Paolo Nori
La Svizzera
Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreED Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore © il Saggiatore S.r.l., Milano 2013
l’opera – Il personaggio che parla dentro questa operetta, che è una specie di monologo teatrale, è il coprotagonista di un romanzo che si intitola A Bologna le bici erano come i cani (uscito, nel 2010, per Ediciclo), ed è un signore di quasi ottant’anni che si chiama Benito e che ha fatto, per tutta la vita, il meccanico di biciclette, e che ha delle mani grosse con delle dita enormi che sembra che abbiano ancora tutta la loro forza, delle dita che a guardarle vien da pensare che devono aver sofferto molto a essere andate in pensione, delle dita che sembrano sporche di quello sporco che non viene mai via neanche con la pasta che hanno i meccanici per lavare le mani, uno sporco di morchia che si è depositato da anni ma non è quello, che fa impressione, è il dispiacere: sembra di sentire il dispiacere delle dita per non essere più impegnate tutto il giorno a girare dei cacciavite e delle chiavi a tubo, e dovere invece voltare dei fogli di giornale, o prendere delle tazzine di caffè, o portare delle borse della spesa, che sono occupazioni che costringono Benito a pensare a una cosa alla quale sta pensando da trent’anni senza poterla dire a nessuno. La trasformazione in monologo della parte del romanzo in cui parla Benito ha comportato diversi cambiamenti, che ci sembra giustifichino la pubblicazione di questa
operetta per conto proprio e con un titolo nuovo, La Svizzera (qui si parla in particolare del cosiddetto canton vicino).
l’autore – Paolo Nori, che è nato a Parma nel 1963 e abita a Casalecchio di Reno, quando gli chiedono che mestiere fa lui dice che scrive dei libri.
LA SVIZZERA
Immaginatevi un uomo di quasi ottant’anni seduto nel suo soggiorno con angolo cottura. C’è un tavolo, in mezzo, lui ci è seduto dietro. Dietro di lui c’è una cucina componibile, per il lungo, e in un angolo un frigorifero. Alle spalle dell’uomo, sulla sinistra, c’è una porta aperta dietro la quale si vede la porta d’ingresso dell’appartamento. Intorno al tavolo ci sono due sedie, una a capotavola, vuota, alla sua destra, e una dov’è seduto lui. Ha una camicia color fumo di Londra, un paio di pantaloni fumo di Londra, calze e scarpe fumo di Londra e, di fronte a sé, un registratore, di quelli a cassette, ma piccolo. Lo fa partire. Si schiarisce la gola e comincia a dire, rivolto al registratore: Non so perché i giapponesi mi odiano. Non gli ho fatto niente. Forse gli ricordo qualcuno che, non lo so, gli ha fatto del male. E allora, anche senza volerlo, che loro lo sanno, che non sono io, quello lì che gli ha fatto del male, però poi lì dentro, dove si muove, come si chiama, il sentimento, che anche i giapponesi, anche
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se non si capisce niente di quello che dicono, c’è il caso che han dei sentimenti anche loro, che non devono esser neanche diversi dai nostri, son diversi in dell’altro, è diversa l’educazione, che lì, zio imberlato, una volta, quand’è stato, un mese fa, ho fatto un viaggio in treno, andavo a Piacenza a trovar mio fratello, che di solito ci vado in macchina però ultimamente mi hanno cambiato tutte le cose, lì, i sensi unici, le girotonde, allora ho pensato che questa volta ci andavo in treno, oh, eran degli anni che non andavo in stazione, be’, è sempre uguale. L’ultima volta che c’ero stato dev’essere stato dieci anni fa quando ero andato io con Giannasi a vedere i mondiali di pesca nel laghetto del parco Ducale di Parma, era il periodo che era appena morta la mia Germana e Giannasi s’era messo a fare così, che mi chiamava da accompagnarlo in tutti i posti che andava, «Per darmi sollievo», gli era scappato detto una volta, che era anche gentile, però, non è che mi portasse nei posti che mi interessavano a me, mi portava nei posti che gli interessavano a lui, dove doveva andar lui. Che lì, però, come fai a dirgli di no, dopo ci restava poi male, e poi alla fine quando m’aveva portato a casa che ci eravam salutati lui mi aveva detto «Ci siam dati un buon tempo», e io, anche lì, gli avevo detto «Eh, certo», e l’avevo ringraziato, perfino, e intanto dentro di me avevo pensato “Te lo sarai dato te, un buon tempo”, che poi cosa vuol dire, darsi un buon tempo, o un cattivo tempo, che il tempo non è mica una cosa che uno si dà o non
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si dà, il tempo si prende, magari, e darlo io non conosco nessuno che sia capace di darlo, un giudice, forse, che ti dà quarant’anni di galera, ma Giannasi non faceva mica il giudice, faceva il barbiere. Un’altra volta, con lui, mica troppo tempo dopo, la settimana dopo, forse, mi aveva telefonato mi aveva chiesto «Vuoi venire al cinema, stasera, che danno un film di un regista che fa dei film uno più bello dell’altro?», e io, non che volessi andare al cinema, ero già in pigiama, io se fosse per me gli avrei detto di no, ma mi dispiaceva, ci teneva tanto, di darmi sollievo, a Giannasi gli piaceva dar via delle cose, il tempo, il sollievo, che anche il sollievo da dare non è mica facile, lì uno dovrebbe essere, non so, un massaggiatore, Giannasi non era mica un massaggiatore, era un barbiere, comunque c’ero andato, avevam visto un film, com’era? Una cosa di vecchi, non sono discorsi per vecchi, non sono cose da vecchi, una cosa così, con delle gran sparatorie dall’inizio alla fine, della gente morta in putrefazione, anche dei cani, della droga, dei soldi, degli inseguimenti, la guerra del Vietnam, che gli americani se dentro di un film non ci mettono la guerra del Vietnam non son mica contenti e alla fine gli uomini che muoiono tutti, restan solo le donne, no, stavo meglio in pigiama, io. Che poi oltretutto Giannasi, quando m’era passato a prendere in macchina, che io, per un po’, dopo che è morta la mia Germana, io non mi attentavo, a guidare, è durata degli anni, e lui, mi ricordo, Giannasi, quando
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m’era venuto a prendere era tutto pettinato, stirato, coi colletti della camicia che spuntavano fuori di un bianco immacolato, tirati all’insù, da galletto, era tutto ringalluzzito che io avevo pensato “Guarda questo Giannasi che si è fatto bello per uscire con me, com’è gentile, è un po’ pesante, però è proprio gentile”, e invece ero io, ero io che non avevo capito come andavan le cose, che lui, noi, cioè, prima di arrivare al cinema, lui, con la sua macchina, ci eravamo fermati a prendere una signora che poi era la sua signora, di Giannasi, non nel senso che fossero sposati, era la sua galante, la donna che lui ci si accompagnava, una certa signora Luciana, che lui secondo me eran le prime volte, che ci si accompagnava, che a un certo momento mi ricordo non trovavamo la casa, Giannasi aveva detto «Mi sono perduto», e aveva telefonato eravam vicinissimi, aveva segnato male il numero civico, e dopo un minuto neanche era scesa questa signora mora, con una gran scollatura, me la ricordo ancora, una bella signora, Luciana, vestita benissimo, io invece cosa vuoi che avessi addosso, un paio di braghe, un maglione, un paio di scarponcini di cuoio con la punta rotonda che li avevo comprati una volta in un supermarket, che quelli mi sembrava che tenevano l’acqua e infatti era vero, solo che eran di un duro, ci avevan messo sei anni, a diventar comodi, avevo fatto una fatica, a portarli, i primi anni, però dopo poi quando eran diventati poi comodi li avevo portati per altri sei anni che eran di un comodo, prima che si rompessero, come m’è dispiaciuto, si eran proprio sfondati lì
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nel calcagno, aperti in due, però la loro campagna l’avevano fatta, mi eran durati dodici anni. Comunque Giannasi, lui, poveretto, adesso poi mi dispiace, di pensarne poi male, è morto che non è molto, gli è dato un infarto, ma non un infarto, un colpo mortale dentro lì nel cervello, un ircus, o come si chiama, allora non è che, uno è morto, non è che mi voglio accanire contro dei morti, però quella sera, davvero, quando siam stati davanti alla cassa del cinema, che lui mi ha anche pagato l’ingresso, che io non volevo, ma non è mica quello, quando ha preso i posti, era un cinema che i posti te li davano loro, lui mi ha chiesto «Ti piace stare davanti?» e io, ma così, per gentilezza, gli ho detto di sì, e lui ha detto «Benissimo, a noi piace star dietro», e per me mi ha preso un posto in seconda fila e per loro alla fine del cinema e poi quando mi ha allungato il biglietto mi ha strizzato anche l’occhio che io non lo so, cosa voleva poi dire, con lo strizzo dell’occhio. Che lì io ho pensato “Ma come? Mi inviti al cinema che io sono in pigiama e poi mi fai guardare il film da solo in seconda fila che a me non piace neanche, star nelle file davanti?”. Ma non gli avevo detto poi niente, poveretto, è anche morto, ma non volevo dir quello, adesso, cosa volevo poi dire, mi sono perduto, come dice Giannasi, cioè lo diceva, che è morto, cos’è che volevo poi dire, dei giapponesi, che son della gente, non che siano cattivi, però a me mi odiano, non lo so come mai.
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Che lì sono fatti forse di sensibilità loro di giapponesi, che loro, i giapponesi, han dei modi diversi, dai nostri, che non è poi mica una questione di sostanza, è una questione di abitudini, di come si son sempre abituati nella loro isola, che poi in fondo il Giappone cos’è, nella sua sostanza, è un’isola, basta guardare sulla cartina, io ci ho guardato e quello che ho visto è che è un’isola, e allora anche loro, ritrovarsi d’intorno tutta questa pianura, d’un tratto, son colpi che, zio imberlato, fai fatica a riprenderti. Che loro, i giapponesi, io guarda, non ci pensavo, me ne sono accorto una volta che sono andato a Piacenza da mio fratello, col treno, che lui, mio fratello, se aspetto che mi viene a trovare lui mi passa la voglia, che lui dice che a lui il posto dove ci abito io gli mette l’angoscia, che lì, adesso, uno si potrebbe anche offendere, a parte il fatto che quell’espressione lì «Mi mette l’angoscia», hai ottantun anni, sei un tornitore, parli che sembri una cosa lì, come si dice, una ragazza senza nessuna esperienza, hai avuto sei mogli, adesso sei no, ne ha avute due, ma la prima, una svizzera, era d’un peso che valeva per quattro, e la seconda, non come la prima, ma anche lei è stata una bella cambiale, che adesso, stai buono, là, che poverine, son morte, le ha seppellite tutte e due, quel filibustiere di mio fratello, che poi non è filibustiere per niente, tutto preciso, uno stoccafisso che io non lo so, non sembriamo neanche fratelli, lui per dire gira in vestaglia, nella sua casa là di Piacenza, con i soffitti alti, sembra
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un notaio, tutti quei fazzolettini, tutte quelle cerimonie, no, non dico mica, è diventato, in un certo senso, qualcuno, che ha fatto bene, però, non so, io me lo ricordo, dài, con le croste sulle ginocchia, che non dico mica tu non debba cambiare, se vuoi cambiare, però, dài, un po’ di coerenza. Anche Giannasi, che c’è stato un periodo che Giannasi mi telefonava praticamente tutte le sere a raccontarmi cos’era successo nella bottega sua di barbiere, che poi barbiere, quando l’ho conosciuto io, era un barbiere, quarant’anni fa, dopo, a un certo momento, sarà stato venti anni fa, o forse, adesso dipende, magari anche trenta, il negozio di barbiere di Giannasi è diventato un negozio di hair stylist. Chioma, hair stylist, s’è messo a chiamarsi a un certo momento il negozio. Ma io dico: si può? Ci sono anche stato, una volta, aveva cambiato tutto l’arredamento, anche i phon, aveva messo su dei phon a forma di pesce e c’era una tappezzeria che sembrava di essere dentro un acquario e una musica e dei colori che sembrava di essere al cinema. «Mi devi scusare,» gli avevo detto a Giannasi, «ma io con queste cose moderne, vado da Pietro, lì sulla via Emilia, che è un po’ più lontano ma io mi trovo meglio, che lui è così bravo, e così discreto.» Io speravo, a dirgli così, che lui si offendesse, lo sai cos’ha fatto? Mi è venuto vicino mi ha preso un braccio mi ha guardato negli occhi mi ha detto «Benito, fai bene a andare da Pietro, che non ci va più nessuno. E poi,» mi ha detto, «io in questo modo potrò finalmen-
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te smettere di trattarti come un cliente, d’ora in poi ti tratterò come un amico, anzi, come uno di famiglia.» No ma, Giannasi era un lavoro che a me, adesso, un po’ mi è dispiaciuto, quando ho saputo che era morto, ma mica tanto, mi trattava come un cane, non son mica un cane, ve’, e nei cinema mi piace star dietro, come tutti gli altri, di veder bene, e di stare magari vicini, mica a te, alla Luciana. Anche se non lo so. Che quello lì, era un periodo, a guardarlo adesso, che io un po’ avevo perso il controllo e non solo Giannasi, un po’ tutti, mi trattavano un po’ come un cane, mi facevano fare quel che volevano, mi portavano in giro, e per me, guarda quel che ti dico, era un po’ anche un sollievo, perché io cosa fare quel periodo lì proprio non lo sapevo. Si sente suonare un telefono. Toglie dalla tasca un cellulare, risponde: Sì? Oh, ciao. Cosa? Sì, sì, va bene. Eh? Sì, sì, va bene. No no. No no, son sveglio, son dietro far dei conti, per quello sembro così. No, stai tranquillo, guarda, sto bene, scusa, no, son dietro far dei conti. No no no, non me la son mica presa, no, ma figurati, te lo dicevo, se me la prendevo. No, per così poco. No, non avevo niente, adesso sono a posto. Va bene. Sì, va bene. No no, son sicuro. Va bene ciao, grazie. Posa sul tavolo il cellulare e intanto dice:
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Ma va a dar via il culo. Guardando per aria come se pensasse: Cos’è che dicevo? Ah, sì… Rivolto al registratore: … per esempio la gente che ce l’ha con te anche se non gli hai fatto niente. Che ti odiano, proprio. Come con me i giapponesi. Che gli avessi fatto qualcosa, capirei, va bene, io vi ho fatto qualcosa, voi ce l’avete con me, tutto quadra; se uno ha un motivo, per odiarti, dopo può essere anche una cosa spiacevole, ma tu almeno un motivo, che ti odiano, ce l’hai, dopo puoi dire che son matti, che sono invidiosi, che han capito male, puoi dire quello che vuoi, oppure li odi anche te, che allora è la situazione ideale, lì non si sbaglia, lì son tutti contenti, te mi odi, io ti odio, va bene, siamo d’accordo, la pensiamo nello stesso modo, solo che io, con i giapponesi, ma anche con Giannasi, a pensarci, non era mica così. Che Giannasi a me non mi odiava ma io l’ho odiato, per un certo periodo, e anche i Marziani, che lì, stai buono, le cose che ho dovuto patire io dai Marziani, i parenti della mia Germana, che stavano a Milano, ci andavam tutti gli anni, sotto Natale, e io tutte le volte che eravamo vicini a Natale, io tutti gli anni a pensare alle scuse più diverse per stare a casa, oh, non se ne è mai bevuta una, la mia Germa-
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na, neanche la volta che dovevo mettere a posto la bici a Taccone per il giro di Francia, «Quando c’è il giro di Francia?», «In luglio», «Andiamo». Che la Germana, su molte cose lasciava poi perdere, sulla cosa lì della visita a Milano non c’era verso, un colonnello, in ventotto anni non c’è stato verso di saltare una visita a Milano, che adesso, quando ci penso, quando è morta, te non ti ricordi, ho avuto un dispiacere che son delle cose che non si possono neanche dire, ma ogni tanto, sotto Natale, poco prima di Natale, tipo il 15, o il 17, a me, oh, saran passati trent’anni, o anche quaranta, mi viene un pensiero, come un peso dentro la testa, e mi dico “Senti che peso”, e poi mi chiedo “Cos’è questo peso?” e dopo mi accorgo, è la visita ai parenti della Germana a Milano, e mi dico “Nooo, devo andare a Milano”, e poi mi rendo conto che niente, non ci devo andare, e allora lì è un gran sollievo, ma una gioia, io passo delle giornate bellissime, dopo che mi accorgo che non devo andare a Milano, e vado in tabaccheria gli mando un biglietto d’auguri, al Marziano, che gli scrivo «Tanti auguri buon Natale e buon anno nuovo», che dopo, io non me n’ero accorto, quest’anno gliel’ho mandata i primi di ottobre, che lui mi ha risposto mi ha detto «Un po’ in anticipo, quest’anno, comunque buon anno anche a lei», ci diamo del lei, sono cinquant’anni che ci conosciamo ci diamo ancora del lei, coi Marziani, che, lo sai, no?, tua mamma di cognome faceva Marziani, e loro anche loro, cioè lui, quello che è scampato, Marino, il parente
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superstite, io loro li ho sempre chiamati Marziani, lui il Marziano e sua moglie la Marziana, anzi, forse, sai cosa ti dico, io forse sua moglie, tua zia, non ho mai saputo come si chiama, forse Luciana anche lei, ma forse la confondo con la galante di Giannasi, che quella lì sì che mi è rimasta impressa me la ricordo benissimo, aveva una pelle, lì nella scollatura, tutta abbronzata, e morbida, senza quelle grinze che vengono delle volte nel morbido delle pelli delle signore che hanno degli anni, e dei capelli neri, con dei brillantini, e un rossetto sul bianco e un profumo, dentro la macchina, come di cocco, era una donna forte, secondo me, la Luciana di Giannasi, un po’ volgare, forse, e impegnativa, secondo me, e si accompagnava poi con della gente, ma aveva una cosa, di buono, la Luciana di Giannasi, che io l’ho vista una volta nella mia vita me la ricordo ancora, invece la Marziana, che per trent’anni l’ho vista tutti gli anni per Natale, se dovessi dire com’era, adesso, poveretta, non voglio dire, è morta, ma io se dovessi dire com’era la Marziana direi che era a righine. Le borsettine, le roselline, le scarpettine, ma come tutto grigio, e tutto rigato, che anche le righe eran righine, e anche il mangiare che ci davano, lì, per Natale, a Milano, dei brodini, delle insalatine, dei panini, piccolini, smorti, e pochi, che se poi gli chiedevi dell’altro pane ti guardavano come a chiederti come ti permettevi, che lì, lui, il Marziano, aveva dei problemi di salute, che io non dico, insomma, ti invitano a pranzo a Milano, sotto Natale, a Milano, città benestante,
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in casa dei Marziani, famiglia benestante, uno si aspetta, non dico dei cotechini, ma non so, un bel fagiano, e invece no, no, perché lì c’era il Marziano che lui ha dei problemi medici che doveva fare una dieta e allora anche i suoi ospiti, devono fare la dieta, che io non lo so, non stai mica bene? Vai in ospedale, no, quelli lì, zio imberlato, i Marziani, facevan le cose al contrario, invitavan la gente sotto Natale, non un giorno normale, sotto Natale, e facevan fare la dieta a righine anche ai loro invitati, ah, son dei bei lavori. Dopo uno si chiede «Ma come mai non volevi andare a Milano?», «Guarda, non lo so neanch’io». Anche se… adesso io, per me è facile, parlar dei Marziani, però, delle volte, forse è meglio se mi guardo me. Che anch’io, adesso, la mia Germana, quando mi ha messo via, che c’è stato un periodo che lei non mi voleva, secondo me, ecco… aveva ragione. E dall’inizio. Che lei c’era stato un momento che mi diceva «Non son mica un cane», e io mi chiedevo “Ma cosa vuole, questa qua?”, che non lo dicevo davvero, era una voce, ma quella lì non era “Questa qua”, era la mia Germana, che poi adesso è comodo, dire così, adesso son libero, posso far tutto quello che voglio invece allora un po’ mi sentivo legato, obbligato, tenuto di forza dentro una cosa che mi impediva, invece adesso penso che se fossi andato avanti per quella stradina, che era poi piccola, eravamo io e lei, coi nostri vestiti, coi nostri ricordi, con i piaceri e con i dispiaceri che erano i nostri, e basta, c’eravam solo noi, ecco adesso mi sembra che non
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sarebbe stato un impedimento, sarebbe stata una libertà, però adesso è comodo, è troppo comodo, e poi dopo è un esempio che non c’entra niente, io dicevo un’altra cosa, cosa dicevo, aspetta un momento, di mio fratello, che l’ho sentito di un male, poveretto, che brutta Pasqua, ma forse ero io, che quella lì poi alla fine è stata una giornata, che io tutto quello che vedevo, non lo so, ero così contento, di andare in treno, di riveder la stazione, mi sembrava di esser tornato alla mia giovinezza quando ero a Maquis, in Tunisia, avevo dentro una cosa, ma fin dal mattino, che son cose rare, ma ogni tanto succedono, e quando succedono a te ti sembra, non so come dire, che il mondo, ne hai preso una piega che ti fa stare bene, e staresti lì sempre, in quella pieghetta, e quello che vedi, ma anche se è brutto, ti mette allegria, o forse non allegria, non lo so, ma ti sembra, non so, come se eri una persona come si deve, ecco, come se eri bravo, come se sapevi come si fa a stare al mondo, come se c’era una giustizia, a questo mondo, e come se dipendeva tutto da te. E dopo è proprio in quei momenti lì che succedon… Si alza. Fa un giro intorno al tavolo, passando prima dalla parte dove non c’è la sedia. Arrivato alla sua sedia, la prende, stando in piedi, per lo schienale. Poi si siede e ricomincia: Che però, aspetta un attimo, adesso, io non volevo che sembrasse che siamo stati poi male, con la Germana, no, c’eran dei momenti che stavam bene.
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