Non gioco più, me ne vado

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Gianni Mura

Non gioco pi첫, me ne vado Gregari e campioni, coppe e bidoni A cura di Andrea Gentile e Aurelio Pino


Gli articoli di Non gioco più, me ne vado sono stati pubblicati sulla Gazzetta dello Sport, su Epoca e sulla Repubblica.

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Non gioco pi첫, me ne vado



Sommario

Nota editoriale 13

Il gol non è tutto, ma quasi Mundial a Siviglia

19

Samba e torcida

21

Quel sogno dell’82

23

Il silenzio dello stadio

25

Li manda Maradona

27

Inter al BernabĂŠu

30

Dalla parte dei respinti

33

La Francia oltre Platini

36

Come un sasso nello stagno

39

I giorni della sfiducia

41

Van Basten, alla fine

43

La Scala a San Siro

46

Massima follia Inter

49

Cenone con Gullit

52

Milano, un derby

54


La Nazionale più brutta del 1994

56

Il cuore ha sempre ragione

58

L’Arrigo baciato dalla fortuna

60

Presagi prima della finale

63

A testa alta

65

Il naufragio

67

I rigori, giudizio di Dio

69

Il ritorno dei numeri 10

71

Il tunnel di Ronaldo

73

Formiche guerriere

75

Maledetto l’ultimo secondo

78

Mondiale 2006: colori & profumi

80

Benedetti undici metri

84

Vincere senza essere i più forti

87

Ciclismo, un quadro d’epoca Kübler e il ciclismo che esalta

93

Sedrina tra favola e storia

95

Il «miracolo» italiano

99

Non hanno visto il mare

103

Zandegù sottovoce

105

Garofani bianchi per Motta

107

Italia d’attacco nelle Ardenne

109

Anquetil, il duro dal cuore d’oro

113

Motta e l’odio

116

La gente lo sapeva

119

La Tre valli di Motta

122

Un giorno in Toscana con Cuorematto Bitossi

125

Merckx e l’arte del capitano

132

I lamenti di Durante

135


Il facchino Gimondi

138

Gimondi alla Vuelta

141

Motta se gira la gamba

144

Polidori giura guerra

147

Come in una quadriglia

149

Patron Molteni al Tour

152

Piccole storie Dancelli, dongiovanni smitizzato

157

Pepp Fezzardi, ds in corsa

160

Occhiobello Chiarini e il bon sens di Rousseau

163

Sgarbozza il ciociaro

166

La rivincita dei dimenticati

169

Della Torre, troppo buono per vincere

172

Il radicchio di Bartolozzi

175

Benfatto, il ciclista coi baffi

178

Il paese indifferente

181

Marino Basso, ex vagabondo

184

Ora e ciò che è stato Viaggio nello stile Juve

189

Alfredo Binda, the Greatest

192

Luciano Pezzi: eravamo felici, o forse solo umili

196

Il mito della Sanremo/1

200

Il mito della Sanremo/2

203

Lontano da Coppi

206

Quando Piola filava

210

Gli anni d’oro del Casale

214

I campioni dell’acqua perduta

219

Quelle sfide con Coppi

223


Puskás, pancia da fuoriclasse

226

Da Angelillo a Ibra i 100 anni dell’Inter

229

La squadra della felicità

232

Il secolo in contropiede

235

Mariolino, il re della foglia morta

239

Da quella curva spunterà Bartali, salvatore della patria

245

Francesco Moser, il galletto in bicicletta

250

Bull Chiappucci

254

Bugno, l’eroe freddo

257

Rominger, il roditore

260

Povero Casartelli

263

Cip, il grande seduttore

267

Il valzer degli addii

270

Come quelli di una volta

273

Il posto di Pantani

276

I mondiali del Pirata

279

M’illumino di Pantani

281

Con le ali aperte

284

Paesaggi, passaggi Poulidor, eroe incerottato

289

Il ciclismo che mangia i suoi figli

292

Strade per uomini forti

294

Una Sicilia inattesa

296

I colori di Monet

298

Ci chiamavano les Gimondì

301

Le curve cupe dei Pirenei

304

La montagna maledetta

307


Pantani risorge sul Ventoux

310

La strada del vino

313

Ciclisti in mare

316

Sassi, polvere e fango

319

Di fronte e di profilo Rocco in esilio

325

Il bimbo che guarda le stelle

329

I maestri del Trap

333

La lunga avventura di Ondina

336

Zeno Colò, che trovò l’oro sotto la neve

340

Conti, dal baseball al mundial

344

San Pablito

347

L’Osvaldo in riva al mare

351

Una panchina sul fiume

354

L’irresistibile ascesa di Arrigo S.

357

La zona furba di Galeone

360

Serena, figlio del boom

363

Ti sia lieve la terra, Giovanni

366

Mazzone, quanno ce vo’ ce vo’

370

La resurrezione di san Diego

373

Normalità Spalletti

375

La corsa felice di Martini

379

Ciotti, la voce dello sport

382

Le ali chiuse

385

Gigi Riva, 60 anni duri e puri

388

Pesaola, il nottambulo

392

A casa di Bearzot

396

Best, il quinto Beatle

400

Mazzola, una vita con i baffi

402


A bordo campo Brera-Rivera, l’eterna polemica

409

Il ragazzino del Vicenza

414

C’eravamo tanto amati

416

L’assassino viaggiava sul Falcão Express

421

Le nuove danze del pallone

424

I presidenti diseguali

427

Calciomercato a Milanofuori

429

Lasciate che Rush venga al pub

432

Alle radici dell’Arrigo

435

1988, i nuovi Ridolini

438

Fidel tifa Napoli, Gramsci tifava Juve

441

I pericoli dell’ombrello

443

Le sciocchezze del Duemila

446

Zoff, un uomo di trincea

449

Caro amico ti scrivo Mr. Platini, l’italien

455

Le scelte di Cabrini

458

Lettera di uno che ha visto tutto

460

Gli occhi di Schillaci

463

Tanti auguri a voi

465

Vialli, scappa in Provenza

468

Cara Fbi, confesso tutto

470

In morte di un tifoso

472

Come quando pedalavi

475

Nostalgia di te, Gioann

478

Indice dei nomi 483


Un giorno in Toscana con Cuorematto Bitossi

Tutto, per modo di dire, cominciò la sera del Giro di Lombardia, quando in redazione squillò il telefono e un tizio disse: «Ma allora cosa sono tutte queste storie del cuore di Bitossi, che si ferma e compagnia bella. Lei sta fresco se crede che io ci credo. Guardi un po’ come ha vinto oggi e poi mi venga a raccontare che quello lì ha un cuore che non funziona». Di più non saprei dire, se non che la voce rivelava chiara estrazione brianzola. Cocquio con Trevisago o giù di lì. E pensavo che di Bitossi si sa talmente tanto che, alla resa dei conti, non si sa quasi nulla, né su di lui né sul suo cuore si hanno indicazioni che vadano al di là della mera informazione, spesso non approfondita per mancanza d’appigli. Pensavo che c’è chi dice che il cuore va più forte, altri sostengono che va più piano, sin quasi a fermarsi, altri ancora, come l’anonimo brianzolo, che son tutte storie. Bitossi è corridore tra i più cortesi, però attento. Di lui si sa quel che lui vuole, non di più. È un introverso dalla faccia aggressiva, da bucaniere, ma le basette chilometriche e lo sguardo da falchetto non cancellano l’introversione. Tanto per fare un esempio, Bitossi prenderà moglie entro l’anno, però nessuno può conoscere la data delle nozze, almeno per ora. Se la tiene stretta. A Firenze ci volevo andare per le nozze di Poggiali, en amitié, e già che c’ero si poteva imbastire una tavola rotonda alla buona sul cuore bitossiano tanto in discussione. E così s’è fatto, in un continuo cambiamento di scena, da Fiesole a Scandicci, alla Viaccia, ad Artimino, al Pinone di Carmignano, a Camaioni, sino alla proda dell’Arno dove ancora non c’è il ponte sospirato, e ancora s’ha da chiamare col fischio il barcaiolo Luca, che porterà dall’altra parte, tra i canneti. A Fiesole non s’era combinato molto, perché non me la sentivo di fare il do-


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mandiere a oltranza in un giorno così unico, anche se non mio. Ma intorno c’era festa, c’erano tanti corridori in abito da cerimonia, e così capivo che davvero la stagione è finita, e che i corridori in borghese prendevano altra dimensione umana. C’era Mugnaini su di morale, asciutto, e pensavo al coraggio di Marcello nel sopportare incidente e convalescenza, non ancora finita. Perché, adesso lo si può dire, Mugnaini è stato più di là che di qua, avendogli una costola tranciato un polmone. Eppure eccotelo a parlare di quando esce la mattina a far compere in centro, su bici da donna, tanto per riabituarsi. Maledetti toscani, magari, ma ammirevoli. Bitossi racconta un episodio del Giro di Lombardia: «Dunque gl’ero su i’ pavé, dopo i’ponte, ci ho i’core ’he fa bumbumme…». Un pezzo davvero di bravura sarebbe scrivere il toscano parlato. Ecco perché ci rinunciamo per direttissima. Racconta Bitossi che era lì alle prese con la solita croce e in quel tratto stretto di strada denso di fabbriche un operaio si staccò, da buon samaritano, nel vederlo rannicchiato sul manubrio come su un inginocchiatoio pagano, e gli chiese «Se ghé ch’el va no», ovverossia cosa c’è che non va, e lui disse «il cuore», reclinando il capo come un girasole stanco e stralunando gli occhi, e quando Bitossi è in crisi cardiaca è impressionante. Difatti l’operaio s’impressionò; e prese a massaggiargli freneticamente il lato sinistro del torace, il brav’uomo, sinché Bitossi non strillò. «O grullo» strillò Bitossi «te tu mi fai schiattare». Parabole lecchesi. «È troppo emotivo» dice Bartolozzi «questa è la sua malattia.» «Un bel rischio» dico. «In che senso?» s’informa prudentemente Bartolozzi. «Bah» dico senza sbilanciarmi. «L’unico rischio che si corre è quello di perdere le corse. Nessun altro. E ne ha perse.» «E rischi di, insomma…» «Balle. Non ce n’è alcuno.» «Te tu vuoi sapere se io posso morire in bicicletta?» taglia corto Bitossi. «Grossomodo.» «O che se io sapessi che posso morire in bicicletta farei il corridore?» Già. Ragionamento ineccepibile. «Ma allora che ci hai dentro?» insisto. «Tachicardia parossistica, ecco come la si chiama. Il cuore batte più forte, in modo irregolare, e il sangue non va dove deve andare. Poi ti passa.» «Però devi fermarti.» «Si capisce.» «E se non ti fermi?» «Devo fermarmi, perché mi mancano le forze. L’è la mi’ croce.»


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«Come pubblicità ti ha pure fatto bene.» «Ma senza codesta croce vincerei cinque corse di più all’anno.» «Ti piglia solo in bicicletta?» «Non solo in bicicletta. ’St’inverno giocando a pallone, anche. O andando a caccia. Se io non sono tranquillo, mi può venire la crisi anche quando mi allaccio le scarpe. La prima volta ero allievo. Mi sono spaventato un mucchio. Sono andato dal dottor Nardi, a Montelupo, e la diagnosi era del genere di adesso. Da dilettante crisi più frequenti, tanto che avevo paura a passare professionista, perché temevo di trovare qualcuno, dirigenti o che so io, a cui non avrei saputo spiegare il mio male.» Bartolozzi sapeva del male di Bitossi, al momento di ingaggiarlo? Sì, e da un pezzo. «Lo sapevo» dice Waldemaro «perché l’ho seguito fin da allievo. Ma sapevo anche che sarebbe diventato un campione. Certe sue vittorie da dilettante se le ricordano ancora in Toscana.» E così la Filotex è stata impostata su Bitossi. Per non ripetere sempre Bitossi, a volte si usano circonlocuzioni, come «bizzarro toscano» e questo non gli va. «Nessuno mi ha mai capito, io non sono bizzarro. Solo emotivo, ma credo di essere regolare, come uomo e come corridore. Adesso che ho la responsabilità, e una certa età, non faccio più pazzie, come un paio d’anni fa. Ho il cuore che ho, ma che ci posso fare? E credi che sia facile far capire quello che provo?» «Già, cosa provi?» «Mi sento mancare. Per via del cuore, ho rinunciato al mio modo preferito di correre, cioè sempre all’attacco.» «A volte attacchi, però.» «Ma non sempre, in tutte le corse, come vorrei.» Così accade che stia in coda al gruppo, perché è emotivo, e se stesse in testa al gruppo andrebbe dietro a tutti. Ma stando dietro deve far fatica doppia quando il gruppo si fraziona. Inconvenienti ineliminabili. Allora la Filotex diventa la Confraternita della Misericordia, e c’è chi lacrima, chi incoraggia, chi spinge, se la giuria non ha occhi lunghi, come tanti barellieri i compagni lo attorniano e aspettano che passi. La mattina dopo, Waldemaro mi porta alla Viaccia, mi mostra il reparto corse, i tubolari, le bici appese ai ganci, le gomme per il Baracchi. La Filotex svolgeva attività filantropica, assumendo ogni buon diavolo che sapesse cos’era una bicicletta e non la confondesse con una cattedrale o una spazzola per scarpe. Così si ritrovava dopo 180 chilometri con Bitossi, il magnifico Ugo Colombo, Mugnaini e a volte Poli e Della Torre, gli altri chissà dove. L’ultima perla è stato l’ispano-elvetico Burgal, che ora s’è ravveduto e ha deciso di tornare a piste più consone aprendo un negozio di barriere.


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La Filotex cresce, da quest’anno, con e per Bitossi, più rodata e più conscia. Col dottor Giambene, titolare del gruppo sportivo, si parla del celebre ponte di Lecco, dove Bitossi s’arrestò quattro volte. «Torriani è un amico» dice Giambene «gli chiederemo di fare un Giro di Lombardia senza ponte di Lecco.» Franco è in giro, dalle parti di Empoli. Dico a Waldemaro: «Ma è vero che si sposa?» «Sì, ma chissà quando. Entro l’anno di sicuro, ha già tutti i mobili.» Nuova scarrozzata a Firenze per scambiare quattro chiacchiere con il medico della Filotex, il dottor Giovanni Falai. Qui non c’è e là neppure. È a Rifredi, al congresso nazionale di medicina interna. Modi affabili, una faccia da prevosto di campagna, che ispira fiducia. Arguto, naturalmente, ma quanto pagherei per trovare un toscano che non sia arguto. Anche lui trova che sia giusto parlare un po’ del cuore di Bitossi, per chiarire. Dove si parla, visto che è l’una? «Alla villa di Artimino» dice Giambene «lei non può non vedere la villa medicea di Artimino.» E sia. Ma il ristorante è chiuso per turno. Bartolozzi allora rimedia: «Si va al San Giusto al Pinone. Franco è già là». Lascio la villa con un certo rammarico, pensando al sapore di questa terra e all’insalata della signora Bartolozzi. In compenso, a San Giusto al Pinone di Carmignano c’è un’abbazia romanica del Mille, interpretazione pisana, piccola e corposa. Col dottore s’era parlato di Franco e del suo cuore, appunto per chiarire. «Tachicardia parossistica è la diagnosi.» «Cioè, il cuore batte più in fretta.» «Esatto.» «In che proporzioni?» «Normalmente Bitossi è sulle 45-55 pulsazioni. Quando va in crisi, 140-150.» «Terribile. Tre volte tanto. Gli elettrocardiogrammi?» «Ne ha fatti moltissimi. Ha un cuore perfetto, nel senso che non presenta alcun vizio cardiaco.» «E facendogli un elettrocardiogramma mentre è in crisi?» «E come? Gli attacchi, per fortuna, gli durano un minuto.» «Facciamo l’ipotesi.» «Risulterebbe evidente una fibrillazione.» «Cosa succede al cuore di Bitossi?» «Ha contrazioni frequenti ma irregolari. Per difetto di irrorazione cerebrale il sangue gli arriva ai vasi periferici.» «È grave?» «Non direi. Ho molti pazienti che soffrono di tachicardia parossistica.» «Ma non ciclisti.»


Ciclismo, un quadro d’epoca  129

«No. Forse uno, un esordiente di Carrara, ma è da vedersi.» «La nevrosi di Bitossi è dovuta al ciclismo?» «No. Uno come lui ne soffrirebbe comunque. È un emotivo, un apprensivo, ha paura del dolore. Se gli fa male lo stomaco pensa d’avere l’ulcera, se gli fa male una gamba pensa d’avere l’artrite.» «È esatto il termine nevrosi?» «Sì, nevrosi può andare, anche se oggi si potrebbe usare un termine più appropriato, alla luce di fatti nuovi.» «Cioè?» «Si potrebbe parlare di disturbi diencefalici interessanti il sistema neurovegetativo.» «C’entra il diencefalo, insomma.» «Il diencefalo regola il neurovegetativo, che a sua volta regola l’attività viscerale.» «Intestini?» «Anche cuore. E andrebbe impostato un discorso sui bioritmi, quindi sulle distonie. Il bioritmo, come dice l’etimo, è un ritmo di vita, un ciclo abituale. Per esempio, un ferroviere lavora di notte e dorme di giorno, tutta la sua attività si regola sul ritmo di vita. Se smette di fare il ferroviere, e diventa, poniamo, impiegato, il suo bioritmo muta radicalmente, ragion per cui l’ex ferroviere soffrirà di squilibri.» «Interessante.» «Torniamo a Bitossi. Non le dice niente il fatto che ben quattro volte, per quattro anni consecutivi, vada in crisi sul ponte di Lecco?» «Penserei ai riflessi condizionati. O sbaglio?» «Non sbaglia. L’idea del ponte richiama a Franco quella della crisi, e sente con tanta forza il nesso associativo che la crisi gli viene sul serio. Siamo nel campo del dottor Pavlov, cani e campanelli, orsi e musiche. Bitossi e ponte di Lecco. Del resto, tutti noi risentiamo dei riflessi condizionati. Ricordo un’estate in cui mi portarono a vedere un morto, chiuso da quattro giorni in una stanza. Cosa poco piacevole. Settimane più tardi, quando mi portarono fotografie del cadavere, io risentii distintamente il puzzo.» «Si può definire malattia, quella di Bitossi?» «No, semmai è solo un sintomo.» «Eliminabile?» «Per ora no. Bitossi dovrebbe vivere in assoluta tranquillità, il che su questa terra è impossibile. Si può diminuire la frequenza degli attacchi, come ho fatto.» «Come si prepara Bitossi a una gara, clinicamente intendo.» «Prima della partenza si serve dell’Ansiolin. In corsa di un ricavato digitalico, che ha effetto brachicardico.»


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«Se ho ben capito, è un po’ come per le nevrosi ossessive studiate da Freud…» «In forma più blanda, però. Anche qui c’è alla base un trauma psichico. Le crisi cardiache non sono che conseguenze, a catena, dello squilibrio primario.» «E non si può rimuovere la causa primaria?» «No, almeno finché non ci saranno sostanze in grado di agire in un certo senso sul diencefalo. I segreti del diencefalo sono in buona parte ancora da scoprire. Si pensa che il diencefalo sia anche all’origine dell’ulcera gastrica, si figuri lei.» Parlo separatamente un po’ col dottor Falai un po’ con Bitossi, come quei personaggi di Goldoni. Si esce nell’aria perlacea, che affila il fiero profilo etrusco di Bitossi. L’abbazia è chiusa, ci si contenta di guardarla da fuori. «… e quel giorno con Occhiobello di tordi ne abbiamo morti un mucchio» sta dicendo Franco, ed è singolare l’uso transitivo di morire. Bitossi parla un pratese spaccato, non dice sì, no, ma sie, noe. «A te vien male perché pensi che ti venga male» dico «non dovresti pensarci.» «Come si fa a non pensare a una cosa? Se ti sforzi di non pensare a una cosa è come se ci pensassi di più.» «Quand’è stata la prima volta?» «Da allievo, l’ho detto.» «Lo so, ma che tipo di corsa era, che importanza aveva, in che condizioni eri?» «Era una corsa a Settignano. Io prima di questa corsa andavo come il vento, vincevo come volevo, continuavo a vincere. Poi arrivai quarto, e la mia gente a dire che qualcosa non andava, che non mi sapevo tener da conto, insomma cose poco belle. C’era la corsa di Settignano, e io l’aspettai con ansia, volevo far vedere a tutti che si erano sbagliati. Sentivo molto la corsa di Settignano. Diedi battaglia in partenza, mai un momento di respiro… e mi venne la prima crisi.» A questo punto ci sembra tutto chiaro. Particolari fattori determinarono la prima crisi. Bitossi è nervoso, emotivo, apprensivo. Il resto è inevitabile. «Stando così le cose» dico «mi sembra certo al cento per cento che avrai una crisi durante il Baracchi.» Il dottor Giambene fa doppie corna e cerca oggetti di ferro. «Sì» proseguo «perché è il tuo primo Baracchi e ci tieni a far bene.» «È probabile che vada così» ammette Bitossi. Una cosa da segnalare è la prevedibilità degli attacchi. Nei primi tre giorni di una corsa a tappe, per esempio, e in molte corse in linea, le più importanti per tradizione o sentimento. A Montelupo Bitossi non ebbe crisi perché era fuori forma. Sì, perché le crisi gli vengono solo quando è in forma, quando sa che può vincere. Nella Corsa di Coppi ebbe crisi più forti del solito perché gli si era accumulato dentro il nervosismo per i troppi piazzamenti e per le poche vittorie, da maggio in poi. E a Lecco crisi per via del ponte. Quando Bitossi è giù di for-


Ciclismo, un quadro d’epoca  131

ma è tranquillo, non si preoccupa. Se c’è qualcosa che lo preoccupa, va in crisi in qualunque momento, indipendentemente dalla bicicletta. È ovvio concludere la precarietà dei pronostici, per quanto lo concerne. Se è in forma, sa che da un momento all’altro può capitargli la crisi. Adesso un dettaglio interessante: Ballini al Lombardia ha accusato gli stessi sintomi di Bitossi. Anche Ballini è un emotivo, e nel vedere Bitossi in crisi gli si è riverberato dentro il trauma. Vedremo le reazioni di Ballini, ora che ha cambiato squadra e non è più con Bitossi. «Oltre a fermarti che fai?» ripiglio con Bitossi. «Ci sarebbe da bestemmiare in turco, ma io non bestemmio mai. Però tutte le parolacce che so le tiro fuori.» «Il bello è» interviene il dottor Falai «che appena gli è passata la crisi Franco va più forte di prima, come se si fosse scaricato e avesse forze nuove.» «Una crisi che è anche una catarsi.» «All’incirca.» «L’è la mi’ croce» intona Bitossi, poi distolto da un fumacchio giù nella valle. «Laggiù» dice «ci sta un mio amico priore, che ci vo a fagiani.» Parla del cuore senza amore e senza rabbia. Non è molto convinto della forza pubblicitaria dei suoi scompensi, forse preferirebbe rientrare nella normalità e vincere cinque corse di più all’anno. Ma deve tenerselo, il cuore, così com’è. Tra l’altro, s’è visto che il cuore c’entra solo di riflesso, ma è meglio continuare a dare la colpa al cuore. Si, perché tutti lo chiamano Cuorematto e chiamarlo Disturbopsicologico sarebbe meno suggestivo, molto meno. (1967)


Come quelli di una volta

Pantani primo e solo. Uno di quei giorni, di quelle imprese che restano dentro. Più che un ciclista, Pantani è un’emozione, un giro più veloce del sangue, un soffio sul cuore. Queste parole le avevo ricopiate e tenute da parte, sperando di poterle scrivere ancora. Le avevo scritte a Guzet Neige, ultima vittoria di Pantani al Tour, due anni fa. Stavolta non vincerà il Tour, va bene. Intanto gli ha chiuso la porta in faccia al secondo tornante di quella salita bella e orrenda. È andato via come quelli di una volta, quelli che erano le nostre figurine, le nostre biglie, i nostri sogni. Sono quasi tutti morti, o hanno smesso, o non ce la fanno più. Guardate Ullrich, come è bello e potente, e nessuno due anni fa sapeva chi fosse. Il ciclismo mangia se stesso, si digerisce, si dimentica, si aggiorna, scopre facce nuove e nuovi altari. Ullrich è immenso, l’ha dimostrato anche ieri. Ma attenzione, si nota qualche crepa. Ha avuto un attacco di dissenteria. Si è liberato due volte, in corsa, aiutandosi col cappellino. Lo so che non sono dettagli gentili, neanche la corsa lo è stata. Chiarissima, feroce, fin dal primo metro di salita. E adesso guardate questa biglia d’uomo con le orecchie a sventola, questo irripetibile omarino rasato, perché preferisce atteggiarsi a pirata che sembrare un ragioniere triste. Guardatelo mentre tossisce forte, perché ha la bronchite, mentre si commuove perché un coro lo avvolge come una cortina di seta, le note di Romagna mia. «Sono quelli di Cesenatico. Sai che ho visto piangere uno di 50 anni che pesa 150 chili, e solo allora ho pensato che avevo fatto un bel numero?» Continuate a guardarlo, Pantadattilo. In mezzo alla gente sparisce e continua a ricordarmi il bambino disegnato da Reiser per la serie «Orecchie Rosse». Potete anche non guardargli la gamba sinistra, che può sembrare quella di un invalido, non di un campione. Anzi, no, guardategliela. Ostentata come una ferita di


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guerra, come il marchio della cattiva fortuna, come il sorriso della luna nera, come la canzone dell’avvoltoio. È troppo bello quello che ha fatto Pantani. Non guardate ai minuti, ai secondi. È bello perché l’omarino si fa trovare nel suo giorno, lo sapevano anche i sassi che doveva essere il suo giorno. Noi, quasi zingari in questa corsa dilatata e immensa, noi cacciatori d’emozioni dopo che ha vinto Pantani siamo stranamente calmi e immensamente felici. Almeno cinquanta volte ho avuto paura che me lo buttassero giù e tutte le volte mi sono detto che non lo meritava. Ma cosa vuol dire? La corsa era tutta dietro, sparpagliata e dolente, accesa e confusa. Confusa come me, che ho sbagliato alla vigilia a indicare il numero dei tornanti: sono 21. Il gruppo ci arriva sotto a tutta manetta, ripresi Aus e Loda. Sessanta all’ora, gran lavoro dei Mercatone. Pantani sa che ha un appuntamento importante, in cima. Il primo allungo in salita è di Vasseur. Un sospiro bianco. Già al secondo tornante il meraviglioso fossile scandisce i tempi e i modi. Ha buttato via il cappellino giallo, luccica di sole e sudore. Al terzo tornante, come nel ’95, Pantani fa saltare la corsa. Basta un allungo e gli restano a ruota in quattro. Nell’ordine: Virenque, Ullrich, Riis e Casagrande. Escartín si impicca da solo per rispondere allo strappo duro. Altri tre tornanti. Pantani sempre in piedi. Ullrich sempre seduto. Casagrande molla. Poi molla anche Riis. Ora la maglia gialla è in una morsa, ma sale sicura, di potenza. Un altro tornante. Pantani scatta, Ullrich veleggia senza scomporsi, Virenque si torce e sta appeso al treno. Impressiona la sicurezza di Ullrich, come impressiona Pantani che non si volta mai. Macina il suo rapporto, ara la strada cercando sempre l’esterno della curva. Molla anche Virenque. Mancano 10 chilometri. Altro tornante e Pantani si libera anche di Ullrich. «È stato il momento più bello, uno scalatore ha bisogno di star solo, di sapere che li ha tutti dietro.» Mancano 8 chilometri, Casagrande torna su Riis, due bei lottatori. Ullrich a 9”, Virenque a 33”. Ullrich sale sempre bene, ma con una smorfia da lupo. Sapremo dopo cosa gli ballava in pancia. A maggior ragione, complimenti. Pantani tira una sventola a un cretino truccato da pellerossa che gli corre di fianco per cento metri. «Non tanto per quello, ma perché aveva un fischietto da arbitro e mi fischiava nelle orecchie. Prima invece ho preso un forte colpo al tricipite, mi fa ancora male. Io capisco il tifo, fa piacere, ma ci vorrebbe anche un po’ più di rispetto.» Sì che ci vorrebbe. Molti spettatori lo hanno, molti no. L’omarino si infila in un buco stretto e pieno di bottiglie, di mani, di bandiere, di bambini, di ubriachi, di fotografi. C’è da aver paura. Non ha paura. Tira dritto. Ne ha già passate tante. Sa che in cima ha un appuntamento importante. Ha anche il record della scalata: 38’04” nel ’95. Lo batterà: 37’35” per 14,5 chilometri di salita. Ma adesso non lo sa nessuno. Adesso, stramaledette teste di cazzo, lasciategli almeno lo spazio per passare, non sbattetegli l’acqua in faccia che è co-


Da quella curva spunterà  275

me una frustata e non vede più, e invece deve vedere e schivare le manate e farsi ancora più piccolo. Lasciategli la strada, non è vostra, è sua e degli altri. Non fategli perdere il ritmo, non fategli perdere il tempo, non fategli perdere la tappa. Meno 5. Ullrich a 25”, Virenque a 47”. Pantani sprinta come un pazzo furioso. Dà i brividi. Veri, lunghi. Meno 4: Ullrich a 34”, Virenque a 47”. C’è un flic ogni giorno e ogni 500 metri quando attraversiamo le lande più desolate, quando grandina, quando non si vede a dieci metri, vigliacca terra se ce ne fosse uno in questi ultimi chilometri di fornace, di merda, di sangue che bolle, di passione. Meno 3: Ullrich a 25”, Virenque a 1’. Meno 2, adesso c’è il tratto di falsopiano, serve il rapportone, vuoi vedere che il lupo se lo mangia? Meno 1: Ullrich a 40”, Virenque a 1’19”. Si può respirare. Lui no, noi sì. Suo padre Ferdinando, detto Paolo, non sta nella pelle. «Vorrei vederli adesso qui quelli che dicevano che Marco faceva la dolce vita.» La madre Tonina e la fidanzata Kristina sono rimaste a Cesenatico, al chiosco di piadine. E anche loro, forse piangendo, in questo preciso momento stanno vedendo l’omarino che lancia un urlo forte sul traguardo. Guardatelo, il trionfatore, l’uomo che ha rivinto sulla montagna di Coppi, di Bugno, e anche sua. È un pugno d’ossa, un cardellino spiumato. Ha dietro tutto il Tour, l’ha messo in fila lui da solo dove e quando ha voluto. Ha anche dietro una frattura di polso e clavicola, due traumi cranici, una frattura del metatarso, l’incrinatura di due costole, otto punti al ginocchio, una spalla lussata, lo schiacciamento di due vertebre lombari, una lesione al menisco, una frattura di tibia e perone con briciole d’osso un po’ dappertutto. Se volete, a questo punto, notate che è salito al terzo posto in classifica e non gliene frega niente. Non è per questo che si rimonta la corrente, il gruppo, la vita. Non è per il podio, è per sentirsi vivi. Davanti a Pantani, l’Alpe d’Huez è un cane con le orecchie basse. Di cani me ne intendo. E come un cane non sapevo, ma sentivo, che Pantani avrebbe vinto, soffrendo come un cane. Adesso che la strada è transennata sotto lo striscione c’è un lenzuolo d’aria fresca e il cielo si fa scuro, Marco Pantani si presenta all’appuntamento. Fissato da tempo dal Pantani di adesso col Marco Pantani di prima, quello della gloria e degli incubi, quello che forse non avremmo più visto, quello che lui rincorreva, senza sapere se l’avrebbe ripreso. Ciao. Ciao. E sono tornati una cosa sola, un solo cardellino, un solo pugno d’ossa. Buon viaggio, Pantadattilo. (1997)


C’eravamo tanto amati

Questo pezzo è stato pubblicato prima della finale Italia-Germania. Nella colonna a sinistra sono mescolate voci popolari e giudizi critici (giornali, tv). Nella colonna a destra, le stesse cose, ma dopo la riscossa della Nazionale, cominciata con l’Argentina.

Zoff Una frana, a quell’età bisognerebbe avere il coraggio di smettere. Non vede i tiri da lontano, è sempre incollato alla linea di porta. Non fosse friulano come Bearzot, garantito che in porta c’era un altro. Già ci ha fatto perdere i mondiali di Argentina. Possibile che in un paese di portieri non se ne trovi uno giovane migliore di Zoff? Oppure ha il posto assicurato fino all’età della pensione?

È come Pertini. O Pertini è come Zoff. O Zini come Pertoff. La classe non è acqua. Portiere leggendario, el abuelo, el arquero de marmo, el caballero del deporte. Grande quercia. Riflessi da ragazzino. Attanaglia blocca inchioda sventa si erge, baluardo estremo insormontabile di una pattuglia gloriosa, degno capitano di un manipolo d’eroi. Proporre come nuovo ministro dello Sport. I cassetti li ha già pieni di onorificenze.

Gentile Corre male, come gli arabi, e tira calci terrificanti. In Italia gli va bene perché è della Juve. Tanta forza ma piedi ruvidi. È uno che ce la mette sempre tutta, servirà a limitare i danni. Altra cosa i terzini come Junior, purtroppo dobbiamo accontentarci di vederli in televisione.

To’, i terzini come Junior, belli e inutili, la finale se la vedranno in televisione. Gentile è una furia scatenata, ha annullato quel nano isterico di Maradona, ha fatto passare a Zico la voglia di giocare, è il più grande marcatore del mundial, il calcio non è roba per signorine, ha proprio ragione lui.


A bordo campo  417

Cabrini Dovrebbe fare il fotomodello, non il terzino. In Argentina era stato bravo, ma ormai tutti hanno capito il suo gioco. Non spinge più come una volta e non è abituato a marcare una punta vera. È pure nato ricco, bello e fortunato, non ha più voglia di soffrire.

Una folgore sulla fascia sinistra, impeccabile in fase difensiva, spietato in fase d’attacco. Ogni suo cross a rientrare è un pericolo per gli avversari. Perfetta la condizione atletica. Imprevedibili le sue finte, lucidità costante, sempre tra i migliori, disposto a soffrire fino in fondo.

Oriali e Marini Da anni abbiamo il problema del mediano di spinta e non si può pretendere di risolverlo con questi due poveracci, uno più vivace e confuso, uno più lento e geometrico. Vecchi per vecchi, tanto valeva richiamare Furino, che da solo tiene in piedi mezza Juve. Ma già che Bearzot piuttosto che ritornare su una convocazione s’ammazza.

Sono loro a tenere in piedi l’Inter. Prohaska si è visto quanto vale e di Beccalossi non parla più nessuno. Oculata la scelta del ct, peccato che due bravi ragazzi, anche amici tra di loro, debbano lottare per la stessa maglia. Entrambi hanno fatto in pieno la loro parte, con dedizione e grinta.

Collovati Un traditore, passa all’Inter quando il Milan va in B. Più preoccupato dei suoi riccioli belli che della sorveglianza del centravanti. Prometteva tanto, s’è perso anche lui.

Dalle sue parti, aria grama per tutti, di testa o di piede non si passa. Uno stopper di eccezionali mezzi atletici, un ragazzo serio e concentrato, in poche parole un’autentica sicurezza.

Scirea Bravo ma di limitata personalità. Forse non è tutta colpa sua, con la difesa che si ritrova attorno non è il caso di cercare gloria in attacco. I liberi veri sono tipi come Passarella.

Passarella è una gran carogna e se non si dà una regolata di partite in Italia finirà per giocarne poche. Scirea è grande, grandissimo, un signore dell’area. Lui e Zoff sono le esperte guide di una difesa di ferro.


418    Non gioco più, me ne vado

Conti Pallettaro da oratorio con velleità brasiliane. Può indovinare una giocata, difficilmente una partita. E comunque gli manca un punto di riferimento come Pruzzo, ma lo sappiamo da un pezzo che Bearzot odia la Roma.

Ha dato lezione di gioco ai sudamericani, avanti e indietro con tecnica, fantasia e coraggio. Perfetta l’intesa con Rossi e Graziani, brillanti le proiezioni a rete, micidiali i dribbling. Lo hanno già chiamato Marazico.

Tardelli Era un bel giocatore ma adesso non c’è più, è un fantasma coi muscoli sfilacciati e i nervi a pezzi. È scoppiato, non si regge in piedi, non filtra e non riparte. Dentro Dossena o Massaro, lo capirebbe anche un asino.

È sempre lui, ha schiantato l’Argentina, Massaro e Dossena possono stare in tribuna, con un Tardelli così non ci sono problemi. Per velocità, aggressività, potenza di tiro è forse il più «tedesco» dei nostri azzurri.

Rossi Intanto è uno scandalo che gli diano la maglia azzurra a questo ladro, a quest’infamone. Come ci si può fidare di uno che ha fatto quello che ha fatto lui, che per due lire venderebbe la madre? E almeno giocasse bene, si capirebbe perché quel testone di Bearzot insiste. Invece no. Rossi fa piangere, tanto è vero che l’hanno sostituito e d’altra parte basta sapere appena un pochino di calcio per capire che dopo tutti quegli anni fermo Rossi non poteva più essere il Rossi argentino. Là arrivava sul pallone con un secondo d’anticipo su tutti, qui con due secondi di ritardo. E poi è sempre per terra a lamentarsi. Almeno tre centravanti meritavano quella maglia più di lui, a prescindere dalle scommesse. Con Rossi facciamo ridere il mondo, te lo dico io.

Angelo vendicatore, angelo sterminatore, bel morettino mio, ianua coeli, niño de oro, Rossigol, aiutaci a sognare, aiutaci a segnare, mettila dentro, con Rossi facciamo tremare il mondo, te lo dico io, non solo i crucchi. Pensa a quante ne ha passate ’sto ragazzo, l’hanno sporcato che era pulito come un giglio, ha perso più di due anni della sua vita, ha perso quattrini, ha perso quotazione, ha perso fiducia, ed eccolo qui come se niente fosse capitato, bello e sicuro, rapido e invisibile, mordi e fuggi, sei tutti noi, siamo tutti con te. Ti picchiano, ma ogni volta ti rialzi più forte di prima, come te non c’è nessuno, sfonda la porta dei tedeschi, apri la porta del paradiso.


A bordo campo  419

Antognoni Non è un centrocampista, non è un regista, non si capisce bene cos’è ma di sicuro non serve molto. Solo all’estero ha molti ammiratori, forse perché non lo vedono giocare tutte le domeniche. Cosa ha mai vinto la Fiorentina con lui? Da una vita, i calci di punizione sempre alti un metro, sempre quella faccia da genio incompreso in terra, lì servirebbe l’uomo da ultimo passaggio, il rifinitore come Beccalossi, con Antognoni sarebbe ora di darci un taglio, ormai lo difende solo sua moglie.

Grande uomo dovunque, battuta pulita e precisa, tiene fino al novantesimo, non so se ti ricordi gli ultimi minuti con il Brasile. È un genio del calcio, «nascon fiori dove cammina» (dal saggio Via del campo di F. De André). È rinato dopo aver visto la morte in faccia, è in questi casi che si vede l’uomo, il giocatore già lo conoscevamo ed è un giocatore che tutto il mondo ci invidia. Ogni volta che tocca la palla accende la luce, è un punto fermo della Nazionale.

Graziani Ci vuole un bel coraggio a portare all’estero uno così, che alla palla non darà mai del tu, che fa gli stop a dieci metri, che sembra un cavallone sfiancato, che non vede più la porta, che non dribbla nemmeno un paracarro.

Il generoso Graziani compensa alcune carenze di tocco con un’assidua presenza in tutte le zone del campo. Il suo lavoro è prezioso per tutti, in particolare per Rossi che ha trovato la spalla ideale.

Bearzot Non ha mai capito niente di calcio, basta guardarlo in faccia, ha i tic dell’orango, gli sono saltati i nervi, prende a sberle le ragazzine, non ha rapporti con i giornalisti, con gli allenatori, con i giocatori titolari, con le riserve, non ha preparatore atletico, non ha schemi di gioco. Poveraccio, bisognerebbe pure dire che non ha giocatori e fa quello che può. Non ha personalità, non è sufficiente fumare una pipa. Era da cambiare prima del mundial, e hanno ragione al Processo del lunedì, male che vada ramazza nuova ramazza meglio. Lui continua a dire che è onesto, ma le partite mica si vincono con l’onestà.

Non ha sbagliato nulla, neanche una virgola. Tutte le marcature azzeccate, per non dire della preparazione atletica. Isolando, in senso affettuoso e protettivo, gli azzurri ha creato un ambiente meraviglioso, dove mai è venuta meno la concentrazione, la voglia di lottare e d’imporre il proprio gioco. Uomo di estrema onestà e serietà, ha difeso le sue scelte al limite dell’impopolarità ma i fatti hanno dimostrato che aveva visto giusto, valga per tutti l’esempio del recupero di Rossi. Nel ricco giardino del calcio italiano ha scelto il meglio, guidandolo poi da esperto e intelligente stratega.


420    Non gioco più, me ne vado

La squadra Una massa di sozzoni, ha detto bene Matarrese, il presidente di Lega, bisognerebbe prenderli a calci in quel posto, eppure quel galantuomo di Sordillo gliele ha cantate chiare, così di strada ne facciamo poca. E bravi quei deputati che hanno presentato un’interrogazione sui soldi che si beccheranno, dovrebbero darli a noi, altro che storie. Chi fermerà Boniek? Chi fermerà Uribe? Chi fermerà Kunde? Chi fermerà Maradona? Chi fermerà il Brasile? Ma ti rendi conto, passare avanti per numero di gol a pari punti col Camerun? Roba da vergognarsi per tutta la vita. E vanno pure in giro targati Italia, vanno.

Grazie ragazzi. Siamo fieri di voi, sapevamo che non ci avreste tradito. Campeones, campeones, olé olé olé. Tanti pabliti sono sbocciati nelle nostre notti calde, fiorite di tricolori, mentre voi vi battevate come leoni (aquile tigri pantere) in terra di Spagna. Ormai tutto è permesso, anche parafrasare F. De Gregori. Viva l’Italia, l’Italia dell’11 luglio, la testa nel pallone e il cuore in subbuglio, Italia che alle otto della sera si stringe tutta intorno alla bandiera. Tutto è permesso, anche sfottere il papa, così impara a nascere polacco. Tutto è grande e luminoso, grazie ragazzi.

(1982)



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