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RICHARD COOK
Miles live e in studio Q U AT T O R D I C I A L B U M F O N D A M E N TA L I
Traduzione di Guido Zurlino Discografia a cura di Enrico Merlin
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© Richard Cook, 2005 First published by Atlantic Books, 2005 © il Saggiatore S.P.A., Milano 2008 Titolo originale: It’s About That Time. Miles Davis On and Off RecordWith Billie
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iles Davis non era totalmente in sintonia con il bebop, e si sentì sempre un po’ a disagio tra i suoi trombettisti. Il bebop si era imposto, fin dall’inizio, come un linguaggio che richiedeva notevoli doti tecniche (secondo l’impostazione voluta dai suoi massimi creatori – Dizzy Gillespie, Thelonious Monk, Kenny Clarke – era tipico di questo stile lasciare nell’ombra i musicisti di secondo piano per far risaltare i veri mattatori), trovando il suo interprete più significativo in Charlie Parker, un virtuoso la cui padronanza musicale e l’intensità espressiva finirono per rappresentare il bop stesso. I giovani musicisti come Miles Davis ne erano sbalorditi e incantati. Come molti ragazzi neri, Miles era cresciuto in fretta e aveva soltanto diciotto anni quando suonò per la prima volta con Parker. Nato in una famiglia benestante del ceto medio di St. Louis, aveva iniziato lo studio della tromba a tredici anni, e a quindici era già in grado di esibirsi con alcuni gruppi locali, guadagnando 85 dollari alla settimana. Fu uno dei tanti giovani incoraggiati dalla star locale Clark Terry, che gli suggerì anche quella che sarebbe diventata una caratteristica fondamentale del suo stile: suonare senza fare eccessivo uso del vibrato. L’ambiente musicale di St. Louis era vivace ma di scarso rilievo, e quando arrivò in città l’orchestra di Billy Eckstine, nel luglio del 1944, il giovane Davis dovette sostituire uno dei suoi trombettisti ed ebbe il primo vero contatto con il bebop. In quel gruppo suonavano anche Parker e Gillespie, e per un musicista acerbo e impreparato l’esperienza deve essere stata travolgente. A detta di Eckstine, a quel tempo Miles era una specie di somaro che non sapeva quasi suonare, anche se il trombettista la pensava in modo diverso e più tardi sosterrà di aver affrontato il repertorio della band senza troppe difficoltà. In ogni caso, tutto si concluse nell’arco di due settimane, ma forse fu proprio quell’episodio a convincere Davis a trasferirsi a New York, dove Parker e compagni si esibivano regolarmente. Nel 1945 il padre lo mandò a studiare musica all’Accademia Juilliard di New York, provvedendo al suo sostentamento con un assegno regolare. Il giovane Miles si prefisse lo scopo di incontrare Parker, e alla fine i due giunsero persino ad abitare insieme, sebbene a quell’epoca Davis avesse già famiglia (pur senza essere sposati, lui e la sua ragazza, Irene, avevano avuto una bambina, Cheryl). Oltre a seguire le lezioni – che tuttavia gli insegnarono
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ben poco di nuovo e interessante – Davis incontrava altri musicisti, trascorrendo ore in compagnia di Dizzy Gillespie e riuscendo a ottenere i primi ingaggi nei locali della Cinquantaduesima Strada, la via centrale in cui sorgevano tutti i ritrovi jazz di New York. Nel 1945 il bop aveva ormai superato la fase sperimentale e si era allontanato dai club neri di Harlem, con Parker e Gillespie quali maggiori esponenti. I due suonavano insieme in un quintetto, ma ben presto gli atteggiamenti di Parker, devastato dall’eroina e da una compulsione irrefrenabile per il cibo e l’alcol, lo resero talmente inaffidabile che Gillespie decise di proseguire la carriera per proprio conto. Per tutta risposta, Parker ingaggiò Miles Davis. Il giovane trombettista aveva avuto una sola esperienza in sala d’incisione, il 24 aprile del 1945, partecipando alla registrazione di una modesta raccolta di pezzi con un gruppo guidato da Herbie Fields e dal cantante «Rubberlegs» Williams, ma quando, il 26 novembre, fu chiamato a incidere con i Reboppers di Charlie Parker, aveva già al proprio attivo numerose esibizioni dal vivo con il celebre sassofonista. In quella seduta, che segnò il debutto discografico di Parker in qualità di leader, furono registrati sei brani. Miles suonò in tre pezzi, e Dizzy Gillespie eseguì le parti di tromba negli altri (in due si esibì anche al pianoforte). Il brano più famoso è «Now’s The Time», dove spicca la vivacità di Parker ma a lasciare il segno sono il suono nitido e il fraseggio accurato di Davis. Quello stesso giorno, durante la registrazione di «Billie’s Bounce», Davis doveva essere talmente nervoso che il suo assolo sembra modellato sullo stile di Freddie Webster, un contemporaneo che lui ammirava moltissimo (Webster morì nel 1947, e la sua influenza sul giovane Miles è tuttora oggetto di dibattito). Pur essendo inevitabilmente oscurato da Parker, all’epoca quasi all’apice delle proprie potenzialità, lo stile caratteristico del trombettista iniziava già a prendere forma. Davis continuò a lavorare con Parker – soprannominato «Bird» o «Yardbird» a causa della sua passione per il pollo (in realtà Davis ha espressamente riferito allo scrivente, nel 1985, che Parker «faceva pigolare le ance, ed è per questo che lo chiamavamo Bird») – ma durante l’anno e mezzo successivo suonò anche con altri musicisti. Si esibì sulla costa occidentale con la grande orchestra di Benny Carter, suonò con Charles Mingus e di nuovo con Billy Eckstine, e infine restò per due mesi con la grande orchestra di Dizzy Gillespie prima di tornare al piccolo gruppo di Parker, nell’aprile del 1947. In seguito collaborò regolarmente con il sassofonista fino a tutto il 1948, pur condividendo l’avversione di molti colleghi per i suoi eccessi. In precedenza, Davis aveva partecipato con Parker, Lucky Thompson e Dodo Marmarosa alla seduta d’incisione di un gruppo di sette elementi (da cui uscì una fantastica versione di «A Night In Tunisia»), ma fu nei dischi incisi da Parker nel 1947-48 per le etichette Savoy e Dial (The Complete Savoy And
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Dial Studio Recordings [1]) che il trombettista dimostrò tutta la sua capacità di inserirsi in modo ponderato nei veementi fraseggi di Parker. Per molti anni i denigratori sostennero che Davis non possedeva le doti necessarie a soddisfare le esigenze tecniche della musica di Parker, e gli interrogativi riguardo gli esiti di quelle session se al suo posto avesse suonato l’esuberante Gillespie – all’epoca impegnato con una grande orchestra – rimarranno per sempre senza risposta. Anziché cercare di uguagliare i virtuosismi di Parker, come avrebbe fatto Gillespie, Miles ne attenua l’esecuzione. Suona in modo misurato e razionale, mantenendosi nell’estensione media che gli permette di sfruttare al meglio le proprie caratteristiche. In alcune improvvisazioni sembra quasi esitare in attesa di un’imbeccata ispiratrice, ma il sospetto che non fosse all’altezza della situazione trova poche conferme. Nelle varie incisioni scartate, Davis commette meno errori del grande Parker. A volte, per esempio nella session del 17 dicembre 1947, torna a uno stile bebop più meccanico e caratterizzato da una produzione frenetica di note, e in una registrazione di qualità decisamente superiore, realizzata quattro giorni più tardi – i cui pezzi forti sono «Klaunstance» e «Bird Gets The Worm» – appare stranamente distaccato, come se l’atmosfera informale della session non lo interessasse. Tuttavia, lo stridente contrasto tra il suo approccio e quello di Parker rende avvincenti ed eleva gran parte dei brani. Le contenute improvvisazioni di Davis conferiscono maggiore risalto alla prorompente creatività del sassofonista. Il suo stile d’impronta blues, esile e quasi monotono – al confronto Parker sembra una belva inferocita – possiede una propria, speciale vena malinconica. Sarebbe sbagliato sopravvalutare il suo contributo rispetto ai meriti indiscutibili di Parker, ma Davis suona la sua parte in modo ineguagliabile. Il suo tipico approccio nei confronti del bebop emerge chiaramente nei quattro brani incisi dai Miles Davis All Stars per l’etichetta Savoy, il 14 agosto 1947, in una session in cui il trombettista assume il ruolo di leader. Qui Parker suona il sax tenore, uno dei rarissimi casi in cui abbandona il contralto, e, se i suoi assoli rivelano la solita maestria, è tuttavia il temperamento di Davis a brillare. «Sippin’ At Bells» è un blues contraddistinto da un fitto intrecciarsi di cambi di accordi, rivisitato più volte in epoche successive e incluso negli anni ottanta da Stan Getz in uno dei suoi album per la Concord. «Milestones», che non è il celebre brano omonimo registrato da Davis nel 1958, presenta un’esposizione fluida e atipica rispetto a ogni altro pezzo realizzato nelle session di Parker per la Savoy. «Little Willie Leaps» è una complicata variante di «All God’s Chillun Got Rhythm», mentre «Half Nelson», che richiama in modo eccessivo e quasi imbarazzante «Lady Bird» di Tadd Dameron, era un tema che Davis avrebbe riproposto nelle sue incisioni degli anni cinquanta. Alla ribalta nelle vesti di leader, Miles non sembra tanto un
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uomo diverso, quanto piuttosto un artista che sceglie di impreziosire le sue esecuzioni attraverso un esame minuzioso del contesto. Dal punto di vista dell’armonia, il materiale si differenzia notevolmente dalle «normali» session di bebop. La presenza di John Lewis al piano, il cui tocco felpato si contrappone al suono percussivo di Monk o di Bud Powell, aiuta a consolidare il ruolo del trombettista. Nello scorrere dei brani, si evidenzia soprattutto la collaborazione tra Miles e Lewis. Alla fine del 1948, quando lasciò definitivamente il gruppo di Parker, Davis aveva già alle spalle più di tre anni di lavoro intenso e regolare nell’ambiente del bop. Ma ormai quel genere si stava esaurendo. Il vigore del primo periodo, che aveva scioccato e disorientato tanti artisti quanti ne aveva affascinati, si era affievolito e mitigato. I musicisti bop riuscivano a trovare posto nelle migliori orchestre (come i gruppi di Woody Herman e Stan Kenton), e il sassofonista Charlie Ventura aveva persino formato una band chiamata Bop For The People, ma nel giro di pochi anni il pubblico del jazz era cambiato, e da un mercato di massa che gradiva la musica swing e ballabile si era passati a una ristretta élite di giovani metropolitani disposti ad accalcarsi nei locali e restare seduti per ore ad ascoltare. Davis, che non era mai stato interessato a suonare di fronte a un pubblico e avrebbe forse preferito un ambiente di pura musica senza scopi commerciali, scoprì che nonostante tutto aveva un seguito anche lì. Nel 1948 ebbe la forza di affrontare un drammatico allontanamento dal bebop per una direzione completamente nuova.
Birth Of The Cool CAPITOL
Move; Jeru; Budo; Godchild Miles Davis (tp); Kai Winding (tb); Junior Collins (frh); Bill Barber (tu); Lee Konitz (as); Gerry Mulligan (bars); Al Haig (p); Joe Shulman (b); Max Roach (d). 21/1/49
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Venus De Milo; Rouge; Boplicity; Israel Miles Davis (tp); J.J. Johnson (tb); Sandy Siegelstein (frh); Bill Barber (tu); Lee Konitz (as); Gerry Mulligan (bars); John Lewis (p); Nelson Boyd (b); Kenny Clarke (d). 22/4/49 Deception; Rocker; Moon Dreams; Darn That Dream Miles Davis (tp); J.J. Johnson (tb); Gunther Schuller (frh); Bill Barber (tu); Lee Konitz (as); Gerry Mulligan (bars); John Lewis (p); Al McKibbon (b); Max Roach (d); Kenny Hagood (voc). 9/3/50
Il nonetto di Miles Davis rappresentò un ulteriore esempio di difficile convivenza con il bebop. Il suo sound era leggero, armonioso, senza impeti eccessivi, e i brani scorrevano dolcemente tra un fraseggio e l’altro: l’esatto contrario della frammentazione e la velocità del bop. Rese soffuse dal timbro grave degli ottoni e mantenute su ritmi quasi impalpabili, le sue sonorità sarebbero potute sembrare affettate se le esecuzioni non avessero trasmesso un’intensità particolare. Di fatto, il gruppo sperimentale guidato da Davis contribuì a porre le basi di gran parte delle piccole formazioni jazz dei successivi vent’anni. Non che l’idea fosse del tutto sua. Diversi compositori e arrangiatori avevano già apportato il loro contributo a quel concetto, che prese forma nel corso di parecchi mesi di discussione, teoria e pratica. In particolare, aveva cominciato a svilupparsi in un piccolo appartamento della Cinquantacinquesima Strada Ovest di Manhattan, dove l’arrangiatore e pianista Gil Evans teneva incontri informali con decine di musicisti riuniti per chiacchierare, riposarsi o immergersi in un’atmosfera d’impronta bohémien. Evans era stato per alcuni anni l’arrangiatore dell’orchestra di Claude Thornhill, prima di andarsene nel 1948, e il suo lavoro aveva richiamato l’attenzione di molti musicisti. Il repertorio di Thornhill era uno dei più insoliti tra tutte le grandi orchestre dell’epoca. Le sue incisioni in studio e i suoi arrangiamenti comprendono versioni di «Pop Goes The Weasel», «O Sole Mio», «La Paloma» e «Royal Garden Blues», un miscuglio eterogeneo in cui il leader sembrava trovarsi perfettamente a proprio agio, e molti suoi dischi puntano verso quel genere di musica d’atmosfera che sarebbe diventato prevalente nella produzione discografica americana degli anni cinquanta. L’organico strumentale includeva la tuba e il corno, e questo forniva a Evans l’opportunità di usare l’orchestra come una specie di tavolozza sonora. All’epoca, nel jazz non esisteva qualcosa che si potesse chiamare «impressionismo», ma per Thornill il lavoro di Evans si avvicinava molto a questa definizione, specialmente in arrangiamenti come «La Paloma».
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Di origine canadese, Evans era un uomo garbato, con un tono di voce sommesso e una modestia innata che si accompagnavano all’amore per l’arrangiamento e la composizione. Avendo ricevuto un’educazione musicale abbastanza limitata, trovò la propria strada più che altro attraverso l’intuito. Nulla gli piaceva di più che scambiare idee in tema di musica e, nella sua qualità di direttore informale del circolo che si era formato nel suo salotto, influenzò il lavoro di molti artisti che lo frequentavano. I brani dell’album Birth Of The Cool sono attribuiti principalmente a lui, almeno dal punto di vista concettuale, ma in realtà questo riconoscimento non è del tutto onesto nei confronti di altri musicisti – in particolare Gerry Mulligan e John Lewis. Mulligan ebbe in qualche modo l’influenza più significativa per la realizzazione di quel progetto, e sebbene non gli venisse mai attribuito il merito che sperava, fu proprio lui, molti anni più tardi, a organizzare la registrazione di Re-Birth Of The Cool. Più giovane di un anno rispetto a Miles Davis, Mulligan suonava il sax baritono e aveva un temperamento focoso che ben s’intonava con i suoi capelli rossi. A ventun anni aveva già militato in diverse grandi orchestre, firmando, come Evans, arrangiamenti per la band di Thornhill. L’unica differenza tra i due era che, mentre Evans aveva poco di cui vantarsi in termini di abilità strumentale, Mulligan era un ottimo sassofonista e un brillante improvvisatore ma non aveva molte opportunità – almeno in quel periodo – per far conoscere il suo talento. Alcuni anni più tardi sarebbe diventato una stella di prima grandezza nel suo quartetto con Chet Baker, sull’altro lato dell’America, ma a New York cercava ancora di affermarsi come ogni altro giovane musicista. Sebbene la paternità degli spartiti per il nonetto sia di difficile attribuzione, Mulligan riferì in seguito che lui ed Evans avevano «trascorso quasi un intero inverno esaminando dettagliatamente l’orchestrazione» del gruppo, e alla fine lui stesso aveva composto sei dei pezzi pubblicati nell’edizione originale dell’Lp da dodici pollici della Capitol. Altri tre brani furono arrangiati da John Lewis, e il compositore John Carisi presentò il proprio blues «Israel», mentre Evans in definitiva contribuì al risultato finale soltanto con due pezzi. Le esecuzioni del gruppo sembravano una riproduzione in scala minore delle sonorità di Thornhill. Dimezzando la strumentazione di Thornhill e conferendo maggior rilievo agli ottoni rispetto agli altri strumenti ad ancia – si noti l’assenza del sax tenore, strumento predominante nel jazz – il nonetto di Davis proponeva una musica più fluida e flessibile di qualsiasi composizione di Thornhill. In genere il gruppo viene descritto come un piccolo complesso, ma con i suoi nove musicisti assomiglia piuttosto a una «piccola» grande orchestra. La tuba e il corno hanno un ruolo fondamentale, ma non vengono utilizzati per le improvvisazioni. Al contrario, seguono linee di contrappunto e di armonia che conferiscono all’insieme un timbro cupo dal
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punto di vista tonale, quasi lugubre, alleggerito solo dagli assoli e dalla sezione ritmica. Nei pezzi più lenti il gruppo si avvicina alle musiche d’atmosfera in cui lo stesso Thornhill si sentiva maggiormente a proprio agio, anche se qui esprime più che altro la stessa profonda malinconia che Davis avrebbe riproposto dieci anni più tardi in alcune sue incisioni. È difficile trovare un esempio migliore di Birth Of The Cool per spiegare l’importanza delle registrazioni nella storia del jazz. All’epoca della sua prima seduta d’incisione il gruppo non esisteva già più e si riuniva soltanto per registrare. Lungi dall’essere un capo che impartiva le direttive musicali, Davis fu comunque la figura carismatica che di fatto mantenne in vita il gruppo. La citatissima dichiarazione di Gerry Mulligan, secondo cui Davis «organizzava le prove, affittava le sale, convocava i musicisti, e in generale faceva schioccare la frusta» conferma che, se non fosse stato per l’energia del trombettista, la band sarebbe andata ben difficilmente oltre la fase delle disquisizioni nell’appartamento di Evans. Dopo molti discorsi e innumerevoli prove, il nonetto ottenne un ingaggio al Royal Roost, uno dei locali più all’avanguardia della città, esibendosi come numero di apertura a Count Basie (che apprezzò ciò che sentì) per due settimane separate nel settembre del 1948 – l’intera durata della sua esistenza come band dal vivo. Fortunatamente, sono sopravvissute due registrazioni delle esibizioni del nonetto in quel locale, pubblicate originariamente come Cool Boppin’ [2]. Il trombonista era un diciottenne di nome Michael Zwerin, che Davis reclutò dopo averlo sentito durante una jam session. Per il resto la formazione discende dal nucleo che registrò le sedute in studio. Pur essendo inevitabilmente più impetuose e meno affinate, le incisioni del Royal Roost possono ben competere con le successive registrazioni per la Capitol. Ci sono anche due pezzi che non vennero eseguiti nelle session in studio: «Why Do I Love You», un brano arrangiato da Evans per Kenny Hagood, e «S’Il Vous Plait», una composizione scattante e intensa, attribuita sia a Mulligan che a Lewis, e a Davis in qualità di arrangiatore. L’applauso educato del pubblico lascia intendere che il gruppo di Davis non deve aver suscitato grande interesse. Fortunatamente, l’arrangiatore Pete Rugolo, alla ricerca di nuovi talenti per l’etichetta indipendente Capitol Records, ebbe occasione di ascoltare il nonetto al Royal Roost e offrì un contratto a Davis. Ma fu soltanto nel gennaio dell’anno successivo che si tenne finalmente la prima session in studio del gruppo, e anche se la registrazione dei primi otto pezzi fu portata a termine in tre soli mesi, all’epoca della seconda session erano già cambiati cinque elementi, il che suggerisce quanto fosse «flessibile» la formazione del nonetto. Il merito degli arrangiamenti della prima session venne suddiviso tra Mulligan («Jeru», «Godchild») e Lewis («Move», «Budo»), e forse sarebbe interessante scoprire come mai quei brani
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furono preferiti ad altri pezzi di Evans. Probabilmente erano i più orecchiabili del limitato repertorio del gruppo e la Capitol voleva partire bene, con i pezzi migliori. In ogni caso, il risultato finale fu eccezionale. «Move» è una composizione del batterista Denzil Best, un interessante esponente del bebop, che tuttavia ottenne scarsa attenzione sia in vita sia dopo la sua scomparsa (morì in giovane età, nel 1965, a causa di una caduta accidentale). Si tratta in pratica di un tema bop tipicamente involuto, con una brillante accentuazione dei tempi irregolari. Il motivo iniziale è eseguito da Davis e da Konitz, mentre gli accoppiamenti tra baritono e tuba, e tra trombone e corno propongono due diverse forme di contrappunto. La partitura di Lewis è un capolavoro di incastri, sia ritmici che armonici. In apertura, ciascuna coppia di fiati esegue una differente variazione sul ritmo di base, mentre la fase finale ritorna all’idea introduttiva, sviluppando però ciascuna delle tre parti. Tutto questo conferisce al pezzo un effetto d’assieme, ma in un certo senso la composizione funge anche da cornice per i due assoli centrali, il primo di Davis, il secondo di Konitz. Il trombettista attacca con un paio di frasi di due note, comprimendo talmente la seconda che sembra quasi sul punto di prendere una brutta stecca – ma poi recupera, e da quel momento semplicemente vola. Konitz lo aggancia tranquillamente all’inizio della sua entrata e prosegue con un’improvvisazione ineguagliabile, aprendosi un varco nella mischia con il suo timbro sottile e un fraseggio serrato. Lee Konitz ebbe un ruolo particolarmente significativo in quella versione del nonetto. Nato a New York, aveva studiato con il funambolico pianista Lennie Tristano e vantava già una certa affinità con Davis. Come lui, era un musicista capace di esprimersi nel linguaggio del bop, anche se si stava impegnando profondamente per abbandonarne i canoni tradizionali. L’asciutto fraseggio quasi privo di nerbo e lo stile ben definito di Konitz creano un singolare contrasto con Davis, persino nei momenti in cui i suoi dialoghi con il trombettista sembrano generosamente simpatetici. I due assoli conducono infine a una quarta parte, in cui Max Roach realizza quella che è a tutti gli effetti una specie di improvvisazione alternata, a inseguimento, tra lui e il resto del gruppo. La sua esecuzione è in autentico stile bebop. Volendo essere pignoli, in questo pezzo Roach è un po’ rumoroso, ma altrove nella stessa session e in quella successiva trova il modo di proporre ritmi bop mantenendoli leggeri e quasi sospesi nell’aria, in netto contrasto con l’intensità quasi sfrenata del bop migliore. Una delle principali differenze tra le incisioni in studio del nonetto e il materiale registrato al Royal Roost si riscontra proprio negli interventi di Roach, che dal vivo sembra l’archetipo del percussionista energico, mentre in studio si esprime in modo decisamente più contenuto. Il pezzo composto da Mulligan, «Jeru», è il più singolare dell’intera sessio-
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ne. L’arrangiamento prevede che i fiati creino un fitto tappeto armonico attorno ai solisti Davis e Mulligan. Anziché i dialoghi di «Move», qui si riscontra un continuo ruolo discorsivo per l’intero gruppo. «Budo», l’altro pezzo di Lewis, è meno ambizioso e si avvicina di più a un brano bop convenzionale. Il tema originale nacque da una collaborazione tra Davis e il pianista Bud Powell (che lo registrò anche con il titolo «Hallucinations»), e il gruppo affronta la sua sinuosa linea melodica come una specie di base di sostegno per gli assoli. Davis propone una brillante improvvisazione, del tutto a proprio agio sugli accordi, e le sue frasi emergono svettanti al di sopra della cadenza regolare della sezione ritmica. Altrettanto magistrale, anche se con caratteristiche diverse, è il suo apporto nell’ultimo brano di questa session, «Godchild» di George Wallington, dove Davis cerca in modo evidente di emanciparsi rispetto al bebop. Il trombettista abbandona quasi del tutto le note brevi, caratteristiche dell’improvvisazione bop, ed esegue un assolo lirico, attento ma non prudente, dove ogni battuta sembra quasi respirare. L’arrangiamento è un’altra meraviglia. Mulligan accoppia il baritono e la tuba nel tema iniziale (le frasi d’apertura potrebbero avergli suggerito il motivo successivo, «Walkin’ Shoes»), e conclude nel registro più elevato, con il sax alto e la tromba alla guida. La Capitol Records deve essere rimasta favorevolmente impressionata dai risultati di quella giornata. I quattro brani furono pubblicati dopo qualche settimana, accoppiati in due 78 giri da dieci pollici, ed entrarono presto nella lista dei dischi jazz più gettonati nei jukebox della costa orientale. Ma dovettero passare altri tre mesi prima che Davis e i suoi compagni tornassero in studio. Nel frattempo il trombettista aveva ricominciato a lavorare con il quintetto di Parker e con un gruppo più ampio guidato da Tadd Dameron, dove sostituiva l’indisposto Fats Navarro. Il nonetto si riunì nuovamente in aprile, seppure con cinque elementi cambiati, e i quattro nuovi pezzi risultarono, se possibile, persino più straordinari. «Venus De Milo» di Mulligan è impostato su quel tempo medio in cui il compositore-arrangiatore si era sempre espresso al meglio, con i fiati che eseguono delicatamente la melodia, basata in gran parte su un motivo di due note altalenanti. Davis ripaga con un bellissimo assolo il privilegio di poter aggiungere la sua firma a questo pezzo. «Rouge» di John Lewis è un brano impegnativo, che avrebbe forse richiesto qualche prova in più, ma ancora una volta il gruppo lo affronta senza timori e Konitz lo impreziosisce con un assolo particolarmente appropriato. I brani più famosi, tuttavia, sono gli ultimi due incisi in quella giornata di aprile. Evans riuscì finalmente a essere citato nella lista degli artisti della session, con «Boplicity», attribuito a «Cleo Henry» ma in realtà frutto di una collaborazione tra lui e Davis. In un certo senso questo è il pezzo più enigmatico delle tre session. Pur trattandosi di una specie di fantasia sviluppata
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su un tradizionale motivo bop, Evans ne riarrangia con attenzione i fiati, creando un tessuto sonoro elusivo e stranamente disomogeneo. In particolare c’è un passaggio alquanto enigmatico, in cui il collegamento tra le improvvisazioni di Davis e di Mulligan sembra far parte di un altro pezzo. E proprio quando ci si aspetterebbe che i fiati rientrino dopo l’assolo del sax baritono, tutto questo non accade... e a sorpresa parte un breve assolo di pianoforte. Tra i vari pezzi delle tre session, questo era il preferito da Davis, ed effettivamente incarna gran parte dei risultati che lui ed Evans stavano cercando di raggiungere. Tuttavia, persino questo brano è superato dal sorprendente «Israel». Il blues di John Carisi è talmente infarcito di idee e dettagli che a un primo ascolto risulta difficile individuare il tema di base, anche se in chiusura, quando Davis esegue un assolo sul tappeto creato dagli accordi, l’atmosfera blues riesce finalmente a emergere. L’intervento del trombettista giunge dopo una serie di linee melodiche interattive, sviluppate in modo talmente avvincente che il primo impulso dell’ascoltatore è quello di tornare all’inizio del brano per cercare di scoprirne gli intrecci. Se l’assolo di Davis è splendido, quello di Konitz sembra persino migliore. Si potrebbe obiettare che il raddoppio del tempo del sassofonista, più o meno a metà dell’esecuzione, rappresenti un ritorno a un cliché bebop – ma che fantastica dimostrazione di abilità strumentale! Inizialmente Davis aveva pensato a Sonny Stitt per la parte del sax contralto, ma sebbene Sonny fosse un ottimo esecutore è difficile immaginare che il suo approccio bop convenzionale potesse avvicinarsi alle idee e all’espressività di Konitz. «Israel» dura soltanto due minuti e quindici secondi, ma contiene tanto materiale da sembrare lungo il doppio. «Israel» e «Boplicity» furono pubblicati in un singolo a 78 giri (probabilmente uno dei dischi migliori sul mercato nel 1950), mentre per l’uscita di «Rouge» si dovette aspettare fino al 1954. Tuttavia, per soddisfare il contratto con la Capitol restavano da incidere ancora molti brani. Quando il nonetto si riunì nuovamente era trascorso quasi un anno e il gruppo aveva cominciato a far parte di una storia passata. Davis non l’aveva più riconvocato per esibizioni dal vivo, e forse qualcuno dei suoi componenti avrà pensato che si trattasse di un capitolo chiuso. Non c’è quindi da stupirsi se gli ultimi quattro brani, registrati nel marzo del 1950, appaiono un po’ come i postumi di una sbornia dopo lo splendore della session precedente. «Darn That Dream» è un pezzo realizzato per il cantante Kenny Hagood, un esponente dimenticato della scuola dei baritoni romantici di Billy Eckstine e, per quanto sia di tutto rispetto, la sua prova dà quasi l’impressione di un cambiamento di rotta dell’ultimo momento. L’arrangiamento di Mulligan offre alcuni tocchi ponderati, ma l’effetto finale è quello di far apparire la voce di Hagood estranea alla sonorità del gruppo, se non altro perché si tratta di un esecutore troppo
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tradizionale. «Rocker» è un brano originale di Mulligan, talmente gradito al suo compositore che in seguito l’avrebbe riproposto spesso con le sue formazioni. Sebbene riveli uno spirito forse inconsueto per il carattere introverso del nonetto, l’esecuzione è eccellente. «Deception» si potrebbe quasi definire un intruso. Pur essendo attribuito a Davis, ricalca una composizione di George Shearing, intitolata «Conception», che il pianista inglese aveva presentato per la prima volta al pubblico con il suo gruppo tra la seconda e la terza session del nonetto. (Molti anni più tardi, Shearing avrebbe ricordato: «Miles non lo interpretò correttamente, che Dio conceda pace alla sua anima. Credo che non abbia capito bene il passaggio centrale di collegamento».) In ogni caso, Mulligan cura l’arrangiamento del pezzo con una certa ingegnosità, anche se si ha la sensazione che non sapesse bene come renderlo al meglio in una registrazione di tre minuti. In effetti la sequenza introduttiva viene ripetuta interamente per due volte prima degli assoli di Davis e di un J.J. Johnson apparentemente imperturbabile, che qui ottiene il momento di maggiore visibilità di tutte le session. A questo punto non resta che parlare di «Moon Dreams». Non è chiaro il motivo per cui Gil Evans abbia scelto questa composizione poco conosciuta e non particolarmente interessante di Chummy McGregor, che suonava pezzi sdolcinati con Glenn Miller e Charlie Spivak, ma senza dubbio l’atmosfera è conforme a molti arrangiamenti di Evans per Claude Thornhill. Il gruppo rispetta una tabella di marcia quasi interamente prestabilita, con un breve passaggio di Mulligan e interventi ancora più fugaci di Davis e Konitz, che danno un’idea di improvvisazione in quello che altrimenti sarebbe un brano cupo e scialbo – Max Roach si limita a far vibrare il suo piatto. I sei strumenti a fiato seguono pazientemente la complicata partitura di Evans, ma l’effetto globale è di torpore, con sonorità più snervanti che rinvigorenti. Evans avrebbe riproposto successivamente con maggiore efficacia questo genere di composizioni nei suoi album per la Prestige, e soprattutto nel memorabile «Sunken Treasure», in Out Of The Cool (1961). In ogni caso, «Moon Dreams» sembra in sintonia con lo stile di una band che nonostante i vari legami con Thornhill e altri non aveva precedenti nel jazz – nel 1950 c’era veramente poca linfa nuova nell’ambiente. (Fu di parziale aiuto la grande perizia dal produttore Walter Rivers, che garantì un mixaggio lucido e ben definito a una strumentazione così difficile da equilibrare. Per decenni gli ascoltatori dovettero accontentarsi del master di terza generazione da cui fu ricavato l’Lp del 1957, finché nel 2000 Rudy Van Gelder rimasterizzò le matrici originali per l’edizione su Cd, evidenziando la grande precisione e diligenza di Rivers in fase di registrazione.) Davis e il suo gruppo si rivolgevano contemporaneamente al passato e al futuro. Dopo le eroiche improvvisazioni che avevano dominato il bebop, le
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esecuzioni accuratamente codificate del nonetto trasformavano elementi come il ritmo bop e le sue complesse melodie in un modulo ben congegnato, ancora fresco ma con strutture preordinate che sostituivano la spontaneità. Eppure, sotto molti punti di vista, il nonetto si discostava dagli schemi. Laddove il bop poneva precisi limiti alle pause e alla durata delle improvvisazioni, le partiture di Mulligan, Lewis ed Evans sovvertivano ogni aspettativa circa l’inizio di una sezione e la fine di un’altra. E anche il dialogo tra i vari strumenti rappresentava uno stridente disaccordo con i ruoli prestabiliti dei piccoli gruppi bop. Il «sound leggero» ricercato da Davis si addiceva maggiormente a un musicista la cui intenzione, come vedremo, fu sempre quella di ridurre gradualmente il superfluo per giungere all’essenziale. La tuba e il corno, pur giocando un ruolo fondamentale nella definizione dell’immagine sonora del gruppo, non si trasformarono da un giorno all’altro in strumenti del jazz moderno, così come era impensabile che una formazione di nove elementi diventasse improvvisamente la norma. Dopo tutto, il gruppo di Davis suonò dal vivo soltanto per due settimane e lasciò meno di quaranta minuti di musica registrata in studio, ma il suo impatto fu notevolissimo. Mulligan, Konitz e Lewis passarono presto ad altre esperienze, ampliando il lavoro svolto con Davis, e la moda dei nonetti attraversò l’America fino alla costa occidentale, dove capigruppo e professionisti da studio di registrazione come Shorty Rogers e Shelly Manne svilupparono nel decennio successivo sonorità basate su molte idee di Davis e dei suoi arrangiatori – anche se il termine «West Coast Jazz», o jazz bianco californiano, finì col diventare un’espressione quasi dispregiativa per indicare un genere che molti ritenevano troppo bianco, pulito e orecchiabile. Per ironia della sorte, anche se a quel tempo aveva già intrapreso nuovi percorsi, Davis fu associato a uno stile di jazz considerato non abbastanza nero. All’epoca dell’ultimo lavoro per la Capitol le sue scelte personali e professionali erano profondamente cambiate rispetto alle prime incisioni, ma nel frattempo l’etichetta aveva continuato a commercializzare i risultati delle tre session. Sebbene fossero usciti inizialmente come una serie di singoli a 78 giri, nel 1954 la casa discografica riunì otto dei dodici brani in un unico disco da dieci pollici nel nuovo formato Long playing. Altrettanto ironicamente, questo disco fu intitolato Jeru (il soprannome affibbiato da Davis a Gerry Mulligan). Soltanto nel 1957 i dodici pezzi vennero raggruppati per la prima volta in un Lp da dodici pollici, che la Capitol volle intitolare Birth Of The Cool, usando un termine che nel frattempo era diventato sinonimo di una corrente di jazz introdotta, forse, proprio da quelle session. Per Davis, i quattordici mesi tra la prima e l’ultima incisione del nonetto furono ricchi di avvenimenti. Nel dicembre del 1948 il trombettista aveva la-
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sciato il quintetto di Parker perché non sopportava più il comportamento del suo leader, sebbene i rapporti tra i due rimanessero abbastanza cordiali, almeno a distanza. Nel maggio successivo, qualche settimana dopo la seduta d’incisione per la Capitol, Miles andò a Parigi per suonare con il gruppo di Tadd Dameron al Paris Jazz Fair, a cui partecipava anche Parker. Come molti musicisti americani che visitavano l’Europa in quel periodo, anche il trombettista rimase stupito dall’accoglienza ricevuta, vedendosi trattato come un sovrano e acclamato come una delle stelle della manifestazione. Dalle registrazioni di quell’evento, pubblicate con il titolo Festival International de Jazz Paris 1949 [3], emerge un Davis alle prese con uno stile bebop tradizionale e con un’esecuzione molto più aggressiva rispetto alle incisioni appena realizzate in America. Forse per l’entusiasmo del momento, il trombettista si espone a notevoli rischi, e di tanto in tanto incespica durante gli assoli. Al ritorno negli Stati Uniti, tuttavia, dovette fare i conti con la realtà della sua vita professionale: poco lavoro, nessun ingaggio né gruppi stabili, il distacco da Parker, e una posizione di leader non ancora affermata a causa della mancanza d’interesse per le esibizioni del nonetto. Fu proprio questa situazione di attesa e incertezza, come lui stesso avrebbe dichiarato in seguito, a spingerlo verso l’eroina. Più che altro per noia. Per tutto il tempo della collaborazione con Parker, Davis si era tenuto alla larga dalle droghe pesanti. Beveva con moderazione e curava il proprio aspetto, cercando di offrire un’immagine in contrasto con gli eccessi di Parker. La tendenza del sassofonista a fare uso di stupefacenti aveva dato origine a una specie di cultura della droga nell’ambiente del bebop, dove molti musicisti che desideravano emulare Bird pensavano di doverne imitare anche i costumi. Pur disapprovando il comportamento di Parker, Davis venne in contatto con tossicomani come Gene Ammons, Sonny Rollins, Jimmy Heath, Jackie McLean e Stan Getz, e alla fine fu iniziato lui stesso all’eroina. Una delle prime conseguenze fu una battuta d’arresto in una carriera che stava cominciando a fiorire. Nel 1950, diversi jazz club della Cinquantaduesima Strada divenuti famosi nel decennio precedente erano ormai in declino, ma lungo la Broadway ne stavano sorgendo altri, come il Birdland (in onore di Charlie Parker) e Bop City. Nel febbraio del 1950, la stazione radiofonica Wnyc mandò in onda una trasmissione con un sestetto composto da Davis e Getz nella sezione melodica, e J.J. Johnson, Tadd Dameron, Gene Ramey e Max Roach nella sezione ritmica. Da una registrazione di quell’evento, contenuta in All Stars Recordings [4], risulta evidente che il gruppo aveva svolto un notevole lavoro preparatorio, perché i motivi vengono trattati come qualcosa di più che semplici mezzi di espressione jazzistica. In particolare si riconosce il prototipo dell’arrangiamento di «Conception» di George Shearing, che sarebbe diventato
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«Deception» nell’ultima session del nonetto per la Capitol. Purtroppo questi brani sono tutto ciò che rimane della collaborazione, potenzialmente affascinante, tra due maestri del jazz lirico come Davis e Getz. In un’ulteriore incisione realizzata al Birdland nel maggio del 1950 (sempre contenuta in All Stars Recordings [4]) Davis divide il palco con Johnson e con Fats Navarro, un trombettista bebop giovane e dotato che sarebbe scomparso solo poche settimane più tardi con il fisico, un tempo possente, distrutto dalla tubercolosi e dall’eroina. Sebbene la scarsa qualità dell’audio impedisca di apprezzare pienamente l’incisione, si possono cogliere alcuni passaggi di pregio. La natura stessa di questi cimeli discografici permette di comprendere il difficile percorso di Davis in quel periodo. Alla fine del 1950, ormai schiavo degli stupefacenti, anziché essere osannato come un leader doveva affannarsi per trovare un ingaggio. Accompagnò in alcune tournée Billy Eckstine e Billie Holiday, ma durante un soggiorno a Los Angeles fu arrestato per droga, e anche se in seguito venne assolto quell’episodio gli valse una pessima pubblicità. Nel gennaio del 1951 suonò in quello che di fatto rappresentò il suo ultimo incontro con Charlie Parker, una session in studio per conto dell’impresario e produttore Norman Granz. Il quintetto eseguì quattro motivi che rievocavano le vecchie composizioni incise dai due per la Savoy, e come allora Davis si accontentò di un ruolo modesto, lasciando a Parker la parte del leone con alcune audaci improvvisazioni. Per il trombettista si trattò comunque di un’occasione significativa, perché quella sera stessa avrebbe iniziato a incidere per la giovane casa discografica indipendente Prestige Records. Bob Weinstock, il proprietario della Prestige, che aveva avuto modo di sentire e apprezzare la produzione del nonetto, aveva cercato a lungo di contattare Davis, e alla fine era riuscito a fargli firmare un contratto di un anno, fissando come prima data di una serie di tre session proprio quel 17 gennaio del 1951. Davis volle al suo fianco Sonny Rollins e John Lewis, a cui si aggiunsero Bennie Green al trombone, Percy Heath al contrabbasso e Ron Haynes alla batteria (il disco venne intitolato Miles Davis And Horns [5]), ma il risultato finale fu incerto e di scarso rilievo. In «Morpheus», di Lewis, si accostano dissonanti passaggi d’assieme a striduli assoli bebop, e per quanto il blues di Davis «Down» proponga un tema gradevole, Rollins sovrasta il trombettista negli assoli e Green si limita a un accompagnamento anonimo e pesante. Gli altri due brani incisi in quella session sono una laboriosa riproposizione dei celebri pezzi «Blue Room» e «Whis-
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pering», nei quali Davis si mantiene notevolmente al di sotto delle sue capacità. Forse era semplicemente stanco dopo una lunga giornata di lavoro, ma qualunque fosse il motivo si trattò di un debutto infelice. In marzo, il trombettista partecipò alla registrazione di un disco di Lee Konitz, Ezz-Thetic [6]. Di nuovo insieme all’ex compagno del nonetto, Davis sembra assumere un ruolo sottomesso. La figura dominante nei quattro pezzi (due dei quali erano di George Russell, compreso il vivace «Ezz-Thetic») è Konitz, mentre a Miles viene concesso pochissimo spazio. L’andamento della session sembrerebbe in sintonia con la discontinuità della vita professionale di Davis all’epoca. Di quel periodo sono sopravvissute varie esecuzioni registrate dal vivo al Birdland e raccolte in Birdland 1951 [7], che costituiscono un insieme deprimente e irrilevante, anche a causa della scarsa qualità della riproduzione. In un’altra seduta del giugno di quell’anno Davis suonò con Rollins, J.J. Johnson, Kenny Drew, Tommy Potter e Art Blakey, e malgrado l’eccezionale portata degli interpreti i risultati furono irregolari e talvolta poco coerenti. Decisamente migliore fu la successiva riunione di settembre, con un’improbabile formazione composta da Eddie Lockjaw Davis e Big Nick Nicholas (sax tenori), Billy Taylor (piano), Blakey (batteria) e Charles Mingus (contrabbasso), ma è triste sentire la struttura originale di «Move», che due anni prima aveva rappresentato un balzo in avanti per la musica jazz, trasformata in un susseguirsi di improvvisazioni meccaniche e monotone. Il 5 ottobre Davis tornò in studio per la sua seconda session in veste di leader per conto della Prestige (Dig [8] e Conception [9]). Oltre a Rollins, Potter e Blackey, il gruppo includeva il giovane altosassofonista Jackie McLean e Walter Bishop al piano. L’aspetto più significativo di queste registrazioni è la lunghezza dei brani. Fino ad allora tutti i dischi di Davis erano stati concepiti per il formato singolo a 78 giri, con una durata massima di tre minuti, ma il Long playing stava diventando rapidamente il formato preferito dell’industria discografica. Introdotto per la prima volta negli anni quaranta e commercializzato come un nuovo supporto adatto soprattutto alla musica classica (permetteva finalmente di contenere un’intera sinfonia in un solo disco), l’Lp aveva cominciato a imporsi nell’arco di pochi anni anche per il jazz. Anziché proporre improvvisazioni con un numero limitato di battute, i solisti potevano ora esprimersi con fraseggi più estesi, e le esecuzioni diventavano più libere, ricreando un’atmosfera simile alle esibizioni dal vivo. Inoltre, il vinile riduceva i fruscii, consentendo di cogliere il dettaglio dei toni e del tessuto musicale, e il tecnico del suono iniziò ad assumere un ruolo di rilievo grazie all’importanza del corretto posizionamento dei microfoni per una migliore resa sonora degli strumenti. In particolare, il contrabbasso cominciò finalmente a farsi sentire con nitidezza.
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Responsabile di quella session fu Rudy Van Gelder, che sarebbe diventato il tecnico più celebre dell’ambiente del jazz, sebbene nel caso specifico i risultati non siano tra i migliori (anche Rudy stava ancora cercando la propria strada). Davis esegue in genere il primo assolo, e nella maggior parte dei pezzi anche un’improvvisazione finale, ma malgrado la presenza di tre strumenti a fiato si riscontrano pochi tentativi di creare arrangiamenti interessanti o un’interazione contrappuntistica, e i brani seguono perlopiù lo schema tema-assoli-tema. Davis suona comunque molto meglio rispetto alle precedenti session per la Prestige, e probabilmente Weinstock dovette sentirsi alquanto sollevato. L’interpretazione blues di «Bluing» è straordinariamente fantasiosa; una riproposizione di «Conception» di Shearing viene gestita abilmente dal gruppo; e Davis estrae dai classici «It’s Only A Paper Moon» e «My Old Flame» alcune proposte liriche di piacevole ascolto. Tuttavia, anche in questa session non si riesce a evitare lo stile un po’ meccanico del tardo bebop. McLean e Rollins, ancora giovani e alle prime armi, hanno poco da offrire se non la loro agilità, e a tratti Blakey sembra distratto, tanto che alla fine di «Bluing» perde completamente la concentrazione e viene redarguito da Davis. La Prestige lasciò intatto questo episodio sul disco, dimostrando come il nuovo mezzo espressivo dell’Lp rappresentasse una novità per le case discografiche non meno di quanto lo fosse per i musicisti e per il pubblico. All’inizio del 1952, Davis fu quasi sul punto di toccare il fondo. Arrivò persino a chiedere denaro ad alcune prostitute in veste di protettore informale, anche se in seguito, con la sua tipica boria, avrebbe citato l’aneddoto come una dimostrazione di quanto fosse adorabile e gentile, sostenendo di avere rappresentato per loro «una famiglia in cui si trovavano benissimo». In realtà era disposto a tutto pur di procurarsi la droga, e questo includeva guadagni illegali e persino furti ai colleghi musicisti (Clark Terry raccontò di averlo ospitato una notte, scoprendo al suo rientro che tutti i suoi averi erano spariti). Davis soggiornava sia a New York che altrove, suonando con chiunque fosse disponibile, e alla fine Weinstock perse ogni speranza di poterlo recuperare e decise di non rinnovargli il contratto. Di un ingaggio fuori New York è sopravvissuta una registrazione realizzata a St. Louis all’inizio del 1952, durante una session con un gruppo guidato dal sassofonista Jimmy Forrest (Our Delight [10]). Forrest, un ottimo tenorista con un timbro potente e in grado di esprimersi al meglio con fraseggi rhythm’n’blues e materiale d’im-
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pronta bop, era un tipo capace di sfornare buona musica quasi a comando. In questa occasione supera senza difficoltà Davis, ma occorre dire che la qualità dell’audio non rende giustizia a nessuno dei due, e soprattutto che i musicisti locali che completano il gruppo sono di seconda scelta. Un’ulteriore registrazione presenta Davis e McLean alla guida di una band scritturata per alcune serate di maggio al Birdland (Sextet With Jackie McLean [11]). Si tratta di musica bebop tradizionale, con brani vecchi come «Wee Dot» e «Confirmation» affiancati a «Conception». Se qualche esecutore brilla, questi è senza dubbio McLean, migliorato notevolmente dopo la session per la Prestige. Alcuni giorni più tardi, tuttavia, Davis tornò di nuovo in sala di registrazione. Chiamato a incidere per la Blue Note (Miles Davis: Volume 1 [12] e Volume 2 [13]), il trombettista arruolò un gruppo che comprendeva McLean, J.J. Johnson, Gil Coggins (piano), Oscar Pettiford (basso) e Kenny Clarke, realizzando quello che si rivelò un compromesso tra una session di improvvisazioni e alcune proposte più concrete. Probabilmente decise di incidere «Dear Old Stockholm» (una vecchia melodia popolare svedese) dopo averla sentita provare da Stan Getz. Qui imposta il tema in modo che la tromba lo esegua fino al termine, con il gruppo che lo accompagna in sottofondo. «Yesterdays» sembra più che altro un’esercitazione di prova per mettere a punto lo stile delle ballate toccanti che il trombettista avrebbe realizzato negli anni successivi, e anche «How Deep Is The Ocean» ha una sonorità simile, seppure meno intensa. Altri tre brani eseguiti dal sestetto appaiono relativamente privi di vigore, come se Davis non riuscisse a coglierne completamente il senso – una condizione poco invidiabile per chi, come lui, preferiva definirsi un musicista anziché un intrattenitore. A quel punto, il problema più serio era trovare gli stimoli giusti. Il grande pubblico del jazz lo considerava ancora un principe della musica, ma Davis non aveva un gruppo né ingaggi stabili, e la tossicodipendenza lo stava consumando fisicamente, mentalmente e finanziariamente. Nel breve giro di due anni, tuttavia, sarebbe riuscito a ribaltare completamente la situazione, gettando le basi per uno straordinario ritorno.
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Gli altri dischi 1
Charlie Parker, The Complete Savoy And Dial Studio Recordings Savoy, otto Cd
2
Cool Boppin’ Fresh Sound
3
Festival International de Jazz Paris 1949 Sony Jazz
4
All Stars Recordings (Birdland Days, The Last Bebop Session) Definitive
5
Miles Davis And Horns Prestige
6
Lee Konitz, Ezz-Thetic Prestige
7
Birdland 1951 Blue Note
8
Dig Prestige
9
Conception Prestige
10 Our Delight Prestige 11 Sextet With Jackie McLean Fresh Sound 12 Miles Davis: Volume 1 Blue Note 13 Miles Davis: Volume 2 Blue Note