Paul Bloom
La scienza del piacere L’irresistibile attrazione verso il cibo, l’arte, l’amore Traduzione di Bruna Tortorella
La casa editrice, esperite le pratiche per acquisire i diritti di riproduzione delle immagini, rimane a disposizione di quanti avessero a vantare ragioni in proposito. www.saggiatore.it Š Paul Bloom, 2010 Š il Saggiatore s.p.a., Milano 2010 Titolo originale: How Pleasure Works: The New Science of Why We Like What We Like
La scienza del piacere a mio padre, Bernie Bloom
Sommario
Prefazione 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.
L’essenza del piacere Prelibatezze Bedtricks: scambi tra le lenzuola Insostituibili Performance Immaginazione Sicurezza e dolore Perché il piacere è importante
Note Bibliografia Indice analitico
9 15 37 63 95 117 151 171 195 213 227 251
Prefazione
C’è un aspetto animalesco nel piacere umano. Quando torno da una corsa con la mia cagnetta, io crollo sul divano e lei sulla sua cuccia. Io bevo un bicchiere di acqua fresca, lei lappa dalla sua ciotola, e siamo entrambi molto felici. Questo libro parla di piaceri più misteriosi. Ci sono adolescenti che amano tagliarsi con il rasoio, e uomini che pagano profumatamente per essere sculacciati da una prostituta. L’americano medio passa più di quattro ore al giorno davanti alla televisione. Il pensiero di fare sesso con una vergine eccita enormemente molti uomini. L’arte astratta può essere venduta per milioni di dollari. I bambini piccoli si divertono a giocare con amici immaginari e trovano conforto in una coperta di sicurezza. Gli automobilisti rallentano per guardare un incidente cruento e c’è chi va al cinema per piangere. Alcuni dei piaceri di cui parlerò sono esclusivamente umani, come quello per l’arte, la musica, le pratiche masochistiche e la religione. Altri, come quelli per il cibo e il sesso, non lo sono, ma cercherò di dimostrare che il piacere che gli esseri umani traggono da queste attività è profondamente diverso da quello che provano altri esseri viventi. La mia tesi è che il piacere ha radici profonde. Quello che più conta non è il mondo come appare ai nostri sensi. Il godimento che traiamo da qualcosa deriva da ciò che pensiamo che sia. Questo vale per i piaceri intellettuali, come l’apprezzamento di un quadro o
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di un racconto, ma anche per piaceri all’apparenza più semplici, come la soddisfazione della fame o del desiderio sessuale: nel caso di un quadro, riteniamo importante il suo autore; di una storia, conta se è verità o finzione; di una bistecca ci interessa di che animale è e per quanto riguarda il sesso, siamo molto influenzati da chi pensiamo che sia veramente il nostro partner sessuale. Questa teoria del piacere è l’estensione di uno dei concetti più interessanti delle scienze cognitive, e cioè il fatto che le persone danno naturalmente per scontato che gli oggetti del mondo – comprese le altre persone – hanno un’essenza invisibile che fa di loro quello che sono. Gli psicologi sperimentali sostengono che questa visione essenzialista è alla base della nostra comprensione del mondo fisico e sociale, e gli psicologi dello sviluppo e della transcultura suggeriscono che si tratta di una visione istintiva e universale. Siamo essenzialisti per natura. Nel primo capitolo, introdurrò la teoria dell’essenzialismo e sosterrò che può aiutarci a capire i misteriosi piaceri della vita quotidiana. Nei sei capitoli successivi esplorerò diverse sfere del piacere: il secondo e il terzo saranno dedicati al cibo e al sesso, il quarto all’attaccamento che abbiamo per certi oggetti quotidiani, compresi i cimeli di personaggi famosi e le cose che ci danno sicurezza. Il quinto capitolo sarà dedicato alle varie forme di arte, mentre il sesto e il settimo tratteranno dei piaceri dell’immaginazione. Ognuno di questi capitoli può essere letto indipendentemente dagli altri, nell’ultimo invece, farò qualche osservazione più generale e concluderò con alcune riflessioni sul fascino della scienza e della religione. L’obiettivo generale di questo libro è comprendere meglio la natura del piacere esaminando le sue origini a livello dello sviluppo individuale e dell’evoluzione della nostra specie. Per citare la famosa frase del biologo D’Arcy Thompson: «Tutto è com’è perché così è diventato». Ma nel contesto della psicologia il solo accenno all’evoluzione tende a creare allarme e malintesi, quindi sarà bene chiarire alcune cose. Tanto per cominciare, evolutivo non significa «adattivo». Molti aspetti importanti della psicologia umana sono il risultato di un adattamento, esistono a causa dei vantaggi riproduttivi che garantivano
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ai nostri antenati, e nel corso del libro tratterò di alcuni di essi. Ma altri sono effetti secondari o, per usare un termine introdotto dai biologi evoluzionisti Stephen Jay Gould e Richard Lewontin, sono pennacchi.1 Questo è particolarmente vero per il piacere. Per esempio, a molti piace la pornografia, ma passare il tempo a guardare fotografie o filmati di persone nude non comporta alcun vantaggio riproduttivo. L’attrazione per la pornografia è accidentale, è un effetto secondario dell’interesse per le persone nude in carne e ossa. E potremmo dire che anche la profondità del piacere è essenzialmente accidentale. Abbiamo sviluppato l’essenzialismo per dare un senso al mondo ma, ora che l’abbiamo introiettato, spinge i nostri desideri in direzioni che non hanno niente a che vedere con la sopravvivenza e con la riproduzione. Evoluto non significa «stupido» o «semplice». Qualche tempo fa, durante un seminario di letteratura inglese, parlavo del piacere che ci dà la narrativa e alla fine uno dei partecipanti mi ha detto di essere rimasto sorpreso dal modo in cui avevo trattato l’argomento. In fondo non era stato così terribile come pensava. Si era aspettato che la mia fosse un’ingenua teoria biologica riduzionista e gli aveva fatto piacere sentirmi invece parlare del profondo interesse che hanno i lettori per gli stati mentali di un autore e delle complesse e profonde intuizioni che sono alla base del godimento di un racconto. È stato bello far felice un professore di inglese, ma anche imbarazzante. In realtà la mia era un’ingenua teoria biologica riduzionista. Il suo commento mi ha fatto capire che sto difendendo due tesi che di solito non vanno a braccetto tra loro. La prima è che il piacere quotidiano è profondo e trascendente, e la seconda è che riflette l’evoluzione della nostra natura umana. Queste due tesi possono sembrare in conflitto tra loro. Se il piacere è qualcosa di profondo, si potrebbe obiettare, deve essere appreso e frutto della cultura. Se invece è un risultato dell’evoluzione, dovrebbe essere semplice, dovremmo essere programmati per reagire in un certo modo a certi stimoli, a livello elementare, percettivo e superficiale – vale a dire, stupido. Quindi mi rendo conto che le affermazioni che faccio in questo libro – che il piacere nasce da intuizioni profonde, che è intelligente,
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ma è anche un prodotto dell’evoluzione e quindi universale e per lo più innato – sono piuttosto insolite. Spero comunque di convincervi della loro validità. Intendo anche sostenere che sono veramente importanti. Nella scienza della mente ci sono ancora molti vuoti da colmare. Lo psicologo Paul Rozin ci fa notare che se sfogliamo un manuale di psicologia, troveremo poco o nulla sullo sport, la musica, il teatro, la letteratura, il gioco e la religione.2 Ma tutte queste cose caratterizzano la nostra umanità, e non le capiremo mai se prima non capiamo che cos’è il piacere. Tutti hanno qualcosa di interessante da dire sul piacere, e molte delle idee che presenterò in questo libro sono emerse da discussioni con familiari, amici, studenti, colleghi e sconosciuti incontrati in aereo. Ma confesso di essere stato particolarmente influenzato da sette studiosi che hanno riflettuto a fondo su questi temi: Denis Dutton, Susan Gelman, Tamar Gendler, Bruce Hood, Geoffrey Miller, Steven Pinker e soprattutto Paul Rozin. Su alcuni punti, dissento da ognuno di loro, ma questo libro è nato in buona parte come risposta alle loro idee, e sono ben lieto di riconoscere il mio debito intellettuale. Sono molto grato alla mia agente Katinka Matson perché, fin dall’inizio della sua stesura, mi ha aiutato a capire quello che volevo dire con questo libro, e ha continuato a darmi il suo sostegno quando avevo bisogno di consigli o mi lasciavo prendere dall’ansia. Ringrazio anche la mia editor alla Norton, Angela von der Lippe, per la fiducia che ha avuto in questo progetto, per i saggi consigli che mi ha sempre dato e i suoi preziosi commenti sulla prima versione del manoscritto. Sono riconoscente anche a Carol Rose per il suo abile e preciso lavoro di revisione del testo. Non potrebbe esserci una comunità di studiosi migliore del dipartimento di psicologia di Yale, quindi ringrazio tutti i miei colleghi, e in particolare i miei studenti del corso di specializzazione e di postdottorato, per il loro sostegno e la pazienza che hanno avuto mentre scrivevo questo libro. In quel periodo, a capo del dipartimento c’era Marcia Johnson, alla quale va il merito di aver creato un ambiente intellettuale così ricco di stimoli e rassicurante.
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Questo libro contiene anche i risultati di esperimenti che ho condotto in collaborazione con altri studiosi, tra cui Melissa Allen, Michelle Castaneda, Gil Diesendruck, Katherine Donnelly, Louisa Egan, Susan Gelman, Joshua Goodstein, Kiley Hamlin, Bruce Hood, Izzat Jarudi, Ute Leonards, Lori Markson, George Newman, Laurie Santos, David Sobel, Deena Skolnick Weisberg e Karen Wynn. Li ringrazio tutti. Sono riconoscente anche a tutti coloro che hanno avuto la gentilezza di darmi suggerimenti, rispondere alle mie domande o leggere alcuni passi specifici: Woo-kyoung Ahn, Mahzarin Banaji, Benny Beit-Hallahmi, Walter Bilderback, Kelly Brownell, Emma Buchtel, Susan Carey, Emma Cohen, Lisa DeBruine, Rachel Denison, Denis Dutton, Brian Earp, Ray Fair, Deborah Fried, Susan Gelman, Daniel Gilbert, Jonathan Gilmore, Peter Gray, Melanie Green, Lily Guillot, Colin Jager, Frank Keil, Marcel Kinsbourne, Katherine Kinzler, Daniel Levin, Daniel Levitin, Ryan McKay, Geoffrey Miller, Kristina Olson, Karthik Panchanathan, David Pizarro, Murray Reiser, Laurie Santos, Sally Satel, Michael Schultz, Mark Sheskin, Marjorie Taylor, Ellen Winner, Charles Wysocki e Lisa Zunshine. Ringrazio i partecipanti al mio seminario sulla scienza cognitiva del piacere per l’interessante semestre di discussioni e dibattiti che abbiamo trascorso insieme. E sono particolarmente grato a quei coraggiosi che mi hanno dato preziosi consigli dopo aver letto la prima stesura di questo libro: Bruce Hood, Gregory Murphy, Paul Rozin, Erica Stern, Angela von der Lippe e Deena Skolnick Weisberg. Sono sicuro che mi pentirò di non averli seguiti tutti. La mia famiglia – in Connecticut, Massachusetts, Ontario e Saskatchewan – è stata una continua fonte di incoraggiamento. I miei figli, Max e Zachary, sono ormai troppo grandi per costituire materia di riflessione sullo sviluppo, ma in compenso sono diventati persone intelligenti e perspicaci con le quali è divertente conversare, e le discussioni che ho avuto con loro sui temi di questo libro mi sono state molto utili. La persona a cui devo di più, come al solito, è però la mia collega e collaboratrice, nonché moglie, Karen Wynn. La ringrazio per tutte le idee, i consigli, l’incoraggiamento e, soprattutto, il piacere.
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Quando si rese conto del piacere che gli era stato sottratto, Hermann Göring, il successore designato da Adolf Hitler alla guida del Reich, era in attesa di essere giustiziato per crimini contro l’umanità. A detta di un osservatore, in quel momento «sembrava avesse scoperto per la prima volta l’esistenza del male nel mondo». L’artefice di quel male era stato il pittore e collezionista d’arte olandese Han van Meegeren. Durante la Seconda guerra mondiale, Göring aveva dato a Han van Meegeren 137 quadri, per un valore complessivo di quelli che oggi sarebbero circa 10 milioni di dollari. In cambio aveva ottenuto il Cristo e l’adultera di Johannes Vermeer. Come il suo capo, Göring era un collezionista d’arte maniacale che aveva già saccheggiato mezza Europa. Ma era un grande ammiratore di Vermeer, e quello era l’acquisto del quale andava più fiero. Alle fine della guerra, gli Alleati trovarono il quadro e scoprirono da chi lo aveva avuto. Van Meegeren fu arrestato e accusato di aver venduto il grande capolavoro fiammingo a un nazista. Un atto di tradimento punibile con la morte. Dopo aver trascorso sei settimane in prigione, van Meegeren confessò… un reato diverso. Disse che quello che aveva venduto a Göring era un falso. Non era un Vermeer. Lo aveva dipinto lui stesso. Ammise di aver dipinto anche altre opere attribuite a Vermeer, tra cui La cena di Emmaus, uno dei quadri più famosi nei Paesi Bassi.
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All’inizio, nessuno gli credette. Per dimostrare che diceva la verità, gli chiesero di dipingere un altro Vermeer. In sei settimane, van Meegeren – circondato da giornalisti, fotografi e troupe televisive, e sotto l’effetto dell’alcol e della morfina (perché solo così riusciva a lavorare) – lo fece. Come scrisse un tabloid olandese «dipinse per salvarsi la vita!». Il risultato fu una creazione nello stile di Vermeer che intitolò Cristo insegna nel tempio, un dipinto di qualità palesemente superiore a quello che aveva venduto a Göring. Van Meegeren fu giudicato colpevole del reato minore di truffa e condannato a un anno di prigione. Morì prima di aver finito di scontare la pena e divenne un eroe nazionale: l’uomo che aveva ingannato i nazisti.1 Torneremo a parlare di van Meegeren più avanti, ma adesso pensiamo al «povero» Göring e a quello che deve aver provato quando scoprì che il suo quadro era un falso. Il maresciallo del Reich era per molti aspetti un uomo particolare – narcisista fino al ridicolo, brutalmente indifferente alla sofferenza degli altri, da uno dei suoi intervistatori fu descritto come un amabile psicopatico – ma non c’era niente di strano nella sua reazione scandalizzata. Ci saremmo sentiti tutti come lui. In parte per l’umiliazione di essere stati imbrogliati. Ma anche se non ci fosse stato l’inganno, e si fosse trattato di un semplice errore, la scoperta ci avrebbe rubato una parte del piacere. Per chi compra un quadro che ritiene sia di Vermeer, una parte della gioia è data dalla certezza che sia stato lui a dipingerlo. Se questa convinzione si rivela errata, il piacere diminuisce. (Viceversa – e casi del genere si sono verificati –, scoprire che un quadro che ritenevamo fosse una copia o un’imitazione è un originale, ci darà più piacere e ai nostri occhi il suo valore aumenterà.) Questo non succede solo con l’arte. Il piacere che traiamo da ogni tipo di oggetti quotidiani è collegato a quella che crediamo sia la loro storia. Pensate a questi esempi: – un metro a nastro che è stato di John F. Kennedy (venduto all’asta per 48 875 dollari); – le scarpe lanciate contro George W. Bush da un giornalista iracheno nel 2008 (per le quali si dice che un milionario saudita abbia offerto 10 milioni di dollari);
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– un altro oggetto lanciato, la palla da baseball colpita da Mark McGwire nel suo settantesimo home run (comprata per 3 milioni di dollari dall’imprenditore canadese Todd McFarlane, il quale possiede una delle maggiori collezioni al mondo di palle da baseball famose); – l’autografo di Neil Armstrong, il primo uomo sulla Luna; – una striscia della stoffa del vestito da sposa della principessa Diana; – le prime scarpette di vostro figlio; – la vostra fede nuziale; – l’orsacchiotto di un bambino. Queste cose hanno un valore che va al di là della loro utilità pratica. Non tutti sono collezionisti, ma tutti quelli che conosco hanno almeno un oggetto che considerano speciale per via della sua storia, perché è collegato a una persona che ammirano, a un evento significativo o a qualcuno che per loro è importante. Questa storia è invisibile e intangibile, e nella maggior parte dei casi non c’è modo di distinguere quell’oggetto speciale da un altro che gli assomiglia. Eppure ci dà piacere, mentre l’altro ci lascerebbe assolutamente indifferenti. Il tema di questo libro è proprio questo genere di misteri.
Piaceri animali e piaceri umani Alcuni piaceri sono più facili da spiegare di altri. Pensate al motivo per cui ci piace bere l’acqua. Perché dissetarci ci dà tanta gioia e perché è una tortura privare qualcuno dell’acqua per un lungo periodo? Be’, questa è facile. Gli animali hanno bisogno di acqua per sopravvivere, e quindi sono motivati a cercarla. Il piacere è il premio per averla trovata, il dolore è la punizione per doverne fare a meno. Tutto questo è semplice e giusto, ma solleva un altro interrogativo: perché le cose funzionano così bene? Per parafrasare le parole di una canzone dei Rolling Stones, è davvero comodo «that we
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can’t always get what we want», non poter sempre avere quello che vogliamo, ma vogliamo sempre quello che ci serve. Naturalmente, nessuno pensa che questo avvenga per puro caso. Un teista direbbe che questo collegamento tra piacere e sopravvivenza è frutto dell’intervento divino: Dio voleva che le sue creature vivessero abbastanza a lungo da andare e moltiplicarsi, così ha instillato in loro il desiderio dell’acqua. Per un darwinista, quel collegamento sarebbe il prodotto della selezione naturale. Le creature del lontano passato che erano motivate a cercare l’acqua si sono riprodotte di più di quelle che non lo erano. Più in generale, dal punto di vista dell’evoluzionismo – che a mio parere è più utile del teismo per spiegare come funziona la mente umana – il piacere serve a indurre certi comportamenti che sono positivi per i geni. Come osservò nel 1884 lo psicologo comparativo George Romanes: «Il piacere e il dolore si sono probabilmente evoluti in parallelo con i processi che sono rispettivamente utili o dannosi per l’organismo, e quindi al fine di far cercare all’organismo gli uni e fargli evitare gli altri».2 La maggior parte dei piaceri non umani è comprensibilissima da questo punto di vista. Se state addestrando il vostro cane, non lo premiate leggendogli una poesia o portandolo all’opera, gli date una ricompensa di tipo darwiniano come un buon bocconcino. Gli animali non umani amano il cibo, l’acqua e il sesso, vogliono riposarsi quando sono stanchi, si lasciano tranquillizzare da un gesto affettuoso e così via. Amano quello che la biologia evoluzionistica sostiene che dovrebbero amare. E noi? Anche noi esseri umani siamo animali e perciò condividiamo molti dei piaceri delle altre specie. Lo psicologo Steven Pinker ha osservato che siamo più felici «quando siamo in buona salute, mangiamo bene, conduciamo una vita confortevole, sicura, agiata, sappiamo un sacco di cose, siamo accoppiati, amati».3 È una bella lista di piaceri, e non dubito neanche per un attimo che possano essere spiegati ricorrendo allo stesso processo che ha dato origine ai desideri di animali come gli scimpanzé, i cani e i topi. Dal punto di vista adattivo è utile cercare il benessere, il cibo, la comodità e così via, e provare piacere nel raggiungere questi obiettivi.
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Per usare le parole dell’antropologo Robert Ardrey, «discendiamo da scimmie evolute, non da angeli caduti».4 Ma questa lista è incompleta, lascia fuori l’arte, la musica, la narrativa, gli oggetti che hanno un valore affettivo e la religione. Forse tutti questi piaceri non sono esclusivamente umani. Una volta ho sentito dire da un esperto di primati che alcuni, quando sono in cattività, si aggrappano a oggetti che danno loro sicurezza e c’è chi sostiene che gli elefanti e gli scimpanzé siano capaci di creare opere d’arte (anche se, come spiegherò più avanti, su questo sono piuttosto scettico). Comunque sia, queste non sono attività consuete per gli animali non umani, sono tipiche della nostra specie, sono presenti in tutti gli individui normali. E questo richiede una spiegazione. Una possibile risposta è che i nostri piaceri esclusivamente umani non siano il risultato della selezione naturale né di qualsiasi altro processo di evoluzione biologica. Sono frutto della cultura, e sono esclusivamente umani perché solo gli esseri umani hanno una cultura (o comunque una cultura sufficiente per incidere da questo punto di vista). Nonostante le critiche che spesso si sentono rivolgere da studiosi più orientati verso la teoria dell’adattamento, quelli che propongono questo tipo di spiegazione non sono necessariamente ignoranti né tengono in scarsa considerazione la biologia evoluzionistica. Non dubitano che gli esseri umani, e il loro cervello, si siano evoluti. Semplicemente non credono che esistano idee innate, moduli specializzati e organi mentali. Ritengono piuttosto che noi esseri umani siamo speciali perché siamo più flessibili e possediamo una maggiore capacità di creare e apprendere idee, comportamenti e gusti, indipendentemente dalla nostra biologia. Gli altri animali sono istintivi, gli esseri umani sono intelligenti. Almeno in una certa misura, questa teoria deve essere corretta: nessuno può negare la flessibilità mentale della nostra specie, né il fatto che la cultura struttura e condiziona il piacere umano. Se vinciamo un milione di dollari alla lotteria, possiamo anche ululare dalla gioia, ma è stata la nostra storia a determinare l’importanza del denaro, non la replicazione e la selezione dei geni. In realtà, anche
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quei piaceri che condividiamo con gli altri animali, come quelli per il cibo e il sesso, si manifestano in modo diverso nelle varie società. Ogni paese ha la sua cucina, i suoi rituali sessuali, perfino le sue forme di pornografia, e questo non è sicuramente dovuto al fatto che i suoi cittadini sono geneticamente diversi da quelli di altri paesi. Qualcuno più incline a dare la priorità alla cultura potrebbe essere tentato di dire che, sebbene abbia svolto un ruolo limitato nel determinare quello che ci piace – tutti abbiamo sviluppato la fame, la sete, l’impulso sessuale, la curiosità e alcuni istinti sociali –, la selezione naturale ha ben poco a che vedere con i nostri gusti specifici. Per usare le parole dello studioso Louis Menand: «Ogni aspetto della vita ha un fondamento biologico esattamente nello stesso senso, e cioè nel senso che se non fosse biologicamente possibile, non esisterebbe. Al di fuori di questo, non c’è nessuna regola».5 Nei prossimi capitoli, cercherò di dimostrare che il piacere non funziona così. La maggior parte dei piaceri è di origine evolutiva, non acquisita dalla società. Ed è condivisa da tutti gli esseri umani. Le diverse forme che assume non sono altro che variazioni su un tema universale. La pittura è un’invenzione culturale, ma l’amore per l’arte non lo è. Le società hanno diversi modi di narrare, ma le loro storie hanno tutte certi intrecci in comune. I gusti in materia di cibo e di sesso variano, ma non troppo. È vero che possiamo immaginare culture in cui il piacere è molto diverso, in cui la gente strofina il cibo sulle feci per renderlo più gustoso e non è interessata al sale, allo zucchero o al peperoncino, o in cui spende una fortuna per comprare falsi e getta gli originali nella spazzatura, o fa la fila per ascoltare una serie di scariche elettriche e rabbrividisce ascoltando una melodia. Ma questa è fantascienza, non realtà. Un modo per riassumere tutto questo è dire che gli esseri umani partono con una lista fissa di piaceri, alla quale non possono aggiungere nulla. Potrà sembrarvi un’affermazione assurda, perché ovviamente possiamo sempre introdurre nuovi piaceri in questo mondo, come abbiamo fatto quando abbiamo inventato la televisione, la cioccolata, i videogame, la cocaina, il vibratore, la sauna, le parole crociate, i reality show, i romanzi e così via. Ma secondo
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me tutte queste cose sono piacevoli perché non sono niente di nuovo, sono collegate – in modo abbastanza diretto – a piaceri che gli esseri umani già conoscevano. La cioccolata belga e le costolette d’agnello alla griglia sono invenzioni moderne, ma soddisfano il nostro gusto primario per lo zucchero e i grassi. Vengono continuamente creati nuovi tipi di musica, ma una creatura biologicamente impreparata ad apprezzare il ritmo non le troverebbe mai piacevoli, continuerebbe sempre a considerarle rumore.
Essenzialismo Molti dei più importanti piaceri umani sono universali. Ma non sono adattamenti biologici. Sono il sottoprodotto di sistemi mentali che si sono evoluti per altri scopi. Per alcuni piaceri questo è evidente. Per esempio, a molte persone piace il caffè, ma non certo perché in passato gli amanti del caffè si sono riprodotti più di quelli che lo odiavano. Bensì perché il caffè è uno stimolante, e spesso ci fa piacere essere stimolati. Questo è un esempio ovvio, ma penso che la teoria del sottoprodotto possa aiutarci a capire alcune cose che ci interessano e che ci lasciano perplessi. L’ipotesi che intendo esplorare è che questi piaceri sono, almeno in parte, sottoprodotti accidentali di quella che potremmo chiamare una mentalità «essenzialista». Un buon esempio di essenzialismo lo troviamo in un lungo racconto di J.D. Salinger che vede uno dei suoi personaggi preferiti, Seymour, raccontare a un bambino un aneddoto taoista. Il Duca Mu chiede al suo amico Po Lo di trovargli qualcuno in grado di riconoscere un cavallo eccezionale. Po Lo gli consiglia un esperto di nome Kao. Il Duca lo assume e poco dopo Kao dice di aver trovato un animale che risponde ai suoi requisiti, si tratta di una cavalla baia. Il Duca Mu compra l’animale che gli è stato consigliato ma, con sua grande sorpresa, scopre che è uno stallone nero. Infuriato, il Duca Mu dice a Po Lo che il suo cosiddetto esperto è un idiota, incapace perfino di distinguere il colore e il sesso di un cavallo. Po Lo, invece, è entusiasta della notizia:
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«Si è veramente comportato così?» gridò. «Eh, allora è diecimila volte più bravo di me. Non c’è paragone tra me e lui. Ciò che interessa a Kao è il meccanismo spirituale. Per assicurarsi l’essenziale dimentica i dettagli più comuni; tutto intento alle qualità interiori, perde di vista le esteriori. Egli vede ciò che vuole vedere e non ciò che non gli interessa. Egli guarda le cose che si devono guardare e tralascia quelle che non hanno alcuna importanza.»6
Il cavallo, naturalmente, si rivela un animale magnifico. Questo è un esempio di essenzialismo, secondo cui le cose possiedono una realtà implicita, una vera natura che non possiamo osservare direttamente, ma è proprio quella natura nascosta a contare.7 La definizione classica di essenza ce la dà John Locke: «l’essere stesso di una cosa, per cui essa è quello che è. E così la costituzione interna reale delle cose, che però è generalmente […] sconosciuta, dalla quale dipendono le loro qualità scopribili, può esser chiamata la loro essenza».8 Questo è un modo naturale di dare un senso a certi aspetti del mondo. Prendiamo, per esempio, l’oro. All’oro noi pensiamo, spendiamo soldi per averlo, ne parliamo, ma quando facciamo tutto questo non stiamo pensando a una categoria di oggetti che casualmente si assomigliano. Se dipingiamo con la vernice dorata un mattone, non diventa un mattone d’oro. L’alchimia, in fondo, è una faccenda seria. Se vogliamo sapere se un oggetto è d’oro, dobbiamo chiedere a un esperto, magari a un chimico, di fare le prove necessarie per stabilire la sua struttura atomica. Oppure prendiamo le tigri. La maggior parte delle persone non sa esattamente che cosa fa di una tigre una tigre, ma nessuno pensa che sia solo una questione di aspetto. Se gli mostriamo una serie di immagini in cui una tigre assume gradualmente l’aspetto di un leone, anche un bambino sa che quella rimane una tigre.9 L’essenza di una tigre ha a che vedere con i suoi geni, con i suoi organi interni, con una serie di aspetti invisibili che rimangono immutati anche se il suo aspetto cambia. Nel caso di questi due esempi, dobbiamo rivolgerci alla scienza per avere una certezza, e questo è comprensibile. È compito degli
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scienziati stabilire l’essenza nascosta delle cose. Sono loro a dirci che c’è qualcosa di più di quello che appare, che il vetro è liquido, che il colibrì e il falco appartengono alla stessa categoria ma nessuno dei due appartiene alla stessa categoria del pipistrello, e che il legame genetico tra gli esseri umani e gli scimpanzé è più stretto di quello tra i delfini e i salmoni. Tuttavia, non è necessario conoscere la scienza per essere essenzialisti. Tutti capiscono che qualcosa può assomigliare a X ma in realtà essere Y, sanno che una persona può travestirsi o che un cibo può essere preparato in modo da sembrare qualcos’altro. Tutti possono chiedersi «Che cos’è realmente?». Spesso si attribuisce un’essenza ai gruppi sociali. Come la si attribuisce ai manufatti, agli strumenti e alle armi creati dall’uomo, anche se la loro essenza non è fisica ma è legata alla storia e all’uso intenzionale che ne è stato fatto.10 Se vogliamo sapere che cos’è veramente uno strano manufatto che appartiene a un altro periodo o a un altro paese, non lo chiediamo a un chimico, ma ci rivolgiamo a un esperto di archeologia, antropologia o storia. L’essenzialismo pervade anche il nostro linguaggio.11 Per averne la prova, pensate a come sarebbe un linguaggio non essenzialista. Jorge Luís Borges ha inventato un’enciclopedia cinese chiamata Emporio celeste di conoscimenti benevoli, che divide gli animali in varie categorie, tra cui quelli: – appartenenti all’imperatore; – che da lontano sembrano mosche; – che hanno rotto il vaso.12 Questa lista è divertente… perché è originale. «[Quelli] che da lontano sembrano mosche» è un modo logicamente possibile per classificare un gruppo di oggetti, ma non è il modo in cui naturalmente organizziamo il mondo. Nessuna lingua reale avrebbe un nome per una categoria simile, perché è troppo superficiale. I nomi reali colgono qualcosa di più profondo, si riferiscono a cose che secondo noi condividono proprietà più basilari. Per usare le parole del teorico evoluzionista Stephen Jay Gould, le nostre classificazioni
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non servono solo a evitare il caos, sono «teorie fondate sull’ordine naturale».13 Questa componente del linguaggio diventa particolarmente importante quando parliamo delle persone. In passato ho lavorato con alcuni bambini affetti da autismo e mi ricordavano continuamente di chiamarli «bambini affetti da autismo», e non «autistici», perché le persone non sono soltanto la loro malattia. «Autistici» fa della malattia la loro essenza, mentre «affetti da», anche se è meno diretto, non produce lo stesso effetto. In questo caso è facile sorridere della correttezza politica, ma i nomi hanno un peso fondamentale.14 Nel film Memento, il protagonista Leonard Shelby dice: «Non sono un assassino. Sono solo uno che voleva mettere a posto le cose». Mentre lo dice, Shelby sa di aver ucciso molte persone. Ma questo non fa di lui un assassino perché un assassino non è solo uno che ha ucciso, essere un assassino significa essere un certo tipo di persona, avere certe proprietà profonde, e Shelby nega di averle. Quando fu criticato per aver fatto un commento razzista durante un’intervista, il giocatore di baseball John Rocker dichiarò di non essere razzista. «Se fai un unico home run durante una partita importante, non significa che sei un campione… Se fai un unico commento come questo non significa che sei razzista.»15 Per fare un altro esempio, qualche tempo fa, mentre eravamo a cena insieme, un’amica mi ha detto casualmente che non mangia mai carne. Ma poi si è seccata quando l’ho definita vegetariana. «Non sono una fanatica» ha detto «non mangio semplicemente carne.» Evidentemente vedeva il suo modo di mangiare come una proprietà secondaria, non essenziale.
Il problema dell’essenzialismo L’essenzialismo è spesso logico e adattivo: se badiamo solo agli aspetti superficiali, ci portiamo a casa il cavallo sbagliato. Una persona che osserva il mondo delle piante e degli animali senza rendersi conto che i membri di una stessa categoria hanno certe
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caratteristiche profonde in comune – come la docilità per alcuni tipi di animali o le capacità curative per certe specie di piante – potrebbe vivere meno a lungo di chi lo osserva con un occhio più essenzialista. Nell’era moderna, i successi della scienza in termini predittivi ed esplicativi dimostrano che presumere l’esistenza di una realtà più profonda è la cosa giusta da fare.16 Ma l’essenzialismo a volte crea confusione. Nel corso dei suoi studi sui «gruppi minimi», lo psicologo sociale Henri Tajfel scoprì che se divideva le persone in gruppi sulla base di criteri assolutamente arbitrari – in alcuni casi addirittura il lancio di una moneta – i soggetti non solo preferivano il loro gruppo ma arrivavano a credere che esistessero differenze significative con gli altri e che il loro fosse oggettivamente superiore.17 Il pregiudizio essenzialista ci porta a vedere caratteristiche comuni profonde anche quando non esistono. Non c’è da sorprendersi, dunque, se quando le differenze sono evidenti, come nella forma del viso o nel colore della pelle, non le consideriamo variazioni arbitrarie, ma pensiamo che siano importanti. E, in una certa misura, lo sono. Se sappiamo che aspetto ha una persona, per esempio di che colore è la sua pelle, possiamo indovinare molte cose invisibili su quella persona, come il suo reddito, la sua religione, il suo schieramento politico, e così via. (Nel momento in cui scrivo, è molto più probabile che a votare per i Democratici sia un americano dalla pelle scura che non uno dalla pelle chiara.) La razza conta soprattutto perché le persone che hanno un aspetto diverso vengono da paesi diversi, si stabiliscono in quartieri diversi e hanno storie diverse. Ma il nostro essenzialismo va oltre queste cose. Molti tendono a pensare ai gruppi umani, comprese le razze, in termini biologici. La psicologa Susan Gelman ci ha raccontato di una persona che sosteneva di non poter «uscire con nessuno che non sia un ebreo mitocondriale».18 Il dna mitocondriale è trasmesso dalla madre, e questo è un modo divertente per dare una certa definizione del giudaismo, ma coglie bene anche il fatto che pensiamo ai gruppi umani in termini biologici. Prima del dna c’era il sangue, e si pensava che ne bastasse un’unica goccia per dire che una persona era di origine africana.
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L’essenzialismo biologico per quanto riguarda la razza non è completamente sbagliato. Gli svedesi sono più alti dei giapponesi, che a loro volta sono più alti dei pigmei, e chiaramente questo è dovuto almeno in parte ai geni. Quando dicono di appartenere a una razza o a un’altra, anche i più democratici e antirazzisti di noi si rendono conto che è una questione di origine biologica. Lo psicologo Francisco Gil-White ci fa notare che se qualcuno dice di essere per metà irlandese, per un quarto italiano e per un quarto messicano, non si riferisce a quanto ha assimilato di queste diverse culture né a quale gruppo si sente più affine, sta parlando dell’etnia alla quale appartenevano i suoi nonni.19 Ma certe categorie non sono reali quanto qualcuno pensa che siano. Per esempio, non sono i geni a determinare se una persona è ebrea. Un adulto può essersi convertito al giudaismo. Un bambino può essere stato adottato da una famiglia ebrea. I miei figli sono il frutto di un padre ebreo e di una madre non ebrea: sono ebrei, mezzi ebrei o non sono affatto ebrei? La risposta a questa domanda può essere politica o teologica, ma non scientifica. Può darsi che questo caso sia ovvio, ma lo stesso principio vale per tutto. Per esempio, il presidente Barack Obama viene di solito definito afroamericano o nero, anche se è figlio di un genitore che verrebbe normalmente definito nero e di uno che verrebbe normalmente definito bianco. Ma nel contesto sociale, il nero batte il bianco. Più in generale, categorie come quella di «nero» comprendono persone appartenenti a gruppi molto diversi: «nero» va dagli haitiani agli aborigeni australiani, messi forzatamente insieme a causa di una proprietà comune che letteralmente è solo epidermica. Pensare che abbiano in comune qualcosa di più profondo è portare l’essenzialismo all’estremo.
Il bambino essenziale Susan Gelman inizia il suo bellissimo libro The Essential Child con la storia di quando aveva quattro o cinque anni e chiese a sua madre che differenza c’era tra i bambini e le bambine. La madre le rispose: «I bambini hanno il pene, le bambine no».20 Susan non poteva
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crederci: «Tutto qui?» chiese. Visto che i bambini e le bambine si vestivano, si comportavano e giocavano in modo così diverso, si aspettava qualcosa di più interessante, una differenza più profonda. Lo scopo di questo aneddoto era quello di ammettere che da bambina era essenzialista, come preambolo alla tesi che tutti i bambini lo sono. Questa tesi non è condivisa da tutti gli psicologi. L’ipotesi prevalente, enunciata dallo psicologo svizzero Jean Piaget, e sostenuta ancora oggi da alcuni importanti studiosi, è che all’inizio i bambini hanno una visione superficiale del mondo, limitata a quello che possono vedere, sentire e toccare. Da questo punto di vista, l’essenzialismo avrebbe origini storiche e culturali. Nel campo della fisica e della biologia sarebbe stato una scoperta, un traguardo intellettuale raggiunto prima dai filosofi e poi dagli scienziati. La maggior parte delle persone non ci sarebbe mai arrivata da sola. Il filosofo Jerry Fodor dice: «Ovviamente Omero non aveva alcuna nozione del fatto che l’acqua ha un’essenza nascosta o una microstruttura caratteristica (o che qualcosa ce l’abbia)».21 Queste cose le impariamo a scuola. Nel caso della razza, del sesso e della casta, l’essenzialismo è stato inventato dai potenti per convincere la gente che certe categorie sociali sono naturali e immutabili. Nessuno ha ancora formulato una teoria completa delle origini dell’essenzialismo. Ma penso che sia ormai ampiamente dimostrato che non è di origine culturale. È un universale umano. Probabilmente Omero pensava che l’acqua avesse un’essenza. Buona parte delle ricerche in questo campo sono state condotte dagli psicologi dello sviluppo. Sappiamo che anche i neonati possono desumere proprietà invisibili in base all’aspetto delle cose. Se un bambino di nove mesi scopre che una scatola fa rumore quando la agita, si aspetta che tutte le scatole che le assomigliano facciano lo stesso rumore. I bambini più grandi vanno anche oltre, generalizzano in base alla categoria alla quale un oggetto appartiene.22 Nel corso di uno studio, i ricercatori hanno fatto vedere un pettirosso a un gruppo di bambini di tre anni e hanno detto loro che aveva una proprietà nascosta, per esempio una certa sostanza chimica nel sangue. Poi hanno mostrato ai bambini altre due immagini: una
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di un animale che gli assomigliava ma apparteneva a una categoria diversa, come un pipistrello, e l’altra di un animale che sembrava diverso ma apparteneva alla stessa categoria, come un fenicottero. Quale dei due aveva la stessa proprietà nascosta? I bambini tendono a generalizzare in base alla categoria e quindi hanno scelto il fenicottero. Questo non significa che sono del tutto essenzialisti, ma dimostra che capiscono che c’è qualcosa di più profondo dell’apparenza.23 Da altri studi condotti con procedure diverse è emerso che i bambini al di sotto dei due anni reagiscono nello stesso modo.24 Altri esperimenti hanno dimostrato che i bambini piccoli pensano che se lo svuotiamo (togliendogli il sangue e le ossa), un cane non è più un cane, mentre se gli togliamo le caratteristiche esteriori, rimane un cane.25 Inoltre i bambini tendono a chiamare con lo stesso nome le cose che hanno le stesse proprietà profonde («hanno lo stesso tipo di roba dentro») ma non quelle che condividono proprietà superficiali («vivono nello stesso tipo di zoo o nello stesso tipo di gabbia»).26 Il mio collega di Yale, Frank Keil, ha raccolto alcune delle prove più convincenti dell’essenzialismo dei bambini. Ha mostrato a un gruppo di loro le immagini di una serie di trasformazioni: un porcospino che diventava un cactus, una tigre travestita da leone, un cane vero che sembrava un giocattolo. E ha scoperto che per i bambini quelle trasformazioni non erano sufficienti a far cambiare categoria agli animali. Nonostante il loro aspetto, restavano un porcospino, una tigre e un cane. Solo quando ha detto loro che la trasformazione era avvenuta all’interno, che l’interno degli animali era stato modificato, si sono convinti che c’era stato un vero cambiamento di categoria.27 Come gli adulti, i bambini piccoli si aspettano che i nomi si riferiscano a oggetti che condividono le stesse proprietà profonde. Una volta Susan Gelman ha mostrato a suo figlio di 13 mesi un bottone della sua camicetta e lo ha chiamato «bottone». Lui ha cominciato a premerlo perché, sebbene non assomigliasse molto ai bottoni dei suoi giocattoli elettronici, sapeva a quale categoria apparteneva e che cosa si faceva con un bottone. Nei bambini più grandi, si riscontra la stessa comprensione della forza di un nome che si
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riscontra negli adulti. Un bambino di quattro anni lo ha dimostrato descrivendo un compagno di giochi violento: «Gabriel non ha picchiato solo me! Ha picchiato anche altri bambini! È un picchiatore! Vero, mamma? È un picchiatore!».28 Probabilmente il bambino intendeva dire che quel tipo di comportamento rifletteva un aspetto più profondo della natura di Gabriel. Nel corso di uno dei loro esperimenti, Gelman e Gail Heyman hanno parlato a un gruppo di bambini di cinque anni di una bambina di nome Rose che mangiava spesso carote, e hanno detto solo a metà di loro che era una «mangiatrice di carote». Quel nome aveva avuto un effetto particolare, aveva fatto pensare ai bambini che Rose fosse una mangiatrice di carote permanente, che le avrebbe sempre mangiate, anche se i suoi genitori glielo avessero proibito, perché faceva parte della sua natura.29 Alcuni studiosi sostengono che l’essenzialismo dei bambini nasce da un sistema specializzato che riguarda solo le piante e gli animali.30 Ma dalle mie ricerche è emerso che i bambini sono essenzialisti anche nei confronti degli oggetti della vita quotidiana.31 Quando sentono un nome che si riferisce a una nuova invenzione umana, lo estendono a tutti gli oggetti che sono stati creati allo stesso scopo, indipendentemente dal loro aspetto. I bambini sono essenzialisti anche per quanto riguarda le categorie di persone. Uno degli esempi più significativi del loro essenzialismo riguarda la differenza tra i sessi. Prima ancora di sapere che esiste la fisiologia, la genetica, la teoria dell’evoluzione o qualsiasi altra scienza, i bambini pensano che ci sia qualcosa di interno e invisibile che distingue i maschi dalle femmine. Questo essenzialismo può essere esplicito, come nel caso della bambina che, per spiegare perché un ragazzo preferisce andare a pesca piuttosto che truccarsi, dice: «È il suo istinto di maschio».32 O in quello dei bambini di sette anni che approvano affermazioni del tipo: «I maschi hanno dentro cose diverse dalle femmine» e «Dio li ha fatti così» (c’è un’essenza biologica e una spirituale). Solo più tardi nel corso dello sviluppo i bambini accettano spiegazioni culturali del tipo «Perché siamo stati allevati così». Bisogna essere entrati a far parte della società per capire quanto ci condiziona.33
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Questo tipo di ricerche è ancora in corso, ma ormai molte persone sono convinte che nasciamo essenzialisti. E la portata del nostro essenzialismo è molto ampia: attribuiamo un’essenza agli animali, agli oggetti e alle persone.
La forza vitale Finora ho descritto l’essenzialismo come un modo di pensare per categorie, partendo dall’idea che c’è qualcosa di profondo in una tigre, tanto per fare un esempio, che la caratterizza in quanto tigre. Adesso proviamo a considerare la possibilità che ci sia un’essenza in ogni singolo individuo che lo rende speciale: non stiamo più dicendo che una tigre è diversa da un leone, ma che una tigre è diversa da un’altra tigre. La capacità di pensare in termini di singoli individui è un aspetto importante della nostra vita mentale, che applichiamo anche alle cose più irrilevanti. Il filosofo Daniel Dennett fa l’esempio di una persona che porta con sé un penny da New York alla Spagna e impulsivamente lo getta in una fontana. Adesso è insieme a tutte le altre monetine e non ha più modo di distinguerlo, eppure sa che una e solo una di quelle monetine è la sua. Se raccogliesse un penny dalla fontana, potrebbe essere quello che ha portato da New York oppure un altro.34 Quella di saper pensare in termini individuali è una capacità cognitiva importante ma non è essenzialismo. Ci rendiamo conto che ognuna di quelle monete ha una sua storia, ma questo non significa che contiene qualcosa di più, qualcosa che potremmo definire un’essenza. Ad alcuni individui particolari invece attribuiamo un’essenza. Lo facciamo soprattutto nel caso di persone o di oggetti strettamente collegati a una persona. In molte culture, l’essenza viene vista come una forza invisibile. Gli psicologi Kayoko Inagaki e Giyoo Hatano sostengono che all’inizio i bambini sono «vitalisti», partono dal presupposto che gli esseri viventi siano animati da una forza interiore.35 Questo concetto è diffuso in molte società, c’è chi lo chiama
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«chi», «ki», «elan vital», «mana», «forza vitale» o «essenza». Si ritiene che faccia parte di una persona, che alcuni ne abbiano più di altri, e che possa essere trasmesso dalle persone alle cose e viceversa. L’antropologa Emma Cohen mi ha raccontato della sua ricerca sull’Axe, l’energia, nella religione afrobrasiliana: Le persone con cui ho parlato mi hanno spiegato che anche le cose più semplici, gli oggetti della vita quotidiana, possono diventare sacri grazie a un rituale che attribuisce loro l’Axe. In varia misura, l’Axe è presente anche in tutti gli esseri umani, e può essere «aumentato» partecipando a un rituale. È una forma di potere. Quando si è ammalati, per esempio, si può essere guariti da qualcuno che è più dotato di Axe. E dato che non è possibile capire a prima vista chi ne ha di più e chi ne ha di meno, si può attribuire il fallimento del rituale all’insufficienza di Axe di chi lo ha celebrato. Alcune case hanno più Axe di altre, e gli esperti di religione afrobrasiliana dicono che quando sei in una di queste case ti senti meglio.36
Questo è un esempio del profondo rapporto tra forza vitale e rituali religiosi, ma ne sentiamo la presenza anche nella vita quotidiana. Cerchiamo tutti il contatto con le persone speciali. Se un oggetto è stato toccato da una persona speciale acquista più valore. Questo è uno dei motivi per cui c’è gente disposta a pagare somme enormi per oggetti come il metro di J.F. Kennedy. Anzi, come vedremo in un capitolo successivo, i miei colleghi e io abbiamo scoperto che molta gente è disposta a pagare una cifra considerevole per avere il pullover di una persona che ammira (come George Clooney), ma il prezzo scende se l’oggetto è stato lavato, perché quest’operazione cancella l’essenza.37 Poi c’è il contatto diretto con la persona. A volte basta essere guardati da un personaggio importante. In un suo interessante saggio, la scrittrice Gretchen Rubin collega quest’esperienza al concetto induista di darsana, che in sanscrito significa «vista». Per la persona che si ritiene trasmetta energia, l’esperienza può essere talmente spossante che alcune celebrità vietano per contratto ai loro dipendenti di guardarle negli occhi.38
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Una pacca sulla spalla è meglio di uno sguardo, e una stretta di mano è meglio ancora. Frasi come: «Non mi laverò la mano per una settimana» colgono bene l’idea del qualcosa della persona famosa che è rimasto sulla mano e che non vogliamo perdere. Più intimo ancora della stretta di mano è ovviamente un rapporto sessuale, e questo è uno dei molti motivi per cui i potenti non hanno difficoltà a trovare partner sessuali. Ma c’è addirittura qualcosa di più intimo del sesso. Pensate alla conversazione telefonica in cui il principe Carlo diceva che avrebbe voluto essere il tampone vaginale della sua amante, desiderio un po’ disgustoso ma anche molto romantico.39 C’è poi chi fa a pezzi il corpo della persona speciale e lo mangia, nella speranza di assorbire la sua forza, pratica di cui parleremo nel prossimo capitolo. E c’è il trapianto di organi, in cui una persona entra in possesso dell’organo di un’altra, un atto particolarmente intimo, che lo studioso di etica Leon Kass ha definito «una nobile forma di cannibalismo».40 E in effetti molti sono convinti che chi riceve un trapianto assume alcune delle caratteristiche del suo donatore.41 C’è una differenza tra l’essenzialismo basato sulle categorie da cui siamo partiti e questo tipo di essenzialismo basato sulla forza vitale: le essenze delle categorie sono ritenute permanenti e immutabili, mentre quelle della forza vitale possono aumentare, diminuire ed essere trasmesse. Le uniche cose che hanno in comune è che sono entrambe invisibili, possono determinare l’identità di un oggetto ed essere molto importanti. Un altro esempio dell’importanza dell’essenzialismo sono i resoconti delle persone che hanno assistito alla ricerca del quattordicesimo Dalai Lama.42 Una prova fondamentale è stata quella alla quale è stato sottoposto un bambino di due anni in un villaggio sperduto. Un gruppo di burocrati aveva portato con sé gli oggetti personali del tredicesimo Dalai Lama, ma anche una serie di falsi che erano simili o identici a quelli. Messo davanti a un rosario nero autentico e a una copia, il bambino ha subito afferrato quello vero e se l’è messo al collo. Anche quando gli hanno presentato due rosari gialli ha scelto quello giusto. Quando gli hanno offerto due bastoni, all’inizio ha scelto quello sbagliato, ma poi lo ha osservato meglio,
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lo ha posato e ha scelto quello che era appartenuto al Dalai Lama. Subito dopo ha individuato qual era quella giusta fra tre coperte. Come prova finale hanno presentato al bambino due tamburelli: uno piuttosto semplice (quello vero) e un bellissimo damaru molto più vistoso dell’originale.43 In sostanza, lo hanno costretto a scegliere tra un oggetto poco interessante ma portatore di essenza e un distrattore estremamente attraente. Ed ecco che cosa hanno scritto: «Prese il piccolo tamburo senza alcuna esitazione. Tenendolo nella mano destra, lo suonò con un gran sorriso sulle labbra, spostandosi intorno a noi, in modo da poter attentamente osservare tutti i presenti da vicino. Il bambino dimostrò così i suoi profondi poteri, che erano in grado di svelare i fenomeni più segreti».44 Un altro osservatore ha definito questa capacità di riconoscimento un segno di «intelligenza superiore».45 (L’uso di copie esatte degli oggetti significa che il bambino non poteva sfruttare i ricordi della sua vita passata per sceglierli, doveva necessariamente possedere una speciale capacità di riconoscere le loro essenze invisibili.) Quello che conta non è che gli oggetti autentici fossero effettivamente impregnati dell’essenza del tredicesimo Dalai Lama, ma che i burocrati tibetani ne erano convinti e avevano costruito una procedura che presupponeva l’esistenza di essenze invisibili – essenze che richiedono poteri speciali per essere percepite – e che avevano usato quella procedura per prendere una decisione importante. Il ragazzo sarebbe diventato il quattordicesimo Dalai Lama, Tenzin Gyatso.
Siamo più intelligenti di quello che sembriamo Nei prossimi capitoli cercherò di dimostrare che il piacere che traiamo da molti oggetti e attività si basa in parte su quella che consideriamo la loro essenza. Il nostro essenzialismo non è una formula vuota per dare senso alla realtà, è la base di tutte le nostre passioni, i nostri appetiti e i nostri desideri. Nel campo dell’essenzialismo psicologico sono in corso molte ricerche, che prendono in esame diversi concetti di essenza. C’è
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l’essenzialismo delle categorie e quello della forza vitale; ci sono le essenze fisiche di organismi naturali come gli animali e le piante, e le essenze psicologiche di oggetti fabbricati dall’uomo come gli attrezzi e le opere d’arte. Il mio tentativo di estendere l’essenzialismo al piacere sarà altrettanto ampio. A volte metterò in relazione il piacere con le consuete essenze delle categorie, come quando parlerò del sesso, in cui categorie come maschio, femmina e vergine sono estremamente importanti. A volte l’essenza sarà più simile alla forza vitale, come quando vedremo perché certi prodotti di consumo assumono un particolare valore. A volte invece sposterò l’attenzione sul ruolo di una presunta struttura interna, come nel caso del piacere che ci dà l’acqua in bottiglia; a volte sulla storia umana, come nel caso della pittura e della narrativa. Il libro si concluderà con una discussione sull’idea più generale che esiste una realtà più profonda che trascende l’esperienza quotidiana, un’idea che potrebbe essere alla base del piacere che deriviamo dalla pratica religiosa e dalla ricerca scientifica. Lo ammetto, la mia è una visione complicata del piacere. Ma in fondo gli esseri umani sono creature complicate. A volte ci dimentichiamo di questa complessità. Certi aspetti della nostra psicologia sono così evidenti e immediati che è difficile pensare che richiedano una spiegazione.46 William James ce lo ha illustrato con la sua solita chiarezza già nel 1890: A un metafisico soltanto possono venire in mente certe questioni come queste: Perché ridiamo, quando siamo contenti, invece di diventar seri? Perché siamo incapaci di parlare a una folla allo stesso modo in cui parliamo a una persona sola? Perché una certa ragazza deve sconvolgere tanto la nostra ragione? L’uomo comune può dire soltanto: «È naturale che si rida; va da sé che il cuore ci palpiti in presenza della folla; si capisce che noi amiamo quella ragazza […]».
E poi ci ha spiegato che questi sentimenti sono proprietà accidentali di ogni animale:
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E così, probabilmente, sente ogni animale riguardo a quelle cose particolari che egli tende a fare in presenza di oggetti particolari. […] Pel leone è la leonessa che è fatta in modo da essere amata; per l’orso, l’orsa. Per la gallina che vuol covare, probabilmente sembrerebbe mostruosa l’idea che esista al mondo una creatura per la quale un cestino con delle uova non sia un oggetto così affascinante, prezioso e da-non-essere-mai-stanchi-di-sedervici-sopra, che è per essa.47
Quando si parla di piacere, siamo tentati di attribuire la nostra reazione a un oggetto alle proprietà dell’oggetto stesso. È naturale rimanere ammutoliti davanti alla ragazza, è così maledettamente sexy. Come potrebbe non farci girare la testa? È naturale restare rapiti alla vista di un neonato, è così adorabile. La profondità del piacere ci sfugge. Molti insistono nel dire che il piacere che traggono dal vino è dovuto al suo gusto e al suo profumo, che la musica è piacevole per via del suo suono, o che vale la pena di vedere un film per quello che succede sullo schermo. E naturalmente tutto questo è vero… ma solo fino a un certo punto. In ognuno di questi casi, il piacere è condizionato da fattori più profondi, compresa quella che riteniamo sia la vera essenza dell’oggetto dal quale stiamo traendo piacere.