Vittorio Giacopini Nello specchio di Cagliostro Un sogno a Roma
Nello specchio di cagliostro
Alla badessa
Grazie a dio sono ateo. Luis Buùuel Roma è tutto un mondo, ci vogliono anni anche soltanto per riconoscervi se stessi. Fortunati quei viaggiatori che vedono e se ne vanno. J.W. Goethe
È l’ora della notte più stregata
L’immaginazione si fa ricordo. Affacciatevi nel pozzo del passato, nell’impostura. È l’ora della notte più stregata: il fioco cono di luce di una torcia rischiara un cantuccio di afflizione. Le sbrecche pareti di una cella ipogea, umida e fonda; l’incombente pressione del tetto a botte. L’uomo è – o appare – legato ai ceppi. Basso, pingue, spiritati occhi porcini, farfugliante. Lo vediamo, o crediamo di vederlo; lui, in sé stesso smarrito, non ci ravvisa. Eccolo che percuote le spesse catene, inutilmente. Che graffia con unghie rovinate le pietre antiche. E rantola, borbotta, raglia, contumelioso. Strambe formule e parole ancora più inconsulte, stravaganti: Ego sum qui sum; Helion! Melion! Tetragrammaton! È – o appare – un prigioniero; è o appare: nessuna certezza è data e tutto sfuma. È un tempo di perfetta inconsistenza; nel teatro della memoria, un controtempo. Interrotte, allora, sono le notti; falsato il seguito regolare degli eventi. Che c’è per l’aria? Vattene via illusione; fatti da parte! Ma lui è – o appare – soltanto un prigioniero. Ego sum qui sum, ripete, ancora e ancora: il motto e l’insegna 13
del conte di Cagliostro. L’uomo che ha stregato e avvinto l’intera Europa adesso costretto ai ferri, chiuso in galera. È o appare (e apparendo non è, scivola via). L’esitante fiaccola torna a baluginare cieca sulle pareti; l’umida, tetra cella, adesso, è vuota. È lui; altri non può essere che lui. Di natura dileguante, paraspettrale, e mai succube del tempo, di uno spazio: il grande mago Cagliostro, l’arcitaliano. Così come continua ad apparirci fu, è stato, sarà. Così come insiste a sfuggirci, sempre è sfuggito. La cella vuota sulla rocca di San Leo, medio Appennino, riassume l’enigma in forma di estremo lascito o figura. Figura di cose ancora da venire, del futuro; lascito, o imbroglio, di un passato immemorabile, abissale. Time out of mind: qualcosa che la ragione, stanca, non comprende. Un mito, appunto, o un enigma, un rompicapo. Ieri sarà ciò che domani è stato. È lui; altri non può essere che lui. Visse in un tempo fuor di sesto, sciagurato. Così è oggi per noi (e così è stato per me, da ragazzino, in un giorno di settembre, in quella cella). Tale fu ai tempi che visse: apparizione. Si mostra e subito scompare; c’è e non c’è. Come in una serie di sogni e per malia, come bava di rospo: apparizione. Da normali figli della terra – felici di non essere troppo felici – ci intestardiamo ad azzardare la domanda o l’esorcismo. Che c’è per l’aria? E cosa sei, tu, che usurpi quest’ora della notte? Tutto era stato e, di ogni cosa, tutto aveva provato: «Cabala, sortilegio, incanti, evocazione dei morti o degli spiriti malefici; scoperta dei tesori nascosti, dei più grandi segreti, divinazione, dono della profezia, dono di guarire con pratiche misteriose le malattie più ostinate». «Non sono di nessuna epoca e di nessun luogo» aveva reci14
tato, farneticante, e il tempo suo, che l’aveva condannato, messo ai ferri, non era riuscito a smentirlo, tutto sommato. All’ombra di Cagliostro, il secolo dei Lumi s’era rivoltato in notte di maghi. Tutti aveva ossessionato, e lo fa ancora. Vittima – e complice – di oscure trame di Curia, cospirazioni, s’era venuto a perdere nel labirinto di una Roma-Trebisonda, terra d’intrighi, e s’era tradito per sempre, sciagurato; eppure sempre ritorna, mai ci lascia. Sempre ritorna: sotto sembianza di enigma, di bugia; in forma – fugace e imperitura – di fantasma: «La parola fantasma è usata anche per tutte le idee false che ispirano paura, rispetto […], che ci tormentano, che ci rendono infelice la vita». Affacciatevi, allora, nel pozzo del passato, non esitate; ieri sarà ciò che domani è stato. La scena muta; oltre quella cella vuota, s’apre un paesaggio. Il sogno inizia da un’esile visione, in dissolvenza. Lo scorgete all’orizzonte, in lontananza. Un prete cavalca nel silenzio di una valle, tra gli acquitrini. Dal suolo si alzano sbuffi di fumo.
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Nel tufo
Poco dopo l’alba la nebbia cedeva il posto a luci e ombre e sagome fredde. Gli uccelli sventati che avevano magnificato il buongiorno ora tacevano. Strana quiete. Il vapore denso del fiato del cavallo già fradicio di sudore nel primo mattino faceva velo allo sguardo miope del cardinale, che adesso indossava altre vesti, meno eccelse, e cercava una sua pista oscura nel bosco, la via di fuga. Si era spinto tra macchie e selve di cerri, su costoni di pietra lavica, nelle faggete, ora il sentiero slargava in una radura improvvisa e spaventosa. Dal suolo scrostato, marcio di brina, salivano lenti fiati di fumo, alte volute, e l’aria era guasta di zolfo, spessa e vaga. Arcobaleni nani lucevano opachi ai piedi delle polle. Se avesse creduto a qualcosa, ma era escluso, avrebbe pensato di aver incontrato un Ade silvestre e terreno, l’oltre ignoto. La valle del diavolo; la valle dell’inferno, la chiamavano. Superstizioni di contadini; stupide fole. La bestia aveva scartato irrequieta, rabbrividendo, ma il vecchio, che sapeva come domarla, era tranquillo. Le acque puzzole, gli infidi lacioni invernali, le marane, e adesso i soffioni di bora, queste pozze gorgoglianti e bollenti, le sabbie mobili, forse, o forse un guado: del viaggio conosceva le piccole insidie e il malanno, le incertezze; il premio beffardo e maligno di un esilio. Teneva il cavallo sul ciglio del sentiero, attento a evitare buche, 16
avvallamenti. Oltre quella gialla spianata di miasmi c’era ancora la selva profonda e, dopo un sentiero più alto, ancora strada. Un colpo secco ai fianchi lucidi e stanchi della bestia e già l’animale tornava a trottare sul fermo terreno, con gli zoccoli acciottolanti sulle murrie di scheggiata pietra lavica rosseggiante. Poi, dietro a una curva a gomito, brusca, inavvertita, il paesaggio mutava ancora e la macchia tornava a ombreggiare, coprendo il cielo, mentre il sentiero si trasformava in un profondo canale scavato nel tufo. Qui ogni suono era eco, percuotimento, poroso rumoreggiare, passo felpato. Il manto bianco sporco del ronzino contro l’ocra acceso del tufo, la veste nera dell’uomo e le ombre storte dei cerri, un cielo assente: la scena era quella, ambigua, di un congedo. Ma il cardinale – per quanto da semplice prete vestito – immaginava di avere ancora frecce al suo arco e nuove pregiate risorse e tempo e alternative. Per l’intanto cavalcava, chiuso nel tufo, diretto a una valle segreta, ben protetta, e a una casaccia dirupa ai bordi del bosco, lungo un sinuoso torrente canterino. Nel secolo decimottavo declinante, in questo febbraio del ’98 (ma gli avevano alterato il calendario e ora il mese si doveva chiamare Ventoso), Sua Eminenza fuggiva i fuochi cattivi e atroci della Tolfa, la disfatta di Allumiere, la devastazione finale di Monterano. Aveva le truppe francesi alle calcagna. Soldati scalcagnati e mezzo nudi, mal pasciuti, tutti malarnesati, tutti sbrindati. Meglio, comunque, delle ridicole, delle catatoniche fila dei fanti di Sua Santità, di quella brigata di venduti mercenari corsi, nobili sempre pronti a darsi alla rotta, senza vergogna, improvvisate guarnigioni di pavidi e sprovveduti «miliziotti». Da un messo fidato – il sottotenente Arampini del Primo reggimento della truppa civica – aveva saputo che Roma era perduta e, notizia peggiore, anche della sconfitta degli insorti della Tuscia. Per l’ex segretario di Stato, per Sua Eminenza, era semplicemente inconcepibile: Roma senza il papa, Roma fatta straniera, Roma violata. Era come vivere in un mondo rinnovato, ma senza centro. Le nuove di Arampini erano pessime e c’era poco da fare, 17
per il momento. Anche il buen retiro nel feudo dei principi Altieri, a Monterano, era diventato insicuro e ora toccava nascondersi un’altra volta, farsi di nebbia. Dopo una lunga vita di oscure trame di Curia, cauti passi, riservati abboccamenti e mediazioni, il vecchio aveva scelto l’azione, extrema ratio, e ora ne pagava il fio, senza fiatare. Aveva scommesso ogni cosa sugli insorgenti ma non senza mettere in conto la disfatta. Eppure bisognava tentare, era dovuto. Il vecchio non si sentiva responsabile. Il suo ultimo atto pubblico, un proclama, aveva suscitato scalpore in Vaticano. Non s’era mai visto un segretario di Stato, un tiepido porporato, un uomo di curia, capace di tale machiavellica audacia, di tanto ardire. Quel testo – che i bandi avevano affisso sui muri o proclamato al suono di pifferi e tamburelli, trombe sfiatate – era un vero manuale di guerriglia. L’uomo di fede poteva farsi stratega, capo di folle. Già presago di un possibile attacco straniero elencava – con arguzia casuistica, nei dettagli – le più necessarie contromisure: «Nel caso che […] avvenisse qualche insulto, aggressione o invasione […] dovrà subito in tutte le adiacenti città, terre, castelli, altri paesi e luoghi abitati suonarsi campana a martello». Al suono di campana, subitamente, doveva mobilitarsi ogni persona, prendendo le armi possibili, «da foco» o anche soltanto da taglio o anche bastoni, e «viveri bastanti per due giorni». Tutti si porteranno senza ritardo al luogo che verrà loro designato o altrimenti crederanno il più opportuno per opporsi all’invasione con impedire al nemico li viveri, li foraggi, l’acqua e il passo, barricare le strade, rompere li ponti, e fare tutt’altro, onde non solo il medesimo non s’avanzi, ma venga altresì respinto, fugato e distrutto.
Tagliare la strada al nemico, l’acqua e il passo. Per fermare i francesi ci voleva un miracolo, sul serio, e tanto valeva fosse un miracolo aspro, e sanguinoso. Incitare le folle, recalcitranti, aizzarle alla battaglia, farle fiere. Altro che «madonnelle che movono gli occhi», pie sbertucciate di stupida devozione rasse18
gnata. Quando anche a Roma si era diffusa quella voga – madonnine stradarole che pigliano ad animarsi, che gli prende? – al cardinale era venuta soltanto voglia di farle strappare dai muri quelle insegne! Ma era un’epidemia di suggestione, come facevi a spazzarla via? Movessero pure gli occhi – rimuginava –, ma intanto prepariamoci alla battaglia, facciamo scorte, affiliamo la lama ai coltelli e alle spade ricurve e alle alabarde; pigiamo la polvere scura nei barili. Un esercito di popolo, una milizia capace di fermare il nemico, di fugarlo! Povero illuso: la storia gli aveva insegnato ben poco, anzi un bel niente. Tutt’al più avrebbe potuto ordinare omicidi, agguati, insidie, ma lo scontro in campo aperto era utopia. Non c’era modo di vincere, comunque. Che Roma fosse perduta era scontato. Allora aveva scelto l’esilio, la ritirata. L’avevano fatto dimettere, d’accordo, ma non era una garanzia o un salvacondotto. Nei panni anonimi del prete ordinario, secolare, si era allontanato a cavallo, poco prima del coprifuoco, verso sera, guidando la bestia al tramonto, lentamente, in strade deserte e silenti, ferme in attesa. Ai raggi sbiechi del sole calante statue impassibili e austere, o anche grottesche, allungavano sul selciato ombre paurose. Aveva lasciato la città a Porta Salaria, ormai presidiata dai nuovi padroni. La procedura era nota, un militaresco e goffo rituale. Il pizzardone di guardia aveva intimato il suo «Chivalà» da gradasso, tanto per fare, e il prete a cavallo gli aveva risposto a tono, buggerandolo: «Repubblicano!». Poi aveva messo la povera bestia al trotto, uscendo nel vasto mondo esterno, oltre le mura, tra le basse vigne spoglie, in una campagna già fonda di notte.
* Zelada. Francesco Saverio de Zelada. L’eminentissimo cardinal Zelada. I titoli altisonanti, le prebende, i già ambitissimi incarichi, le molte e arcane mansioni, le incombenze (tutte gravi, delicate, imprescindibili). Zelada, l’eminentissimo cardinal Zelada. L’ex segretario di Stato di Pio vi, l’arciprete del Titolo Equizio di San Martino ai Monti, di Santa Prassede. L’arcivescovo di Petra (in partibus infidelium, terra di mori) e di San Gio19
vanni. E, ancora, l’archivista segreto, l’inquisitore, l’astronomo fallito, il numismatico, l’erudito, l’uomo di mondo. L’anima nera che aveva stroncato ed estinto i gesuiti; il nemico dei massoni, l’antagonista feroce di… Cagliostro. Lo spagnolo (che era romano, invece, fatto e finito). Epiteti e soprannomi, marchi d’infamia. Di lui si parlava, un tempo, con rispetto e timore, circospezione. Si diceva – o piuttosto si sussurrava per cifrate allusioni, obliquamente – che avesse una vasta rete di spie, sparse un po’ ovunque. Non c’era cantina di Roma, non c’era frasca, dove non avesse sensibilissime orecchie, occhi in agguato. Meglio non dire di lui, non nominarlo. Belle parole. Invidiabili ma sgradevoli ricordi. Il tempo l’aveva segnato ma la vecchiaia non era che un fardello relativo; forse il minore dei mali, una parvenza. Aveva perso qualcosa di più irrimediabile della giovinezza: una spensierata audacia, l’ambizione. Uomo di intrighi, cominciava a familiarizzare col pensiero, un tarlo molesto e insistente, velenoso. Si poneva oziose e crudeli domande, suo malgrado. Cosa restava di quel discutibile sfarzo, di quella carriera, su queste spoglie colline in bassa Maremma, nel lercio di questa casa angusta e fosca? Risposte non se ne dava, procrastinava. Nelle interminabili sere alla casaccia, davanti a un camino stremato, a stanche braci, Zelada metteva fine alla giornata lasciandosi sopraffare dalla memoria. Subiva la tortura dei ricordi. La mente vagava e il cervello era andato in muffa, perdeva colpi. Così entrava in un teatro della memoria che poi era un labirinto, senza uscita, o un affollato palazzo barocco di fantasmagorie contorte, giochi di specchi, eterne illusioni e anamorfosi, trompe-l’oeil. L’ossessione del passato lo sfiancava; ripensava alla sua vita senza gioia. Nel ricamo delle braci, tra le fiamme, prendevano forma losche immagini mutevoli e i volti delle sue vittime imploranti mutavano in maschere paurose. Il generale dei gesuiti Ricci, l’odioso Albani, l’avvelenato papa Clemente, il bieco Cagliostro. Di lui, soprattutto di lui, temeva il ricordo, ma non per terrore o rispetto, superstizione. Forse era invidia, magari un ancora sospeso stupore, inter20
rogazione. L’immagine del cialtrone, del siciliano, si confondeva col tempo che aveva vissuto, anzi subìto, e restituiva un viso all’era bacata che gli era toccata in sorte, suo malgrado. Che imbecille era stato, a ripensarci! Aveva sbagliato avversario, sciupato forze, diretto le sue energie contro un fantasma. A ripensarci, il grande congiuratore non era niente. Soltanto impostura e inganno, millantamento. Il vecchio Zelada malediceva la meravigliosa truffa del secolo dei Lumi da cui era stato irretito senza capirlo, o capendolo troppo tardi, fuori tempo. Aveva scambiato fischi per fiaschi. Anni e anni prima, in una delle scalcinate, freddissime aule del Collegio Romano, il suo maestro Boscovich – l’astronomo gesuita, l’irascibile matematico, il letterato – gli aveva fatto leggere un proibitissimo libro di Bayle e quelle parole che allora gli erano parse incongrue, vane, insulse, tornavano a turbarlo, ambiguamente. La luce delle comete è una bugia: Non c’è lampada accesa in mezzo a una campagna la quale non illumini e scaldi l’aria circostante molto più di una cometa; così che attribuire alla luce delle comete la forza di alterare i nostri elementi e di alterare la nostra tranquillità pubblica è ridicolo.
* Ossessiva e scialba, monotona, la vita scorreva ora ripetitiva, rotta soltanto da squarci di allucinata eternità. Misurava le ore col cucchiaino e le ore e i giorni si ripetevano stanchi, inalterabili. A parte l’azione, il potere, le emozioni, l’altissima intensità di un altro tempo di cui conservava ormai scarsa memoria, gli bastava confrontare i vili dettagli degli oggetti attorno a lui – i mobili e le suppellettili, l’arredo, misero e spoglio, del suo covo – per ravvisare il declinante senso della sua parabola. Un muto linguaggio di cose lo esasperava. Il prima e il poi; il ricercato splendore di un allora remoto e la grezza frantumaglia del presente. Non aveva mai scordato un viso, un nome, un volto. La sua intelligenza da persecutore ora lo ripagava, perseguitandolo. In 21
quel dormiveglia infinito che adesso era diventata la sua vita tornava, a volte, col pensiero a quel gaglioffo, al nemico dei nemici, all’avversario. Zelada l’aveva riconosciuto subito, ovviamente; l’altro, invece, non avrebbe neanche mai immaginato (e mai saputo) che già s’erano incrociati, molti anni prima, e che i loro destini – estranei e opposti – avessero un altro punto di contatto oltre a quello, ovvio, sancito, nel ferro e nel piombo, dai ceppi della prigione, dall’arbitrio del potere, dalla Legge. Dopo l’arresto, deciso in alto conclave dal Vaticano, l’eminentissimo Zelada aveva voluto vederlo di persona, l’impostore, ma nel dubbio grande d’essere ravvisato per quel che era (e per quel ch’era stato) s’era celato dietro un’anonima zimarra nero fumo e un grande sciarpone di lana, un cappellaccio. Dall’appartamento ufficiale in Tor de’ Venti, aveva raggiunto il Castello direttamente attraverso il Passetto, verso sera, quasi sorvolando la squadrata geometria dei borghi, i primi campi aperti, Porta Angelica. Dal fiume tirava un gelido vento di tramontana. Zelada, in un primo tratto scortato dalle guardie del Santo Uffizio, aveva voluto proseguire da solo, lasciando gli sbirri sotto al portico del camminamento più esterno del Castello. Contava sull’effetto misterioso e straniante di un’apparizione inaspettata. Aveva curato bene la messinscena. Si sarebbe fermato davanti all’atroce porta della cella, in quel ritaglio di luce, fermo e immobile, a stampare la sagoma della sua silhouette altissima e smagrita direttamente negli occhi accecati dal buio del recluso. Alle sue spalle, stagliata nel livido cielo rosseggiante, la sagoma dell’angelo di marmo con la spada. Doveva, voleva, sembrargli un messaggero del futuro, un presagio di morte, precognizione. L’aveva sentito grugnire, farfugliare, sgranare qualche bestemmia o una preghiera. «Mammuzza santissima e cara, bedda madri…» Quando l’avevano tratto in arresto, il ciurmatore aveva ancora quel suo grasso volto rubizzo, gli occhi vivaci e sporgenti, le guance accese. Ci avrebbe pensato lui adesso a sbiancargli il volto, incavandogli in orbita vuota e spaurita l’audace sguardo arrogante da serpente. «Chi sei? Chi diamine sei, fatti sapere…» Zelada era restato 22
zitto, senza fiatare, asserragliato in un silenzio imperscrutabile. Non stava a lui parlare, muovere il fiato. L’«uomo del secolo» gli era sembrato un ben triste figuro. Il conte di Cagliostro, Giuseppe Balsamo, il famigerato signor Pellegrini, il grande cospiratore, il frammassone. Ora, dinnanzi a lui, c’era soltanto un povero cristo ai ferri, lacero e sporco. L’aveva sentito cianciare, blaterare, smozzicare mezze scuse, pentimenti. «Vi sarà un errore in me, e io mi perdo, non capisco niente di tutto ciò, perché son qui. Lei mi dica quello che ho da dire e lo dirò…» Le stesse frasi insensate, la stessa sfilza di malaccozzate discolpe, di crasse bugie che gli avrebbe risentito in bocca, mesi dopo, davanti alla corte fatale alla Minerva, sotto la finta, punteggiante stellata del soffitto. Se voleva spaurirlo, c’era riuscito. Così com’era giunto, se n’era andato, lasciandolo nel dubbio più assoluto. Chi aveva aperto la cigolante porta della cella? Cos’era quell’ombra maligna, che voleva? Domande oziose ma certo meno insidiose o imbarazzanti di quelle che si poneva lui, adesso, alla casaccia, orbato di ogni alterigia e ogni potere. Chi aveva vinto davvero la partita? Chi aveva smarrito sul serio la Trebisonda? Alla lunga, aveva avuto ragione quel ridicolo pagliaccio, senza saperlo. Il papa in catene e Roma repubblicana, invasa e vinta: le maledizioni grottesche di Cagliostro avevano preso corpo e consistenza e l’incredibile s’era fatto presente, nell’afflizione. Quando gli avevano portato la nuova della morte del gaglioffo, a San Leo, aveva provato ben poca soddisfazione o gioia, consolazione. La storia incalzava; le truppe nemiche erano al confine. Zelada non s’era sentito sollevato. Il giorno stesso era tornato nella cella di Cagliostro, a Castel Sant’Angelo, in cerca di un qualche reperto rivelatore. A lume di candela, nel buio fitto, aveva scrutato le umide mura sbozzate della stanza, coperte di rozzi graffiti, scritte e sgorbi, disegni blasfemi (asini in volo e gesubambini nani, madonne barbute). Vicino al ceppo, le strofe inquietanti di uno stornello: Pensa beni a la morti, al mondo non c’è niente rimedio. 23
Averti chi ccà dunanu tratti di corda e… Sta in cervellu chi ccè dunanu la corda… Mors, ubi est victoria tua? Dov’è la vittoria tua, che n’hai cavato? Più tardi, la notte, nel suo studio al Gesù, nel fondo silenzio di una pausa insonne, aveva riguardato le carte del cialtrone, quei suoi scritti di folle e guasta eloquenza allucinata. Il testamento, l’antico Memoriale della Bastiglia. La cosa assurda era che avvertiva persino una punta di invidia, o ammirazione. L’ironia della faccenda gli era ben chiara. Come diavolo è possibile, pensava, che questo arrogante secolo di Lumi sia stato così prono alle burle, alle smaccate imposture, alle soperchierie di un ciurmatore? Il fiscale Barberi, il procuratore di Stato, un uomo suo, l’aveva scritto bene, nel Compendio.* Zelada sottoscriveva in toto, perché il nodo era davvero quello ma scioglierlo… vallo a sciogliere: è un imbroglio. Costui è stato un impostore famoso. Deridono alcuni e disprezzano quelle passate età nel decorso delle quali si contano degli uomini simili a lui, applauditi e creduti quasi semidei. Giustamente: ma il secolo decimottavo, quello che si arroga il titolo di illuminato, di spregiudicato, di filosofico, supera in questa macchia tutti gli altri; ed è appunto ciò che dovrebbe coprire di una salutar confusione i suoi fanatici encomiatori… ove è mai stata inondata l’Europa, quanto nell’età nostra, da Diavoli di Loudun, Vampiri, Zilfi, Rosecroci, Convulsionari, Magnetici, Cabalistici?
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Il Compendio della vita e delle gesta di giuseppe balsamo denominato il conte venne redatto su commissione del Santo Uffizio dal fiscale generale del governo monsignor Giovanni Barberi, in occasione del processo a Cagliostro nel 1791. Edito dalla stamperia della Reverenda Camera Apostolica e venduto anonimo all’abbordabile cifra di tre paoli, andò presto esaurito e subito ristampato e tradotto in varie lingue. Monsignor Barberi, dopo alterne vicissitudini, si spense nel 1821. Riposa nella chiesa di San Luigi de’ Francesi, sua parrocchia. Una lapide a terra a fianco della cappella di San Remigio ricorda la sua figura ma l’iscrizione, cancellata dai passi, è illeggibile. cagliostro
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L’abiura del manigoldo, alla Minerva, era stata soltanto un fuoco di paglia e una commedia. Lo ricordava bene mentre lo portavano via in catene, verso il Castello, dopo i tratti di corda, finto umile, oscenamente viscido, ancora speranzoso nel dono improbo di una grazia più alta. Gli avevano risparmiato la vita, bontà loro, e quello neppure se ne accontentava. Era tutto sorrisi, inchini, bava. Strisciava come un grasso lumacone, un leccapiedi. L’uomo del secolo! Che penoso spettacolo. Poi da San Leo, il botolo aveva preso a ringhiare, rantolando, fiero di ignavia e folle, assatanato. Zelada s’era tenuto informato; del prigioniero sapeva ogni mattana. Chiuso in un fondo pozzo, distolto dal mondo, Balsamo s’era fatto profeta. Del re di Francia – tuonava berciando – aveva visto la fine anzitempo, con rara e insolita, acuta preveggenza; ora augurava al papa uguale sorte. «Guai per la Francia» urlava «guai per Roma.» Scriveva a tutti, ossesso, compulsivo, ma da nessuno mai aveva risposta. Chiedeva udienza al papa, senza ritegno; voleva incontrare il cardinale Doria. Gli agenti di Zelada, sparsi ovunque, intercettavano tutte queste missive. Cagliostro si sentiva un nuovo messia, il predestinato alla folle impresa di «ricondurre all’ovile di Cristo» tutti «i traviati popoli del mondo». Sia come sia, c’era anche del vero; quella follia non era balzana. C’era del vero, magari per sbaglio, ma indubbiamente non cianciava a vuoto. Zelada s’era fatto ammaliare, fissando a lungo, certo troppo a lungo, un vago incendio che s’era risolto nella fiammella di un fuoco fatuo. Non era lui l’incubo o il nemico, non è da lui che promanava il male. Il tempo immobile, Roma, il Settecento, erano solo ricordi del passato. La Storia, fuori, s’era rimessa in moto. Già ne sentiva i passi di gigante. La fine di Roma, qualcosa che non si riesce a concepire. Il bando, doppio, del papa e dei cardinali, e della Fede. Poi, il che era forse peggio, più incredibile, il buffoneggiare osceno, carnevalesco e allegro, irriverente, dello straniero in armi, scatenato, per piazze e vicoli e strade e colli e chiese. La pagliacciata della rivoluzione lo sgomentava più ancora del pane, questa volta sciapo, dell’esilio. Gli alberi della libertà sul sommo del Campidoglio, in 25
piazza Farnese, davanti alla Trinità dei Monti, in piazza del Popolo. Sentiva di essersi perso, era smarrito. La rivoluzione attorno, nel cuore della città, nelle campagne, e lui, in rotta, nascosto in un fondovalle riparato, protetto ormai soltanto dai fitti meandri di un labirinto nel tufo, da strade morte. All’alba usciva nei campi, terreo in volto, a scrutare i segni dubbi e sempre ordinari della notte, le tracce degli animali, il volo ozioso degli uccelli nell’aria. Da nord soffiavano brezze calme, compassate, e il vento sapeva già di salmastro. Lontane paludi malsane all’orizzonte; discrete boscaglie attorno alla radura. Il cardinale sognava la sua rivincita impossibile, pestando nel fango denso del mattino con la mente ingombra di rimpianti. Lucciole per lanterne, toma per Roma: i calcoli suoi l’avevano portato fuori rotta e adesso che lo sapeva cambiava poco. Avrebbe dovuto fidarsi delle stelle ma il cielo che aveva implorato a sproposito più volte non era quella grande stellata d’oro zecchino su luminoso fondale azzurro chiaro dipinta sul vasto soffitto della Minerva (la chiesa che l’aveva visto bambino, da battezzare, poi prete senza fede, poi cardinale). Ripensava a una missiva del vecchio Boscovich, il maestro che poi lui aveva tradito, come tanti. Non era rassicurante, il gesuita: Le piccole comete fanno vedere che l’immenso spazio fra noi e le stelle fisse è più abitato di quello che si credesse. Dio sa quanta roba, e di che specie, forse anche di un genere di talpe non bisognose di luce, vi è in quegli spazi immensi per noi, che li stimiamo tali per l’immensa nostra piccolezza, ma capacissima di tanti esseri di nostra grandezza, e molto maggiori di noi.
«Dio sa quanta roba, e di che specie.» L’aveva sempre colpito, quella frase. Ma in sostanza era tutto vano, senza senso. Filosofava, adesso, il cardinale. Siamo un «genere di talpe», stupide e cieche, che cozzano nel buio, come atomi, e aspirano al lume ambiguo di una luce che, più che impossibile o ardua, ci è proibita.
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Sommario
pROLOGO È l’ora della notte più stregata
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Nel tufo
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Prima pARTE 1. Piazza della Pigna, vicolo della Perciata
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2. Il gesuita e il mago d’Oriente
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3. Prigioniero di Roma
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4. Aspettando il fantasma
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seconda pARTE 5. L’orgia
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6. Un’ombra triste e di ferale ammanto
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7. Tra esilio e Regno
230
8. Il cardinale e l’araba fenice
281
terza pARTE 9. Partita a scacchi con l’automa
319
10. Un grand fantôme de liberté
365
11. Nell’antro di Platone (o alla Bastiglia)
420
quarta pARTE 12. La trappola
455
13. Al mondo non c’è niente rimedio
487
14. Il camaleonte
522
15. Nel tufo
564
Nota e ringraziamenti
581