Furio Colombo
La paga Il destino del lavoro e altri destini dopo Marchionne
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Š il Saggiatore s.p.a., Milano 2011 Prima edizione: il Saggiatore, Milano 2009
Sommario
Introduzione. La fabbrica a luci spente
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Premessa. Il lavoro, la salvezza
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1. Il call center dell’universo
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Lo spettacolo dell’apertura delle Olimpiadi cinesi, minuziosamente organizzato e diretto, armonico perché guidato da una disciplina assoluta, forse non è solo una coreografia perfetta. È anche un annuncio: lavorerete così...
2. Il salario della paura Il lavoro è il nemico. È la causa della crisi, anzi di tutte le crisi. Il suo costo è sempre troppo alto, il suo rendimento (la sua produttività) è di impaccio all’impresa. Si deve tenere a bada questo nemico. Spaventarlo e sottometterlo.
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3. L’impero della solitudine
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Il progetto consiste nel fare il vuoto intorno al lavoro, screditare chi lo difende. Conservatori sono coloro che si oppongono alla distruzione del posto e della paga. Moderni e innovatori coloro che non esitano a «far pulizia».
4. Dove muore il lavoro
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La vicenda Alitalia è diventata teatro esemplare. Escono dirigenti rovinosi, liquidati con somme astronomiche. Entrano nuovi padroni, con nuove esigenze e nuove regole. Primo: pagare, meno lavorare di più.
5. La fabbrica dei fannulloni
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Torna l’eroe sovietico Stachanov. Torna come protagonista di uno strano mondo capitalistico rovesciato, che, invece di premiare gli eroi del lavoro, cerca piccole vittime da mettere alla gogna.
6. Purtroppo l’azienda preferisce personale più giovane
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La guerra all’ultimo sangue tra i «giovani», che non riescono a entrare nel mondo del lavoro, e i «vecchi», che ingombrano il passaggio, non è che il dato tangibile di un’economia «da campo» che monta e smonta in fretta le sue attività con tecniche da spettacolo.
7. Il tempo vuoto Eravamo abituati al tempo di lavoro e al tempo libero, al tempo pieno e al part-time, al tempo rigido e a quello flessibile. Ma la fine del lavoro e il fallimento della scuola stanno creando «tempo vuoto»: il tempo del bullismo, della nuova violenza razziale e politica.
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8. La prostituta in questione
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Un giorno di ottobre del 2008 il ministro degli Interni della Repubblica italiana, dovendo spiegare perché una giovane donna nera seminuda giaceva a terra coprendosi il volto in un ufficio di polizia, ha ripetuto continuamente la parola «prostituta» per indicare la ragazza. Non ha fatto mai il nome della vittima. È iniziata la nuova epoca della rozza brutalità del più forte.
9. La paga o la vita
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Non c’è mai stato un convegno della Confindustria o dei Giovani Imprenditori dedicato alle morti sul lavoro in Italia. Eppure ogni giorno gli operai continuano a morire.
10. Il posto
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Si sta formando un nuovo tipo di lavoratori e un nuovo tipo di elettorato. Non emerge nei sondaggi perché è cauto e sornione. È il vasto sottobosco del lavoro che brulica intorno alla politica.
11. La paura della paura
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Il crollo dei colossi finanziari, la ripetuta caduta delle borse, la perdita di fiducia nelle banche generano paura. I governi cercano di creare un argine. Ma quegli stessi governi, per anni, hanno fomentato paura per imminenti scontri di civiltà. Possono i cittadini far fronte ogni giorno a paure così grandi, così fortemente alimentate, così diverse?
12. Alla cieca Non sai quello che è accaduto. Non sai quello che accadrà. Cominci a renderti conto che neppure gli esperti lo sanno, e che i politici fingono di sapere. Conosci solo – di volta in volta – la fine di ricchezze di cui, fra la gente che lavora, nessuno aveva mai partecipato e di cui non si sapeva nulla.
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13. La grande fuga
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La nuova impresa, nel mondo, è prevalentemente finanziaria; sale molto, dura poco, lascia niente. Arricchisce smodatamente i suoi amministratori e gestori, che scappano poco prima del crollo, sempre con i soldi. Mai così tante perdite. Mai così tanti predatori che non pagano il danno.
14. Più Stato, più mercato
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Una conclusione paradossale del disastro provocato dal mercato privo di regole. Ci sarà più Stato, ovvero più denaro, per banche e imprese. Ma i lavoratori ne resteranno esclusi, anche quando si tratta di scuole per i loro bambini e di ospedali per non morire.
15. Uguali a chi?
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Si può credere ancora nel valore dell’uguaglianza, almeno come punto di partenza, garanzia di accesso, libertà di farsi valere? Uguaglianza fra chi? Rispetto a che cosa?
16. Chi ci salverà
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Come risaliremo – in Italia ma anche nel resto del mondo – dal vuoto di fiducia causato dalla rivelazione di un grande imbroglio? È un immane fallimento tecnico, morale, politico. Non saranno i contabili a riportare fiducia.
17. Qualcuno ha detto «pensioni»? Improvvisamente le pensioni irrompono di nuovo nel dibattito politico italiano. Sono tipicamente un argomento caro alla destra, che questa volta viene incautamente proposto da una sinistra in cerca di riconoscimento e modernità. E così la discussione, invece di arricchirsi, si complica.
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18. Il giorno dopo
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Un mondo spaventato e diviso, un’Italia di solitudine e di mille cortei, appassionati e spontanei, ma senza legame, senza un punto di partenza e senza un punto di arrivo. Questa è la scena, ogni giorno. Una promessa e un incubo. Ma cosa porterà domani?
19. Ci sarà un mondo
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Il lavoro è il percorso che rende possibile a masse di cittadini non possidenti di partecipare alla pratica della cittadinanza e alle decisioni della politica. La politica, senza il lavoro, è finita.
Indice dei nomi
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Introduzione La fabbrica a luci spente
Accade di rado che un libro, pensato per raccogliere pensieri e riflessioni sul lavoro, diventi – dopo essere stato scritto e pubblicato – un instant book. Infatti, come il lettore noterà, nel testo non ci sono modifiche, mentre i fatti avvenuti dopo la pubblicazione del libro ne confermano la tesi. Non stiamo parlando di un decennio, ma di appena un biennio. Un autore dovrebbe essere fiero di una simile conferma. Non è questo il caso. La paga è un appello angosciato sul tema «dove va il lavoro». Ecco dove va: a occupare un nuovo ruolo secondario. Un ruolo non necessario, disprezzato, malpagato. O così o niente e chi non ci sta è un sovversivo. Solo i sindacati arrendevoli hanno un posto intorno al tavolo delle trattative; dove, comunque, non si tratta. Si accetta. Gli altri – i sindacati che insistono e, secondo la legge e la Costituzione, svolgono il loro ruolo e vogliono essere ascoltati – vengono messi alla porta. Esclusi dalle trattative di fabbrica, esclusi dai negoziati di governo, esclusi dall’attenzione dei partiti. Fuori i sindacati «eversivi» (cioè quelli che intendono essere una vera controparte), fuori gli operai che hanno commesso l’errore di aderire a quei sindacati. Tutto questo accade ora, mentre io scrivo e voi leggete. Accade anche in un’azienda in cui ho lavorato. Fiat. Fabbrica di Melfi. Tre operai sono stati licenziati. Svolgevano attività sindacale e – a nome del loro sindacato (Fiom) – si stavano opponendo a nuove e rigidissime regole improvvisamente introdotte (non oltre dieci minuti per la mensa; straordinari di sabato non pagati). La loro protesta è stata dichiarata «boicottaggio». La legge italiana prevede un giudice del lavoro. Il giudice ha interrogato, esaminato, indagato e ha emesso il verdetto: «Non c’è stato alcun boicottaggio, ma un esercizio del diritto costituzionale di sciopero. Gli operai dovranno essere reintegrati nel posto di lavoro». In passato il
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verdetto del giudice sarebbe stato applicato. Oggi non più. Non sono cambiate le leggi, ma non importa. Il top manager dell’azienda in persona, un dirigente noto nel mondo e reputato da molti un grande innovatore, ha deciso – con fermezza e arroganza degna dei tempi di Dickens – che i tre operai non contano. Si può anche allungar loro la paga, se il giudice insiste, ma non si sognino di tornare sul posto di lavoro. Uno sciopero che altera i tempi rigidi della fabbrica, decisi dalla proprietà-management, non deve essere né ammesso, né tollerato. Dunque non contano il giudice, la Costituzione, la Repubblica italiana. Conta la volontà inflessibile di un capo. Il caso avrebbe dovuto diventare di estremo rilievo per i giornali, per i sindacati, per i partiti, per gli esperti del lavoro. L’attenzione di tutto il Paese doveva essere rivolta alla decisione di un potente rappresentante della classe dirigente italiana contro la Giustizia, contro lo Stato, contro cittadini tutelati dalla legge. Ma non è stato così. I media si sono distratti. I sindacati si sono divisi, alcuni pronti a obbedire al potente e a combattere l’ultimo sindacato che resiste. Gli esperti del lavoro hanno tutti (meno uno, Luciano Gallino) abbracciato la parola chiave «innovazione», che vuol dire: «Ha ragione l’impresa. Se l’impresa è scontenta, dobbiamo essere scontenti tutti». I partiti – anche quelli d’opposizione – sembrano persuasi che il «lavoro» sia piombo che rallenta la grande marcia verso la modernità. Nessuna marcia è in corso, ma il messaggio resta e la parola d’ordine passa in fretta: tollerare le manifestazioni di solidarietà, purché siano poche, locali e brevi. Nessuna vicinanza (che non porta bene) con i sindacati, trasformazione delle rivolte in casi umani. Far sapere con storie da brividi che i veri rischi li ha corsi l’impresa. Le storie commoventi non devono invadere lo spazio razionale della politica e oscurare le esperienze della parte produttiva del Paese. E viene ribadito che «senza fabbrica non ci sono diritti». Se necessario, tutti dalla parte della fabbrica! Come si vede, il cambiamento è grande e molti se ne sono accorti. Sono troppi i precari, troppi coloro che non sono ancora entrati nel lavoro, troppi i «randagi» abbandonati per strada dalle aziende (leggere, veloci e dirette altrove, magari in Serbia) perché la nuova cultura passi inosservata. Chi ha ancora speranza è prudente. La nuova classe dirigente di questo Paese è ostinata e vendicativa. Chi non ha più speranza è afono: i media hanno tagliato le corde vocali della protesta. Ma hanno lasciato intatto il colore di marce e raduni dei
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disperati, tra feste di partito, consacrazioni delle ampolle di acqua del Po a Venezia e raduni di Porta Pia con bersaglieri e monsignori a Roma. La festa non è finita. La festa è un’altra e non riguarda il lavoro. «Se non c’è la fabbrica non ci sono i diritti» è il motto del momento. Si traduce: «Lasciate fare all’impresa, che sa cosa è bene e che cosa è male». Se l’impresa si difende, fa del bene a tutti. Ai consumatori, che troveranno il prodotto al prezzo giusto. Al mercato, perché tra imprese messe al sicuro trionferà la concorrenza. Ai prestatori di opera che hanno, o almeno potrebbero avere, la probabilità di trovare lavoro. È una considerazione reputata logica, utile nel difficile momento dell’economia, equa e, anzi, protettiva nei confronti di chi ha un lavoro e teme di perderlo, e di chi il lavoro lo cerca con ansia e paura. È logica anche per gli esperti del Pd (un partito che, più di ogni altro, dovrebbe essere «del lavoro»). Questa è la chiave con cui comprendere la nuova politica industriale e che esperti del mondo del lavoro definiscono «innovazione». Una «innovazione» che libera l’impresa dalla «rigidità» nemica, per definizione, dell’innovazione. E la libera anche dal dovere di mantenere gli impegni presi, mettendola al riparo dalle bufere di concorrenza, di mercato, di ricerca, di azionariato e di Borsa. Avete mai notato che l’opinione pubblica non viene mai coinvolta nel dibattito sull’organizzazione delle imprese, ma solo sulla «questione lavoro»? L’unico fattore di crisi che costringe a chiudere e delocalizzare è sempre e solo il lavoro. La storia del mondo industriale democratico non annovera aziende affondate a causa del costo del lavoro. Semmai, nel passato, ci sono state iniziative degli azionisti o dei governi per frenare i compensi troppo alti dei manager, come la Ford degli anni ‘40, che metteva un tetto agli stipendi (non più di trenta volte la paga del fattorino) o la politica-sogno di Adriano Olivetti che indicava ai suoi dirigenti una differenza minore («in fabbrica si vive insieme») e non ha mai avuto un’ora di sciopero. Adriano Olivetti non è mai stato accettato come membro della Confindustria, perciò ha mancato una quantità di convegni di industriali e figli di industriali sugli esorbitanti costi del lavoro. L’azienda Olivetti faceva profitto e – molti decenni prima di Marchionne e senza un dollaro del contribuente americano – ha comprato una grande azienda statunitense e ha iniziato la costruzione del primo grande calcolatore elettronico europeo. Tutto interrotto dalla sua morte e dalla fine della «fabbrica
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orizzontale», dove il lavoro conta come la ricerca e come il capitale. Dopo una violentissima crisi economica che si è abbattuta su un’Europa senza teorie economiche e senza idee politiche e un’Italia senza governo, la proposta è di uscire dalla crisi facendo esattamente l’opposto dell’America del New Deal. Che cosa vuol dire New Deal? Vuol dire futuro, fiducia (non fiducia in astratto, ma gli uni negli altri) e comunità (siamo insieme, o tutti o nessuno; il Paese sono le sue fabbriche e ogni fabbrica è il Paese). Che cosa accade adesso in Italia? Non solo non ci sarà un New Deal, ma non ci sarà niente. Anzi, per evitare equivoci è stato cancellato ogni patto precedentemente concordato. Via i contratti nazionali. Via le regole discusse e negoziate da una parte e dall’altra, ovviamente con l’intento umano e civile di proteggere la parte più debole, quella non può ogni volta presentarsi in fabbrica con una batteria di avvocati, come la controparte padronale. Il nuovo slogan è «basta con la lotta di classe», ora che per lotta di classe si intende il contratto che norma i rapporti tra inquilino e padrone di casa (legge necessaria per evitare che il più forte dei due ne approfitti). Nel caso della fabbrica, con «fine della lotta di classe» (una classe che non c’era, ma c’erano, come confermano i codici, parti e controparti con molti interessi diversi e uno grande, comune: il lavoro) una parte tace e l’altra è libera di iniziare il grande monologo. Vanno bene dieci minuti per la pausa mensa? Va bene andare in bagno due volte invece di tre? Va bene fare straordinari la notte e il sabato senza retribuzione? Va bene fare o non fare, o interrompere le ferie, sempre a titolo di donazione del prestatore d’opera alla fabbrica? Non devi rispondere. Se parli, disturbi la produzione e potresti essere accusato di sabotaggio. La pena è il licenziamento. E se il giudice – ancora fermo a vecchie leggi ancora non abrogate – annulla il licenziamento, alla controparte che recita il monologo non interessa. La controparte è avanti, è nel futuro, è con l’innovazione, confortata dal fatto che anche la (ex) sinistra chiami innovazione l’abolizione dei diritti. Dunque, giudice o non giudice, vi possiamo passare la busta paga attraverso la porta, ma dovete restare fuori. Per buona misura interviene il settimanale Panorama (9 settembre 2010) con una copertina inedita nel giornalismo italiano. La forza di un periodico da milioni di copie, di proprietà del capo del governo, viene scagliata contro tre operai da mille euro al mese. È una gogna mediatica con la fotografia dei colpevoli e il titolo «Gli eroi bugiardi». L’accusa è reato di sabotaggio, un’accusa che dà dello stupido (e del comunista) al giudice e assicura ai tre operai la proscrizione da ogni altro posto di lavoro in Italia. Ma tutto trova la sua giustificazio-
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ne nel nuovo motto da issare ai cancelli: «Se non c’è la fabbrica, non ci sono i diritti». Il messaggio è chiaro: o cedi o finisci sulla copertina di Panorama. Ma c’è un altro aspetto inquietante. La frase resta intatta se rovesciata: «Se non ci sono diritti, c’è la fabbrica». Sul posto di lavoro non c’è spazio per i diritti costituzionali di cittadino. La fabbrica è extraterritoriale. Si fa secondo le regole che vigono nel suo territorio. Chi si ribella è accompagnato subito alla porta. Ora ditemi se tutto il mondo di persone, un tempo chiamate lavoratori, deve rassegnarsi a vivere senza un sindacato (l’immagine della Fiom è peggiore di quella di Vallanzasca), senza un partito (vedi la cauta astensione del Pd), con la sola scelta di obbedire. Rischiando il linciaggio pubblico in caso di protesta. Sono saliti sulla gru, quaranta metri nel cielo. Perché a loro la questione sembrava enorme, innescata da un annuncio incomprensibile: chiudere la Fincantieri di Genova, spegnere il porto e renderlo soltanto un terminale di carico e scarico merci. Non è possibile? È assurdo? L’avete capito o no? Se non l’avete capito noi andiamo lassù, che è freddo e pericoloso. Ci sarà la televisione e tutti capiranno! Ma dopo un po’ sono scesi. Perché non c’era nessuno. Sono scesi da ex operai che non smetteranno di battersi. Come a Pomigliano. Come all’Asinara. Ogni tanto un giornalista li va a trovare. Intanto i tre operai Fiat licenziati a Melfi per attività sindacale, reintegrati dal giudice, tenuti a distanza dalla fabbrica perché non hanno soldi e avvocati per querelare Panorama che li ha messi in copertina. Infatti il comitato di redazione di quel grande settimanale politico non ha avuto nulla da dire sull’idea di schiacciare tre operai da mille euro al mese sotto il peso del suo potere mediatico. E adesso quei tre vanno in giro a dire ai colleghi: «Tra poco tocca a voi». I colleghi, che una volta si chiamavano compagni, ora stanno zitti e a testa bassa sul lavoro, finché glielo lasciano fare. Alla Festa nazionale del Partito democratico, nessuno, tra i tanti aspiranti leader, ha detto: «Siamo noi il partito che difende quei lavoratori». Ma la frase è troppo vecchia, troppo socialdemocratica, niente di più superato in tempi di innovazione. Tutto è confermato: niente sindacato e niente partito. Del giudice che restituisce il posto di lavoro si può ridere. Roba passata. Una volta ci si appellava alla Chiesa, alla Rerum Novarum, alla Caritas. Oggi il cardinale Bagnasco marcia fiero alla testa dei bersaglieri, il 20 settembre 2010, giorno delle celebrazioni di Porta Pia. Non
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insistete con il piagnisteo dei senza lavoro. Il mondo è cambiato. Le strade sono piene di lavoratori randagi, abbandonati dal padrone. E, se lo dici ad alta voce il padrone si arrabbia. Leggo dalla Stampa, il 22 luglio 2010: «Un secondo trimestre “eccezionale per il gruppo” Fiat, che “ha superato quasi tutte se non tutte le attese del mercato”. Nel quartier generale della Chrysler ad Auburn Hills (Detroit), dove si è svolto martedì in tarda serata il primo Cda del Lingotto in America presieduto da John Elkann, l’Ad di Fiat, Sergio Marchionne, è molto sicuro di sé. Fuma, beve caffè e snocciola dati agli analisti che ascoltano la conference call: l’utile della gestione ordinaria è più che raddoppiato […], i ricavi sono in rialzo […], l’utile netto è stato di 113 milioni […]. Ma quel che sorprende gli analisti è anche il dato del debito, ridotto di un miliardo […]. E ora Fiat ha in cassa una liquidità record […]. Numeri così non hanno sorpreso solo gli analisti, ma anche gli investitori in Borsa. È così a piazza Affari, il titolo Fiat ha segnato un rialzo del 6,74». Fotografie di manager ridenti e di linee di montaggio indaffarate a tener dietro al mercato in ripresa completano la pagina della Stampa giustamente dedicata all’evento. Ma perché i dirigenti Fiat, proprio mentre preparavano quell’insieme di buoni dati che hanno stupito il mondo, a Pomigliano hanno cacciato tre operai da mille euro che avevano partecipato a una protesta? Perché proprio quel giorno è stato annunciato che gli operai di Mirafiori non avranno alcun premio di produzione, che la nuova auto Fiat (il modello Zero) sarà prodotta in Serbia e non a Torino? «Se venisse confermata la volontà di portare la Zero in Serbia, si negherebbero tutti gli impegni della Fiat con i sindacati.» È la voce solitaria del rappresentante della Fiom, parte della Cgil, uno dei tre sindacati, forte e autorevole controparte del padrone almeno fino a quando Cisl e Uil sono diventati mutanti, come in un racconto di fantascienza: stesso corpo, nuova anima. Hanno deciso, non si sa se i loro iscritti ma certo i loro leader, di diventare sindacati bonari, che esultano ogni volta che l’imprenditore indurisce le regole. Ma l’operazione non è bonaria. I sindacati sono divisi al punto che per ogni nuovo diritto negato questi mutanti danno la colpa all’unico sindacato che resiste. Le componenti politiche a cui i due sindacati «buoni» si ispirano (già socialiste, già democristiane) sono confluite nel Pd e sono attive ora nel tagliar fuori Fiom e Cgil, in modo da relegarle all’area isolata della estrema sinistra italiana. «Noi non possiamo difendere solo la Fiom» dicono desolati quelli del Pd. L’isolamento di tutta la Cgil è grande e cresce. È un isolamento bene
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organizzato, accompagnato da eventi pesanti. In un grande comizio, il segretario Cisl Raffaele Bonanni, insieme al collega della Uil Luigi Angeletti, grida alla folla: «Dieci, cento, mille Pomigliano». Celebra, con i suoi iscritti e con quelli della Uil, la vittoria della Fiat (9 ottobre 2010) sui lavoratori. Il giorno dopo il ministro Maurizio Sacconi dichiara che i due sindacati buoni formano, insieme, il più grande sindacato italiano e che, dunque, non c’è più bisogno della presenza della Cgil (che, fra i tre, è il sindacato più grande) al tavolo delle trattative. Intanto, sui muri di Milano, compaiono scritte minacciose contro Bonanni e Angeletti seguite da stella rossa a cinque punte. L’evento allara, viene filmato, fotografato, mostrato in ogni possibile telegiornale e diventa il nuovo capo d’accusa contro Fiom-Cgil. Vedete dove porta l’estremismo. Quanti giorni sono trascorsi tra la notizia della fabbrica Foxcomm di Shenzen (Taiwan) e la notizia della fabbrica Fiat di Pomigliano d’Arco (Italia)? Conto dalle date del Corriere della Sera: Shenzen, 3 giugno 2010. Pomigliano d’Arco, 12 giugno. Meno di dieci giorni. Che cosa accomuna i due diversi luoghi di lavoro in due parti così lontane del mondo? Hanno in comune una realtà (Shenzen) e un progetto annunciato e imposto (Pomigliano) di organizzazione del lavoro radicalmente nuova. Si chiama wcm (World Class Manufacturing), elimina tutti i tempi morti e si fonda sui 6 zero (zero difetti, zero stock, zero tempi morti, zero conflitti, zero attesa per i clienti, zero uso di carta per comunicare) e sui sette sprechi (sovrapproduzione, tempi inutili, lavoro a vuoto, troppo magazzino, movimenti non necessari, pezzi difettosi, attesa). In Italia questo cambiamento del modo di lavorare e dunque di vivere (eccetto i minuti in cui si mangia e le ore in cui si dorme) sta provocando elogi smodati, come se il lavoro operaio senza intervalli e senza soste fosse una nuova fonte di energia rinnovabile. In Italia, si fa notare con un brillìo di entusiasmo, l’operaio farà, per ogni gesto cronometrato, solo pochi passi, anzi un passo solo (non sprechiamo tempo) e una torsione del busto (ti volti appena per afferrare il pezzo o strumento utile). In Italia c’è chi sta annunciando che il futuro è già cominciato, ovvero: chi deve lavorare lavora, quasi senza muoversi dai due metri di vita quotidiana che gli spettano, e il resto è riservato ai dirigenti, agli azionisti, ai fornitori, ai clienti serviti in tempo, ai consumatori soddisfatti.
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A Shenzen la scena è identica, la produzione va a gonfie vele, il profitto è al top. Apple, l’azienda informatica, ha appena annunciato di avere superato Microsoft. La quantità di prodotti venduti si conta a milioni, il profitto a miliardi. Con due particolari che vale la pena di notare. I lavoratori hanno gradatamente superato le sessanta ore di lavoro settimanale (standard, per la Foxcomm), mangiano in dieci minuti, dormono in speciali locali messi a disposizione dalla azienda che evitano i tempi morti per andare e venire da casa. A Shenzen l’unico errore dei razionali pianificatori del lavoro sembra essere stato l’avere collocato i dormitori all’ultimo piano dell’edificio-fabbrica. Dall’inizio di gennaio dodici operai si sono uccisi buttandosi dal tetto. L’ultimo, Yan Li, anni ventisette, si è suicidato proprio mentre Steve Jobs, l’azionista di maggioranza della Apple, celebrava la produzione del primo milione di iPad. A Shenzen c’è una grande libertà su come aprire, chiudere, condurre e organizzare la fabbrica, che ovviamente riguarda solo i padroni. La Foxcomm, nel tempo libero dalla produzione per la Apple, lavora allo stesso ritmo entusiasta per Bell, Nokia, Hewlett Packard. A Shenzen nessuno si è mai sognato di chiudersi nella gabbia dell’art. 41 della Costituzione italiana. Nessuno deve aprire un tavolo con i rompiscatole della Fiom o ascoltare i dubbi della Cgil, anche se poi a qualcuno saltano i nervi. E siccome, una volta imparato con razionalità e rigore il nuovo metodo wcm, i nervi saltano anche agli operai francesi della Telecom, che si uccidono con un ritmo doppio dei colleghi cinesi, forse una controprova della perfezione multietnica della nuova organizzazione del lavoro è necessaria. Marchionne però ci crede e ha persuaso mezza Italia, senza troppe distinzioni fra destra e sinistra. Si sta diffondendo il principio (ricordate il Catalano di Arbore?) che è meglio avere un lavoro che non averlo, facendo apparire tutto sbrigativo e moderno. Dopotutto anche per la galleria del Frejus ci sono stati dei morti, e infatti hanno il loro bel monumento a Torino. È il lavoro, bellezza. Come in ogni buon thriller, ci sono storie marginali che rafforzano il plot. Una ce la presenta il ministro Tremonti. Sostiene il ministro che le aziende continuano a subire troppi controlli e ad avere bisogno di troppi permessi e verifiche per esistere e per organizzare il lavoro (art. 41 della Costituzione). Per questo restiamo sempre in coda ai paesi che attraggono capitali stranieri. Tremonti sembra non sapere che negli Stati Uniti non puoi ristrutturare un appartamento senza tre permessi da tenere sempre in vista: dei vigili del fuoco, dell’ufficio comunale per le costruzioni e l’assicurazione contro gli infortuni di ciascuno degli
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operai che lavorano per te anche se per un solo giorno. Tremonti sembra non sapere che a New York, se hai un bambino sotto i dieci anni, sei tenuto a mettere sbarre alle finestre anche nel più elegante appartamento di Park Avenue, e i controlli sono frequenti e implacabili. Tremonti sembra non sapere che, prima di iniziare qualsiasi attività imprenditoriale, devono essere date notizie chiare su ambiente, materiali, condizione sanitarie dei vani, uscite antincendio, scale, finestre, prese e qualità dell’aria, materiali infiammabili, destinazione delle scorie. Il principio dell’ex post commuove pochissimo le autorità cittadine americane che, pur sensibili alle esigenze di impresa, vogliono vedere, sapere e certificare prima, non dopo. Ma in questa Italia la sinistra non ce la fa a lasciare sola la destra. E così, accanto a Tremonti, ma con la sua piena autonomia accademica, compare il professor Pietro Ichino, il quale sostiene: «Questo gravissimo difetto del nostro sistema delle relazioni industriali, non è la sola causa della scarsa attrattività dell’Italia […]. Ma molti osservatori qualificati lo considerano come una delle cause principali, insieme alla complessità, ipertrofia e incomprensibilità del nostro diritto del lavoro […]. Nel momento in cui ci proponiamo di curare il “male oscuro” che da due decenni impedisce al nostro Paese di crescere» (Corriere della Sera, 14 giugno 2010). Naturalmente Ichino sta dicendo: sbrigatevi a firmare a Pomigliano e a Mirafiori. Cominciate a piegarvi nelle posizioni prescritte da wcm o gli stranieri (in questo caso Marchionne, forse perché è di origine canadese) se ne vanno. Posso aggiungere qualche ragione che pesa forse sull’esitazione delle imprese straniere a investire in Italia? Uno: l’incertezza fiscale. Due: la bizzarria di leggi e ordinanze che cambiano sempre, a seconda che il presidente di Regione o il sindaco della città siano leghisti o di Alleanza Nazionale. Tre: il disastro dei trasporti dal luogo di produzione alla frontiera o al porto più vicino. Quattro: la criminalità organizzata e il suo implacabile wcm (vedi Saviano). Vorrei citare, come riassunto di tutte queste ragioni, un capoverso dell’articolo dedicato all’Italia (vita, lavoro, politica) dall’Economist del 12-18 giugno 2010: «Ma l’Italia non è come altri Paesi; l’Italia è un Paese notoriamente corrotto». Forse la nostra reputazione non si gioca tutta sui tempi di lavoro di Pomigliano. Difficilmente gli investitori stranieri, in un paese con quattro ministri indagati più il presidente del Consiglio rincorso dai giudici, esiteranno a investire in Italia a causa della presunta passione dei lavoratori locali per i mondiali di calcio. C’è una domanda che è rimasta in sospeso. Perché adesso? Perché
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a costo di tanti sacrifici umani? Per cominciare parlo della Fiat. Cito dalla Stampa, giornale che sa. «“A costo di passare per rude” l’Ad di Fiat Sergio Marchionne vuole mettere fine “ad accuse assurde e infinite polemiche”. E dal meeting di Rimini chiede “un patto sociale per condividere gli impegni, le responsabilità e i sacrifici e per dare al Paese la possibilità di andare avanti”.» Dunque è una dichiarazione generale di intenti. Ti aspetti che l’eroe-manager dei Due Mondi ti dica in grande ciò che succede nell’universo globalizzato, dunque ciò che giustifica la sua mesta promessa: «Dare al Paese la possibilità di andare avanti». Ti aspetti la descrizione di quello che deve essere accaduto e che molti – o perché troppo a sinistra nella loro opposizione testarda o perché troppo a destra e dunque ignari del lavoro – non sono in grado di capire. Sergio Marchionne è capo della Fiat e capo della Chrysler, in corrispondenza epistolare con il capo dello Stato italiano e spesso visitato, nella sua nuova azienda oltreoceano, dal presidente degli Stati Uniti. È responsabile di tanta industria di qua e di là dall’Oceano, mentre sale e scende la Borsa in tutti i continenti. Ci si aspetta che questo personaggio, uno che ha visto Mandela, abbandoni i fogli, alzi la testa e guardi i giovanissimi ascoltatori di Rimini radunati a migliaia e dica: «Adesso vi racconto il mondo che vivo e che vedo per dirvi dove siamo e perché adesso succedono queste cose». Invece (mi fido ancora della Stampa, 27 agosto 2010) «“A Melfi Fiat ha rispettato la legge”, puntualizza». Dunque succede questo. Dopo alcuni forti istantanee su imprese, potere, produzione, doveri (non trovo la parola lavoro), il filo solenne del discorso di Marchionne ci porta solo verso i tre operai di Melfi. Certo, non è il numero che conta. I tre potrebbero essere Lenin, Stalin e Trotzski. Ma sono Ragozzino, Lamorte, Pignatelli, operai senza precedenti penali con un po’ di attività sindacale sulle spalle, neanche tanta e nessun assenteismo. Dunque, tutta la costruzione retorica presentata ai ragazzi di Rimini rapiti dall’evento, poggia sul peccato non perdonabile di tre operai. Essi «nel mondo in cui la Fiat viene apprezzata e riceve complimenti da tutti» hanno scioperato. «Il problema è che in Italia manca la voglia e che abbiamo paura di cambiare. In questi giorni c’è una contrapposizione tra due modelli: uno difende il passato, l’altro vuole andare avanti.» Avanti dove? Perchè, a questo punto, Marchionne non condivide la sua visione del futuro con noi? E a chi «manca la voglia», visto che l’isola dell’Asinara, da mesi, è affollata di lavoratori a cui, all’improvviso, hanno tolto la fabbrica?
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Introduzione. La fabbrica a luci spente
Ingenera ansia ma anche spaesamento l’utilizzo da parte di Marchionne di un tono grave, profetico, definitivo. Un tono da ultimatum, che Agnelli e Romiti non si sono mai sognati di usare mentre avevano di fronte non Ragozzino, Lamorte, Pignatelli, tre operai soli al mondo, salvo il cestino-pranzo delle famiglie, ma le Brigate rosse. Forse fa luce un’altra frase dell’editto-Marchionne: «Rifiutare il cambiamento a priori significa rifiutare il futuro». Questa frase è un annuncio oracolare, un verdetto che deve essere interpretato. Ce lo conferma una dichiarazione ferma, assoluta, perentoria del professor Christopher Duggan, esperto dell’Italia presso la Reading University britannica: «Lui (Marchionne) è cresciuto all’estero, conosce l’importanza del confronto, del mercato, della meritocrazia» (Corriere della Sera, 27 agosto 2010). La frase incuriosisce. Mettiamo che Ragozzino, Lamorte, Pignatelli siano buoni e vadano con l’allegro Bonanni invece che con l’aggrottata Cgil. Come farebbero a mettersi in coda per la meritocrazia, dato anche il ritorno frequente della cassa intergrazione? Il richiamo all’estero aiuta. È inutile che fingiamo, noi presunti progressisti e veri conservatori («noi», ovvero chi scrive, qualcuno di voi lettori, i tre operai di Melfi e – finché dura – quel pericolo pubblico di Cgil e Fiom) di non vedere. È passato un ordine, sono cambiate le regole. O così, o si va in Serbia. Anzi, si va in Serbia senza neanche aprire – come si usa dire – un tavolo. È vero che tra due anni, appena ammortizzati i costi del trasloco da Mirafiori, a Belgrado avranno imparato che guadagnano la metà dei colleghi torinesi e si faranno sentire. Ma è la globalizzazione, bellezza. Marchionne ha certo in mente la Manciuria esterna o le steppe dell’Asia centrale, come tappe successive. Però, cari illustri professori della Reading University e manager dei Due Mondi, come i venti intorno alla Terra, la globalizzazione funziona anche in senso inverso. Lo dimostrano le rivolte degli operai cinesi, placate con aumenti del 30 per cento a botta (cito Massimo Mucchetti, Corriere della Sera, 26 agosto 2010). Il mondo, come sanno gli astronauti, è grande, ma non così grande. E chi ha detto che il futuro sarà lastricato di paghe sempre più basse per chi lavora e di bonus sempre più immensi per chi dirige? Succede però che ti raccontino la storia sbagliata. Il 10 dicembre 2010 l’amministratore delegato di Fiat incontra a New York Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, un piccolo evento dalle enormi conseguenze. Marchionne annuncia la sua intenzione di ritirare Fiat da Confindustria. Spiega: «Se mi costringete a scegliere tra Fiat e Chrysler, scel-
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go la Chrysler», che vuol dire: se mi costringete a scegliere la limpida cultura americana del lavoro contro la giungla italiana di intrecci fra leggi e sindacati, scelgo l’America. Strana e azzardata dichiarazione se si ricordano i fatti. La Chrysler, azienda americana dell’automobile, era sul lastrico. Stava iniziando le procedure di cessazione dell’attività. Il presidente degli Stati Uniti (non il mercato) si è presentato con capitale statale e un manager straniero. Perché Marchionne? Un amministratore delegato non è uno scrittore che corre da solo per il Nobel. Marchionne era (ed è, oggi mentre scrivo) il numero uno di Fiat, di tutta la Fiat da Mirafiori a Pomigliano. È considerato autore di una buona organizzazione d’impresa, l’uomo che stava addirittura negoziando l’acquisto, da parte della Fiat italiana, della Opel tedesca. Chi o che cosa garantisce Marchionne, capo di un’azienda non traboccante di capitali? Evidentemente la qualità del lavoro, il modello da portare in America per il salvataggio di un’azienda morente. Dunque come è possibile che in Italia il «lavoro Fiat» sia una zavorra della quale liberarsi, ma nell’America di Obama sia considerato una garanzia da prendere a modello? Però la domanda sul futuro resta, è il vero cuore della questione. Ce lo dice, sul New York Times del 21 agosto 2010, il premio Nobel Paul Krugman: «Coloro che dettano al mondo la politica economica – banchieri, finanzieri, ministri, presunti difensori delle grandi virtù fiscali – si comportano come i sacerdoti di oscuri culti antichi, e chiedono, a ogni svolta, a ogni evento che chiamano “cambiamento”, dei sacrifici umani, come per placare la rabbia di un Dio invisibile». Altrimenti, si chiede il premio Nobel per l’Economia del 2008, «come spiegare che quasi tutto ciò che questi sacerdoti impongono porta continui tagli di bilanci, la disoccupazione che cresce, la Borsa che cade, la gente stordita da nuove rinunce – perdita della casa, della scuola, del lavoro – che non portano frutti? Per questo io chiedo: quando finiremo di fare sacrifici umani al Dio di una élite di presunti esperti che sta rovinando il mondo e ci dedicheremo a sanare l’economia?». Faccio mia la domanda. Dicembre 2010
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Premessa Il lavoro, la salvezza
Il giovane programmatore precario entrò nell’azienda di brokeraggio come sempre alle 7.30, sapeva che l’orario lungo volontario era apprezzato dai capi ufficio e sperava che il suo contratto a termine sarebbe stato rinnovato. Alle 8.30, il supervisor (capo servizio), incaricato della sorveglianza e disciplina del personale al piano 94 del grattacielo (niente telefonate personali, niente uso improprio del computer, monitoraggio del tempo di uso del bagno e delle due macchine dell’acqua fredda e del caffè) si accostò al programmatore già intento al lavoro e lo informò sottovoce della fine del suo contratto. Spiegò che avrebbe ricevuto assegno e lettera di congedo per posta e gli suggerì di lasciare sul tavolo di lavoro la foto dei bambini, i giornali, il vasetto col fiore finto. «Provvederemo a tutto noi» assicurò, aggiungendo una raccomandazione con il tono che non incoraggiava alcuna contraddizione. La raccomandazione fu di evitare annunci e saluti ai colleghi: «È deprimente per il rendimento degli altri. Si comporti come se andasse in bagno». Il giovane programmatore precario ritenne prudente seguire le istruzioni. Uscì a mani vuote, si diresse verso il bagno, poi all’ascensore (famoso per i 100 piani in 20 secondi) e si avviò lungo la strada, che in quel punto si chiama West Broadway, in direzione della stazione della ferrovia sotterranea. In quel momento qualcosa accadde alle sue spalle: crollò la torre di 104 piani da cui lo avevano appena licenziato. Quando si voltò, vide un’immensa nuvola nera. Come tutti si mise a correre, senza sapere dove, il più lontano possibile. Erano le ore 8.45 del giorno 11 settembre 2001, presso le Torri Gemelle nella zona sud di Manhattan detta «Battery». F.C.
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1. Il call center dell’universo
Quando la Cina ha svelato le immagini del rito di inaugurazione delle sue Olimpiadi è avvenuto qualcosa di grandioso e strano. Si è detto che mai giochi olimpici sono stati aperti in modo tanto insolito e spettacolare, ed è vero. Si è detto che la sequenza di effetti visivi è stata molto bella, sorprendente, diversa. A questo punto però i giudizi si sono fatti generici, hanno puntato sul lato estetico, su sincronizzazioni, effetti sonori e colori. Dopo aver letto molto, visto molto e ascoltato molto attraverso stampa e televisioni del mondo e rivisitazioni in rete, l’impressione è che i commentatori si siano tenuti a distanza, come in prossimità di una grande fiammata, o di una voragine causata dall’apertura improvvisa di un enorme sipario. Il controllo ferreo dell’evento ne garantiva la perfezione, ma creava sbigottimento negli spettatori di tutto il mondo. La Cina, con i suoi millenari segreti di dinastie, rituali sociali e pratiche di potere, per la prima volta ha mostrato qualcosa di sé, si è rivelata. Per la prima volta ha voluto farci vedere – nel più efficace dei modi, nel più bello e nel più meraviglioso dei modi – come si intrecciano i fili del suo lungo passato, in modo da arrivare a oggi. Una forza che diventa bellezza attraverso un
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immenso gioco di controllo dei numeri che significa annuncio, potenza, minaccia. La minaccia arriva – persone e fuochi e improvvise visioni dall’alto – così avvolta nella sorpresa da essere scambiata per meraviglia. La meraviglia scatena l’ammirazione. È già accaduto altre volte – anzi è tipico – ammirare la rivelazione della potenza. C’è un rapporto stretto e antico fra potenza e bellezza, e quel rapporto è stato minuziosamente calcolato nella concezione, regia, esecuzione del grande gioco. Tutto ciò ha provocato emozione, e l’emozione scatena ricordi, stranamente sconnessi e di natura diversa, ma curiosamente concordi. Ricordi non come chiave di interpretazione, ma come segni e risvegli provocati dalla meraviglia. Uno è lo scavo aperto dei guerrieri di Xi’an, le 8000 statue di terracotta di fanti e cavalieri – di straordinaria bellezza e di proporzioni perfette, sepolte in un’immensa tomba insieme all’imperatore – scenario che lascia sempre con il cuore in gola. Uno è la piazza del discorso di Hitler a Norimberga, la fiaccolata, la perfetta sincronia delle truppe e della folla, delle ovazioni ritmate. Uno, ancora, è la maestosa parata delle razze prima dell’apertura di tornei e battaglie mortali fra i guerrieri dell’impero di Ming, nell’indimenticata storia a fumetti di Flash Gordon, scritta e disegnata dal profetico Alex Raymond. So che sto montando insieme in un’unica sequenza scene diverse, ma a volte non è un errore lasciare briglie sciolte alla memoria. Ciascuno dei tre ricordi assume un suo senso mentre cerco di mettere ordine nelle emozioni del grande spettacolo cinese che, sostengo, sia molto più di uno spettacolo. Le statue di Xi’an sono tutte uguali, tutte belle, tutte giovani, tutte sacrificabili a qualcosa che non è la gloria personale dell’imperatore, ma è quella della Cina con la sua vastità e la sua disponibilità infinita di persone uguali, belle, giovani, sacrificabili. Non per crudeltà di un imperatore, ma perché così funziona un impero. La piazza del discorso di Hitler evidenzia come quantità, disciplina, potenza siano un annuncio drammatico da prendere sul serio, senza scambiare il primitivismo militare in sce— 16 —
1. Il call center dell’universo
na a Norimberga con la raffinata concatenazione di tempo, spazio, forza, corpo e mente del computer. L’impero di Ming sottolinea che la grande sfida dell’atleta cinese è ormai lontanissima dall’impegno estremo ma senza vincoli dell’atleta greco, il più libero, il più individuale fra gli uomini. Questo gioco grandioso, collettivo, all’ultimo sangue, è adesso sincronizzato con i motori di un’economia fondata sull’armonia, sul numero e sulla potenza. Veder sfilare il «carro» dei bambini delle diverse razze dell’impero è stato un momento di struggente tristezza sia pure mischiata all’ammirazione per uno spettacolo di una bellezza rara, persino eccessiva. Non era un carro trionfale, eppure i bambini sembravano piccoli, splendidi prigionieri di un immenso sistema interiorizzato dalla nascita: Confucio e il computer. Alcuni anni fa ho pubblicato un libro sulle conseguenze sociali dell’informatica, Confucio nel computer. Non pensavo alla Cina, pensavo a ciò che stavo sperimentando e verificando mentre vivevo in America. Sostenevo che, tra gli strumenti inventati in ogni tempo, il computer non era quello che avrebbe assecondato l’individuo più da vicino nel percorrere la strada liberamente scelta. Con i computer si intrecciano le maglie di una grande armonia che trasmette impulsi su una scala universale mai prima conosciuta. Il sistema così creato assorbe e sprigiona energia collettiva attraverso un comportamento «insieme», in cui il gruppo prevale sull’individuo in modo dominante. In questo intreccio percepito come spontaneo, in questa armonia collettiva vissuta come realizzazione di sé, mi era sembrato allora di riconoscere la cultura confuciana. Per Confucio l’armonia è comportamento buono in quanto comune a tutti, comportamento realizzabile soltanto attraverso l’armonia stessa. Che cos’è un call center, con i suoi giovani lavoratori precari, disciplinati e ben armonizzati, se non un «Confucio center», in cui conta solo il lavoro comune, ai fini di un risultato collettivo? L’inaugurazione dei giochi olimpici di Pechino delle ore — 17 —
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8.08 di sera del giorno 8, del mese 8, dell’anno 2008 è apparso come il più straordinario e grandioso call center dell’universo. L’inaugurazione di un mondo in cui si è addestrati e pronti, con corpi simili e con lo stesso rigoroso e perfetto training, a colpire in un certo modo con gesti semplici, antichi e perfetti, che lo strumento nuovo, il computer, trasforma in un colossale lavoro produttivo. Nel grande show a Pechino sul futuro del lavoro c’è chi batte i tamburi, chi passeggia in cielo, chi compone la sfera terrestre, chi la sorvola, chi scompare nell’ombra e poi torna a risplendere in un succedersi perfettamente calcolato dei secondi. L’organizzazione ha voluto dirci quasi esplicitamente di essersi attenuta a Confucio, alla sua religione, alla sua filosofia e alla sua politica. Il richiamo a Confucio serviva per rendere percepibile l’aspetto più sorprendente, più nuovo, più rivelatore del maestoso spettacolo. Questo: qui ci sono migliaia e migliaia di persone insieme, qui c’è un’armonia mai prima immaginabile, che propone come esempio l’universo, ma nessuno, qui, compie lo stesso gesto. La segmentazione della diversità è, allo stesso tempo, individuale e di massa, misurata alla perfezione in ogni istante, in un margine di tempo che in questo spettacolo-esempio è di ore, ma può benissimo durare tutta la vita. Ciascuno compie un gesto, un suono, un passo, dissimile da quello dell’altro; i movimenti, con il subito prima e il subito dopo, costruiscono una sequenza totalmente individuale, immensamente armoniosa, e producono un sincronizzato effetto di potenza. Si manifesta la grande rivelazione, l’aggancio fra una filosofia secolare e lo strumento degli ultimi anni: Confucio e il computer. Il confluire di tante forze individuali in cui ciascuna si realizza diventando tutto, e perciò esiste. Armonia è la parola insieme rassicurante e terrificante. Definisce il risultato grandioso e stabilisce il percorso senza deviazioni con cui si raggiunge questo risultato. L’armonia non lascia spazio ad alcuna forma di disordine, ad alcuna violazione anarchica, seppur minima, delle regole. — 18 —
1. Il call center dell’universo
Si risale di qui al grande contenitore, l’autorità. Nel momento in cui si realizza il più alto risultato coreografico del lavoro collettivo – fondato su autorità e armonia, regolato nei minimi dettagli – in quel momento l’autorità del gruppo e il suo controllo totale su ciascun frammento di vita individuale mostrano il loro formidabile risultato. Questo risultato non può che portare esaltazione, orgoglio, benessere a chi ha saputo farne parte, perché ciascuno non è una piccola frazione di quel risultato ma, secondo il credo confuciano, tutto quel risultato. Oggi quel tutto è possibile, immediato, visibile, capace di imporre la grandezza in tutta la sua portata perché il computer ha permesso di realizzare un progetto finora solo sognato. Il resto è disordine. La grande scena dell’apertura dei giochi annuncia che l’autoritarismo cinese non è alla fine, ma al principio del suo dominio. Soprattutto sul lavoro. Ciò che abbiamo visto, in parte film, in parte gioco astratto di forme e di luci, in parte performance da fantascienza, in parte richiamo abile e ricco di antichi sogni, grandiosi ma pretecnologici, non è metafora della realtà, ma rappresentazione della realtà. Della realtà potrebbe far parte la guerra, ma nello stadio a nido d’uccello l’8 agosto 2008 non c’era un messaggio belligerante. C’era piuttosto lo sfarzoso annuncio dell’enorme balzo in avanti con cui il computer connette gli individui di ogni età (mai così tanti bambini dentro le maglie del grande spettacolo-realtà) attraverso tutti gli stadi della formazione e li rende tutti in grado di produrre a livello perfetto, in quantità pari alla moltiplicabilità di quei gesti di produzione (come il computer), cioè in infinita misura. Confucio ha trovato il computer e il computer – se l’autorità è perfetta e il gioco della partecipazione fanaticamente spontaneo – dà il risultato immenso di un modo di vivere, apprendere, lavorare, produrre prima inimmaginabile. La carcassa del marxismo giace sul bordo di una strada ormai abbandonata. Ma l’allegra sfida al capitalismo e alla sua presunta ossessione democratica (un uomo, un voto, un lavoro, un premio) è ormai lanciata. Si sono aperti i giochi olimpici. Ma anche i giochi di sopravvivenza nel futuro. Il futuro del lavoro. — 19 —