La nuova intolleranza

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Martha C. Nussbaum

La nuova intolleranza Superare la paura dell’islam e vivere in una società più libera Prefazione di Stefano Rodotà Traduzione di Stefania De Petris


www.ilsaggiatore.com (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore Š Martha C. Nussbaum, 2012 Š il Saggiatore S.p.A., Milano 2012 Titolo originale: The New Religious Intolerance


La nuova intolleranza in memoria di Arnold Jakob Wolf (1924-2008)



Sommario

Prefazione di Stefano Rodotà

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Introduzione

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1. Religione: un’era di timori e sospetti

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2. Paura: un’emozione narcisistica

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3. Princìpi fondamentali: eguale rispetto per la coscienza

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4. La pagliuzza nell’occhio di mio fratello: imparzialità e la «vita esaminata»

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5. Gli occhi interni: rispetto e immaginazione empatica

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6. Il caso di Park51

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7. Vincere la politica della paura

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Note

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Indice analitico

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L’ansia è ciò che più caratterizza l’essere umano. Questo è forse il nome che racchiude tutti i difetti al loro livello più infimo di efficacia. È un tipo di cupidigia, un tipo di paura, un tipo di invidia, un tipo d’odio. Fortunati coloro che sono almeno consapevoli di questo problema e possono fare piccoli tentativi per tenere a bada questa opprimente preoccupazione. La naturale tendenza dell’animo umano è orientata verso la protezione dell’ego. Iris Murdoch, The Black Prince, 1973 Non capisco quale sia il problema. Si chiama libertà di culto, hai presente? «Cassandra», una spogliarellista che lavora al New York Dolls

vicino a Ground Zero, in merito alla proposta di costruire il centro della comunità islamica di fianco allo strip club.



Prefazione di Stefano Rodotà

In questo libro il tema della paura va ben al di là degli schemi che hanno abitualmente accompagnato la fittissima bibliografia sulla paura americana dopo l’11 settembre, non a caso mai richiamata da Martha Nussbaum. Rivolta com’è alla paura dell’islam, la sua analisi indaga nel profondo comportamenti e strutture sociali che mettono a rischio le condizioni stesse della libertà. Manifesta il bisogno di apprestare strumenti che possano portarci oltre gli scontri di civiltà, e le pessime politiche che la perdurante scelta di questo punto di vista incessantemente produce. L’opinione di Martha Nussbaum è netta, e dichiarata fin dalle pagine iniziali: «La situazione attuale impone con urgenza un esame autocritico che porti alla luce le radici delle orribili paure e sospetti che stanno deturpando tutte le società occidentali». Un esorcismo filosofico, dunque? Gli imprenditori della paura, i politici che fanno «montare la paura» sono all’opera in tutto il mondo, e i fatti di cronaca ricordati all’inizio del libro lo documentano ampiamente. Se, tuttavia, la cronaca è un indispensabile punto d’avvio, lo sguardo abbraccia poi tempi più lunghi, non per relativizzare quel che sta accadendo, ma per comprenderne pienamente il senso. L’oggetto dell’analisi torna così a essere il rapporto con l’altro. Torna, perché un libro precedente di Nussbaum, dedicato a Disgusto e umanità, aveva già mostrato con particolare intensità come il fuoco delle sue indagini fosse sempre più nettamente proprio quello riguardante la costruzione delle relazioni sociali. In quello scritto, riguardante le politiche e i comportamenti nei confronti degli omosessuali, era indicato un


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passaggio obbligato –­ dalla «politica del disgusto» alla «politica dell’umanità». Qui il percorso si fa più complesso, frastagliato, perché è più complesso il contesto definito dal fenomeno religioso, che esige una tessitura più ricca, che chiama in campo una molteplicità di princìpi. Non che il riferimento al disgusto sia scomparso, perché la parola compare in più luoghi di questo libro. Ma i riferimenti più intensi sono quelli all’eguale rispetto e all’eguale libertà (e forse è il caso di ricordare come, sia pure con accenti diversi, quest’ultimo riferimento sia il filo conduttore della ricerca di Étienne Balibar, sintetizzata addirittura in una sola parola, l’égaliberté). La misura delle situazioni si sposta così verso il principio di non discriminazione e verso la dignità, in una versione che la risolve appunto nel rispetto dell’altro («la dignità è quell’attributo individuale che rende la persona un oggetto appropriato di rispetto»). Vale la pena di sottolineare la rilevanza, anche istituzionale, attribuita al principio di dignità, perché nella cultura giuridica statunitense permangono, pur se attenuate negli ultimi tempi, riserve o addirittura ripulse proprio verso questo principio, letto in contrapposizione al principio di libertà, poiché potrebbe divenire il tramite per l’imposizione autoritaria di valori. Semplificazioni e schematismi come questi neppure sono adombrati in questo libro dove, anzi, si manifesta una impostazione che fa dialogare la dignità con libertà e eguaglianza. Qui, consapevole o no, il pensiero di Nussbaum si congiunge con le più approfondite elaborazioni europee. E questa mi pare una considerazione significativa perché, altrimenti, il libro è costruito anche intorno a una distanza tra la cultura americana e quella europea, di cui si riconoscono le peculiari componenti e ragioni, ma che le appare meno attrezzata proprio rispetto al tema della nuova intolleranza religiosa («gli Stati Uniti sono più aperti all’eterogeneità di quanto non sia il vecchio continente»). Riflessioni generali a parte, Nussbaum fa risaltare questo carattere, in particolare nell’analisi critica della legislazione francese sui simboli religiosi e in un riferimento assai duro alla situazione italiana, ricordata, oltre che per alcune miserevoli vicende recenti, per la posizione della Chiesa cattolica e del suo pontefice di fronte al nazismo. All’altro bisogna guardare con gli «occhi interni», dunque non solo con partecipazione e comprensione della sua condizione, ma con l’«emozione» necessaria per acquisire la «disponibilità a uscire dal pro-


Prefazione  13

prio sé e a entrare in un altro mondo». Gli occhi «corporei» non bastano, ci restituiscono immagini reali, ma fuorvianti, quando si fermano alla registrazione del dato del foulard islamico e al minareto. «Solo gli “occhi interni” possono dirci che ciò che abbiamo di fronte è un essere umano completo, con una varietà di desideri e scopi umani, e non un’arma che minaccia la nostra sicurezza o un disgustoso frammento di spazzatura.» Si giunge così al nodo della paura attraverso la considerazione dell’umano. Possiamo dire che proprio la considerazione dell’umano nella sua pienezza è la misura che consente di stabilire quando una paura sia a esso conforme, e dunque socialmente accettabile o addirittura utile, poiché «eliminare la paura porterebbe al disastro sociale». Ma la questione non può essere considerata in astratto, perché ci riporta ai drammi della storia, al loro riproporsi, che induce Martha Nussbaum a segnalare «che esistono alcune analogie specifiche tra l’antisemitismo di ieri e il sospetto antislamico di oggi». Tornano così, congiunti, il tema dell’altro per definizione, l’ebreo, e degli «occhi interni», che troviamo manifesto nelle Riflessioni sulla questione ebraica di Jean-Paul Sartre: «L’ebreo dipende dall’opinione che si ha della sua professione, dei suoi diritti e della sua vita». Su tutto questo si innesta la questione delle strategie possibili, o necessarie. Da una parte, si insiste sulla necessità non soltanto di impedire discriminazioni negli spazi pubblici, ma di creare questo tipo di spazi dove l’incontro con l’altro possa consentire l’esercizio abituale degli «occhi interni». Dall’altra, emerge la questione decisiva del rapporto tra principio di maggioranza e libertà di coscienza (familiare per i lettori di Nussbaum che conoscono il modo in cui era stato affrontato, in particolare nel volume sulla Liberty of Conscience: In Defense of America’s Tradition of Religious Equality). Incontriamo un’affermazione perentoria: «I princìpi costituzionali sono distinti dalle norme etiche, e non possono essere modificati da un voto della maggioranza». Un’affermazione persuasiva in un discorso giustamente fondato sui princìpi di libertà, eguaglianza e dignità, e che deve essere tenuta presente di fronte a impropri tentativi di risolvere le questioni del dissenso proprio con un meccanico rinvio al principio di maggioranza, come accade a Jeremy Waldron nel suo Law and Disagreement (e, per qualche verso, anche a Amy Gutman in Democracy and Disagreement). Proprio quei princìpi, infatti, hanno un ruolo essenziale «nell’ambito del rispetto religioso e dell’eguaglianza umana».


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Questo corredo di strumenti è immerso in una dimensione propriamente filosofica che, nella prima parte del libro, porta a disegnare una vera teoria generale della paura, che procede senza tentennamenti verso una conclusione molto netta: la paura, «per quanto sia valida e addirittura essenziale in un mondo effettivamente pericoloso, costituisce in sé uno dei maggiori pericoli dell’esistenza». Una conclusione che viene saggiata con riferimento a diversi casi concreti, tra i quali spiccano quelli del burqa e della costruzione di una moschea nell’area di Ground Zero. La forza argomentativa è sempre molto convincente ma, nel caso del burqa, l’assimilazione ad altri modi di presentazione del viso e del corpo – dettati dalla moda, dal clima, da professioni come quella del chirurgo, che conducono a varie forme di «mascheramento» – rischia in qualche momento di far perdere proprio le specificità che si determinano con il passaggio alla dimensione religiosa. Peraltro, questa scelta è coerente con l’obiettivo sempre più dichiarato del libro che, senza perdere rigore teorico, è esplicitamente politico: contrastare una intolleranza che conduce a uno scontro immotivato con i musulmani e il loro essere in società, ribadire l’universalismo dei princìpi che «sono fragili in tempi di paura». Questo libro può apparire come il compimento di una ricerca che si è sempre più marcatamente orientata verso la critica di pericolosi feticci come il profitto e il Pil, di atteggiamenti sociali come il disgusto, di «un’emozione narcisistica» come la paura. Ma non in un rifiuto di emozioni e passioni. E, infatti, Martha Nussbaum annuncia che il suo prossimo libro sarà dedicato alle Political Emotions, intese come gli ideali che devono guidare la politica in una società che sia stata depurata dalle tossine del disgusto, dell’intolleranza, della paura, del profitto.


Introduzione

L’idea alla base di questo libro è nata quando mi è stato chiesto di scrivere un pezzo per «The Stone», la rubrica filosofica del «The Opinionator», il forum di approfondimento online del New York Times. In quell’occasione commentai la proposta europea di bandire l’uso del burqa, con argomenti ora esposti nel terzo e quarto capitolo di questo libro. Rimasi sbalordita dalla quantità, varietà e intensità dei commenti ricevuti, e per fortuna mi fu permesso di ribattere in un articolo lungo quanto il precedente. Sono grata ai redattori e alle circa settecento persone che hanno inviato i loro commenti, aiutandomi a sviluppare meglio alcune di quelle idee. A quel punto, la possibilità di scrivere un breve libro sull’argomento cominciò a sembrarmi allettante. Sono riconoscente alla redattrice con cui lavoro da tempo, Joyce Seltzer della Harvard University Press, per aver condiviso il mio entusiasmo e per avermi aiutata a dare forma al progetto. Chris Skene e Robert Greer sono stati impagabili assistenti di ricerca. Più di recente, sono debitrice a Rosalind Dixon, Aziz Huq, Saul Levmore, Ryan Long e Chris Skene per i loro generosi e stimolanti commenti su una prima stesura del manoscritto. Ho presentato alcuni capitoli in un work-in-progress workshop presso la Law School dell’Università di Chicago e, come sempre, non posso che esprimere la mia gratitudine ai colleghi che hanno dedicato buona parte del loro tempo a leggere il testo in anteprima e hanno sollevato questioni straordinarie e diverse, che sono state cruciali nella fase di revisione finale: Dahwood Ahmed, Eric Biber, Jane Dailey, Lee Fennell, Bernard Harcourt, Richard Helmholz, Todd Hen-


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derson, Brian Leiter, Richard McAdams, Eduardo Penalver, Ariel Porat, Eric Posner, Mike Schill, Geoffrey Stone, Laura Weinrib e Albert Yoon. Questo lavoro è dedicato alla memoria di Arnold Jacob Wolf, un gigante nell’ebraismo riformato americano e nella mia personale vita religiosa. Una delle persone più intelligenti che abbia mai conosciuto, Arnold coniugava la passione per la giustizia sociale con un profondo interesse religioso, ed entrambi con uno straordinario talento per l’insegnamento – in modo rude, esasperante, esilarante, con una passione socratica per il confronto e una propensione non socratica alla simpatia e al senso dell’umorismo. Sono stata davvero fortunata a ricevere la sua benedizione in occasione del mio bat mitzvah da adulta nell’agosto 2008. Purtroppo Arnold è venuto meno il dicembre successivo, all’età di ottantaquattro anni. Fedele alla lunga tradizione del KAM Isaiah Israel, una congregazione riformata, Arnold era un appassionato sostenitore del dialogo interreligioso. Organizzava attività congiunte con gruppi cristiani e musulmani, come anche con chiese afroamericane, a loro volta sia cristiane sia musulmane. (il KAM, divenuto ora famoso perché sorge di fronte alla casa del presidente Obama, è anche vicino alla casa di Louis Farrakhan e a una grande moschea afroamericana.) Passaggi chiave della liturgia furono riscritti affinché i fedeli potessero cantare di «tutti i popoli del mondo» piuttosto che del solo «popolo di Israele». Chi avesse visto Arnold per la prima volta avrebbe potuto pensare di trovarsi di fronte a uno di quei folletti delle fiabe dell’Europa centrale, un Tremotino basso, rotondo, con la barba bianca e una voce burbera, quasi un ringhio, che si confaceva perfettamente a un personaggio così bisbetico. Ma se Tremotino aveva, immagino, uno sguardo spento e schivo, quello di Arnold luccicava, tanto che si potevano vedere nei suoi occhi i vari colori dell’affetto per tutti coloro, giovani e vecchi, che biasimava, rimproverava, e persino per quelli che derideva. («La religione è una cosa seria» diceva «ma questa congregazione fa ridere.») Il rabbino Eugene Borowitz, suo coetaneo, al funerale disse che Arnold era fondamentalmente una persona che amava gli altri – aggiungendo: «Amare gli ebrei non è cosa da poco». Quella capacità si mostrava in primo luogo negli occhi, perché consisteva soprattutto in una sincera curiosità e disponibilità a vedere l’altro per ciò che era – e, allo stesso tempo, a essere visto, con i propri difetti e tutto il resto. Non c’era critica che si potesse


Introduzione  17

rivolgere ad Arnold che lui non avesse già rivolto a se stesso per primo e in modo più tagliente. Voglio condividere due storie a proposito di Arnold che possono sembrare contraddittorie. Nelle sue lezioni per il bar e il bat mitzvah, diceva: «Non ha a che fare con te». Invece nelle sue sessioni di studio della Torah con altri rabbini ripeteva spesso (secondo quanto venne raccontato al suo funerale): «Ha sempre a che fare con la tua vita». Si trattava semplicemente di incoerenza? Io penso che le due versioni possano incontrarsi, se pensiamo che a un livello profondo la vita di un essere umano non riguarda solo l’individuo stesso. Arnold credeva nell’introspezione. Voleva che le persone si lasciassero richiamare dal testo sacro a una più profonda conoscenza critica di sé. Ma in fin dei conti, ogni conoscenza di sé degna di questo nome insegna che gli altri sono reali quanto se stessi, e che la vita non riguarda solo se stessi, ma anche la consapevolezza di condividere il mondo, e la capacità di orientare le proprie azioni al bene altrui. Con i teenager ripiegati su se stessi, Arnold enfatizzava l’attenzione all’altro; con i rabbini cervellotici, la necessità dell’autoesame. Ma il messaggio di fondo è lo stesso: conosci te stesso in modo da poter uscire al di fuori della tua persona, servire la giustizia e promuovere la pace. Questo, in conclusione, è il messaggio che spero di riuscire a trasmettere con questo libro.



1. Religione: un’era di timori e sospetti

Una volta, non molto tempo fa, americani ed europei andavano orgogliosi del proprio atteggiamento illuminato di comprensione e tolleranza religiosa. Anche se tutti sapevano che la storia dell’Occidente era stata segnata da intense rivalità e violenze religiose – compresi episodi sanguinosi come le crociate e le guerre di religione, ma anche la più sottile violenza del dominio coloniale europeo in molte regioni del mondo, l’antisemitismo e l’anticattolicesimo in patria, fino ad arrivare agli orrori del nazismo, che interessarono non solo la Germania ma molte altre nazioni – fino a tempi molto recenti l’Europa ha voluto pensare che quell’epoca buia appartenesse al passato. La violenza religiosa era altrove – in società più «primitive», meno caratterizzate da una tradizione di valori cristiani di quanto non fossero le moderne socialdemocrazie europee. Gli Stati Uniti hanno avuto in un certo senso una storia più nobile del «vecchio mondo» dal quale i primi coloni erano fuggiti, molti alla ricerca di libertà ed eguaglianza religiosa. La violenza cieca nel nome della religione fu sempre un fenomeno relativamente marginale – di cui furono vittime i cosiddetti «primitivi» nativi americani e, più di recente, i mormoni e i testimoni di Geova, gruppi dissidenti che la maggioranza percepiva come strani e minacciosi, ma non i membri delle principali congregazioni religiose. Inoltre gli Stati Uniti si sono sempre mostrati in qualche modo più aperti dell’Europa nei confronti del nonconformismo nei modi e nell’abbigliamento, il che è tornato utile alle minoranze religiose che volevano seguire i dettami della propria coscienza senza assimilarsi alla cul-


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tura della maggioranza. E tuttavia, non si può negare che il pregiudizio e il timore religiosi, nella forma dell’anticattolicesimo, del «nativismo», dell’antisemitismo e di una varietà di pregiudizi ulteriori a danno di «strane» minoranze siano stati un continuo motivo di vergogna per la nostra società. Per ridimensionare la nostra immagine di cultura tollerante e rispettosa, basti ricordare, per esempio, che solo negli anni settanta gli studi legali più prestigiosi hanno iniziato ad assumere un numero cospicuo di ebrei, e che solo in tempi molto recenti la Corte suprema ha potuto avere una composizione a maggioranza cattolica senza scatenare l’indignazione collettiva. E tuttavia, l’immagine che gli americani hanno avuto di sé negli ultimi anni è quella di una società ospitale e aperta alla diversità che ha superato i pregiudizi del passato. Oggi abbiamo molti buoni motivi per dubitare di questa autorappresentazione compiaciuta. La situazione attuale impone con urgenza un esame autocritico che porti alla luce le radici delle orribili paure e sospetti che stanno deturpando tutte le società occidentali. In questo momento abbiamo disperato bisogno di un approccio ispirato dalla filosofia etica di tradizione socratica, un approccio che combini tre elementi: -- Princìpi politici che esprimano eguale rispetto per tutti i cittadini, e una consapevolezza delle conseguenze di tali princìpi per un reale confronto con la differenza religiosa. (Questi valori sono già intrinseci nella tradizione politica dell’Europa e soprattutto degli Stati Uniti.) -- Un pensiero religioso critico che sappia scovare e analizzare le incoerenze, in particolare quelle che consistono nel considerare la propria situazione diversa dalle altre e nel vedere la pagliuzza nell’occhio dell’altro e non la trave nel proprio. -- Una cura sistematica degli «occhi interiori», la capacità dell’immaginazione che ci permette di vedere come appare il mondo dalla prospettiva di una persona appartenente a una diversa religione o etnia. Queste virtù etiche sono sempre utili in una realtà complessa. Perché, tuttavia, sarebbero imposte con tale urgenza dal momento che stiamo attraversando? Passiamo in rassegna alcuni sviluppi recenti, partendo dall’Europa per poi passare agli Stati Uniti.


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Europa: burqa, minareti e omicidi Tre nazioni europee – Francia, Belgio e Italia – hanno recentemente emanato leggi che vietano di indossare il burqa e il niqab islamici (che coprono entrambi l’intero volto con l’eccezione degli occhi) in qualunque luogo pubblico.1 (In Italia, la legge è stata approvata solo dalla Camera dei deputati ed è attualmente in discussione al Senato.) Benché sia noto che in quei paesi solo un’esigua minoranza di musulmane indossa di fatto tali indumenti (in Italia, per esempio, una stima attendibile è di cento persone, e non più di tremila anche in base ai calcoli più esagerati), queste leggi – che senza dubbio gravano pesantemente sull’esercizio coscienzioso della libertà religiosa – sono state trattate come materia della massima urgenza, e sono volte ad affrontare una crisi pubblica dal significato profondo.2 Questi sviluppi non sono stati incontestati, anche da parte di esperti dell’abbigliamento femminile. In Italia, paese-simbolo della moda, niente meno che un’autorità come Giorgio Armani si è pronunciato in difesa del burqa, sostenendo (anni prima del bando nazionale, quando i divieti erano ancora su base locale) che le donne dovrebbero poter indossare ciò che vogliono. «È una questione di rispetto per le convinzioni e le culture degli altri» ha affermato «dobbiamo convivere con quest’idea.»3 Tuttavia, in questo caso gli italiani hanno ignorato il richiamo della moda, per seguire preoccupazioni considerate ancora più pressanti. Nel frattempo diverse comunità in Europa hanno regolamentato persino l’uso del foulard islamico, che copre solo i capelli. In Francia, le giovani donne non possono indossare il foulard a scuola.4 Il Kosovo, che ha una vasta popolazione musulmana, ha imposto un divieto simile.5 In alcune zone della Germania, dell’Olanda, della Spagna e del Belgio, l’uso del foulard è vietato a tutti gli impiegati pubblici, inclusi gli insegnanti – anche se suore e preti possono indossare in classe i loro abiti religiosi e il velo.6 In Svizzera le ragazze non possono portarlo quando giocano a pallacanestro.7 In Russia le donne musulmane hanno conquistato il diritto di indossarlo nelle foto per il passaporto, ma un’adolescente è stata recentemente espulsa da scuola per averlo indossato, e un’università nel Caucaso del Nord ha vietato l’uso di qualunque foulard.8 In Svizzera, in seguito a una campagna costruita intorno alla paura di una conquista islamica, un referendum popolare ha bandito con il 57%


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dei voti la costruzione di minareti accanto alle moschee – benché poche di esse ne abbiano in realtà uno (solo quattro in Svizzera, su un totale di centocinquanta), e di conseguenza la questione architettonica abbia un valore puramente simbolico.9 La paura dei musulmani mostra il proprio volto minaccioso anche in modi più sottili e talvolta bizzarri. Il sindaco della città di Capriate, in provincia di Bergamo, nel 2009 ha vietato la presenza di negozi di kebab sul territorio cittadino.10 Un sito di suprematisti bianchi (www.stormfront.org) ha decantato ai quattro venti questa «vittoria», esultando con toni trionfalistici, e ha cercato di suscitare disgusto descrivendo quei ristoranti come sporchi e infestati di scarafaggi (condizioni piuttosto comuni in tutto il mondo, ma pur sempre capaci di suscitare ribrezzo). Nello stesso anno un buon numero di cittadine in provincia di Genova e Bergamo hanno adottato lo stesso divieto. Nella città di Lucca un negozio di kebab è stato messo a fuoco, e un deputato della Lega Nord ha invocato la messa al bando di tutti i cibi stranieri. Il ministro dell’agricoltura, dello stesso partito, ha difeso la proposta, facendo appello alla tradizione e a considerazioni di natura sanitaria.11 L’Europa del Nord è di solito considerata un’isola felice di tolleranza e benevolenza ideale, e questo è vero nella gran parte dei casi. E tuttavia anche questa regione ha conosciuto ondate di sentimento antislamico. La Finlandia, un paese che ben conosco, non ha adottato alcuna legislazione restrittiva rispetto all’uso del vestiario religioso, e una mossa di questo tipo non incontrerebbe un forte sostegno politico, ma la discriminazione in ambito lavorativo nei confronti delle donne che indossano il foulard islamico è un fatto comune.12 Alcuni datori di lavoro (nella polizia e in alcuni supermercati) dichiarano apertamente che non assumeranno donne che lo indossino.13 Nella città di Raasepori le scuole hanno proibito l’uso del foulard da parte delle studentesse, ma hanno dovuto revocare il bando per la pressione dell’opinione pubblica.14 In due circostanze, tuttavia, anche misure favorevoli alla comunità musulmana sono state revocate in seguito a pressioni pubbliche. A Helsinki ed Espoo i centri di ricreazione comunali hanno di recente smesso di servire pasti speciali per i bambini musulmani.15 E la controversa decisione della città di Helsinki di riservare l’uso della piscina pubblica alle donne musulmane in alcune fasce orarie è stata revocata, anche se è stato creato un turno serale per sole donne.16 La Fin-


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landia vanta un particolare spirito di tolleranza e apertura, ma le tensioni rimangono, e la tendenza dei finlandesi a identificare il nonconformismo con la condizione di straniero costituisce un sottofondo problematico di ogni resoconto giornalistico su tali questioni (la carta stampata parla comunemente di «finlandesi» e «cultura finlandese» in opposizione ai musulmani e all’islam, senza chiedersi quanti dei musulmani in questione siano residenti o anche cittadini del paese). Nel luglio 2011 il terrore si è abbattuto violentemente su un’altra nazione nordeuropea. Il fanatico norvegese Anders Behring Breivik ha ucciso settantasette persone in due attentati paralleli, mettendo una bomba in alcuni edifici governativi di Oslo e sparando ai giovani rappresentanti del Labour Party che si erano riuniti sull’isola di Utoya per un campo giovanile.17 Breivik, che ha confessato i reati ma negato la propria colpevolezza, ha rilasciato il giorno degli attentati un manifesto di millecinquecento pagine in cui difendeva le proprie azioni in base a una teoria per la quale l’Europa dovrebbe combattere contro la piaga dell’islamizzazione.18 Breivik ha chiari legami con una varietà di gruppi antislamici sia in Europa sia negli Stati Uniti.19 Le sue azioni, benché ampiamente condannate, sono state accolte con entusiasmo da alcuni politici di destra di altri paesi. Jacques Coutela, del Front National francese, lo ha descritto come un’«icona» e come «il principale paladino dell’Occidente», considerando la sua come una «lotta contro l’invasione musulmana» e paragonandolo all’eroe nazionale francese Carlo Martello.20 Coutela è stato sospeso dal partito, ed è in corso un’inchiesta. Un altro membro del Front National che ha affermato le stesse cose in termini meno espliciti, tuttavia, non è stato sospeso. Il deputato italiano della Lega Nord Mario Borghezio (alleato del governo di Berlusconi) ha condannato la violenza di Breivik ma ha appoggiato le sue idee, in particolare la sua «opposizione all’islam e la sua esplicita accusa all’Europa di essersi arresa senza combattere contro la propria islamizzazione».21

Stati Uniti: foulard, moschee, sharia Negli ultimi anni gli Stati Uniti non sono stati teatro di episodi di violenza religiosa di massa (a meno che non si voglia considerare l’attentato del 1995 a Oklahoma City, perpetrato da membri latamente cristiani della mi-


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lizia e rivolto contro il governo piuttosto che contro immigrati o minoranze religiose). Nonostante un’enfasi diffusa sull’eterogeneità e il pluralismo religioso, tuttavia, il pregiudizio e la violenza occasionale contro nuovi gruppi religiosi non sono mai mancati nel panorama americano. I coloni originari a volte esiliavano individui le cui opinioni in materia di religione erano considerate eretiche (come per esempio Roger Williams, costretto a fuggire dal Massachusetts a Rhode Island).22 Ebrei, quaccheri, battisti e mennoniti erano ben accetti in alcune colonie, ma non in tutte.23 Nel xix secolo un cospicuo flusso di immigrati cattolici romani provenienti dall’Irlanda e dall’Europa meridionale diede origine a un’ondata di pregiudizio virulento, e il «nativismo» divenne una causa politica popolare.24 In una forma o nell’altra, il pregiudizio anticattolico è rimasto un fattore fondamentale nella vita politica americana fino a tempi molto recenti: durante la guerra fredda, per esempio, il giornalista di fede liberale Paul Blanshard nel suo best seller American Freedom and Catholic Power (1947) mise in guardia gli americani sostenendo che il cattolicesimo costituiva un pericolo per la democrazia americana quanto il comunismo globale. Nel frattempo, gruppi meno numerosi come i mormoni e i testimoni di Geova erano vittime non solo di pregiudizi, ma anche di violenza vera e propria.25 L’antisemitismo è stato estremamente diffuso fino agli anni settanta, e non è ancora venuto meno.26 In che modo, quindi, gli americani stanno rispondendo all’attuale ondata di timore religioso? La reazione degli Stati Uniti è più variegata di quella europea, dal momento che riguarda un maggior numero di confessioni religiose. Gli ebrei non sono esenti da sospetti – in particolare se stranieri. Tre ebrei messicani che cercavano di pregare a bordo di un volo dell’Alaska Airlines tra Città del Messico e Los Angeles sono stati invitati a scendere dall’aereo e interrogati dall’Fbi.27 Dopo l’11 settembre il turbante sikh è stato spesso confuso con l’abito islamico, e i sikh hanno incontrato difficoltà negli aeroporti e in alcuni casi sono stati vittime di attacchi violenti.28 I sikh continuano tuttora a lamentarsi della perquisizione dei turbanti da parte delle compagnie aeree, nonostante il fatto che la Travel Security Administration abbia ideato delle alternative, come l’ispezione del turbante dall’esterno, o persino da parte del passeggero stesso, a cui seguirà la verifica della presenza di sostanze chimiche sulle mani.29 In tempi recenti l’esercito statunitense ha autorizzato le reclute sikh a indossare il turbante.30 I


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sikh hanno una lunga tradizione di onorevole servizio militare, e sono stati appassionati sostenitori della necessità di riforme. Un portavoce dell’esercito, George Wright, ha affermato: «È prassi dell’esercito agevolare l’esercizio delle pratiche religiose nella misura in cui non interferiscano negativamente con le necessità militari». Anche l’induismo è stato oggetto di ostracismo: la prima preghiera indù recitata nel Senato americano è stata interrotta dalla protesta organizzata di persone che si definivano «cristiani e patrioti». La protesta, tuttavia, non riuscì a interrompere la preghiera: i manifestanti furono arrestati nella galleria riservata ai visitatori per «disturbo dell’attività del Congresso», e le loro azioni furono condannate nell’aula del Senato dal leader di maggioranza Harry Reid.31 E tuttavia, tanto negli Stati Uniti quanto in Europa, la stragrande maggioranza degli episodi più discutibili ha a che fare con l’islam. Che io sappia non vi sono state proposte di vietare il burqa negli Stati Uniti, ma il foulard ha causato alcuni incidenti isolati. Una donna musulmana di trentun anni che indossava il foulard è stata invitata a scendere da un volo della Southwest Airlines dopo che un assistente di volo aveva ascoltato per caso una conversazione telefonica in cui la donna avrebbe detto «Procediamo» – anche se l’interessata sostiene di aver detto «Ora andiamo», perché l’aereo stava per decollare. Dopo aver ispezionato il foulard e interrogato la donna, la TSA si è resa subito conto che si era trattato di un errore e non ha chiesto la perquisizione del cellulare o della borsa, ma alla donna non è stato permesso di tornare sull’aereo perché l’equipaggio non si sentiva tranquillo con lei a bordo. La signora ha ricevuto due volte le scuse della compagnia e un buono che non ha intenzione di usare perché non vuole più volare con la Southwest. Alla fine, ha anche ricevuto delle scuse ufficiali pubbliche.32 Analogamente Imane Boudlal, un’impiegata di Disneyland originaria del Marocco, ha fatto causa alla Disney affinché le fosse riconosciuto il diritto di indossare il foulard durante i suoi turni di lavoro presso l’hotel Grand Californian. I suoi superiori le hanno detto che quello non era lo «stile Disney», e che se voleva continuare a indossare il foulard avrebbe dovuto svolgere mansioni lontane dalla vista dei clienti. Infine le fu offerto un compromesso: un largo cappello da uomo da indossare sopra l’hijab – che in una foto appare piuttosto ridicolo. La donna ha rifiutato.33 Noor Abdallah, una giovane musulmana dell’Illinois che lavorava come stagista presso la Disney in California, ha accetta-


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to, invece, un compromesso più plausibile, anche se non meno bizzarro, e indossato un berretto blu sopra l’hijab.34 Ciò che questi episodi indicano è che la vista di queste donne per quello che sono, ovvero musulmane osservanti, risulterebbe sgradevole ai clienti. Se Abdallah è soddisfatta del compromesso raggiunto, Boudlal continua a portare avanti la propria battaglia. Si sono verificati altri casi relativi al posto di lavoro, e il numero di queste rimostranze sembra essere in crescita.35 È significativo, tuttavia, che il settore pubblico debba ancora gettarsi nella mischia. Quando in Georgia è stato impedito a una donna di entrare nel tribunale cittadino di Douglasville dopo che aveva rifiutato di togliere il foulard, lo Stato della Georgia ha stabilito l’ammissibilità di qualunque copricapo religioso in tutte le corti dello Stato.36 Se il foulard ha causato problemi solo in episodi isolati e nel caso di datori di lavoro privati, almeno in un paio di occasioni le moschee sono state oggetto di opposizione pubblica. Negli Stati Uniti non esiste nulla di paragonabile al divieto di costruire minareti promulgato in Svizzera, ma l’ufficio di pianificazione urbanistica di DuPage County, vicino a Chicago, ha respinto il progetto di costruzione di una moschea a Willowbrook – dopo aver rifiutato il piano per un’area di preghiera ed educazione islamica vicino a Naperville e una richiesta per la realizzazione di un centro religioso islamico a West Chicago. In tutti questi casi la contea ha giustificato la decisione adducendo preoccupazioni relative a un presunto sovraffollamento di istituzioni religiose con gli annessi problemi di traffico e rete fognaria, ma quasi tutte le altre religioni sono state lasciate libere di operare. Nei pressi del sito di Willowbrook sorgono un centro di meditazione buddista, una missione indù, e una chiesa ortodossa macedone.37 La contea ospita anche molte chiese cristiane e sinagoghe ebraiche. Porre un freno al «sovraffollamento» in modo da tagliare fuori il gruppo religioso più in crescita della regione appare una scelta infelice. I paralleli richiami al declino dei valori immobiliari nella zona sollevano lo spettro della discriminazione. Un altro progetto per la costruzione di un centro islamico lungo la 248a Avenue a Naperville è stato rigettato dalla commissione regolatrice della città nell’ottobre 2011, ancora una volta con argomentazioni relative al sovraffollamento e al traffico; ma sull’appezzamento sono apparsi cartelli con la scritta «Vota NO alla moschea sulla 248a».38 In un episodio simile, nel giugno 2010 il progetto di ampliamento di


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un centro islamico esistente da trent’anni, a Murfreesboro in Tennessee ha dato origine a una rumorosa protesta in occasione dell’incontro della commissione di contea, in una sala gremita da centinaia di oppositori. Due mesi dopo un incendio doloso ha distrutto i macchinari presenti nel cantiere. L’Fbi è stato chiamato a investigare, e in altri luoghi di culto islamici nella regione sono stati intensificati i controlli di sicurezza. Nel frattempo il Dipartimento di giustizia ha sostenuto il diritto dei gruppi islamici di costruire un luogo di culto, in seguito a una denuncia contro la contea da parte di alcuni proprietari immobiliari della zona. 39 Più di recente, nel gennaio 2011, è stato sventato dalla polizia un attentato dinamitardo ai danni dell’Islamic Center of America in Michigan, e Roger Stockham, un sessantatreenne veterano dell’esercito originario della California con un passato di islamofobia, è stato arrestato perché trovato in possesso di una grossa quantità di esplosivi. L’uomo è stato dichiarato incapace di intendere e di volere.40 Anche se in questo caso il responsabile era un individuo isolato, proteste e minacce contro le moschee sembrano diffondersi. Tra maggio e settembre 2010 l’American Civil Liberties Union ha contato trenta moschee, esistenti o proposte, che hanno subito vandalismo, proteste pubbliche, o una forte opposizione dovuta all’ostilità verso l’islam.41 Un’altra questione controversa negli Stati Uniti è l’applicabilità della sharia, o legge islamica, ai cittadini statunitensi. In Oklahoma un emendamento alla costituzione dello Stato, approvato con il 70% dei voti, stabilisce che i tribunali dell’Oklahoma possono attingere alla legge federale, al diritto comune, e «se necessario [al]la legge di un altro Stato», ma non alla «dottrina giuridica di altre nazioni o culture… diritto internazionale o sharia».42 Il principale artefice della legge, Rex Duncan, ha affermato: «Questa è una guerra per la sopravvivenza dell’America. È una guerra culturale».43 Questo emendamento vago e approssimativo (chiamato l’emendamento «salva-Stato») solleva una quantità di problemi – compreso il fatto che il diritto comune è di origini britanniche e che il generico rifiuto del diritto internazionale potrebbe essere interpretato come il diniego di fonti giuridiche riconosciute quali il diritto della navigazione e i trattati. Ma il suo problema più ovvio è la ridondanza: il principio di neutralità dello Stato in materia religiosa contenuto nel Primo emendamento della costituzio-


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ne americana proibisce già l’applicazione da parte dei tribunali statunitensi dei codici giuridici di qualunque religione specifica. La legge è stata impugnata da alcuni gruppi islamici in quanto si rivolgerebbe in modo particolare all’islam quale oggetto di stigmatizzazione, e il ricorso è stato considerato accettabile da un giudice federale in base al Primo emendamento; il giudice ha temporaneamente sospeso l’applicazione della legge in attesa di un’udienza ulteriore, e ha in seguito esteso l’ingiunzione a tempo indeterminato, ritenendo che la legge non avesse una finalità laica, che il suo «obiettivo principale fosse comprimere l’esercizio della religione», e che comportasse un coinvolgimento eccessivo dello Stato in materia religiosa.44 Il giudice ha anche osservato, come hanno fatto alcuni studiosi, che la legge avrebbe colpito in modo particolare i musulmani, dal momento che i tribunali possono far rispettare documenti (come i testamenti e i contratti di matrimonio) formulati in un linguaggio tratto da altre tradizioni religiose. Come Aziz Huq, professore di diritto presso l’Università di Chicago, ha scritto sul New York Times: [I] bandi priverebbero i musulmani dell’eguale accesso alla tutela giuridica. Un macellaio non potrebbe più far valere il proprio contratto sulla carne halal – contratti che, come quelli sui cibi kosher o altre restrizioni alimentari religiose, sono regolarmente validi nel resto del paese. E un banchiere musulmano non potrebbe chiedere i danni per la violazione di un prodotto finanziario rispettoso della sharia e quindi non gravato da interessi.45

La controversia dell’Oklahoma ha dato vita a un’ondata di sentimento antislamico attraverso lo Stato. Ha anche spinto altri Stati a stilare misure simili usando un linguaggio che potesse aggirare i problemi di costituzionalità presentati dalla legge dell’Oklahoma.46 L’esempio più bizzarro è forse una proposta di legge avanzata in Tennessee che avrebbe reso l’adesione alla sharia un reato, punibile con quindici anni di reclusione.47 Dal momento che la sharia, come la legge tradizionale ebraica, copre una vasta gamma di comportamenti individuali, come l’astensione dall’alcol, regole alimentari, forme di preghiera, e un codice etico nello svolgimento degli affari, la legge del Tennessee per come è stata formulata è ridicola, ma il fatto stesso che sia stata proposta è la riprova di un elevato livello di


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ignoranza e sospetto generale. (Quando queste obiezioni sono state presentate al legislatore che ha redatto la proposta, questi ha risposto: «Mi sto ancora informando sulla questione».) Nel complesso, esistono chiare prove che il pregiudizio antislamico stia crescendo negli Stati Uniti. Negli ultimi tempi il numero di casi di discriminazione sul lavoro segnalati dall’Equal Employment Opportunity Commission (eeoc) è aumentato vertiginosamente. I sondaggi Gallup, Pew, ed Abc confermano una nuova impennata del sentimento antislamico.48

Identità nazionale: omogeneità e appartenenza Tutti questi sviluppi sono molto preoccupanti, e mostrano effettivamente che la paura religiosa è in aumento negli Stati Uniti, in particolare verso i musulmani. E tuttavia, non c’è nulla negli Usa che possa anche lontanamente avvicinarsi ai divieti nazionali e regionali d’indossare abiti islamici in Europa, o al referendum nazionale in Svizzera sulla questione dei minareti. Come spiegare questa divergenza? Ho già suggerito che gli Stati Uniti sono più aperti all’eterogeneità di quanto non sia il vecchio continente. Ma questa differenza è parte di una più ampia divergenza in materia di idee d’identità nazionale. Sin dalla nascita dello Stato nazionale moderno, i paesi europei hanno ritenuto che le radici dell’identità nazionale risiedessero principalmente in caratteristiche che sono per i nuovi immigrati difficili, se non impossibili, da condividere. Fortemente influenzati dal romanticismo, questi paesi hanno considerato il sangue, il territorio, l’appartenenza etnolinguistica e la religione come elementi necessari, o quantomeno centrali, dell’identità nazionale. Quindi coloro che hanno una diversa provenienza geografica, un’altra terra santa, una lingua diversa, o un altro modo di vestirsi e apparire sembra non possano mai appartenere del tutto, non importa quanto a lungo vi abbiano risieduto, a un paese.49 Uno dei motivi per cui è stato così terribilmente difficile per gli ebrei essere accettati come cittadini europei su basi di parità – ammesso che lo siano mai stati – era per esempio l’idea che essi fossero intrinsecamente diversi perché pregavano e si vestivano in altro modo, usavano un’altra lingua nella propria liturgia, e mangiavano cibi differenti. Nella misura in cui gli ebrei si assimilavano – mangian-


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do come gli altri, sposandosi con individui non ebrei, usando il tedesco piuttosto che l’ebraico nei propri culti (come i riformati in Germania erano soliti fare), e mostrando un’apparenza «normale» (senza la kippah o la barba) – avevano maggiori probabilità di essere accettati, almeno fino all’avvento del razzismo scientifico e delle tipologie basate sul sangue, un fenomeno relativamente recente. Una volta affermatosi il razzismo scientifico, l’assimilazione non costituiva più una difesa sufficiente. Prima e dopo quel periodo, tuttavia, l’enfasi cadeva sull’omogeneità e sull’assimilazione culturale al paradigma dominante. La differenza equivaleva a estraneità.50 Vale la pena menzionare che quella presunta omogeneità è sempre stata in qualche misura fittizia, e ha oscurato differenze di setta, clan, idiomi locali e molti altri motivi di diversità interna. Storici come Eric Hobsbawm per l’Europa in generale, Graham Robb per la Francia e Linda Colley per l’Inghilterra hanno mostrato in modo dettagliato come le narrative dell’identità nazionale siano spesso costruzioni relativamente fragili e superficiali che coprono divisioni di lunga durata.51 Questo è ancora più ovvio nel caso di Italia e Germania, dal momento che l’unificazione è stata recente ed è stata in modo ancora più evidente il risultato di una costruzione artificiale. Inoltre, come ha dimostrato in modo indiscutibile lo storico George Mosse, i progetti di unità nazionale in Europa si basavano spesso su una definizione della nazione in opposizione a elementi estranei o minoritari rappresentati in qualche misura come degenerati, spesso in quanto portatori di una sessualità stigmatizzata.52 Quindi l’idea di omogeneità è al tempo stesso reale (la maggioranza condivide una stessa religione) e meno reale di quanto non si dica. E tuttavia le persone imparano a crederci e a vedere somiglianze dove prima avrebbero potuto scorgere differenze. Oggi questo atteggiamento è prevalente in molte regioni d’Europa. La Finlandia costituisce forse un caso estremo, dal momento che i finlandesi hanno permesso così poca immigrazione e hanno quindi visto pochissime persone con un aspetto diverso. Una collega finlandese dell’Università di Chicago, cresciuta nella seconda città più grande della Finlandia, mi ha raccontato di non aver incontrato nessuno che non fosse un protestante nordeuropeo fino all’età di sedici anni. La Finlandia esibisce in modo semplice e immediato caratteristiche che, a vari livelli, sono proprie della maggior parte dei paesi europei. E per quanto l’esecrabile collabo-


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razione della Finlandia con i nazisti durante la Seconda guerra mondiale abbia origini diverse, tra le quali soprattutto l’ostilità verso la Russia, l’antisemitismo era diffuso nel paese come forma di rifiuto del diverso. Il nazionalismo finlandese costituisce un’esemplificazione particolarmente chiara dell’idea che l’identità nazionale sia frutto di una costruzione deliberata, dal momento che è possibile tracciarne lo sviluppo e nominare coloro che ne sono stati gli artefici. Tra la metà e la fine del xix secolo un gruppo di intellettuali influenzati dal romanticismo europeo riscoprirono il finnico, che al tempo era parlato solo nelle zone rurali (tutte le persone residenti in città e scolarizzate parlavano lo svedese), e resuscitarono mitologie relative all’identità nazionale (per esempio il Kalevala, basato sul folclore tradizionale ma messo per iscritto nel xix secolo).53 Artisti scopertisi patriottici scrissero racconti sulla vita agreste, dipinsero meravigliose opere di espressionismo romantico che, sullo sfondo di laghi e foreste, rappresentavano il carattere nazionale, e scrissero musica ispirata dall’amore per la natura e per il folclore finnico (Sibelius è il compositore più noto di questo movimento). Persone che avevano sempre parlato svedese cominciarono a parlare finlandese e tradussero i propri nomi. Poiché la lingua, riscoperta così di recente, è stata un veicolo di orgoglio nazionale particolarmente importante, i finlandesi spesso considerano stranieri tutti coloro che non parlano il finlandese, un idioma particolarmente difficile che non appartiene alla famiglia delle lingue indoeuropee e legato, tra quelle conosciute, solo all’ungherese e all’estone. Di fatto oggi, suggerisce la mia amica finlandese, un immigrato africano che parlasse un buon finlandese sarebbe da molti considerato meno straniero di un protestante biondo che parlasse solo inglese o tedesco – benché l’inglese sia diventato in misura preponderante la lingua dell’accademia e del commercio. Tuttavia l’esclusione si basa anche sull’aspetto fisico, ed è necessario che tutti i differenti elementi che portano all’inclusione siano presenti affinché lo status di un nuovo residente possa diventare sicuro. La Finlandia costituisce un caso unico ed estremo di omogeneità. Ma tutti i paesi europei affrontano in qualche misura le stesse questioni. Nessuno di essi ha definito in maniera così netta l’essenza della nazione in termini di ideali e lotte politiche – una forma di identità nazionale diffusa in molti Stati moderni (tra cui l’Australia, la Nuova Zelanda, il Canada, l’India, il Sudafrica e gli Stati Uniti) che allevia questi problemi di inclu-


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sione, almeno in parte. Non che le nazioni di questo gruppo non conoscano conflitti intorno ai temi dell’inclusione e dell’identità, come vedremo tra poco; ma lasciano aperto uno spiraglio, poiché permettono l’inclusione di chiunque aderisca al progetto di «vita, libertà e ricerca della felicità» – o, nel caso dell’India, di eguaglianza economica – che definisce l’aspirazione nazionale. Alcuni di questi paesi hanno addirittura mitizzato l’immigrazione e la differenza come aspetti costitutivi dell’identità nazionale. Gli alunni americani visitano Ellis Island o la statua della libertà e recitano il poema che Emma Lazarus ha dedicato alla statua a proposito delle «masse infreddolite desiderose di respirare libere». Gli Stati Uniti sono attraversati da laceranti conflitti sull’immigrazione, ma all’ordine del giorno è l’immigrazione illegale; in questo paese qualunque politica di opposizione all’immigrazione legale ha avuto vita breve, e ha raggiunto il proprio apice nella seconda metà del xix secolo, quando il nativismo godeva di una forte influenza politica. Anche allora, tuttavia, costituiva una posizione minoritaria, e oggi l’opposizione a ogni forma di immigrazione è un’idea profondamente impopolare. Quando Pat Buchanan, che si faceva portavoce di questo messaggio, sfilò nella parata per il St. Patrick’s Day a Chicago nel corso della sua fallimentare campagna presidenziale fu duramente criticato dai partecipanti, per i quali la festa era una celebrazione del contributo dato dagli immigrati agli Stati Uniti.54 L’India non ha una forte presenza immigrata ma comprende al proprio interno un’eterogeneità immensa, e la formazione della nazione moderna ha richiesto fondamentalmente il riconoscimento di tutti i suoi diversi elementi (religiosi, etnici, culturali e linguistici) e la creazione di un concetto di appartenenza che includesse tutti su basi di eguaglianza. Questo fu un impegno fondamentale sia per Nehru sia per Gandhi, intorno al quale entrambi condussero una battaglia vittoriosa contro la destra indù, la quale – traendo esplicitamente la propria idea di identità nazionale dall’Europa – perseguiva una concezione di completa inclusione nella vita civile estremamente legata a religione, cultura ed etnia, secondo la quale i musulmani non sarebbero mai potuti essere cittadini a pieno titolo.55 L’inno nazionale dell’India si apre con un elenco delle diverse origini regionali e linguistiche del popolo indiano, e la seconda strofa enumera le sue diverse radici religiose. Tutti questi gruppi, su basi di eguaglianza, rendono omaggio alla legge morale.


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L’autorappresentazione dell’Australia, come quella degli Stati Uniti, si basa sull’idea che la maggior parte degli australiani discendano da immigrati – anche se di recente è diventato un elemento centrale di quell’identità il rimorso per l’ingiustizia compiuta contro i popoli nativi, e l’orgoglio collettivo per la loro peculiare cultura e tradizione artistica. Dal momento che molti immigrati australiani erano detenuti, e quindi la «feccia» dell’Inghilterra, l’idea di una società senza classi e antigerarchica è altrettanto fondamentale. (Per esempio, molti considerano non australiano sedere nel sedile posteriore di un taxi, anche se in posti con molti turisti le usanze si confondono.) Un altro aspetto dell’identità che spesso appare prominente è l’eterno confronto con una terra difficile e ostile, un’esperienza che tutti condividono. (Il romanzo Voss di Patrick White, il primo e ultimo australiano a vincere il Nobel per la letteratura, descrive immigrati di origini e classi sociali diverse uniti nel tentativo, fallito, di esplorare le aree deserte dell’interno: qui le origini nazionali sono ridimensionate dalla grandezza dell’impresa collettiva.) Tutti e tre questi paesi, quindi, interpretano l’appartenenza come una condivisione di scopi e ideali, e quindi in un modo che non richiede omogeneità – nel vestire, nelle abitudini alimentari, nelle convinzioni religiose e persino nelle forme di culto. Questo non significa certo che le persone non temano ciò che è strano o diverso, o che non associno le minoranze religiose con un pericolo. Significa, tuttavia, che esiste un forte contrappeso. Concentrandoci per il momento sugli Stati Uniti, il fatto che queste idee siano state in certa misura incorporate nella struttura del diritto americano in materia di religione significa che le istituzioni saranno restie ad agire sulla base di sentimenti dettati dalla paura, o che se lo faranno incontreranno un secco rifiuto (come nel caso dell’Oklahoma). Come vedremo, persino la temuta santería, la religione afrocubana che include sacrifici rituali di animali, è stata sonoramente difesa dalla Corte suprema – e non solo da parte della cosiddetta ala liberale, ma dal suo membro più conservatore, il giudice Scalia, e dal moderato giudice Kennedy – quando una comunità ha adottato una legge che si applicava a queste pratiche rituali senza toccare altre pratiche simili. È molto difficile che leggi che stigmatizzano e perseguitano possano attecchire nel sistema costituzionale americano. Gli ideali di identità nazionale non sono definiti una volta e per sempre. Gli Stati Uniti hanno certamente attraversato periodi di panico an-


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ti-immigrazione, durante i quali le idee del nativismo (gli immigrati non sono veri americani) hanno ridefinito l’identità nazionale per una porzione significativa della popolazione statunitense. Questo può succedere ancora, ed è necessario rimanere vigili rispetto alla minaccia di un nuovo nativismo. L’Europa, al contrario, è perfettamente in grado di muovere verso una definizione di appartenenza nazionale di natura più politica e inclusiva, in base alla quale la terra, l’etnia e la religione siano meno importanti degli ideali politici condivisi. Quindi gli europei possono usare la loro idea di nazione per spiegare le politiche e gli atteggiamenti attuali, ma non per giustificarli. Al momento non è possibile determinare se saranno più probabilmente gli Stati Uniti ad assomigliare all’Europa, o l’Europa ad abbracciare sempre di più (quelli che erano) gli ideali degli Stati Uniti. Quel futuro è nelle mani della gente. Al di là delle differenze storiche, quindi, dovremmo guardare con preoccupazione all’ondata di paura e ostilità religiosa nel nuovo come nel vecchio continente. La paura sta crescendo, e dobbiamo cercare di capirla e di trovare il modo migliore di affrontarla. La paura è un’emozione sulla quale oggi sappiamo molto. Se ci fermiamo a riflettere sui suoi effetti positivi e i suoi possibili tranelli, potremo poi ritornare su alcuni dei nostri casi più recenti con una maggiore consapevolezza.


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