momento che molti strumenti del passato sono in uso ancora oggi, che un certo numero di canzoni sono state trascritte e che buona parte della musica si è trasmessa oralmente di generazione in generazione, è possibile farsi un’idea della musica del tempo. Il fare musica era generalmente un’attività comunitaria, che includeva l’interazione di solisti o leader con il gruppo come coro. La musica non aveva solo le funzioni convenzionali di accompagnare i rituali religiosi e fornire occasioni ricreative, ma era anche un mezzo di comunicazione e un modo per condividere esperienze collettive, passate o presenti. Infine, un tratto caratteristico delle culture dell’Africa Occidentale era l’integrazione della musica con la danza e/o con elementi teatrali.

LA DIASPORA AFRICANA Non sappiamo con esattezza quanti furono gli africani trasportati nel Nuovo Mondo sulle navi negriere lungo il cosiddetto Middle Passage:24 alcune fonti offrono una stima di dieci milioni, altre di quindici milioni o più. Sebbene alcuni uomini di colore giunsero nel Nuovo Mondo già nel 1501 insieme ai primi esplo-


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ratori, e sebbene la schiavitù nelle Indie Occidentali si instaurò durante il secondo decennio dello stesso secolo, gli africani furono portati nelle colonie del continente nordamericano solo a partire dal XVII secolo.

Dalla servitù a contratto alla schiavitù Secondo le stime più accreditate, nel 1625 erano presenti sul continente americano 1980 coloni, di cui 180 nella colonia di Plymouth e 1800 in Virginia. I resoconti non indicano la percentuale di neri nella popolazione della Virginia, ma è probabile che a Plymouth non ve ne fossero affatto. Nel 1649 la popolazione della Virginia era aumentata a quindicimila bianchi e trecento neri. Nel 1626 la Compagnia Olandese delle Indie Occidentali trasportò undici neri dall’Angola a New Amsterdam, un insediamento alla foce del fiume Hudson, perché lavorassero come «Negri della Compagnia» nel villaggio, nelle mansioni di manovali, domestici e braccianti. Due anni più tardi, tre donne nere furono portate dall’Angola. I primi neri arrivarono nel New England qualche tempo prima del 1638; alla metà del secolo vedere dei neri per strada nelle colonie americane era ormai una cosa frequente. I primi africani giunti nelle colonie avevano lo status di servi a contratto (i cosiddetti indentured servants), così come molti bianchi e nativi americani in quel periodo. Già nel 1644, il governatore Kieft di New Amsterdam aveva affrancato gli undici neri originari dell’Angola e le loro mogli, per aver prestato un «lungo e fedele servizio»; i documenti rivelano inoltre che i servi a contratto neri in Virginia iniziarono a ottenere la libertà negli anni cinquanta del Seicento, avendo portato a termine il periodo di servizio. Durante la seconda metà del XVII secolo, l’importazione di africani nelle colonie aumentò. A un crescente numero di prigionieri neri veniva offerto un contratto che ne faceva dei «servi a vita» piuttosto che «servi a tempo determinato», fino a che i contratti a tempo determinato sparirono del tutto.25 Fu in questo periodo che si consolidò la pratica di schiavizzare i neri, prima per consuetudine e poi per legge. Nel Nord e nel Sud, i coloni iniziarono a promulgare leggi per assicurarsi che gli africani in arrivo rimanessero servi a vita. Sebbene il codice del Massachusetts del 1641 lo proibisse, eludere la legge era semplice: i commercianti di schiavi dovevano solo assicurarsi che gli africani importati fossero catturati in guerra, o venduti loro da terzi. Non ci dovrà mai essere alcun vincolo di schiavitù, vassallaggio o cattività fra noi, a meno che non si tratti di prigionieri legittimamente catturati in guerre giuste e di stranieri che si vendono di propria volontà o venduti a noi da terzi. Costoro dovranno aver garantite tutte le libertà e gli usi cristiani che la legge di Dio, stabilita in Israele a proposito di tali individui, richiede moralmente. Ciò non esonera alcuno dalla condizione di servitù decretata per autorità.26

Durante gli anni sessanta del Seicento si diffusero velocemente codici coloniali che garantivano il riconoscimento statutario della schiavitù: in Virginia nel 1661, in Maryland nel 1663, a New York (ex New Amsterdam) e nel New Jersey nel 1664. Le colonie della Pennsylvania, del Delaware, del New England e delle due Carolina fecero seguito. Già nel 1700 la schiavitù, chiamata nel secolo suc-


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cessivo con l’eufemismo our peculiar institution, «la nostra particolare istituzione», era divenuta realtà in tutte e tredici le colonie.

Sopravvivenze africane nel Nuovo Mondo Gli africani furono portati nel Nuovo Mondo in catene e spogliati di tutto; quelli che giunsero nelle colonie continentali generalmente non ebbero la possibilità di mantenere alcun legame familiare e comunitario. Tuttavia, sebbene non potessero portare con sé alcun oggetto, mantennero viva la memoria delle ricche tradizioni culturali che avevano vissuto nella loro terra di origine e le trasmisero ai propri figli. Come vedremo in seguito, l’importanza riservata alla musica e alla danza in Africa sopravvisse fra gli schiavi delle colonie americane nelle canzoni, nelle danze e nelle celebrazioni. Inoltre, vi furono alcuni altri costumi che persistettero durante i lunghi anni di assimilazione dello stile di vita della società dominante degli Stati Uniti. (L’esperienza africana si rifletté peraltro anche in altre aree, in particolare nella religione e nella letteratura popolare.) La funzione della musica come attività collettiva, per esempio, portò allo sviluppo di repertori di canti di schiavitù, che fornirono agli schiavi un qualche sollievo dalla brutalità fisica e spirituale della loro condizione. Nonostante l’interazione di modelli culturali africani ed europei nelle comunità nere e il conseguente emergere di nuovi modelli afroamericani, fra i musicisti popolari neri persistette la predilezione per certe prassi esecutive, certe abitudini, certi strumenti musicali e per un certo modo di modellare la musica secondo le esigenze dettate dal nuovo ambiente, che avevano comunque radici nell’esperienza africana.


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