Negli immediati dintorni

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Vittorio Sereni

Gli immediati dintorni Primi e secondi


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gli immediati dintorni



l’opera – L’essere poeta e l’esperienza della poesia, la maschera che lo scrittore di versi indossa, e che è appunto la maschera del poeta. La materia e lo spazio: ciò di cui necessita il poeta. E poi l’essere umano, lo stare al mondo. L’esperienza algerina, da cui sorgerà – pilastro totemico nel Novecento italiano – l’esordio di una voce nuova, l’esordio del poeta Vittorio Sereni, con il Diario d’Algeria. Dalla Resistenza come esperienza mancata al gioco del calcio, dove per il poeta la fede nerazzurra è sentita come colpa d’origine; dagli incontri con Ezra Pound, Arthur Rimbaud, Eugenio Montale, ai luoghi dove il poeta Vittorio Sereni si tramuta in viaggiatore attento, cantore della memoria o flâneur: Bologna, Lubiana, Toronto, e poi ovviamente Milano, e Luino, la città natale. Il mondo, la politica, gli amici. La vita. Negli Immediati dintorni – un grande classico che torna in libreria dopo trent’anni – Vittorio Sereni percorre i sentieri ignoti del proprio essere poeta e del proprio essere uomo, componendo un vero e proprio zibaldone, un diario che lo accompagna per tutta la vita; ci consegna così le chiavi di volta per leggere le sue opere, e ci consente allo stesso tempo di scrutare, come in un diorama, il suo universo simbolico e umano. Ci regala infine l’esperienza immersiva nei mari del fenomeno umano, sul vascello di uno dei più grandi poeti del Novecento, che qui intimamente confessa la sua perpetua e affascinante tentazione per la prosa.


l’autore – Vittorio Sereni, scrittore e poeta, nel 1941 pubblicò con le edizioni di Corrente il suo primo libro di versi, Frontiera (riedito nel 1942 con il titolo Poesie). L’esperienza della guerra gli ispirò le liriche del Diario d’Algeria (edito nel 1947). Dopo alcuni anni di silenzio poetico, nel 1965 uscì il suo terzo libro, Gli strumenti umani; nel 1981, il suo ultimo libro di versi, Stella variabile. Autore anche di prose saggistiche e di memoria (come Letture preliminari, 1973; Il sabato tedesco, 1983) e di traduzioni poetiche, Sereni morì a Milano nel 1983.


Introduzione di Franco Brioschi

Era ormai da diversi mesi che ci riunivamo periodicamente nella sede del Saggiatore per discutere un progetto caro a tutti noi, quello di far rivivere una gloriosa collana degli anni sessanta, la Biblioteca delle Silerchie. Ma in verità, oltre a contare sul consiglio e sull’esperienza di chi per lungo tempo era stato direttore letterario di una grande casa editrice, osavamo anche sperare nel contributo del «vero» Sereni, del Sereni autore: non aveva forse già pronta da dieci anni una seconda edizione accresciuta degli Immediati dintorni, destinata (come la prima del 1962) proprio a quella collana? Da dieci anni, si favoleggiava, egli aveva ricevuto le nuove bozze, né da allora le aveva più restituite. Chissà che non fosse ormai venuto il momento di licenziarle. Ancora una volta Sereni riuscì a stupirci. Per il momento alle nuove Silerchie avrebbe dato non Gli immediati dintorni, bensì un racconto, parimente memorabile, di quegli stessi anni sessanta, L’opzione, seguito peraltro da una prosa inedita, a cui stava tuttora lavorando e che ne avrebbe rappresentato una sorta di prolungamento dando il titolo all’intero volume: Il sabato tedesco. Ci pregò di leggerne una prima versione, chiedendoci un giudizio. Ma non un giudizio compiacente, si raccomandava, bensì una critica, un esame, se necessario persino un rifiuto: parlava seriamente, beninteso, e non solo perché gli ripugnava l’idea che fama I


e autorità potessero trasformarlo in una «firma», da acquisire comunque a scatola chiusa. Sereni ascoltava con grande attenzione i pareri e i suggerimenti che aveva chiesto, anche quando gli dispiacevano. Li filtrava, forse magari li traduceva poi, secondo modi per noi imprevedibili, nella scrittura che solo era sua, dove nessuno avrebbe più potuto riconoscerli. Certo è che li chiedeva, li ascoltava, dicendosene persino grato. Erano passati altri mesi di attesa quando consegnò la nuova versione da mandare in stampa. Il libro c’era, finalmente, con la sua prosa eponima. C’era anche ormai la nostra collana, che già allineava i primi titoli. E anch’io potevo accingermi a stendere la breve introduzione, una semplice nota redazionale, che avrebbe dovuto precedere il dittico. «Ma come, non lo sai ancora?», mi accolsero pochi giorni dopo, quando mi recai al Saggiatore per presentare i miei appunti. Sereni ci aveva ripensato, non era persuaso, si era fatto riportare indietro tutto. Non solo. Era sua intenzione, mi informarono, di ristampare semplicemente L’opzione, forse con l’aggiunta di un paio di frammenti: ma al Sabato tedesco aveva deciso di rinunciare. Il colpo di scena era talmente prevedibile per chi lo conosceva che per qualche istante pensai si stessero prendendo gioco di me, e in modo neppure tanto originale. E invece il prevedibile si era davvero realizzato, davvero il dattiloscritto era stato nuovamente inghiottito fra le carte del poeta, né alcuno di noi era in grado di immaginare se mai ne sarebbe rivenuto alla luce. Eppure a noi pareva, nonostante tutti i dubbi di Sereni, che Il sabato tedesco meritasse di esistere, di non essere accantonato fra i progetti incompiuti su cui tornar sopra in tempi migliori. Misi a punto le mie poche pagine e gliele portai da leggere. «Non vorrai, adesso, che a mia volta le tenga nel cassetto» insinuavo. «Può anche darsi, non lo nego, che il tuo libro abbia ancora bisogno di un’altra revisione, solo tu puoi saperlo. Ma non puoi rinunciare, facenII


domi sprecare uno scritto così bello. Non saresti un amico, come m’illudevo.» Credo che malgrado tutto la mia impudenza lo abbia divertito; confessò che, dopo qualche giorno di sollievo per avere infine voltato le spalle alla fatica di limare, correggere, cancellare – lo stento, la pena di chi ancora non si riconosce nella propria opera, e dispera di condurla mai a trasparenza d’espressione – ebbene sì, lui per primo cominciava ora a sentirsi vagamente in colpa con se stesso, quasi fosse venuto meno a un vincolo di necessità. Non accade spesso che di un libro sia terminata prima l’introduzione, specie se scritta da un altro, che non il testo medesimo. È un ben piccolo paradosso, naturalmente, né fa molta meraviglia che sia toccato a Sereni inverarlo. Ma forse anche questa minore vicenda lo indusse, dopo aver portato a compimento la sua ultima raccolta di poesie, a tornare sugli Immediati dintorni. Quando ci ha lasciati, sul suo tavolo c’erano le leggendarie bozze di tanti anni fa, con altre nuove aggiunte, in un fascicolo già ordinato per la pubblicazione. Voleva che anche questo libro uscisse, come nel 1980 Il sabato tedesco, in autunno. Per i suoi lettori, da sempre abituati ad aspettare, non sarebbe stata una troppo lunga attesa: ma quanto dolorosa, questa volta; e ben più che attesa, rimpianto. Avevo conosciuto Vittorio Sereni nel 1968. Dal momento che alcuni amici mi proponevano di curare un supplemento di letteratura per una loro rivista studentesca, mi sembrò una buona idea aprire ogni numero con un’intervista, cominciando appunto da Sereni. Usciti nel 1966, Gli strumenti umani restavano il più importante libro di poesia di quegli anni. Così, nonostante la sua nota avversione per le interviste (che proprio da una pagina degli Immediati dintorni mi ammoniva alla prudenza), presi coraggio e gli telefonai, da perfetto sconosciuto quale gli ero. Esitava, senza nascondermi una certa diffidenza. Accettò, precisava, solo perché si trattava di una rivista di quel genere, estranea all’ufficialità letteraria. Era una domenica di marzo e dal III


cielo cadevano cateratte di pioggia quando mi presentai in via Benedetto Marcello, grondante d’acqua, con il mio registratore nella borsa. Tutto congiurava contro di me; anche il suo assenso, da cui a ogni buon conto si capiva che avrebbe fatto volentieri a meno dell’ingrata cerimonia, mi sembrava ora gravido di minaccia. Mi colpì di quell’intervista una dichiarazione su cui, di lì a poco, avrei spesso avuto modo di riflettere: «È chiaro, e lo dico sempre, che sono uno scrittore che parte da una base autobiografica. In generale, se io ho visto, ascoltato, vissuto per esperienza diretta una cosa, ci sono probabilità che questo dia dei frutti di poesia, diciamo così. Se questa cosa io non l’ho vissuta nella sua origine diretta, immediata, sul suo spunto autobiografico, per averla constatata, percepita attraverso i sensi e l’emotività, è difficilissimo che io ci possa scrivere qualche cosa sopra. Faccia conto: il Vietnam. È chiaro, è persino troppo facile dire che sulla questione del Vietnam non siamo d’accordo con gli americani. Ma io credo che non potrei mai scrivere una poesia sul Vietnam, bisognerebbe che ci fossi scaraventato lì, e ascoltassi, vedessi. Questo fatto non è che io lo senta lontano dalla mia coscienza: il problema è che se lo sento lontano dalla mia sensibilità, non può diventare materia della mia poesia; può diventare materia della mia riflessione, per me beninteso. Ma lei non troverà mai, mai un rigo in quello che scrivo, in cui un fatto, per quanto straordinario, grandioso, venga preso di petto se in qualche modo, direttamente o indirettamente, io non l’abbia vissuto attraverso la sensibilità». Non so quanti, allora, avrebbero sottoscritto un asserto di tale tenore. Ma ancora non sapevamo che quello sarebbe divenuto il ’68. Diversi anni dopo, interpellato dall’Unità perché scrivesse un articolo sull’appena costituita Fondazione di Corrente, Sereni declinò l’invito, aggiungendo però che si sarebbe prestato a un’intervista e suggerendo il mio nome come quello di un possibile interlocutore. Solo allora capii IV


che la mia lontana, maldestra prova non era risultata poi così rovinosa ai suoi occhi. Ma forse si era offerto di nuovo al sacrificio anche perché ormai cominciavamo a frequentarci più spesso, qui al Saggiatore. Non abbastanza spesso, tuttavia, perché la familiarità mi nascondesse i segni di un qualche mutamento. «La cultura italiana» dice benissimo Mengaldo («Ricordo di Vittorio Sereni», Quaderni Piacentini, n.s., 9, 1983) «non ha neppure cominciato a fare i conti con l’ultimo Sereni.» Certo la divisione delle parti tra «coscienza» e «sensibilità», anche allora, si nutriva di un’inquietudine mai pacificata. Ma adesso qualcosa di amaro e di cupo si distillava dalla sua riflessione sui fatti e le «cose del mondo», una sensazione d’inadeguatezza, d’incapacità di capire, che egli confessava come un’autoaccusa, secondo il suo costume. «E dire che mai come ora» scriveva nel Sabato tedesco «mi sono interessato delle cose del mondo, anche se ne parlo il meno possibile e mi limito ad ascoltare, persino con avidità, le voci tra loro dissonanti che ne discorrono e ne affabulano»: proprio ora, quando ogni giudizio cessava di essere «chiaro» e «facile», e quest’ansia trovava riscontro, nella sfera della sensibilità, in un più profondo assillo esistenziale, l’assillo del tempo che declina, il trascolorare dell’esperienza in memoria. Davvero bisogna cominciare a fare i conti con l’ultimo Sereni, provarsi a misurare che cosa ha significato, nel ritegno che gli era connaturale, la sua presenza in questi anni di «crisi». Non vorrei urtare la suscettibilità di quanti teorizzano fervidamente la fine dei valori, la dissoluzione dell’individuo, il tramonto della ragione e la morte dell’arte, insinuando che dopotutto costoro con la crisi hanno l’aria di conviverci benissimo, forse anche perché non la vivono affatto se non come un buon affare. Certo è che per Sereni non era una facile occasione per rivestire l’aureola tenebrosa di chi è disceso negli abissi del negativo con garanzia d’incolumità e viaggio di ritorno assicurato. Probabilmente egli non sapeva che proprio in questo ci aiutava: V


nel suo ostinarsi a credere che i valori sono appunto valori, e che lì abita l’uomo. Il loro tramonto non è uno spettacolo panoramico, ma il congedo da una parte di noi, «decoro», «cortesia», «bellezza» o «città socialista». A essi egli si appella nelle immagini scorciate, negli scatti, nei bagliori che a tratti accendono il recitativo via via più oscurato della sua poesia o della sua prosa, e che si doleva sfuggissero a tanti lettori. Solo uno sguardo davvero turbato poteva fissarsi, dentro il geroglifico degli accadimenti, ancora sui «labili indizi», come scrive Milanini per Stella variabile (Belfagor, 1982, pp. 605-608), «di un divenire meno alienante e più autentico». Gli immediati dintorni accompagnano Sereni, con le loro «intermittenze», dagli anni della guerra alle soglie del 1983. Ma oggi forse vengono più particolarmente a illuminare quest’ultima parabola: come Il sabato tedesco, nella sua architettura attuale anche il «diario» si organizza infatti attorno a un sostanziale ribaltamento di registro, man mano che all’interrogante coscienza fenomenologica dell’autore si propongono i dati della memoria piuttosto che l’esperienza del presente. Né mancano altre ragioni. Da tempo Sereni prestava una crescente attenzione alla prosa. E in proposito occorre una qualche avvertenza da parte dei lettori. È ovvio che la sua prosa ci si presenti in primo luogo come un commento, un’introduzione e una chiave per l’accesso alla sua poesia, tanto più nel caso di questo libro. «Il diario è molto più folto» egli dichiarava a Camon nel 1965 «contiene dati che devono cadere da un libro di poesia. E cadere, poniamo, in un libro complementare, come Gli immediati dintorni.» Ma è anche vero il contrario. La sua stessa lirica include sempre più un fondo di prosa, ne prolunga il rovello, fino quasi a distanziarsene solo per la scansione dei silenzi, la concentrazione delle ellissi – se non quando si animano le figurazioni, i fantasmi, le personificazioni, numi nascosti dell’assiduo monologo. In un siffatto interscambio, dove a propria volta la prosa del VI


tutto naturalmente s’interrompe per cedere al verso, varrà allora la pena di considerare i racconti, i saggi, il diario di Sereni nella loro autonomia di opere a sé stanti. Certo in questo modo potremo meglio intendere alcuni aspetti della sua personalità letteraria che più raramente si sono offerti alla nostra percezione, e che appaiono tutt’altro che secondari nella prosa: il gusto ad esempio per la registrazione aneddotica, una disponibilità all’humour e all’autoironia, echi non trascurabili, forse, di quell’aspirazione alla «festa» e a un’umana comunione che in forma più drammatica ha alimentato la sua lirica più alta. Ma soprattutto potremo meglio intendere il disegno complessivo sotto cui si veniva disponendo, agli occhi di Sereni, la sua lunga attività di scrittore. Proverbialmente avara, intervallata da periodiche pause, la produzione di Sereni è poi in realtà dispersa come poche altre in una quantità abbastanza inestricabile di sedi e occasioni, tanto da annunciare sin d’ora molte croci al lavoro dei futuri filologi. Il fatto non mancava di preoccuparlo, e spesso negli ultimi anni ne parlava agli amici. Probabilmente era anche vivo in lui il bisogno di trarre ormai un bilancio, il riconoscimento forse di un significato globale nella sua opera, non studiato né preventivato, eppure tale da imporsi spontaneamente nel momento di volgersi indietro e misurare la strada percorsa. Certo è che alcuni criteri generali gli erano chiari; anzitutto, avrebbe voluto raccogliere in un volume unico i libri di poesia; in secondo luogo, ordinare le prose in tre gruppi: gli scritti di natura critica (letteraria e artistica), a cominciare dal nucleo già compreso in Letture preliminari; gli scritti di indole narrativa (sotto il titolo La traversata di Milano), a cominciare dal Sabato tedesco; infine il «diario», Gli immediati dintorni. Questo libro rappresenta dunque il primo risultato di tale progetto, che ora toccherà ad altri condurre a termine. Rispetto all’edizione del 1962, Gli immediati dintorni appaiono perciò radicalmente modificati non solo per le molteplici aggiunte, ma anche per i tagli e le correzioni che l’autore ha VII


apportato alle pagine di allora, in vista dell’ordinamento a cui mirava. Il lettore potrà seguire queste trasformazioni (e non sarà tra i motivi di minore interesse del libro) attraverso la nota al testo curata da Maria Teresa Sereni con scrupolo pari solo alla pietas; in ogni caso, sarà lui a rinnovare l’antico miracolo a cui attinge origine, da sempre, la letteratura: «Vivere post obitum vatem vis nosse, viator? Quod legis, ecce loquor: vox tua nempe mea est».

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Lettera d’anteguerra Parma, maggio 1938

… Nella bella stagione puoi vederlo placidamente in giro, al cinema e al caffè, in bicicletta e a piedi; assai meno d’inverno perché pare di salute alquanto cagionevole (i maligni dicono che a questo proposito soffre di dolci manie). È bello essere indotti alla conoscenza e all’amore di una città, che prima era soltanto un nome, attraverso le parole di un poeta: a me ha fatto un certo effetto riscontrarla identica a come me l’ero immaginata leggendo Fuochi in Novembre (è il titolo del secondo, e già vecchio di quattro anni, libretto di Bertolucci). E lui, che probabilmente non manca d’orgoglio, deve pensarla un po’ come Giulio Cesare ai tempi della pretura in Spagna: meglio primo qui che secondo altrove, in qualche città tentacolare. Anche per questo non lo si direbbe poeta dalle rischiose evasioni. Il suo mito se l’è formato tra gli aspetti che lo circondano: ne è come bagnato, intriso dall’aurea luce di Parma. La sua è una sensibilità soprattutto ricettiva: accoglie e restituisce con estrema fedeltà il dono dell’aria e delle ore. Certe cose che si provano qui è inutile tentare di esprimerle in modo diverso da come lui le ha espresse: così almeno è per me; ha già detto tutto lui. D’accordo: la poesia non è soltanto questo. Ma in lui lo è essen1


zialmente, e in modo invidiabile. È forse anche il suo limite. Manca di mistero per questo? Non direi. Penso a certe case di campagna in cui la quiete istantaneamente si turba al frusciare di una tenda, allo sbattere di una porta, e la breve animazione che ne risulta diventa subito ossessione leggera. Di un’analoga, appena percettibile vicenda Bertolucci è spettatore e interprete a un tempo. (Ne vuoi un esempio? Ascolta questi versi recentissimi, non raccolti in volume: Fui una viottola un tempo. Invasa dall’erba, soave e straziante silenzio è mia morte, acerba se pure da un alto ramo la cicala riprende il suo canto meridiano. Ad essi l’autore ha premesso queste parole di Seneca: «O mors, quam amara est memoria tua homini pacem habenti in substantiis suis». Questo forse ti chiarirà meglio ciò che ti dicevo a proposito di quel suo mistero un po’ domestico, a portata di mano: pensa a quell’idea pura – immotivata, si direbbe – della morte che si affaccia, forse a ore fisse, alla soglia di casa o ad una finestra a pianterreno; alla penombra in cui getta per un poco le cose miti e serene tra le quali il poeta vive…). Quanto a me, penso all’estate che si prepara da queste parti: turgida e accecante. So che ne sarei schiacciato, se restassi. E il mio poeta? La regge appena, immagino; ma la regge, come vedi…

Bologna ’42 Bologna nell’inverno del ’42 era una città tetra, quasi una città di retrovia, con grande movimento e varietà di uni2


formi. C’erano reparti in formazione o di passaggio per i vari fronti, ma la gente guardava soprattutto, con apprensione e pietà, i poveri cappotti foderati di pelo dell’Armir. Ho un ricordo di molte nevicate e, anche più, del fango e delle pozzanghere attorno a una caserma del Pontelungo. La primavera fiorì quell’anno con le mostrine nuove, blu e amaranto, della Divisione Pistoia che andava motorizzandosi per l’Africa del Nord. Senza parere, il soggiorno bolognese ci aveva maturati alla disfatta che venne poi e, a parte le vicende che precipitarono il nostro distacco, più d’un presentimento era nell’aria a rattristarci Bologna primaverile. Io non so come sempre un disperato murmure m’opprima nell’aria del tuo mezzogiorno, tanto diffusa ai colli dentro il sole tanto quaggiù gremita e fumicosa. E non è fiore in te che non m’esprima il male che presto lo morde, non per finestra musica s’inoltra che amara non ricada sull’estate. Invano sotto San Luca ogni strada voluttuosa rallenta, alla tua gioia sono cieco ed inerme. E l’ombra dorata trabocca nel rogo serale, l’amore sui volti s’imbestia, fugge oltre i borghi il tempo irreparabile della nostra viltà.

Lubiana agosto 1942

La tradotta è ferma in stazione sotto un sole feroce. Non ci lasciano scendere. Un convoglio composto di carri bestiame, con le portiere piombate, infila lentamente il binario

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parallelo al nostro e si ferma tra noi e l’edificio della stazione. Lo scortano carabinieri in elmetto nero, tanto più sinistri nella canicola. Vanno in Italia. Ma non sono occhi bovini quelli che ci guardano dalle grate dei carri: sono occhi di uomini e di donne; torvi, brucianti. Nient’altro che occhi umani. Si moltiplicano e si affollano, fissi su noi con un’intensità micidiale. Difficile sostenerli, così compatti, unanimi nell’odio, più forte della loro impotenza, della loro disperazione, della fame e della sete. È gente catturata nei rastrellamenti. Ma per noi esistono solo quegli occhi che ci guardano. Ostentiamo indifferenza, o addirittura mitezza… Ma meglio, meglio che li portino via. A nostra volta finiremo con l’odiarli. Per legittima difesa, che diavolo! Non è così che cominciano i massacri? Lo intuiamo oscuramente, ma non vorremmo, non vorremmo farne esperienza. Il convoglio riparte adagio col suo carico d’occhi. Quando l’ultimo carro e l’ultimo sguardo sono passati, abbastanza lentamente perché ci si senta marchiati a fuoco, ci è permesso scendere in stazione per il cambio della moneta. Guardo il cielo e mi dico: Lubiana. Dubbia come il suo nome di sole tra le nubi, di verde che dà nel grigio, di bianco che dà nel cenere. Da piccolo, udendo quel nome dopo Vittorio Veneto, l’immaginavo così. Oggi il tricolore pende floscio nell’afa. Dimenticavo che Lubiana appartiene all’Italia da un anno… Tanto le appartiene, che lasciandoci liberi di uscire in città fino alle 18 (non prima la tradotta riprenderà il viaggio per Atene) ci raccomandano di non passeggiare se non a gruppi, di non fare alcun gesto che possa essere inteso come una provocazione, di non fidarci delle donne. Si gira per la città, si fanno acquisti, si bevono enormi boccali di birra. Per strada nessuno ti guarda, tutti ti evitano. Nei negozi subiscono, è la parola, le ordinazioni, ti mettono davanti la roba con malagrazia ostentata, prendono la nostra moneta con disprezzo, rifiutano la mancia. Centro modernissimo, 4


con grandi caffè lustri di vetro e di cromo, completamente deserti. Ma le chiese, tra barocco e rococò, danno già un senso d’oriente. Davanti al Corpo d’Armata stazionano, uno per parte, due granatieri armati fino ai denti. Passa un autocarro stipato d’altri occhi e non basta il gesto di bonaria irrisione del fante armato che li scorta a spegnere la raffica di questi nuovi sguardi. Aria pesante, insomma, di cui nessuno di noi vuole esaminare le cause che pure, vagamente, conosce. Ci si guarda attorno stupiti. Eppure ognuno si sente abbastanza umano per pretendere di essere guardato per se stesso, fuori dalla collettività che rappresenta. Ma la strada di tale recupero qui è sbarrata dovunque. Si gira il grande parco della città nemica. Ragazzi fermano il gioco per un attimo quando noi passiamo. Si guardano un po’ tra loro. Poi riprendono a giocare. Intanto il pomeriggio declina e la luce piove torbida, ormai, dal cielo che si va coprendo, sul verde vivo, sul volo di molte farfalle. Si risale verso la stazione. La città si richiude dietro di noi, nel suo dubbio nome. Ma non è dubbio il senso della sua accoglienza. Berremo l’ultima birra in un grande ristorante, dove appaiono stranamente ossequiosi, a cominciare dalla ragazza dai capelli rossi che ci serve. Non è tanto strano: siamo a due passi dalla stazione, ci danno il commiato. O qualcuno sta imparando l’arte di collaborare? Eccoci in tradotta. La strada ferrata corre per un tratto lungo i viali periferici della città. Il colonnello si frega le mani soddisfatto perché ha cambiato le lire in dracme al cambio di 1 a 30, anziché a quello ufficiale di 1 a 8 (non sa ancora che al Pireo si cambia normalmente a 250). Il sottotenente T. parla della diciottenne in costume azzurro incontrata alla piscina di Lubiana. L’azzurro di quel costume e il verde tenero del parco nella città ostile illumineranno le tenebre dopo un giorno di vacanza non goduta.

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Sommario

Introduzione di Franco Brioschi

I

gli immediati dintorni Lettera d’anteguerra 1 Bologna ’42 2 Lubiana 3 Sicilia ’43 6 Algeria ’44 11 Male del reticolato 13 Angeli musicanti 18 Esperienza della poesia 22 Cinque poeti negri 26 Un giorno del ’50 31 Biennale del ’50 31 Quel film di Billy Wilder 31 Un intermezzo 35 Arie del ’53-’55 36 Un venticinque aprile 43 Un omaggio a Rimbaud 44


da Pound 47 La statua che s’è mossa 51 Il nome di poeta 53 da Apollinaire 56 Angelo in fabbrica 57 Broggini di corso Garibaldi 58 Rappresaglie 60 Cominciavi 62 Sul rovescio d’un foglio 62 da Frénaud 63 Per un poeta d’amore 64 Due ritorni di fiamma 67 da W.C. Williams 70 Il silenzio creativo 72 Ciechi e sordi 75 L’anno quarantatre 77 L’oro e la cenere 86 Il fantasma nerazzurro 88 L’anno quarantacinque 90 Ognuno riconosce i suoi 98 I ricongiunti 99 da Apollinaire 100 Toronto sabato sera 101 Prove per un ritratto 102 In morte di Ungaretti 108 Targhe per posteggio auto in un cortile aziendale 109 Ritratto di Traverso 112 Niccolò 114


La cittĂ 115 Poeta a palazzo 117 Una recita e un applauso 118 Autoritratto 123 La nemesi 128 Negli anni di Luino 129 Morlotti e un viaggio 134 Quella scritta di Luxor 137 Port Stanley come Trapani 139 Infatuazioni 143 Il tempo delle fiamme nere 143

appendice Dovuto a Montale

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Nota giustificativa di Maria Teresa Sereni

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Note

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