La battaglia di Anghiari

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Niccolò Capponi

La battaglia di Anghiari Il giorno che salvò il Rinascimento


www.saggiatore.it Š il Saggiatore s.p.a., Milano 2010


Sommario

Introduzione Degli usi antichi Cartina

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Prologo 1. «Ora pigliate le guerre…» 2. Marte a contratto 3. La guerra per l’arte 4. Medicina di stato 5. Un problema Cardinale 6. I cavalli non mangiano sassi 7. Il balzo del leopardo 8. L’affresco del potere Epilogo. Machiavellico destino

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Note Note bibliografiche Indice dei nomi e luoghi

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Introduzione

«For the sake of a nail the shoe was lost…» Così inizia un poemetto dell’inglese George Herbert che da piccolo imparai assieme a tutta un’altra serie di nursery rhymes (filastrocche per bambini, alcune delle quali oggi irripetibili a causa del clima imperante, spesso delirante, della politically correctness). Partendo dalla perdita di un chiodo di ferro di cavallo, del cavallo stesso, del cavaliere e della battaglia, la canzoncina finisce con la perdita di un regno. Seguendo un filo di eventi singoli ma collegati, la rima di Herbert è apparentemente deterministica, ma in realtà apre una serie di possibilità di conclusioni alternative e tutt’altro che inevitabili: non è detto che basti un chiodo per far perdere un ferro, come non è detto che una sola battaglia porti alla rovina di uno stato. Herbert, in effetti, si sofferma su di una precisa sequenza fattuale, non su possibili sviluppi alternativi degli eventi in questione. Già, gli eventi… Per molti storici sono il campo d’indagine di dilettanti o giornalisti, i «pornografi della storia» – secondo la definizione di un cattedratico di mia conoscenza (e che si altera quando io chiamo questo suo atteggiamento «pneumosferico») – con una passione morbosa per i fatti eclatanti, ma incapaci di comprendere le dinamiche profonde del mondo di Clio: «la spuma sulle creste delle onde, che le robuste maree della storia portano sulle loro spalle», secondo una celebre definizione di Fernand Braudel. Eppure, tutti gli storici, provvidenzialisti, strutturalisti, postmodernisti, religiosi, agnostici o atei che siano, devono pur sempre fare i conti con gli avvenimenti, vuoi per confermarli,


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smentirli, stravolgerli, o finanche negarne l’esistenza. Ma per quanto sia vero che la storia e i fatti sono intimamente connessi, è altrettanto vero che lo storico deve continuamente confrontarsi con dei buchi documentari spesso consistenti. Nonostante ciò che si potrebbe credere, vi è molto di sconosciuto anche nel caso di personaggi famosi del passato, dei quali, in teoria, tutto dovrebbe essere noto. Ma questo è perfettamente logico, se pensiamo a tutti gli scontrini dei caffè consumati al bar che diligentemente cestiniamo; eppure, presi nel loro insieme, questi pezzettini di carta potrebbero dirci molte cose sulle nostre abitudini, informazioni che si potrebbero rivelare di cruciale importanza per lo storico se combinate con altri documenti. A questo vanno aggiunte tante nostre azioni quotidiane che non lasciano traccia per i posteri, anche quando coinvolgono altre persone, e semplicemente perché nessuno – e a ragione – considera utile scriverne. Oggidì sono in pochi a tenere un diario e questo non aiuterà di certo il lavoro di futuri studiosi. Per lo storico, in realtà, il problema non è l’abbondanza o meno di documenti, ma l’interpretazione di quelli esistenti. Per questo è fondamentale concentrarsi sugli eventi certi del passato, anche se non sempre tale certezza è possibile. La memoria di un determinato avvenimento può venire dalla penna di un singolo e naturalmente – anche quando si trattasse della persona più onesta del mondo – rispecchierà non solo una gerarchia individuale di valori e priorità, ma anche una prospettiva limitata derivante dalla nostra naturale impossibilità all’onniscienza. Prendiamo per esempio un’ipotetica conversazione tra due amici in una stanza: ognuno di essi vedrà solo un’area più o meno limitata dell’ambiente circostante, e inoltre si concentrerà sulle frasi che stimoleranno il suo interesse. Se ognuno dei due dovesse, dipoi, lasciare traccia scritta dell’incontro, un lettore di poco ingegno potrebbe rilevare nelle due versioni delle contraddizioni apparentemente inconciliabili: l’ambiente potrebbe essere descritto come un quadrato o un rettangolo; potrebbero venir menzionati o no certi oggetti; uno dei due potrebbe notare che l’altro si era messo più volte le dita nel naso, cosa non menzionata dal suo interlocutore. Dei seguaci fanatici della decostruzione testuale potrebbero concludere che nessuno dei due dice il vero, mentre semplicemente ognuno dice una parte della verità. Pertanto lo storico dovrà trovare quegli elementi comuni nei due


Introduzione

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racconti che gli permettano di ricostruire l’avvenimento con la maggiore accuratezza possibile. Gli eventi tuttavia – e ripartendo dal chiodo del ferro di cavallo – non sono mai isolati, essendo piuttosto vincoli di una catena fattuale. Alcuni di questi anelli sono più massicci, risaltano agli occhi in modo immediato: i fatti cruciali della storia. Nella poesia di Herbert, l’unico esempio di ciò è la perdita del cavallo e, di conseguenza, del cavaliere: la mancanza di un chiodo non necessariamente porta alla caduta del ferro, come quella di un ferro a quella della monta, e non è detto che un uomo solo faccia la differenza in un combattimento, che a sua volta potrebbe essere inconcludente. Invero, il concetto di battaglia «decisiva» è spesso rigettato dagli storici moderni, anche perché la stabilità e la continuità sono più facili da gestire. Ma in barba a ciò, certi scontri campali esercitano un fascino che nessuna teoria storiografica riesce a cancellare: Salamina, Hastings, Waterloo, Gettisburgh, Stalingrado – tanto per citarne alcuni – sono visti come momenti che hanno virato il corso della storia e a questo s’accompagna la domanda: cosa sarebbe successo se nelle battaglie in questione i persiani, i sassoni, i francesi, i confederati e i tedeschi non fossero stati battuti? «Con i se e con i ma, la storia non si fa» è un mantra ripetuto costantemente, soprattutto dagli storici nostrali, che, tra l’altro e per tutta una serie di motivi, provano una certa repulsione per quella che nel mondo anglosassone viene chiamata counterfactual history, più o meno «la storia dei futuribili». Eppure esaminare i possibili sviluppi alternativi di certi fatti del passato può servire a facilitarne la comprensione e magari a dare una diversa interpretazione rispetto a quella consolidata. Logicamente ciò non è scevro di problemi, dato che c’è il rischio di cadere nel relativismo storiografico – senza contare che smontare miti o certezze acquisite può portare a essere bruciati in effigie (e, a volte, anche fisicamente) dalle self-styled vestali del sapere, le pneumosfere di cui sopra. La vicenda della battaglia di Anghiari è una storia di futuribili, in quanto l’esame dei fatti rivela una straordinaria varietà di sviluppi alternativi. È difficile oggi accettare che fino alla seconda metà del secolo xv quello che noi chiamiamo Rinascimento si muoveva su gambe deboli e non era affatto il movimento artistico, culturale e intellettuale con il maggior seguito. Solo a Firenze dopo il 1434 la storia sarebbe stata diversa,


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soprattutto per ragioni interne alla città. Eppure, dati i repentini mutamenti politici caratteristici dell’Italia quattrocentesca, non era scontato che questa situazione sarebbe durata. Che ci piaccia o no (e ai miei amici senesi non piace per niente), all’inizio la Rinascenza fu soprattutto un fenomeno fiorentino, ma la sua sopravvivenza era legata, come sempre del resto, al costante patronato di uomini facoltosi. Una qualsiasi crisi, anche di proporzioni limitate, poteva portare al prosciugamento dei fondi per l’arte e la cultura. In questo senso, visto ciò che era successo prima e quello che sarebbe accaduto dopo, il risultato della battaglia di Anghiari fu determinante sotto ogni aspetto per la storia d’Italia. Il chiodo era stato ripiantato nel ferro del cavallo. Con ciò a mente, quest’opera non è semplicemente una histoire bataille circa lo scontro del 29 giugno 1440; non è nemmeno la storia di un affresco oggi perduto, seppure la vicenda sia uno dei leitmotive del libro. Ancora oggi si discute sull’importanza di Anghiari basandoci sul numero reale dei caduti – uno solo secondo il Machiavelli, varie centinaia a detta di Willibald Block – come se il conto del macellaio bastasse per spiegare un combattimento, o se ci si basasse sul metraggio per stabilire il valore di un oggetto artistico. Piuttosto ho inteso collocare l’evento Anghiari all’interno di un preciso contesto culturale e politico, in modo da permettere al lettore di comprendere le conseguenze di certi fatti. E il dipinto della battaglia, in fondo, non fu che il risultato finale di un processo storico e artistico consolidato. Ho lavorato da solo in questi mesi, e tra non poche difficoltà. Reperire i documenti non è stato il problema principale, quanto invece i tradimenti della tecnologia e le vicende della vita, non aiutati dalla mania perfezionista che mi ha sempre attanagliato. Conversazioni con studiosi o letture nuove mi hanno spesso portato a riscrivere interi paragrafi, quando non addirittura capitoli, nel tentativo di fare un lavoro pulito e – per quanto possibile – onesto. Per questo vorrei ringraziare in primis Aurelio Pino e Luca Formenton del Saggiatore per la loro infinita pazienza, spesso messa a dura prova. In Serena Casini, sempre del Saggiatore, ho trovato un’interlocutrice con cui ho condiviso la toscanità di questo scritto. Monsignor Timothy Verdon mi ha aiutato non poco nel comprendere lo sviluppo artistico del Rinascimento, e lo stesso ha fatto la professoressa Maria José Balsach. Con i professori James Hankins e Arthur Field ho avuto lunghe


Introduzione

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conversazioni sul mondo umanistico quattrocentesco. Il defunto professor Michael Mallett è stato il primo a farmi riflettere sull’importanza della battaglia di Anghiari. Vorrei anche ricordare il fu professor Gioacchino Gargallo di Castel Lentini per i molti, e provocatori, stimoli che da lui ho ricevuto in campo storiografico. Ciro Paoletti, Mario Scalini e Marco Morin mi hanno edotto su molteplici aspetti della guerra nell’Italia quattrocentesca. Il contributo di Domenico del Nero è stato fondamentale per il suo aiuto con i testi latini. Prezioso e stato l’ausilio datomi da Ersilia Graziani, dell’Archivio di Stato di Roma, circa la documentazione pontificia. L’ingegner Maurizio Seracini è stato generoso nel condividere con me i risultati delle sue ricerche sull’affresco della battaglia di Anghiari. Infine, vorrei ringraziare la mia famiglia, le mie figlie Francesca e Ludovica, e soprattutto mia moglie Maria che tra mille problemi ha avuto anche il tempo di correggermi la sintassi. Poiché quando tutto finisce, solo l’amore rimane. 6 gennaio 2011



Degli usi antichi

Unità di tempo Nell’Italia rinascimentale il calcolo delle ore giornaliere avveniva secondo quella che poi si sarebbe definita «ora d’Italia», basata sulla luce solare, e che differiva dalla ormai universale «ora di Francia», impostata sulla rotazione terrestre. Il giorno cominciava un’ora dopo il tramonto, per cui, tanto per fare un esempio, le 24 potevano oscillare dalle cinque del pomeriggio fino alle 9 di sera, a seconda delle stagioni. Per comodità, ho riportato tutto al calcolo temporale odierno. L’inizio dell’anno solare era variabile, ma le due date più comuni erano a Nativitate (il Natale), o ab Incarnatione (il 25 marzo), la festa dell’Annunciazione, per esempio, stabilendo fino al 1750 l’inizio dell’anno a Firenze. Anche in questo caso ho ridotto tutte le date all’uso moderno, con l’inizio dell’anno al 1˚ gennaio.

Monete e unità di misura In Italia, come nella maggior parte dell’Europa occidentale, vigeva il sistema monetario carolingio, basato originariamente sulla libbra d’argento e le sue suddivisioni, il solidus e il denarius, a ragione di 12 denarii per solidus e 20 solidi per libra. Nel Quattrocento italiano, la lira, il soldo e il denaro costituivano la base di tutte le valute di taglio superiore (la lira, va


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aggiunto, ridotta a moneta di conto), tipo il fiorino a Firenze o il ducato a Venezia. Il numero di lire poteva variare, in genere il fiorino ne aveva quattro e il ducato sei-sette. Il peso valutario delle varie divise, oltre che dal loro valore intrinseco, era dato dalle quotazioni sul mercato dei cambi: per una serie di motivi, nel corso del secolo xv il fiorino si sarebbe deprezzato di circa un terzo rispetto al ducato. Variabili erano anche le unità di misura, per esempio la libbra fiorentina pesava intorno ai 339 grammi, mentre i veneziani avevano addirittura la libbra leggera e quella pesante. A complicare le cose, le misure lineari o di superficie non erano mai le stesse, non di rado pochi chilometri tra un luogo e un altro erano sufficienti per creare una diversificazione sensibile. Anche in questo caso, ho ridotto tutto all’odierno sistema decimale.

Nomi e denominazioni Nell’uso generale la Repubblica e il Comune di Firenze sono sinonimi, ma in realtà la Repubblica fiorentina ebbe il suo inizio istituzionale solo nel 1494 (benché il termine fosse usato anche in precedenza). Per tale ragione, e nonostante la struttura repubblicana dello stato, ho usato sistematicamente la parola Comune in riferimento a Firenze. Per quanto riguarda Venezia ho impiegato spesso il soprannome di «Serenissima» e per Genova quello di «Superba». I milanesi e le truppe al loro servizio sono frequentemente chiamati viscontei, o ducali, per via dei Visconti, duchi di Milano. I nomi propri sono stati ridotti all’uso più comune. Niccolò Piccinino ricevette da Filippo Maria Visconti il diritto di usare il cognome della dinastia milanese e lo stesso diritto ebbe in seguito da Alfonso d’Aragona. Tuttavia, nelle cronache e nei documenti dell’epoca «Piccinino» prevale in modo assoluto. A Firenze era uso chiamare le persone con il patronimico oltre che con il cognome, per evitare confusioni con omonimi della stessa stirpe. Palla Strozzi era chiamato Palla di Nofri Strozzi, per distinguerlo da un paio di cugini con lo stesso nome. Neri Capponi era addirittura definito sic et simpliciter Neri di Gino, senza nemmeno menzionare la famiglia di origine. Quando, anche andando indietro di svariate generazioni,


Degli usi antichi

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il patronimico non fosse stato sufficiente a individuare una persona, si faceva ricorso a un soprannome: Cosimo «il Vecchio» di Giovanni de’ Medici, per distinguerlo dal suo nipote e omonimo. Per comodità ho usato semplicemente nomi e cognomi, salvo nei casi, come quello di Luca di Maso degli Albizzi, in cui il patronimico abbia un’utilità entro la struttura del racconto.



Anghiari

Borgo Sansepolcro

29 giugno 1440

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ore 15. (1) Le truppe milanesi, incluso un forte numero di fanti montati, si dirigono vero il ponte, con l’intenzione di attaccare il campo dei collegati. (2) Michelettolo Attendolo, scorta la nuvola di polvere prevocata dai nemici, si butta al galoppo con pochi uomini alla difesa del ponte. (3) Nel campo della Lega, Neri Capponi e Bernardetto de’ Medici danno l’allarme, coordinando al contempo l’azione di contrattacco.

Arezzo

ANGHIARI 100 m

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Citerna

Campo della Lega

Borgo Sansepolcro 1

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5

Arezzo 3

ANGHIARI 100 m

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Campo della Lega

Citerna

ore 15.15-17.30. (1) I milanesi passano il ponte, grazie anche alla manovra aggirante delle fanterie, e si schierano sul terreno livellato. (2) Piero Giampaolo Orsini e Simonetto da Castel San Pietro vengono in aiuto dell’Attendolo. Il combattimento di cavalieri frammisti a fanti si fa serrato, i milanesi cercano di sfondare le linee nemiche. (3) I balestrieri genovesi si dispongono sulle pendici del colle, bersagliando da lì le truppe di Niccolò Piccinino. (4) I collegati trascinano alcune bombarde fuori dall’accampamento per prendere d’infilata il fianco sinistro milanese. (5) Il Piccinino fa intervenire le proprie riserve, per creare un varco nello schieramento avversario. (6) L’intervento delle riserve dei collegati, lanciate al galoppo, ristabilisce l’equilibrio tra le parti.

Borgo Sansepolcro 3

4 1

Arezzo

2

ANGHIARI 100 m Campo della Lega

Citerna

ore 17.30-19.00. (1) Per rintuzzare i collegati Astorre Manfredi avanza i suoi uomini, creando un varco nello schieramento milanese. (2) L’arrivo dei saccomanni della Lega ribalta la situazione a favore degli alleati, che riescono a respingere i viscontei oltre il rivo. (3) Seppure in una condizione d’inferiorità numerica, il Piccinino riesce a ripristinare il proprio schieramento e resistere ancora per qualche tempo. (4) La stanchezza e la pressione nemica, unita al vento che soffia polvere nei loro occhi, provoca il cedimento dei milanesi, che vengono inseguiti dai collegati fino a Sansepolcro.

Legenda Fanteria milanese Terreno irrigato Artiglieria

Cavalleria milanese Terreno pianeggiante Ponte e guardo

Fanteria alleata Terreno collinare Staccionata

Cavalleria alleata Corso d’acqua Accampamento



Prologo

Il barbuto individuo fece qualche passo indietro, per lasciar spaziare l’occhio. Il turbinio dei corpi intorno allo stendardo era una visione avvincente, pari all’immagine di carne e metallo indissolubilmente fuse in un’unica, terribile massa convulsa. Era il destino di certi uomini vivere in un perenne stato di tensione, specie coloro che intraprendevano mestieri in cui il rischio era sempre presente e tutto per il guadagno immediato, quando non la fama imperitura. Del resto, ragionò il barbuto individuo, anche lui era tra questi. Osservò ancora la scena, la luce circostante attraversando il polverone in cui erano immersi uomini e bestie, rendendo l’insieme viepiù animato e drammatico. La sua attenzione si concentrò su uno dei personaggi che aveva dinanzi, un uomo con il berretto rosso, dalla faccia contratta in un urlo, al contempo furioso e angosciato. Tutto sembrava ruotare intorno a lui, come, in fondo, era giusto che fosse, dato che egli rimaneva il perno indiscusso di tutta la vicenda. Faceva caldo in quel pomeriggio di giugno e dagli spalti della cittadina qualcuno osservava con occhio attento la fortezza emergere in lontananza dalla foschia della valle. Lo sguardo cercava di percepire qualcosa di definibile, ma l’aria fluttuante dell’afa pomeridiana creava solo contorni imprecisi. Il canto degli uccelli e il frinire dei grilli faceva da sottofondo a quella tipica giornata estiva, accompagnata dall’intensa fragranza del fieno appena mietuto. Ma altri suoni e altri odori permeavano l’ambiente circostante, i corpi in movimento provocanti un ritmico clangore


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di acciaio, uomini e bestie spinti da grida e bestemmie, mentre l’odore penetrante di centinaia di equini e bovini opprimeva le narici, l’acredine animale frullando assieme alla polvere sollevata dagli innumerevoli zoccoli. L’uomo si levò un attimo il berretto rosso per tergersi la fronte sudata e scese dalle mura zoppicando: il retaggio di un’antica ferita, come anche i continui dolori alla schiena causati dallo stare costantemente in sella con chili di metallo indosso. Il passare degli anni aveva aggravato tali acciacchi, ma in quel momento le sofferenze fisiche erano secondarie rispetto a quelle dell’anima. I progetti che aveva coltivato per una vita erano sfumati in un baleno, a causa dei bisogni subitanei del suo datore di lavoro. Guardando i cavalieri che gli sfilavano innanzi, l’uomo dal berretto rosso provò un’invidia profonda, pensando che tra essi ci fossero anche signori indipendenti, mentre lui, nonostante tutti gli sforzi, non era mai riuscito a esserlo. E la marcia che stava per intraprendere lo avrebbe portato molto lontano dal suo obiettivo. O forse no. C’era un’altra strada, ne aveva discusso in precedenza con i suoi diretti sottoposti, che avrebbe potuto portare a un ribaltamento completo della situazione attuale e magari a coronare il sogno di un’intera esistenza. Alea iacta est, il dado è tratto, come aveva detto quel condottiere vissuto secoli addietro, continuamente citato dagli studiosi che gravitavano intorno al suo datore di lavoro. In fondo, pensò l’uomo dal berretto rosso, anche il suo mestiere era un gioco e il risultato dipendeva spesso da un lancio fortunato. Specie se uno dei giocatori usava dei dadi truccati. Il cavallo era pronto. L’uomo dal berretto rosso montò in sella, lo sforzo rendendo più acuti i dolori alla schiena. Una volta concluso quest’affare, si sarebbe preso un periodo di licenza in qualche bagno termale, dove probabilmente avrebbe incontrato altri suoi colleghi che soffrivano degli stessi disturbi. Studiò le schiere che gli stavano davanti per vedere se tutto era in ordine e girò lo sguardo verso la vallata. Lentamente levò il bastone che teneva in mano, facendo esplodere una musica di trombe, mentre uomini e cavalli cominciavano a muoversi in direzione della piana, scomparendo in una nuvola di polvere.


1. «Ora pigliate le guerre…»

Il barbuto individuo osservò con occhio attento la grande sala del palazzo. Date le dimensioni, l’impresa che si accingeva a compiere era a dir poco colossale, ma anche possibile fonte di prestigio e denari. Certo, i suoi attuali committenti non erano così generosi come coloro a cui era abituato; ma i guai dell’Italia lo avevano costretto ad abbandonare quello che, per quasi un ventennio, era stato il suo cantiere per fare ritorno alla sua città natale. Per fortuna, nel corso degli anni si era costruito una solida fama come artista, il che gli aveva procurato la commissione che si accingeva a intraprendere, un’opera che, secondo le intenzioni dei suoi nuovi patroni, sarebbe servita a dare un forte segnale politico circa le capacità militari del regime. La città, invero, aveva un disperato bisogno di successi militari, nonché di portare sotto un’unica bandiera i suoi proverbialmente litigiosi abitanti. Dopo decenni in cui una famiglia sola l’aveva fatta da padrona, pur conservando l’apparenza di un sistema di governo pluralistico, gli abitanti, grazie anche a un congruo aiuto dall’esterno, avevano ritrovato la libertà. Ma con essa era arrivata una serie di guai, non ultime le ribellioni di località soggette; in particolare una stava dando, da un decennio, parecchio filo da torcere al regime. Tutti i tentativi di catturarla erano falliti, e il pesante giogo fiscale necessario a finanziare la guerra stava facendo serpeggiare un forte malcontento tra i cittadini. Peggio ancora, gli insuccessi sul campo avevano creato la diffusa impressione che il regime fosse ormai sul punto di crollare, e vi erano nella città parecchi individui che non aspettavano altro che il ritorno della famiglia precedentemente al potere. Pertanto, il


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lavoro commissionato all’artista doveva servire come opera di propaganda, all’esterno come all’interno. Il problema era stato la scelta dei temi da rappresentare. Anche nel passato la città non era stata famosa per la sua bellicosità, e le vittorie da lei riportate sul campo si contavano sulle dita di due mani. Soprattutto, andavano trovati soggetti che potessero avere un’attinenza con la situazione odierna: la guerra in corso contro la località ribelle e la resistenza della città contro coloro che in precedenza avevano cercato di privarla della libertà. Alla fine, erano rimaste due opzioni possibili: la prima risaliva al 1363, quando i cittadini erano riusciti a battere la compagnia del celebre condottiere inglese Giovanni Acuto – italianizzazione dell’originale John Hawkwood; il secondo scontro, invece, era stato talmente celebre da meritarsi le attenzioni di storici del calibro di Leonardo Bruni, Flavio Biondo e Bartolomeo Platina – per non menzionare il suo ricordo in diverse rappresentazioni artistiche. Nella città esisteva un cassone nuziale rappresentante la battaglia in questione e appartenente ai discendenti di uno dei rappresentati politici presso l’esercito che aveva conseguito la vittoria. Prima di uscire dalla sala il barbuto individuo fece un paio di calcoli mentali su come intendeva impostare l’opera. C’era molto lavoro da fare: trovare manovalanze, acquistare cartoni e altri strumenti di lavoro, reperire il legname per le impalcature, il tutto in quantità enorme allo scopo di dipingere uno dei più imponenti cicli pittorici mai visti: la battaglia di Anghiari. Angelo della Pergola e Guido Torelli erano persone che sapevano il fatto loro. I due condottieri, al servizio del duca di Milano Filippo Maria Visconti, stavano elaborando un piano di battaglia, mentre dalla loro base di Borgo Sansepolcro, nell’alta Val Tiberina, osservavano il campo fiorentino posto sotto il paese fortificato di Anghiari, qualche chilometro a sudovest. I capitani viscontei avevano appena ricevuto da un disertore preziose informazioni circa le discordie esistenti tra Bernardino Ubaldini e Ardizzone da Carrara, i comandanti avversari. Inoltre sapevano bene quanto male in arnese fossero le forze messe assieme da Firenze, il Comune avendo dovuto fare i salti mortali per ricrearsi un esercito dopo le pesanti sconfitte di Zagonara, l’anno precedente, e nella Val di Lamone, qualche mese avanti. Con i soldati migliori già al soldo di altri potentati, i


1. «Ora pigliate le guerre…»

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fiorentini erano stati costretti ad assoldare il poco disponibile rimasto sulla piazza; e benché alcuni dei condottieri impiegati dal Comune fossero gente di vaglia, gran parte dell’esercito fiorentino era una massa raccogliticcia, comprendente veterani già appartenuti alla compagnia del defunto Braccio da Montone e avanzi raschiati dal fondo del barile mercenario. Inoltre, non era cosa da poco la frattura esistente tra i vari comandanti fiorentini, spesso provenienti da diverse scuole militari e frequentemente divisi anche da rivalità personali. I condottieri milanesi intendevano fare capitale di questi fattori. Nonostante la debolezza qualitativa dei loro nemici, il della Pergola e il Torelli si rendevano conto dei rischi esistenti nel portare un attacco a un campo trincerato, per cui diventava necessario costringere i fiorentini in una situazione a loro sfavorevole. Il Torelli, pertanto, cominciò a provocare il nemico mandando avanti piccoli nuclei di soldati contro il campo trincerato, sicuro che sarebbero stati respinti. Ma questo faceva parte del piano dei viscontei, i quali contavano in tal modo di far montare nei loro avversari un malaccorto senso di fiducia nelle proprie capacità. I comandanti milanesi andarono avanti così per qualche giorno, finché non reputarono le vittime arrivate alla giusta cottura. Il 9 ottobre dell’anno di grazia 1425, i ducali ripeterono il solito copione, ma stavolta con una significativa variante: la prima, debole, unità d’attacco sarebbe stata sostenuta da una seconda e più forte, in modo da attirare quante più truppe fiorentine fuori dall’accampamento. Il piano funzionò alla perfezione e, come i viscontei cominciarono a ritirarsi, i fiorentini si buttarono all’inseguimento, solo per trovarsi dinanzi l’intero esercito milanese. Nel confuso combattimento che seguì, il Torelli e il della Pergola ebbero il sopravvento, sgominando e ributtando indietro gli avversari. Bernardino Ubaldini, cui fin dall’inizio era sfuggito di mano il controllo delle proprie truppe, fu fatto prigioniero mentre i suoi colleghi riuscirono a scampare alla rotta dando lo sprone ai cavalli. Anghiari era la quarta battaglia consecutiva persa da Firenze nel giro di quindici mesi, in quello che era stato per il Comune un autentico annus horribilis. Gli eventi che avevano portato alla battaglia di Anghiari avevano avuto origine nella confusa situazione politica italiana a cavallo tra la fine del xiv e l’inizio del xv secolo. All’inizio del Quattrocento il duca di Milano


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Gian Galeazzo Visconti, noto come il conte di Virtù (da Vertus, nello Champagne, feudo portatogli in dote dalla prima moglie Isabella di Valois, figlia del re di Francia Giovanni ii) era riuscito a imporre la propria egemonia su gran parte dell’Italia settentrionale e centrale attraverso un’accorta e spregiudicata politica espansionistica. Al tempo della sua morte, nel 1402, Venezia e Firenze erano rimasti gli unici stati a tenergli testa; il papato non era in grado di opporsi al duca, causa la situazione di scisma esistente nella Chiesa dal 1378 che aveva portato alla creazione di due pontefici, quello legittimo residente, perlopiù, a Roma e un antipapa dimorante ad Avignone; in quanto al meridione d’Italia, era da tempo terreno di scontro tra le case d’Angiò e d’Aragona, quando non tra i vari rami della dinastia angioina. Ma Venezia poteva fare poco per opporsi alle mire espansionistiche di Gian Galeazzo, visto che possedeva un territorio piuttosto limitato nell’Italia continentale, mentre i fiorentini erano con le spalle al muro, dato che la maggior parte dei comuni toscani aveva scelto di assoggettarsi al Visconti. Politicamente isolata, circondata da vicini ostili e sconfitta sul campo di battaglia, Firenze pareva sul punto di cadere nelle rapaci grinfie del duca. L’improvviso trapasso di questi non fu solo la salvezza del Comune, ma rimescolò completamente le carte sul tavolo da gioco italiano. Gian Galeazzo aveva diviso i suoi possessi tra i figli Giovanni Maria, Filippo Maria e l’illegittimo Gabriele Maria. La giovane età dei successori del conte di Virtù, unita alle lotte intestine tra i loro tutori, precipitarono il ducato di Milano nel caos più completo, situazione che permise ad alcuni condottieri, già al servizio di Gian Galeazzo, di fare man bassa dei territori viscontei, mentre uno di essi, il piemontese Facino Cane, divenne l’effettivo padrone del ducato attraverso l’esclusiva influenza esercitata su Giovanni Maria. Della confusione politica esistente a Milano approfittarono i veneziani e i fiorentini; i primi conquistarono una fetta consistente della parte orientale del dominio di Gian Galeazzo, inglobando nel loro stato Vicenza, Padova e Verona e portandosi al ridosso delle frontiere mantovane e ferraresi; i secondi, invece, acquistarono da Gabriele Maria Visconti la città di Pisa, che riuscirono a prendere solo nel 1406 dopo un lungo e spietato assedio (i pisani non avendo alcuna intenzione di sottostare al giogo dell’odiata Firenze) riuscendo a completare il blocco della città con una flottiglia di galee veneziane prese in affitto.


1. «Ora pigliate le guerre…»

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In teoria, una conquista fiorentina di Pisa avrebbe dovuto preoccupare Venezia che si sarebbe ritrovata a fare i conti con un potentato commerciale dotato di porto. Ma la Serenissima aveva giocato bene le proprie carte: i veneziani erano riusciti a prendere Padova nel 1405 anche grazie al fatto che i fiorentini, occupati coll’assedio di Pisa, non erano stati in grado di aiutare i padovani. Inoltre, la conquista di Pisa non fu per Firenze un affare in senso assoluto: l’interramento provocato dai detriti dell’Arno stava rapidamente riducendo le possibilità del porto pisano e il nuovo sbocco marittimo mise Firenze in contrasto con gli altri stati costieri del Tirreno. Genova, in particolare, vide in modo assai negativo la presenza di una nuova, potenziale concorrente economica quasi alle porte di casa. Pertanto, e in barba ad accordi presi in precedenza, i genovesi convinsero il governatore francese di Genova (la città essendo all’epoca un protettorato dei Valois) a rifiutare la cessione di Livorno, Sarzana e delle torri poste a protezione di Porto Pisano. Alla fine dei conti, l’aiuto veneziano ai fiorentini poteva sembrare una polpetta avvelenata. Per Venezia, invece, l’ampliamento dello «stato di Terraferma» rappresentò un grosso vantaggio. Non solo la Serenissima era riuscita a consolidare la propria sicurezza spostando le frontiere occidentali fino al Lago di Garda, ma aveva anche acquisito un ampio comprensorio da cui poteva trarre gli approvvigionamenti necessari alla sopravvivenza della capitale. Inoltre, la conquista del Veronese, del Padovano e, soprattutto, del Vicentino, creò ottime possibilità d’investimento terriero per il ceto dirigente veneziano. A tutto ciò andrebbe aggiunta l’acquisizione di entità feudali già dipendenti dai Visconti, o dalle varie città della Terraferma, fonti importanti di reclutamento militare per la Serenissima. Ciò detto, l’espansione di Venezia nell’Italia settentrionale avrebbe portato il coinvolgimento della città nelle lotte per l’egemonia sulla penisola italiana e, in pratica, prodotto nei veneziani qualcosa di simile a una schizofrenia strategica che li avrebbe condotti a privilegiare di volta in volta o il fronte della terraferma o quello orientale e mediterraneo, minacciato dall’espansione ottomana nei Balcani e nell’Egeo. Nel 1412, con l’assassinio di Giovanni Maria Visconti e la morte di Facino Cane, cominciò la ripresa del ducato di Milano. Prima di passare a miglior vita, il Cane lasciò la sua compagnia di ventura e il proprio,


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cospicuo, patrimonio personale a Filippo Maria Visconti, con l’obbligo però che questi ne sposasse la vedova, Beatrice di Tenda. Il giovane duca, che possedeva tutta l’abilità politica e la spregiudicatezza del padre, accettò di buon grado d’accasarsi con una donna vent’anni più vecchia di lui per i vantaggi materiali e militari insiti nell’unione. Come prima cosa, infatti, dovette affrontare altri pretendenti al dominio di Milano, tra cui il cugino Estorre Visconti che aveva preso il possesso di Monza. Per Filippo Maria fu giocoforza procedere con cautela nella riconquista delle terre viscontee, il duca utilizzando, a seconda dei casi, o l’accordo o la forza o i subdoli mezzi impiegati da ogni governante italiano dell’epoca. Per le operazioni militari, il Visconti si avvalse di uno dei luogotenenti del defunto Facino Cane, il duro e abile Francesco Bussone, detto «il Carmagnola» dal luogo di nascita. Grazie a campagne militari brillantemente condotte, il Carmagnola riprese tutta la Lombardia e la parte del Piemonte comprendente Tortona, Alessandria, Vercelli e Novara. Nel 1421, in collaborazione con la flotta aragonese, costrinse Genova ad accettare il protettorato milanese e l’anno successivo batté clamorosamente ad Arbedo (Bellinzona) le forze dei cantoni svizzeri inviate a occupare il Ticino. Il successo del Carmagnola nella riconquista dello stato visconteo fu dovuto anche al fatto che nessun potentato italiano lo intralciò: erano tutti altrimenti impegnati. A Venezia l’elezione, nel 1414, del doge Tommaso Mocenigo aveva rallentato la spinta della Serenissima verso ovest, anche perché la repubblica si era trovata impelagata in una guerra con gli Ottomani e successivamente con il patriarca di Aquileia Ludwig von Teck, appoggiato militarmente dal re d’Ungheria e futuro imperatore romano Sigismondo del Lussemburgo. Con un conflitto in atto alle porte della Laguna, i veneziani non potevano permettersi il lusso di aprire un secondo fronte di guerra nel milanese, e inoltre il Mocenigo non riteneva l’espansione del Dominio di Terraferma utile per la repubblica – nel suo testamento politico implorò che il suo successore non fosse Francesco Foscari, convinto che avrebbe coinvolto Venezia in guerre costose e senza via d’uscita. Puntualmente, a meno di due settimane dalla morte del Mocenigo, fu annunciata la nomina del suo successore: Francesco Foscari. E in breve tempo trovarono conferma i timori del defunto doge. Nei primi anni della ripresa viscontea Firenze non volle, né ebbe la


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possibilità di opporvisi, distratta com’era da più immediate e pressanti minacce. Già dai primi anni del secolo xv il re di Napoli Ladislao d’Angiò aveva intrapreso una politica tesa ad annettere al proprio regno l’intera Italia centrale e, in poco tempo, conquistare Roma e spingersi fino ai confini della Toscana. Per un breve periodo una lega tra Firenze e Siena riuscì a fermare l’avanzata di Ladislao, il quale si opponeva anche ai tentativi, soprattutto fiorentini, di porre termine allo scisma esistente nella Chiesa cattolica. Per Firenze la ricucitura di questa divisione era in parte mossa da un sincero sentimento religioso, ma anche da ragioni politiche, dato che il papato poteva servire come stato cuscinetto tra la Toscana e il Regno di Napoli. Per ragioni opposte Ladislao non intendeva affatto adoprarsi per la ricomposizione dello scisma, la presenza di due pontefici rivali favorendo invece la sua politica espansionistica. In realtà, i fiorentini erano presi tra l’incudine e il martello, avendo timore di Ladislao, ma al contempo mire territoriali sulle Romagne e la Val Tiberina, ben consci che una Chiesa unificata sarebbe stata un’interlocutrice ben più coriacea di una divisa. Questo atteggiamento contraddittorio è ben riassunto in uno degli aforismi dettati, intorno al 1410, dall’oligarca Gino Capponi a suo figlio Neri: La Chiesa divisa fa pel Comune nostro, e per la nostra Libertà mantenere; ma è contro all’anima: e però non vi si debbe dare opera, ma lasciare fare alla natura. E se si potesse fare, ch’egli attendessimo allo spirituale solo, sarebbe sacrificare, e utile al Comune nostro la loro unità. Pure l’amicizia del Papa è utile al nostro Comune, e per niuno modo non vi contrapponete a quella; che cosa niuna ci può riuscire, se non con amistà della Chiesa.1

I fiorentini avevano già provato a porre fine allo scisma, favorendo la convocazione a Pisa di un concilio ecumenico che dirimesse la questione. Il concilio depose sia il pontefice romano sia quello avignonese e ne elesse un nuovo, Alessandro v; ma la sostanziale mancanza di autorità politica dell’assemblea pisana ebbe come unica conseguenza una Chiesa tricefala, dato che i deposti si rifiutarono di sgombrare il campo. Come se ciò non bastasse, papa Alessandro morì dopo poco più d’un anno di regno, e il concilio pisano elesse come suo successore l’ambizioso Baldassarre Cossa, con il nome di Giovanni xxiii. Per prima cosa


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il nuovo pontefice tentò la riconquista di Roma, con l’appoggio dei fiorentini e del pretendente al trono di Napoli Luigi ii d’Angiò. Dopo un primo successo che portò all’insediamento dell’antipapa Giovanni nella Città Eterna, la sconfitta sul campo di Luigi causò il suo abbandono dell’impresa, costringendo quindi il Cossa a cercare l’accordo con Ladislao, in cambio del suo riconoscimento ufficiale come re di Napoli. Questi, che già era riuscito a siglare paci separate con Firenze e Siena, fu ben contento di accettare, avendo bisogno di tempo per riorganizzare le proprie forze. Ma nel maggio 1413 Ladislao marciò su Roma costringendo Giovanni alla fuga e i fiorentini, appena usciti da una sfiancante guerra con Genova per il controllo di Livorno e Sarzana, a cercare un nuovo accordo con il napoletano. A Firenze si era ben coscienti che la sete di dominio del re era superiore a qualsiasi trattato, e così la città tirò un sospiro di sollievo quando si apprese che Lasdislao aveva improvvisamente esalato l’anima nell’agosto 1414. Come nel caso di Gian Galeazzo, per Firenze la natura si era rivelata il miglior alleato. La dipartita di Ladislao favorì anche la risoluzione dello scisma nella Chiesa. Appena entrato a Roma, Giovanni xxiii aveva convocato un concilio ecumenico, che però aveva dovuto chiudere i lavori quasi subito, causa l’offensiva militare napoletana. Grazie alla disponibilità del re dei Romani2 Sigismondo del Lussemburgo, il concilio si riconvocò a Costanza, nella Germania meridionale, e decretò la deposizione dei tre contendenti. Tuttavia, i padri conciliari aspettarono un paio d’anni prima di eleggere un nuovo papa, non volendo intralci durante l’elaborazione della cosiddetta dottrina «conciliarista», che in pratica sottoponeva il vicario di Cristo all’autorità dell’assemblea generale della Chiesa e lo obbligava a convocare un concilio ecumenico ogni cinque anni. Quando, nel novembre 1417, si arrivò all’elezione di papa Martino v (al secolo Oddone Colonna), questi, pur accettando alcuni dei decreti emessi a Costanza, ci mise poco a riaffermare il primato pontificio in materia di fede. Martino lasciò la Germania nell’aprile successivo, dopo lo scioglimento dell’assemblea ecclesiale, diretto a Roma. Purtroppo per lui, la situazione politica italiana lo avrebbe costretto a diversi anni di forzato esilio dalla Città Eterna, essendo emerso un nuovo potentato nel centro della penisola.


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Si può ben dire che la violenza abbia accompagnato fin dall’infanzia Andrea Fortebracci (o Fortebraccio), combattendo giovanissimo al fianco del padre, Oddo Fortebracci conte di Montone, nelle lotte intestine della natale Perugia tra le fila della fazione detta dei «beccherini». L’ascesa dei nemici «raspanti» costrinse i Fortebracci all’esilio e, per buona parte della vita, Andrea non ebbe che un’idea in testa: rientrare a Perugia da padrone. La sua vita errabonda lo portò a militare sotto le insegne del celebre condottiere Alberico da Barbiano, ma il suo chiodo fisso lo rendeva un subordinato difficile da gestire, data anche la propensione ad abbandonare i suoi datori di lavoro ogni qual volta si presentava l’occasione di rientrare a Perugia. Di conseguenza, e anche per la mancanza di risorse economiche, la sua carriera fu lenta e, nonostante le indubbie capacità militari, giunto alla trentina era ancora un semplice comandante di squadrone. La rottura di quest’impasse avvenne nel 1407 quando la cittadina di Acervia gli offrì la signoria in cambio della protezione contro il condottiere Ludovico Migliorati da Fermo. Fortebracci si scontrò sotto Acervia con Angelo della Pergola, luogotenente del Migliorati, sconfiggendolo in una battaglia cruenta durata diverse ore. Già per questa data era noto con il soprannome di Braccio, che era anche il suo grido di battaglia. Possedendo in Acervia una base logistica di qualche rispetto, il Fortebracci iniziò a costruire la propria compagnia di ventura, incentrandola su un nucleo compatto di esuli perugini. Con una reputazione ormai consolidata militò al soldo di Firenze contro Ladislao d’Angiò, passando poi al servizio di Giovanni xxiii. Fu questi a permettere a Braccio di realizzare il sogno della vita, prima autorizzandolo a riscuotere gabelle e tributi a Bologna, e poi incaricandolo di riportare all’obbedienza papale i territori già appartenuti alla Chiesa dandogli come compenso l’avito castello di Montone in feudo. La deposizione di Giovanni al Concilio di Costanza e la ritardata elezione di un nuovo pontefice liberò Braccio da qualsiasi legame, permettendogli di intraprendere la conquista di Perugia. I perugini, spaventati, offrirono la signoria della città allo sperimentato – seppur scalognato – condottiere Carlo Malatesta, signore di Pesaro, purché li difendesse dal Fortebracci. Braccio affrontò il Malatesta il 12 luglio 1416 a Sant’Egidio, a sud di Perugia, riportando una strepitosa vittoria che gli aprì le porte della città natale. Diventato signore di Perugia, si


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mise al lavoro per ampliare i suoi domini, alleandosi anche con Alfonso d’Aragona, pretendente al trono di Napoli. Questa politica lo pose in rotta con il papato, dal momento che uno dei punti forti della politica di Martino v sarebbe stata la restaurazione dell’originale estensione dei domini ecclesiastici. Martino arrivò a Firenze nel febbraio del 1419 e vi avrebbe soggiornato per i successivi diciotto mesi. Le condizioni di Roma non permettevano un ritorno immediato del pontefice, la Città Eterna ancora occupata dalle truppe napoletane della regina Giovanna ii, per niente intenzionate a cederne il controllo al papa e ad andarsene nonostante il pontefice avesse riconosciuto questa come legittima erede del fratello Ladislao. Martino, tuttavia, poté contare sul sostegno di Luigi iii d’Angiò, figlio del defunto Luigi ii, e pretendente al trono napoletano, che nel 1420 raggiunse l’Italia meridionale con la benedizione del papa nel tentativo di conquistare il regno che riteneva di sua legittima spettanza. Per difendere i suoi domini, Giovanna dovette abbandonare Roma, ma non prima di avere trovato un alleato in Alfonso, re d’Aragona e di Sicilia. Cinquantenne e senza discendenza, Giovanna nominò Alfonso suo erede e al contempo ingaggiò al proprio servizio Braccio da Montone. Il Fortebracci era l’ossessione di Martino v che, furioso per le conquiste del perugino, aveva provveduto a scomunicarlo nell’agosto precedente. Braccio, tuttavia, poteva contare sull’appoggio di Firenze, alla quale era legato da vecchi rapporti di servizio, nonché dal fatto che due figlie avevano sposato dei fiorentini. Il Comune vedeva di buon occhio la creazione di un forte stato amico nell’Italia centrale, che avrebbe potuto fungere da baluardo contro eventuali potentati ostili; al contempo, però, la tradizione guelfa della città imponeva fedeltà e deferenza al pontefice romano. Per queste ragioni, i fiorentini fecero da mediatori per un accordo tra Braccio e Martino, cosa che entrambi, bisognosi di tempo per riorganizzare le proprie forze, accettarono di buon grado. Il Fortebracci fece il suo ingresso in Firenze l’8 febbraio 1420 alla testa di un magnifico corteggio composto di cavalieri splendidamente equipaggiati, suscitando la meraviglia e l’ammirazione dei cittadini. La sera stessa schiere di monellacci corsero per le vie della città, soprattutto sotto le finestre degli appartamenti del papa nel convento di Santa Maria Novella, sbeffeggiando impietosamente il pontefice.


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Papa Martino, signor di Piombino, conte d’Urbino Non vale un quattrino, ah ah ah ah! Brazo valente, nostro parente, vince ogni gente! Ah ah ah ah!3

Martino, che univa la dignità della propria carica con la superbia dei Colonna, si imbufalì non poco e quando l’umanista Leonardo Bruni cercò di calmare l’irato pontefice dicendo che, in fondo, si trattava di ragazzate, ricevette la sferzante risposta che senza il consenso degli adulti i bambini non si sarebbero azzardati a farlo. Il papa aveva iniziato a maturare un’avversione per i fiorentini e la sua rabbia esplose nell’aprile successivo, quando i governanti del Comune accettarono di ricevere un’ambasceria bolognese. Martino, che stava cercando di ristabilire un controllo diretto su Bologna, considerò tale azione un affronto alla Chiesa stessa e, senza por tempo in mezzo, mise Firenze sotto interdetto. La crisi rientrò, anche perché i diplomatici bolognesi scelsero spontaneamente di andarsene. Ma l’incidente lasciò i fiorentini con più d’un dubbio circa le vere simpatie politiche del pontefice, e quando questi finalmente dipartì per Roma, nel settembre 1420, a Firenze serpeggiando la convinzione che fosse «poco amico della Comunità».4 Martino, dal canto suo, aveva già ideato una sua strategia, che lo avrebbe portato a osteggiare più o meno apertamente i fiorentini e i loro alleati, dando sostegno al duca di Milano e ai suoi disegni espansionistici. Per Filippo Maria Visconti l’appoggio papale fu una manna, e non solo dal punto di vista politico. Nel settembre 1418, con una dimostrazione di cinica spietatezza degna della sua schiatta, il duca aveva fatto giustiziare la moglie Beatrice con l’accusa di adulterio e (contrariamente a quanto ci vorrebbe far credere l’opera lirica Beatrice di Tenda di Giovanni Bellini) senza dimostrare alcun rimorso per le sue azioni. Avendo ormai fatto propri i denari, i possessi e il potenziale militare della vedova di Facino Cane, il duca optò per sbarazzarsi della sua presenza, resa ancora più incomoda, apparentemente, dal carattere autoritario di Beatrice che, a detta del cancelliere milanese Pier Candido Decembrio, la portava a comportarsi nei confronti del marito «quasi come un precettore».5 Ma mentre la tradizione popolare avrebbe sempre sostenuto l’innocenza della sfortunata duchessa, quando si fermò a Milano nell’autunno dello stesso anno,


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Martino v non mostrò la benché minima esitazione a ricevere gli omaggi dell’uxoricida Filippo Maria. Tra i due esisteva un’amicizia personale che risaliva a prima dell’ascesa di Martino al pontificato e il papa, inoltre, vedeva in Filippo Maria un utile alleato nella riconquista dei possessi ecclesiastici nell’Italia centrosettentrionale. In cambio di tale appoggio, Martino fu più che lieto di dare la sua benedizione alla conquista viscontea di Genova. La caduta di Genova per mano milanese allarmò i fiorentini, che erano riusciti ad acquistare a caro prezzo dai genovesi Livorno e le torri a guardia di Porto Pisano appena in tempo. Firenze e Milano avevano firmato nel 1420 un trattato di amicizia che delimitava le sfere d’influenza delle due città. La conquista della Liguria da parte di Filippo Maria, pur non essendo tecnicamente una violazione a tale accordo, di fatto piantava un cuneo visconteo nella Garfagnana e nella Lunigiana, entrambe aree pericolosamente vicine ai confini fiorentini. Inoltre, il Visconti aveva cominciato a fare delle puntate in direzione di Bologna, città da sempre considerata dai pontefici parte del loro dominio, ma anche ambita dai governanti milanesi. Di fronte ai successi del duca, Firenze non riuscì a opporre una strategia efficace, i suoi governanti permanentemente indecisi sul da farsi, e le richieste del legato pontificio a Bologna per la formazione di una lega di mutuo soccorso furono ignorate, per paura d’inimicarsi il duca. Martino v da parte sua stava creando altri problemi al Comune, allo scopo di ristabilire la sua autorità nell’Umbria, avendo concesso a Braccio da Montone il vicariato di Città di Castello. Ma la campagna del Fortebracci per la conquista del luogo provocò costernazione a Firenze, in quanto i castellani erano legati a Firenze da vincoli di amicizia. Indecisi tra l’aiutare Città di Castello o mantenere buoni rapporti con Braccio, alla fine i fiorentini optarono per la seconda alternativa, addirittura ingaggiando il condottiere perugino per due anni con una condotta di 1000 lance e 300 fanti. Il sacrificio dei castellani era giustificato dalla necessità del Comune di dotarsi di un’adeguata forza militare nel caso di una guerra con il Visconti. Il duca, tuttavia, non a torto aveva la fama, come avrebbe acutamente sottolineato Enea Silvio Piccolomini (poi papa Pio ii), di essere «eccellente maestro in simulare, e dissimulare».6 Quando, nell’aprile 1422, arrivò a Firenze un’ambasciata milanese per riconfermare l’amicizia tra il Visconti


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e il Comune, il regime fiorentino, pur dubbioso sulle reali intenzioni di Filippo Maria, non riuscì a formulare una risposta concreta a quella che ormai appariva una crisi inevitabile tra il duca e Firenze. L’idea di cercare un’alleanza con Venezia non ebbe seguito, in quanto molti temevano che ciò avrebbe potuto essere interpretato dal Visconti come una provocazione, e parimenti naufragò lo schema di una lega con il papa. Il pontefice, in realtà, stava spingendo Filippo Maria a interessarsi della Romagna, un modo economico per riportare all’obbedienza pontificia le città della zona, mentre Martino si preparava a saldare i conti con Braccio da Montone. Invero, alla luce del successivo comportamento del papa, sorge spontaneo il sospetto che tra lui e Filippo Maria esistesse un patto faustiano per la spartizione dell’Italia centrosettentrionale. La crisi tra Firenze e Milano cominciò a precipitare nel maggio del 1423, quando i partigiani del Visconti occuparono con un colpo di mano la città di Forlì; e, benché il duca non si fosse esposto in prima persona, tutti videro la sua mano nelle vicende forlivesi. Tuttavia, durante l’estate successiva i fiorentini si mossero con cautela, il forte partito della pace presente in città non desiderando affatto un conflitto con Milano. La situazione, comunque, era abbastanza seria da giustificare la creazione dei Dieci di Balìa, magistratura attivata solo in tempo di guerra, che provvide subito a reclutare soldati da inviare in rinforzo alle guarnigioni nella zona dell’Appennino e nel Pisano. Il governo contava sull’aiuto di Braccio da Montone, ma questi, occupato ad allargare il proprio dominio nel centro Italia d’accordo con Alfonso d’Aragona, si limitò a inviare un piccolo contingente di soldati ai suoi datori di lavoro. Suggerì, comunque, ai fiorentini d’ingaggiare Pandolfo e Carlo Malatesta, benché il secondo fosse stato in precedenza sconfitto dallo stesso Braccio a Sant’Egidio. Invero, Carlo aveva la fama di essere «molto uso a perdere»,7 ma anche un capitano solido e affidabile. Pandolfo aveva un personale conto in sospeso con Filippo Maria, il duca qualche anno prima avendolo scacciato da Brescia – città di cui il Malatesta si era insignorito durante il periodo di confusione politica seguito alla morte di Gian Galeazzo Visconti. Durante l’estate del 1423 Pandolfo condusse un’incursione in Romagna allo scopo di scacciarne i seguaci del duca, ma benché egli riuscisse a prendere la fortezza di Forlì, la città rimase sotto il controllo dei partigiani viscontei.


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Filippo Maria non stette a guardare: la sua reazione, in perfetto stile visconteo, si sviluppò con consumata abilità. Conscio dell’avversione di molti fiorentini a un’eventuale guerra con Milano, il duca, attraverso il marchese di Ferrara Niccolò iii d’Este, fece sapere di essere disposto a trovare un accordo con il Comune. Considerati i costi della mobilitazione militare e le pressioni delle colombe, anche i falchi antimilanesi accettarono di trattare e fu inviata a Ferrara una delegazione con un messaggio in tal senso. La manovra di Filippo Maria, però, era solo un trucco per fare abbassare la guardia all’avversario e nel gennaio 1424 il duca occupò Imola con un colpo di mano, scacciandone il signore che, per l’appunto, era uno degli alleati di Firenze. Benché tale azione spazzasse via ogni possibilità d’accordo, l’indecisione continuò ad attanagliare il regime fiorentino, anche perché una guerra vera e propria avrebbe portato a un inasprimento del già pesante fardello fiscale, i cittadini alquanto riluttanti a contribuire ai prestiti forzosi imposti per pagare lo sforzo bellico. Invano, Palla Strozzi avrebbe incitato i fiorentini a mostrarsi uniti e a non badare a spese per salvaguardare la loro sicurezza, invocando il principio del si vis pacem para bellum: «Se ’1 nostro inimico vedrà noi essere in disordine, potrà meglio offenderci; starà più nel pensier della guerra».8 Ma lungi dal prendere una qualsiasi decisione concreta, il regime preferì attendere e a nulla approdarono anche i progetti di un’alleanza con Alfonso d’Aragona e con Venezia, nonostante questa politica attendista costasse al comune qualcosa come 45 000 fiorini al mese. Gli eventi presero una brutta piega nell’estate del 1424. Il 2 giugno Braccio da Montone fu sconfitto sotto L’Aquila dalle forze congiunte di Giovanna d’Angiò e Martino v, il condottiere perugino soccombendo qualche giorno dopo per le ferite riportate. Il colpo per Firenze fu duro: non solo il Comune aveva perso il suo più valido comandante, ma la disgregazione dello stato braccesco nel centro Italia privava i fiorentini di un importante baluardo a sud, situazione aggravata dalle voci circolanti di un accordo tra il papa e il Visconti. Il peggio, però, doveva ancora venire. Il 28 luglio l’esercito fiorentino in Romagna, agli ordini di Carlo Malatesta, subì una schiacciante sconfitta a Zagonara a opera dei viscontei al comando di Angelo della Pergola, lo stesso Malatesta rimanendo prigioniero. Davanti al disastro, il regime fiorentino tentò di


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serrare le fila, ma non poté mettere a tacere il risentimento di molti cittadini, espresso nello sfogo di Giovanni Cavalcanti: Voi non credevate mai di persona aver bisogno. Del lione si legge che una volta gli abbisognò il topo. Ove correrete per il vostro scampo? Ora pigliate le guerre, e fate i Dieci, e dite che faranno terrore al nemico: or fate queste vostre pensate pazze, e non considerate con nulla ragione. Voi avete mossa senza ragione questa guerra, e non aveste riguardo al consiglio de’ buoni cittadini.9

In effetti, erano pochi i santi cui Firenze poteva appellarsi in quel frangente. La regina di Napoli era mal disposta per l’appoggio dato a Braccio dai fiorentini e lo stesso era vero per Martino v (che aveva dimostrato di valere più d’un quattrino). Tra l’altro, il papa oppose un netto rifiuto alla proposta dei rappresentati del Comune di reclutare i resti della compagnia di Braccio, ora al comando di Oddo Fortebracci e Niccolò Piccinino. Diversi fiorentini erano restii a contrariare il pontefice, più per ragioni pratiche che per motivi ideali – Giovanni de’ Medici, per esempio, era preoccupato per la sorte dei suoi investimenti nelle banche papali, da qui si comprende l’ammonimento fatto ai suoi concittadini che la loro salvezza dipendeva dall’amicizia con Martino. Tra l’incudine e il martello, i Dieci di Balìa, infine, optarono per arruolare il Fortebracci e il Piccinino, sfidando così l’ira papale. Non era possibile fare altrimenti, specialmente dopo il naufragio delle trattative con Venezia per la creazione di una lega antiviscontea, come anche fallì il tentativo di ottenere l’aiuto di Sigismondo del Lussemburgo. Intanto, a Firenze cresceva il malcontento tra la popolazione, la guerra creando scarsità di generi di consumo e il conseguente aumento dei prezzi. Inoltre, una diffusa crisi economica non favoriva le entrate del Comune, il pesante carico fiscale gravando soprattutto sui ceti medi cittadini. I tentativi di alcuni oligarchi, guidati da Rinaldo degli Albizzi, per una più equa ed efficace politica tributaria attraverso l’introduzione di un catasto fallivano per l’opposizione degli elementi conservatori e, non senza ragione, malfidati, in seno al Comune. Nel frattempo la spesa militare era cresciuta a quasi 80 000 fiorini al mese, ma in apparenza quest’esborso non andava producendo alcun frutto.


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Nel febbraio 1425 il Piccinino e il Fortebracci finirono in un’imboscata dei viscontei nella Val di Lamone, Oddo rimanendo ucciso e Niccolò prigioniero a Faenza. La signora della città era Gentile Malatesta, vedova di Gian Galeazzo Manfredi e parente dei comandanti fiorentini Pandolfo e Carlo. In qualche modo, il Piccinino entrò nelle grazie della donna e di suo figlio Guidantonio, convincendo entrambi dell’opportunità di passare dalla parte dei fiorentini. I Manfredi, vista la politica aggressiva del Visconti in Romagna, avevano ragione di temere per la loro sopravvivenza e quindi faceva loro gioco sostenere il più debole dei due avversari. In quanto al Piccinino, l’amicizia con i Manfredi gli sarebbe stata di grande beneficio negli anni a venire, intanto i signori di Faenza gli permisero di assoldare uomini in zona. Nonostante la sconfitta, i fiorentini gli confermarono l’ingaggio con un contratto per 400 lance e grazie a queste, nel settembre successivo, Niccolò poté porre una valida difesa agli attacchi dei viscontei contro i domini dei Manfredi. Ma la Romagna era solo uno dei fronti che Firenze doveva coprire (invero con poco successo). Un tentativo contro Genova fallì miseramente a Rapallo, mentre nell’ottobre la sconfitta di Anghiari mise a rischio il dominio fiorentino nella Valdichiana. Solo il tempestivo intervento del Piccinino, arrivato in tutta fretta da Faenza, impedì la caduta in mano ai viscontei di Arezzo e Cortona, ma le perdite subite dai fiorentini in poco più d’un anno stavano mettendo a serio rischio la sopravvivenza stessa del Comune. Come se questi disastri non bastassero, nel novembre ci fu la defezione di Niccolò Piccinino ai viscontei. Il suo contratto con Firenze ormai in scadenza, il condottiere perugino aveva chiesto ai fiorentini un aumento della propria condotta di sessanta uomini d’arme con il loro seguito, 100 fanti e una provvigione personale di 200 fiorini mensili. Per avarizia o perché le richieste di Niccolò erano insostenibili, i Dieci di Balìa opposero un netto rifiuto. Di conseguenza il Piccinino, già in trattative con il capitano visconteo Guido Torelli, non esitò a stipulare una ferma di 1200 cavalli con il duca di Milano, subito dopo iniziando la devastazione delle campagne aretine. A Firenze l’ira per il cambio di casacca di Niccolò suscitò reazioni feroci, il governo condannando in contumacia alla prigione a vita il fedifrago condottiere, e al contempo commissionando una pittura infamante che lo raffigurava appeso per un piede. L’unica conseguenza


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di ciò fu un odio duraturo del Piccinino verso i fiorentini, che in futuro sarebbe sempre stato un ostacolo a un suo possibile riavvicinamento con il Comune. Il soccorso a Firenze giunse, inaspettato, da Venezia. La Serenissima aveva cominciato a preoccuparsi per la politica espansionistica del Visconti, e ciò, unito al carattere bellicoso del doge Francesco Foscari, aveva spinto i veneziani a considerare l’utilità di un’alleanza con i fiorentini. Inoltre, Venezia aveva sviluppato mire proprie sulla Lombardia e la Romagna, oltre a far entrare Ferrara nella propria zona d’influenza (le saline del Polesine erano preda assai ambita). Tuttavia i veneziani non si precipitarono in guerra, cercando inizialmente una soluzione diplomatica del conflitto tra Firenze e Milano. Quando la loro proposta di mediazione fu rifiutata da Filippo Maria e il papa si dimostrò poco propenso ad assumere il ruolo di paciere – anzi tentando in tutti i modi di favorire le ostilità – la Serenissima decise di rompere gli indugi. Il 4 dicembre Venezia e Firenze firmarono un’alleanza difensiva con l’impegno di mettere in campo un esercito di 16 000 cavalli e 6000 fanti, con l’aggiunta clausola che ogni territorio preso in Lombardia sarebbe andato ai veneziani, e in Romagna ai fiorentini. In realtà, il trattato favoriva Venezia più che Firenze e, inoltre, la Serenissima ottenne un ruolo di preminenza in eventuali trattative di pace, cosa che, in pratica, le conferiva la facoltà di determinare il corso della guerra. Anche la spartizione delle conquiste era a favore dei veneziani, dato che su quelle romagnole, riservate a Firenze, gravava un’ipoteca papale. Ma i fiorentini, ormai con l’acqua alla gola, furono più che contenti della nuova alleanza, apparentemente incuranti di dover sborsare i quasi 100 000 fiorini mensili necessari per il mantenimento della loro quota di 8000 cavalli e 3000 fanti. Firenze cercò anche di saldare i conti con il Piccinino, tentando di sorprenderlo nella casa vicino a Città di Castello dove aveva preso quartiere. Il colpo di mano fallì grazie alla prontezza di riflessi di Niccolò, che non ebbe esitazione a buttarsi seminudo in una scarpata. Anche il tentativo di avvelenarlo fallì miseramente, il cuoco prezzolato per il misfatto finendo giustiziato. Qualche mese prima la stessa sorte era toccata a un paio di agenti viscontei, sorpresi in territorio veneziano mentre progettavano di uccidere il Carmagnola: il condottiere piemontese essendo passato al


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servizio della Serenissima dopo che il sospettoso e infido Filippo Maria lo aveva esautorato da ogni comando e addirittura aveva cercato di arrestarlo. Ma nell’Italia quattrocentesca la perfidia faceva parte del gioco politico, e l’unica discriminante era riuscire a sopravvivere in un mondo fatto di continui tradimenti, inganni e cambi di fronte.


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