Pena di morte in america

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David Garland

La pena di morte in America Un’anomalia nell’era dell’abolizionismo Prefazione di Adolfo Ceretti Traduzione di Silvia Salardi


Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreED Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore © David Garland, 2010 © il Saggiatore S.p.A., Milano 2013 Titolo originale: Peculiar Institution­­


La pena di morte in America Ad Anne, Kasia, e Amy



Sommario

Prefazione di Adolfo Ceretti

11

Introduzione all’edizione italiana

25

Prologo. L’esecuzione esemplare

29

1. Un istituto peculiare

37

La pena capitale nel suo complesso

41

Contro il giudizio convenzionale

45

Il linciaggio di Henry Smith

55

Linciaggio e pena capitale

60

Potere locale e abolizione

64

2. La morte all’americana

67

Disciplina giuridica e pratica della pena di morte

68

Le contraddizioni culturali della pena capitale

79

Racconti e metafore

89

3. Modalità storiche della pena capitale

99

La modalità della prima modernità

103

La modalità moderna

116

La modalità della tarda modernità

125


4. Il declino della pena di morte

129

Il declino in Europa

129

Il declino in America

142

Convergenza e divergenza

149

5. Processi di trasformazione

155

La formazione dello Stato e la pena di morte

156

Processi politici di riforma

163

Processi culturali di riforma

170

6. Stato e società in America

179

La formazione dello Stato americano

180

Localismo

187

Legalismo

189

La politica della democrazia popolare

190

Anatomia della società americana

194

La violenza in America

199

Copioni culturali e modelli di azione

203

7. La pena di morte in America

213

Forze di conservazione

216

Il consolidamento delle forze a favore della pena di morte

221

Le differenze tra stato e stato

222

Gli stati abolizionisti e non abolizionisti in prospettiva comparata

226

Differenze tra gli stati non abolizionisti

230

8. Un’abolizione all’americana

237

Lo sfondo politico

238

Il contenzioso giuridico

249

La difficile situazione della Corte suprema

253

Furman

256

9. Nuovi significati politici e culturali

263

La politica di reazione

266

La reinvenzione della pena di morte

276

I diritti degli stati e le guerre culturali

281


10. Reinventare la pena di morte

289

Razionalizzare, civilizzare, democratizzare

291

Razionalizzare

296

Civilizzare

301

Democratizzare

306

Lo spettro del linciaggio

313

11. La morte e i suoi usi

319

Dinamiche sociali della pena di morte

320

L’idea della morte

335

Epilogo. Discorso e morte

343

Ringraziamenti

349

Note

353

Indice analitico

433



Prefazione

1. Nel 1990 Mark White, ex governatore del Texas, decise di apparire in pubblico durante la campagna elettorale circondato da alcune fotografie degli uomini giustiziati negli anni della sua amministrazione. «Solo un governatore può rendere possibili le esecuzioni» dichiarò White in quell’occasione, sulle note di una musica studiata ad hoc. «L’ho fatto, e lo farò» ribadì subito dopo con orgoglio. Bill Clinton, futuro presidente degli Stati Uniti, si rese a sua volta protagonista di uno show a sostegno della pena di morte. Nel 1992, come molti ricorderanno, interruppe la campagna elettorale per tornare nello stato che governava, l’Arkansas, e presiedere all’esecuzione di Ricky Ray Rector. Aveva imparato quella lezione politica dopo aver perso, nel 1980, le elezioni locali. Durante il suo primo mandato Clinton aveva rifiutato di fissare la data dell’esecuzione in più di venti casi di omicidio. Quando, nel 1982, si ricandidò, promise a tutti gli elettori dell’Arkansas che non avrebbe più concesso la grazia e, soprattutto, che avrebbe fissato tempestivamente le date delle esecuzioni capitali. Ma a fotografare ancor meglio le «relazioni pericolose» tra la politica e la pena di morte è stata la vicenda mediatica vissuta da Michael Dukakis. Nel 1988, nel corso di un drammatico confronto televisivo con l’altro candidato alla presidenza, George Bush, incalzato dal moderatore del dibattito che gli chiedeva se sarebbe stato favorevole a giustiziare l’assassino di sua moglie, Dukakis assunse una posizione apertamente abolizionista, dichiarando: «No, sono sempre stato contrario alla pena di morte e lo sarò per tutta la vita». Secondo molti opinionisti politici e alcuni sondaggi fu questa risposta, giudicata fredda e in disaccordo con la Costituzione, a compromettere definitivamente la sua aspirazione a vincere le elezioni. David Garland, nel suo ultimo ed eccellente libro, Peculiar Institution. Amer-


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ica’s Death Penalty in an Age of Abolition, dedica molte pagine e approfondite riflessioni alle traiettorie politiche che, pur con innumerevoli ambivalenze, sostengono ancora, negli Stati Uniti del xxi secolo, l’istituto della pena capitale. Ampliando la prospettiva, alla fine del 2011 sono 43 i paesi mantenitori della pena di morte nel mondo: di questi, 36 sono però paesi dittatoriali, autoritari o illiberali e solo 7 (tra cui Usa, Giappone, Indonesia, India) quelli che si possono invece definire di democrazia liberale, tenuto conto non solo del sistema di governo, ma del rispetto dei diritti civili e politici, delle libertà economiche e delle regole dello stato di diritto. Le uniche due liberaldemocrazie che, nel 2011, hanno praticato la pena di morte sono Taiwan (5 esecuzioni) e gli Stati Uniti, appunto (43 esecuzioni).1 L’attenzione di Garland torna dunque a focalizzarsi, dopo una fortunata parentesi, sul problema sollevato dalla pena nella società tardomoderna, un tema già affrontato in una prospettiva storica in Punishment and Welfare. A History of Penal Strategies2 e, all’inizio degli anni novanta, nel suo celebre volume Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.3 In La cultura del controllo. Crimine e ordine sociale nella società contemporanea – l’opera precedente, pubblicata nel 2001 –4 si era posto invece l’obiettivo di rendicontare l’emergere e il rapido imporsi, negli ultimi trent’anni del Novecento, delle nuove culture relative al controllo della criminalità, e di valutare l’impatto che esse hanno prodotto, negli Stati Uniti e nel Regno Unito, nei confronti delle mentalità e delle sensibilità individuali e collettive. 2. Coerentemente con i lineamenti metodologici edificati nei suoi lavori antecedenti, Garland si concentra su tematiche molto più ampie e complesse rispetto all’oggetto specifico della sua ricerca, costituito qui dalla pena capitale, da lui definita «una pratica con cui un’autorità pubblica, legittimamente costituita, mette a morte un imputato, dichiarato colpevole, come punizione per il suo reato».5 Il suo interesse è attratto, piuttosto, dalla «pena capitale nel suo complesso», ovvero dalla «totalità delle pratiche coerenti e incoerenti attraverso le quali [essa] è eseguita, rappresentata e vissuta nella giustizia penale e nella società americana».6 L’ambizione è «descrivere e spiegare nel dettaglio [questo] peculiare istituto […] in particolare la sua relazione con la società che lo sostiene»,7 praticando una sorta di «sospensione del giudizio», un’operazione che dovrebbe condurre a un’«analisi oggettiva» ma capace, allo stesso tempo, di scandagliare le passioni e gli aspetti emotivi che irrompono nei discorsi sull’esecuzione capitale. Detto altrimenti, capire fino in fondo che cosa è oggi questo fatto sociale richiede, secondo l’autore, una descrizione finemente dettagliata, un esame scevro da ogni critica etica ma in grado di intercettare il suo potere morale, la sua pretesa di fare giustizia e di allargare l’indagine fino a includere il punto di vista dei sostenitori e degli abolizionisti di questo istituto.


Prefazione  13

Non sono certo di aver colto fino in fondo il significato che Garland conferisce all’espressione «analisi oggettiva», al di là del fatto che, quando è chiamato a parlare in pubblico del suo libro e gli viene inevitabilmente rivolta la domanda se sia un sostenitore, o meno, della sanzione letale, egli affermi senza esitazioni: «Non sono né contrario né a favore».8 È peraltro vero che Peculiar Institution non è né un’apologia né una critica della pena di morte. È, invece, un libro che per poter comprendere tutte le facce del dibattito e individuare i valori che lo accompagnano mette da parte – nei limiti del possibile – le polemiche pretestuose e gli argomenti faziosi. Ma questo atteggiamento metodologico può soddisfare ogni pretesa di oggettività? La mia affinità con gli interazionisti simbolici chiama direttamente in causa quanto scriveva, nel 1967, Howard Becker in un articolo che ha avuto molta fortuna accademica, intitolato Whose Side Are We On?.9 Becker sostiene che quando un ricercatore si impegna a indagare i mondi sociali che abita è costretto, in un certo qual modo, a mettere da parte l’illusione di essere neutrale. In sintesi, sarebbe impensabile poter assumere una posizione del tutto super partes: le opinioni e le simpatie politiche e personali «contaminano» immancabilmente la ricerca.10 La posta in gioco, quindi, non riguarda tanto il prendere o meno posizione rispetto a un tema in discussione, quanto il non nascondere da che parte si è veramente schierati. E da quale parte si schieri Garland, alla fine della lettura del suo bellissimo testo, emerge senza equivoci. Ma – desidero sottolinearlo di nuovo – questo suo orientamento traspare in controluce, e lo si riesce a cogliere solo tra le maglie della fitta trama che egli tesse intorno all’oggetto di studio. In ogni caso, la forza della sua analisi sta, in accordo con quanto già sosteneva Becker, nel saper scandagliare tutti gli aspetti più reconditi delle contrapposte visioni e delle ricadute politiche del problema, nei limiti delle finalità della ricerca che egli stesso ha tracciato. 3. Un primo merito incontestabile del volume è di evidenziare alcune «verità» controintuitive sul significato sociale e politico della pena di morte. Alle latitudini nordamericane essa non è da intendere come un dinosauro, «un mero simbolismo», «un vestigio di un’epoca precedente, un retaggio anacronistico di un’era passata»,11 ma come una pena che assolve a specifiche esigenze e funzioni della società contemporanea, che assume una forma sociale originale, non degenerata da un modello storico precedente. Bastano queste parole per capovolgere l’asse sul quale abitualmente si colloca l’intera questione, inclusa quella che più ci sta a cuore: comprendere le origini sociali dell’attuale pena capitale negli Usa. In accordo con quanto sostiene Franklin Zimring,12 Garland considera che vi siano «basilari continuità e con-


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nessioni» tra la storia dei «linciaggi come tortura pubblica»,13 avvenuti a cavallo tra il xix e il xx secolo nel Sud degli Stati Uniti, e l’impiego attuale della pena di morte, a partire proprio dalle forze sociali che li sostengono, dalla connotazione razziale che li accomuna, dalle passioni punitive che li alimentano. Ma cosa sono i linciaggi come tortura pubblica? Innanzitutto essi vanno inquadrati per quello che, concretamente, sono stati: veri e propri «rituali retributivi» organizzati per riaffermare, dopo l’abolizione della schiavitù, un sistema di controllo razziale divenuto fragile e instabile. Tra il 1882 e il 1940 negli stati del Sud del paese sono stati registrati infatti circa quattromila linciaggi, vissuti dai loro protagonisti e dagli inviati della stampa locale – che li commentavano corredandoli di fotografie che ritraevano individui impiccati dopo essere stati uccisi –14 quali veri e propri eventi pubblici. Concepite e organizzate in alternativa alla giustizia ufficiale, queste esecuzioni collettive erano messe in atto da folle composte, talvolta, da migliaia di persone abitualmente rispettose della legalità, che agivano sotto la regia o con l’appoggio dei funzionari pubblici e dei leader politici delle comunità locali. In breve, i maschi neri ormai «senza padrone», che vagavano da una città all’altra minacciando le donne bianche, catalizzavano l’opinione pubblica, anche grazie ai resoconti giornalistici che evidenziavano il forte aumento dei crimini a loro imputabili. Dora Apel scrive che oltre alle paure, vere o presunte, provocate dalle possibili aggressioni sessuali alle donne bianche, a quell’epoca si andava diffondendo, tra i proprietari terrieri, il timore che potesse sorgere un’alleanza tra i bianchi più poveri e i lavoratori neri.15 Le élite bianche si coalizzavano dunque per fronteggiare con qualunque mezzo ogni forma di mixité tra le razze, giustiziando nel corso dei linciaggi per lo più neri (i quali costituiscono ben oltre l’80 per cento delle vittime), sospettati di aver commesso omicidi o violenze nei confronti di un/una bianco/a rispettabile. Contrariamente a quanto si possa immaginare, questa risposta estrema a un’ingiustizia (percepita o reale) di carattere morale, sociale, economica e finalizzata alla ricostituzione dell’ordine violato – l’«essenza» della violenza retributiva, come la definisce George Herbert Mead –16 non recuperava una tradizione consolidata e risalente al passato ma, al contrario, costituiva una nuova tipologia di eventi, nei quali la pena di morte si rispecchia, oggi, sotto molti punti di vista: «[Essa] continua [infatti] a essere concentrata a Sud. Continua a essere gestita dalle politiche locali e dai politici populisti. […] Continua a riservare uno spazio speciale ai parenti delle vittime. Continua a bersagliare i neri le cui vittime sono bianchi. Continua a produrre false accuse e infliggere sanzioni senza garanzie. E continua a essere un’occasione di mobilitazione politica attorno a richieste di sovranità locale, di valori tradizionali e di giustizia popolare».17 Ma a ben vedere, osserva Garland, i rispecchiamenti e le simmetrie tra le due condan-


Prefazione  15

ne a morte interessano esclusivamente i lineamenti di queste «dinamiche sociali»: dal confronto con il linciaggio, la pena capitale tardomoderna18 appare quale rovesciamento di forma, una simmetria negativa, un presente riformato che rigetta radicalmente il passato. 4. Non vi sono e non vi possono essere dubbi: «La pena di morte è, sempre e ovunque, un esercizio del potere statale».19 In ogni Stato sovrano, al di qua e al di là dell’Oceano, l’autorità del diritto e la forza legittima del potere statuale sono stati e sono, difatti, la garanzia anche di questa sanzione, e ne assicurano la validità. In particolare, nell’America del xxi secolo essa è amministrata in conformità al diritto statuale e federale, e la sua applicazione spetta ai funzionari pubblici. Partiamo da questa evidenza. Il fatto che le esecuzioni tardomoderne siano attuate all’interno di una cornice giuridica assai complessa crea un margine, un confine che le rende altro rispetto alle forze che muovevano i linciaggi collettivi – benché esse seguitino ad avere, come si sottolineava, molti aspetti sostanziali in comune proprio con quelle violenze collettive che vorrebbero rinnegare. Per quale ragione, allora, quando nell’America odierna entra in scena l’esecuzione di una condanna a morte, ogni cittadino continua a percepirsi quale parte di un organismo morale che riafferma in modo passionale un principio di giustizia violato, un sentimento morale leso? Per un lettore europeo è infatti scioccante apprendere che ogniqualvolta i funzionari statali americani amministrano ed eseguono questa pena si dipingono quali «servitori del popolo», coloro che «eseguono l’ordine degli elettori», e parlano delle giurie, delle vittime, del pubblico come di coloro che li coadiuvano. Per analizzare fino in fondo questi nodi teorici la ricerca di Garland si fa ancora più analitica e meticolosa. La lettura di largo respiro che egli propone chiama in causa la mancanza di una forte relazione tra la sovranità statuale e la condanna capitale – come invece è accaduto in Europa. In breve, la forma assunta dal federalismo costituzionale americano avrebbe contribuito, insieme a fattori economici, logistici e politici, a edificare uno Stato centrale relativamente debole. Più in dettaglio, sarebbe stato un altro «istituto peculiare», quello della schiavitù, a concorrere storicamente a limitare i due poteri governativi centrali correlati alla sovranità: l’uso legittimo della forza e l’imposizione delle tasse. La capacità di controllare il territorio e di imporre le tasse fu difatti limitata, fin dall’inizio, dagli stati a impronta schiavista e dalla loro «resistenza all’intrusione del governo federale». All’epoca, tutte le discussioni sulla ripartizione statale – riguardanti la tassazione basata sulla dimensione della popolazione statale o sulla proprietà – si arenavano, dato che gli stati favorevoli al


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mantenimento della schiavitù minacciavano di rompere l’Unione se questo istituto fosse stato messo in discussione. Inoltre, in molti momenti della storia statunitense vari stati hanno votato leggi che introducevano i referendum, il ballottaggio durante le elezioni, le primarie aperte, «per rafforzare il potere del voto popolare e limitare ulteriormente il potere degli obblighi governativi».20 È inutile girarci attorno. La debolezza dell’autorità centrale ha contribuito ad alimentare da una parte una cultura nazionale definita come iperdemocratica, che corrisponde al motto: «Lasciamo decidere al popolo»; dall’altra radicati atteggiamenti populisti e un accentuato potere locale. Queste peculiarità politico-istituzionali sono da mettere in relazione, a loro volta, con alcune caratteristiche socioculturali della popolazione americana, quali la mancanza di solidarietà sociale e la capillare presenza di conflitti, soprattutto di stampo razziale; con gli alti tassi di violenza, soprattutto nel Sud del paese; con alcuni atteggiamenti diffusi, soprattutto nella classe media, quali l’antistatalismo e l’individualismo; con un certo tipo di religiosità e di moralismo. Ciò che qui si rileva è che tutti questi fattori sono strettamente interrelati, a giudizio di Garland, anche con l’esistenza e il mantenimento della pena di morte, che non è mai stata e non è la semplice «affermazione di un potere sovrano libero». Lo Stato americano, si diceva, è un’entità divisa e pluralistica, che preferisce sparire dietro concetti quali «il popolo» e «il diritto», piuttosto che giustiziare i condannati in suo nome. È, al contrario, proprio questo articolato campo sociale, nel quale le istituzioni assumono un ruolo centrale ma dove le forze sociali, i movimenti culturali e i gruppi di potere operano come un tutto contraddittorio e mutevole, ad aver plasmato, nel tempo, la pena capitale americana. Essa è stata ed è un’espressione delle democrazie locali, che a loro volta l’hanno consegnata e la consegnano nelle mani di giudici e di procuratori eletti direttamente dal popolo, delle giurie, degli uomini politici, delle associazioni delle vittime e dei mass media locali. 5. Nel leggere l’impeccabile ricostruzione storica, sociale e politica di questo istituto sorge spontanea una domanda, semplice e ineludibile: «Come è possibile che la pena di morte sia sopravvissuta, pur con tutte queste premesse, all’ondata abolizionista che ha travolto l’Europa e altre democrazie compiute, soprattutto nella seconda metà del xx secolo?».21 Garland sorprenderà più di qualcuno quando ricorda, con una cura tutta particolare, che la storia abolizionista negli Usa ha radici molto più antiche che in Europa. Se è vero che il Granducato di Toscana fu la prima giurisdizione occidentale a sopprimere la pena capitale attraverso il suo codice penale riformato del 1786, oltreoceano stati quali il Michigan e il Wisconsin vi hanno rinunciato, senza più reintrodurla, rispettivamente nel 1846 e 1853. Vi sono inoltre stati che


Prefazione  17

raramente la infliggono, quali il New Hampshire, il Wyoming o il Kansas, che ha condannato a morte fino al 1960. Infine, stati quali la California, pur sancendo molte condanne, ne eseguono poche. La storia della penalità, pure quando si ragiona sulla sua forma più estrema, va dunque affrontata senza alcuna pretesa di cogliere una continuità, un’unitarietà. Nel momento in cui scriviamo permangono molte differenze tra i trentacinque stati mantenitori, che interessano principalmente le pratiche relative all’esecuzione della pena. A differenza dall’Europa, dove sono state le Carte costituzionali o le leggi parlamentari a decretarne la scomparsa, negli Stati Uniti l’unica istituzione legittimata a intervenire in materia su tutto il territorio del paese era, e rimane, la Corte suprema federale. E di fatto essa intervenne, nel 1972, a seguito dell’ormai celebre caso Furman v. Georgia, circa un decennio dopo che il giudice Arthur Goldberg aveva avanzato per la prima volta l’ipotesi di procedere a una valutazione della legittimità costituzionale dell’istituto. Come era chiaro già a quell’epoca, incamminandosi su questo sentiero la Corte avrebbe corso un grave rischio, soprattutto a causa delle sue ambigue credenziali democratiche e della sua bassa legittimazione popolare. Gli anni sessanta e settanta erano però decisamente favorevoli a lanciare sfide sociali, politiche e giudiziarie – sia dall’alto che dal basso – fino ad allora ritenute impensabili. Molte battaglie condotte dalle associazioni che combattevano la segregazione razziale, appoggiate da quelle che sostenevano i diritti civili, sono entrate nella storia di quei decenni. A sostenere il caso Furman v. Georgia fu, per esempio, la National Association of Colored People’s Legal Defense Fund, alleatasi con il Civil Rights Movement. La Corte suprema, da parte sua, quando fu investita delle questioni di legittimità costituzionale avrebbe potuto procedere a favore di un’abolizione su tutto il territorio del paese. Al contrario, anche a causa del suo articolato orientamento politico-culturale,22 si indirizzò a elaborare una nuova giurisprudenza della pena capitale, ai sensi dell’Ottavo e del Quattordicesimo emendamento – che prevedono rispettivamente il divieto di sanzioni crudeli e inusuali e il diritto a un due process. Decretando una breve moratoria rispetto alle esecuzioni, la Corte suprema ha finito, tuttavia, per porre sé stessa al centro di un insanabile conflitto con le Corti federali. Per Garland, la ricaduta della sentenza sul caso Furman è stata fallimentare. La potenza simbolica di quella decisione ha, infatti, immediatamente restituito vigore e motivazioni a un vasto movimento d’opinione favorevole alla pena capitale. «Ciò che in precedenza era stata una sanzione penale, connotata da controversie morali, si trasformò, rapidamente, in un’accesa questione politica


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con molteplici significati, tutti molto connotati e profondamente contestati. La pena di morte nell’America degli anni settanta divenne la cartina tornasole della politica del controllo del crimine, un potente simbolo dei diritti degli stati e una parte importante di una reazione conservatrice contro i diritti civili».23 In particolare, dopo la sentenza Gregg v. Georgia (1976) – definita da Garland come «la più importante affermazione della pena capitale mai espressa nel mondo occidentale in tempi recenti»24 – la Corte suprema mise a punto un regime di tutele e di garanzie processuali assai ampio, divenuto noto come il super due process, che avrebbe reso, nell’opinione dei giudici, la pena di morte più «garantistica». Questo fattore, insieme all’idea, sempre più diffusa, che la Corte avesse «usurpato il potere degli stati e infranto l’autonomia della loro sovranità»25 favorì, in molti stati, la promulgazione di leggi che fecero evaporare ogni anelito abolizionista. 6. C’è qualcosa di perturbante e disorientante nell’apprendere, ben più di due secoli dopo gli scritti di Cesare Beccaria, che un processo che decreta la morte di un uomo possa essere definito più garantista e più «razionale»26 di quanto avveniva precedentemente. Non è tutto. La pena capitale, dopo il caso Gregg v. Georgia, è stata rinominata dal mondo giudiziario e politico come più «civile» e «umana», semplicemente perché l’agghiacciante rituale dell’iniezione letale27 somministrata ai condannati in molti stati mantenitori assomiglia di più ai protocolli di morte assistita a cui danno il loro consenso circa duecento persone ogni anno nelle cliniche svizzere,28 che non allo splendore dei supplizi di foucaultiana memoria. Lo sguardo rivolto da Garland alla sanzione letale si fa, pagina dopo pagina, meno opaco. Se egli ha ragione, non c’è alcun motivo per attribuirle (se mai le ha avute) finalità di controllo della criminalità, di deterrenza e di retribuzione. In Peculiar Institution l’autore non si sottrae, infatti, a una disamina approfondita delle funzioni che la penalità ha, originariamente, conferito a questa punizione. Lasciando direttamente la parola agli studiosi che la considerano tuttora il cardine delle politiche criminali, si prende atto, in numerosi passi del volume, che da qualunque visuale si analizzino le esecuzioni capitali odierne, esse sono lontane dal raggiungere un effetto deterrente e retributivo, e sono incapaci di rispondere alla domanda di giustizia – talvolta di vendetta – delle vittime. Eseguite in privato, quasi sempre a distanza di anni dalla commissione del reato e con molta attenzione per assicurare l’assenza di dolore fisico al condannato, queste nuove forme e modalità di applicazione vanno incontro, di fatto, a inedite esigenze e a funzioni specifiche della società contemporanea – senza invece rispondere alle loro istanze storicamente più celebrate. Giunto a questo punto, per mettere a fuoco gli adattamenti che la pena di morte ha subito per sopravvivere nell’arsenale sanzionatorio americano, Garland


Prefazione  19

opera uno slittamento di registro, capace di spingersi oltre le evidenze del dettato della legge e dell’esame giurisprudenziale. Chi ha affrontato la lettura delle sue precedenti opere sa che gli slittamenti di registro e il passaggio, talvolta brusco, da un’indagine minuziosa dei documenti storici e giuridici a un’interpretazione psicoanalitica delle politiche di controllo del comportamento criminale – per portare solo un esempio – sono una parte significativa del suo repertorio stilistico. L’aspetto più sorprendente, per chi si accosta per la prima volta allo studio del suo pensiero, è proprio la sua capacità di tenere insieme orizzonti teorici e di senso apparentemente incommensurabili, senza che si creino insanabili dissidi epistemologici. In buona sostanza, egli è convinto che le pene capitali contemporanee si sono trasformate «[…] da strumento penale, che mette le persone a morte, in un istituto peculiare, che immette la morte nel discorso a fini politici e culturali».29 Lontane da ogni deriva irrazionale, le esecuzioni capitali si sono «[…] adattat[e] abbastanza bene agli scopi che dev[ono] perseguire, anche se tra questi non risultano dominanti le funzioni deterrenti e retributive».30 Garland introduce dunque una riflessione sulla morte intesa quale «discorso», che opera su due piani, quello «culturale» e quello «politico». Proviamo ad analizzarli brevemente entrambi. Nell’odierna vita americana le riflessioni pubbliche sulla morte sono rimosse, scrive l’autore, così come avveniva nell’Inghilterra vittoriana quando si affrontava il tema della sessualità. Ogni sua messa in discorso produce ansia e ritrazione, ma non quando si parla della morte «controllata», «approvata socialmente», «autorizzata dal diritto» e relativa a un «altro demonizzato». In queste circostanze si riescono a provare sentimenti liberatori, fantasie di dominio, si proiettano immagini e rappresentazioni associate alla violazione di un tabù. In altre parole, attraverso lo scambio di opinioni sulla pena capitale milioni di cittadini, pur senza essere «clinicamente sadici», riescono a consumare «spirali di discorsi» sulla morte. Non solo. La narrazione ininterrotta riguardante i reati efferati e le loro pene a opera di tv, internet e giornali – sia sotto forma di notizia che di intrattenimento – funziona, a sua volta, come una sorta di liberazione dalla repressione. Interrogata dal punto di vista delle dinamiche psicosociali collettive, la pena capitale sarebbe diventata, nell’America del xxi secolo, «produttiva, performativa, generativa». Per riprendere un’espressione cara a Michel Foucault, un’«incitazione a parlare» della morte. Ma se la messa a morte seguita a essere una misura inamovibile dal mondo politico-giudiziario statunitense non è unicamente perché permette ai cittadini e ai mass media di enunciare un discorso quasi indicibile. In alcune pagine assai serrate Garland la definisce «[…]uno strumento pratico che permette […] di utilizzare il potere della morte per perseguire obiettivi professionali».31 Per gli


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esponenti del mondo politico contemporaneo nordamericano essa rappresenterebbe, per esempio, «un bene, un valore di scambio, un simbolo politico in un gioco elettorale che si svolge davanti al pubblico spettatore».32 La sua enunciabilità da parte degli appartenenti alle forze dell’ordine, degli agenti di polizia penitenziaria, dei procuratori distrettuali locali permetterebbe invece di «esercitare potere e perseguire obiettivi professionali», di dotarsi di uno «strumento potente e insostituibile»33 per esercitare pressione su imputati e condannati. Basti solo un esempio. Nel 2007, il procuratore dello stato di Washington promise a una persona sospettata del sequestro e dell’omicidio di una giovane preadolescente che si sarebbe astenuto dal richiedere la sanzione letale, se fosse stato indicato il luogo dove si trovava il corpo della vittima. L’imputato decise di condurre gli inquirenti dove era seppellita la giovane. Il procuratore mantenne la parola, e nel corso di una conferenza stampa ribadì pubblicamente l’importanza di poter fare leva su questo strumento sanzionatorio. 7. Per riassumere: lo spiazzamento che si avverte studiando Peculiar Institution discende dalla definitiva consapevolezza che l’attuale esistenza della pena capitale contemporanea non ha nulla a che fare con le classiche finalità della deterrenza, della retribuzione e dell’incapacitazione, e che non si può neppure ritenere che essa sia l’esito di alcune caratteristiche della storia civile americana, come per esempio della radicata cultura della violenza o della paura collettiva del crimine che, endemicamente, apparterrebbero a questo popolo.34 Garland mostra, al contrario, che il suo mantenimento risponde a logiche affatto differenti, emerse nella società degli ultimi decenni, e che riguardano da un lato alcune nuove forme di razionalità intrinseca della sanzione, dall’altro l’immissione della morte nei discorsi pubblici. Il saggio costituisce quindi, foucaultianamente – e a tutti gli effetti –, una «storia del presente», in quanto approfondisce un aspetto specifico del mondo contemporaneo diventato, sotto molti punti di vista, «problematico, incoerente o incomprensibile».35 L’uso dei materiali storici e dell’analisi genealogica36 sono utili a Garland per far comprendere come la «pena capitale nel suo complesso» sia giunta alla sua peculiare forma attuale, finendo per gettare molte ombre anche su alcuni princìpi e prassi della giustizia penale americana. David Johnson ne elenca più di una. Qui è sufficiente ricordare che la sanzione della morte ha avuto una perversa ricaduta sul diritto penale sostanziale, contribuendo a creare torbide distinzioni tra vecchie e nuove fattispecie di omicidio presenti nel sistema penale (manslaughter, murder, first-degree murder) e per le quali è prevista, o meno, l’esecuzione capitale. Il mantenimento della pena di morte ha, inoltre, facilitato il ricorso a legislazioni penali decisamente poco garantiste. Dopo la metà degli anni novanta tutti gli stati del paese hanno introdotto, per esempio, una loro versio-


Prefazione  21

ne della Megan’s Law, che impone alle autorità chiamate ad applicarla di rendere noto a tutti i cittadini dove i sex offender fissano, dopo aver scontato la pena, la loro dimora.37 Un ulteriore effetto dirompente che deriva dal mantenimento della morte come pena è stato quello della ridefinizione politica e morale dell’ergastolo. Negli ultimi quindici anni il numero delle incarcerazioni a vita rispetto alle quali non è più possibile ottenere il rilascio sulla parola (Lwop, Life Imprisonment Without Possibility of Parole) è aumentato infatti del 230 per cento, e sei dei sette stati che lo impongono sono stati nei quali si applica la sanzione letale.38 8. L’ultima riflessione che intendo affrontare sul testo di Garland riguarda, ancora una volta, l’angolazione conferita dall’autore alla nozione di penalità.39 Se è vero che il proposito più manifesto di Peculiar Institution è di giungere a una spiegazione sociogiuridica della pena capitale nell’era dell’abolizione, è altrettanto vero che il libro si apre poi inesorabilmente, pagina dopo pagina, a una riflessione a tutto tondo sulla pena, registrando però una torsione metodologica rispetto all’opera precedente. Mi spiego. In The Culture of Control,40 il vettore di senso utilizzato per indagare le strategie di controllo della criminalità nell’epoca tardomoderna e i cambiamenti di sensibilità individuali e collettive da esse prodotte era costituito dai concetti di campo e di habitus, così come li intende Pierre Bourdieu.41 Qui, invece, Garland torna, pur senza un esplicito proclama, ad abbracciare – almeno in parte – quella visione della penalità42 che aveva fatto da connettore di senso in Punishment and Welfare43 e in Pena e società moderna.44 Sull’onda lunga della ricerca sulla pena moderna svolta in quei volumi, anche la pena di morte viene intercettata nella sua trasformazione da rituale pubblico, passionale e incentrato sul corpo del reo a forma quasi privata, che consente di nascondere «dietro le quinte» le angosce che comporta l’inflizione pubblica di un male.45 La medicalizzazione dell’esecuzione capitale – avvenuta attraverso l’adozione, da parte della maggior parte degli Stati mantenitori, dell’iniezione letale – segnala inequivocabilmente un mutamento di lungo periodo delle sensibilità culturali ed emotive collettive.46 Ma a produrre l’odierna sanzione della morte hanno contribuito, lo abbiamo già rammentato, altri «impegni culturali», come il populismo e l’antielitarismo, il localismo e il controllo della comunità, il liberalismo e l’antistatalismo, l’individualismo, varie dimensioni della religiosità e il moralismo.47 Lo scenario che Garland descrive appare ancora un volta un intreccio inestricabile di processi (le istituzioni), condotte, parole, gesti, emozioni, pensieri che acquisiscono senso solo per la loro capacità di riprodurre i contesti delle relazioni e dei giochi culturali che li orientano. A ben vedere, questo livello della spiegazione – che traccia in modo collaudato ed efficace il campo di forze che ha generato le pratiche attuali della pena


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capitale, nonché le condizioni storiche e sociali dalle quali esse tuttora dipendono – può apparire in rotta di collisione con l’altro livello della spiegazione – quello che rivendica con decisione che il mantenimento della sanzione letale sia un fatto dovuto a eventi storici contingenti. Ma anche su questo passaggio Garland anticipa con eleganza ogni possibile critica, laddove chiarisce che «gli eventi contingenti possono fornire una spiegazione per il mantenimento dell’istituto in un’era di abolizione, ma non servono a spiegare la sua forma, che si delinea come un modello definito, ben lontano dall’essere accidentale […]. Le forme e i modelli contemporanei della pena di morte sono il risultato di precise battaglie intraprese all’interno dei limiti e delle possibilità di una data struttura sociale. Pertanto, il fondamento della nostra spiegazione deve essere un’analisi di questo ambito sociale […]».48 9. Mettere a confronto l’opera di Garland con le più significative riflessioni sulla morte come pena svolte in questi ultimi decenni negli Stati Uniti porterebbe troppo lontani. Per concludere, desidero però aprire una finestra su alcune questioni sollevate dall’importante contributo di Zimring49 – senza peraltro entrare nel merito di alcune dispute metodologiche in atto tra i due studiosi.50 Per Zimring, a differenza di Garland, la curvatura che questa sanzione ha assunto nella seconda metà degli anni settanta è dovuta soprattutto al riconoscimento politico acquisito dal Victim’s Rights Movement, capace di veicolare in modo fino ad allora inedito la cultura della cosiddetta vigilante tradition – quella propensione a farsi giustizia da sé che, come abbiamo visto, è ancora profondamente radicata soprattutto negli stati del Sud del Paese. Questo movimento, privo di una strategia unitaria e coerente, ha cavalcato, fin dalla sua origine, molteplici obiettivi. Politicamente ha agito, nella prima fase della sua esistenza, per far conferire alle vittime un ruolo significativo all’interno dei processi, in un’epoca in cui i tassi di criminalità stavano salendo vertiginosamente. Secondo i propugnatori di queste idee, le vittime e i loro parenti non solo dovevano avere un sostegno psicologico e sociale in ragione del loro status, ma anche voce in capitolo nel processo – un vero e proprio diritto a testimoniare davanti alle giurie nel corso della sentencing phase, per rivelare il valore di chi era scomparso, e le ricadute devastanti che aveva provocato la sua perdita. Per il Victim’s Rights Movement, questa voce nel processo avrebbe offerto alle vittime e ai loro parenti la possibilità di elaborare più facilmente l’esperienza di vittimizzazione, e di chiudere con il passato e il dolore patito. Come ricorda lo stesso Garland, «la prova della ricaduta del reato sulla vittima rappresenta un nuovo sviluppo nella giustizia penale americana, una parte integrante della politica di “legge e ordine” incentrata sulla vittima».51 Del problema fu investita, ancora una volta, la Corte suprema, la quale, nel


Prefazione  23

caso Booth v. Maryland (1987), si espresse negativamente rispetto alla possibilità di ammettere un Victim Impact Statement (Vis) nella sentencing phase – mentre questo tipo di prova era già ammessa in procedimenti penali per reati diversi dall’omicidio – poiché sarebbe stato «incongruente con il processo di decisione ragionata richiesta nei casi capitali».52 Ragione v. emozioni, dunque. Il timore della Corte suprema era che i Vis contribuissero a creare il rischio che le giurie potessero arrivare a infliggere la pena capitale in modo irrazionale e arbitrario. Ma, osserva Zimring, questo giudizio era e rimane dissintonico rispetto a quello della maggior parte della popolazione, che preferisce guardare alla pena di morte come a un servizio reso dallo Stato alle vittime e alla comunità�. 10. Una cosa è certa. Da qualunque lato la si voglia inquadrare, la pena capitale, quando è ancora una pena viva, come accade negli Stati Uniti, trascina gli studiosi a una lettura centrata sul corpo del condannato e sulle sofferenze delle vittime, sulla messa in discorso della morte e su come utilizzare il potere della morte per perseguire obiettivi professionali e politici. Per noi europei il tema è ormai relegato, grazie alle conquiste politiche e sociali avvenute soprattutto nella seconda metà del Novecento, a una riflessione più distaccata, centrata sulla «filosofia patibolare», sulla storia e i fondamenti del diritto di punire con la morte.53 Nell’affidare il testo di Garland al lettore mi permetto quindi di segnalare il pregevole volume curato recentemente in Italia da Pietro Costa,54 nel quale vengono magistralmente affrontati, da vari autori, le tematiche filosofico-politiche inerenti al diritto di uccidere. Ma, in fondo, non siamo così lontani dagli Stati Uniti, e comprendere i processi e le funzioni attuali delle esecuzioni capitali può consentirci di comprendere aspetti decisivi della pena negli Stati moderni. Adolfo Ceretti



Introduzione all’edizione italiana

Quando un autore pubblica un volume sul tema della pena capitale in America – anche se dichiara apertamente la propria posizione neutrale rispetto alle questioni normative – dovrebbe considerare sempre la possibilità che il suo intervento venga letto come una presa di posizione nel dibattito attuale sulla pena di morte. Ciò è quanto accaduto a La pena di morte in america, in particolare dopo la recensione dell’ex giudice della Corte suprema, John Stevens, pubblicizzata sulla prima pagina del New York Times e su tutti i mezzi di comunicazione. La partecipazione pubblica, come in quell’occasione, è certamente positiva. Portare al centro delle discussioni politiche descrizioni fattuali, insieme a una prospettiva storico-comparativa, rappresenta una virtù e un’ambizione centrale per ogni studioso serio. Prima di decidere se pronunciarsi contro o a favore della pena capitale, i cittadini devono venire informati in modo corretto su che cosa è, qual è il suo uso preciso e quali sono, effettivamente, le sue funzioni sociali e i suoi effetti. Tuttavia, questo volume non rappresenta un intervento nel dibattito sulla pena di morte, vuole essere piuttosto un contributo alla sociologia del controllo sociale. E ciò che voglio mettere in luce in quest’introduzione all’edizione italiana è proprio il contributo teorico del volume. La pena di morte in America affronta tre questioni, sul piano descrittivo: in primo luogo, le ragioni della scomparsa della pena di morte in Occidente; poi le cause della persistenza della pena capitale negli Stati Uniti, con riferimento sia alla misura in cui è ancora presente, sia ai luoghi in cui è in atto e alle sue specifiche forme; infine, come funziona la pena di morte americana al giorno d’oggi. Le ragioni della scomparsa della pena di morte in Occidente. Una pratica, che un tempo era pressoché universale, è quasi del tutto scomparsa. Come mai? Per ri-


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spondere a questa domanda, la tesi proposta nel volume si concentra sul processo di formazione dello Stato moderno e sulle ricadute del suo sviluppo sull’uso della violenza letale da parte di un governo. La violenza – soprattutto quella intesa come potere di distruggere politicamente i nemici e gli avversari – era, un tempo, la particella elementare del potere statale. E questi poteri coercitivi hanno rappresentato un aspetto cruciale nei primi stadi di formazione degli Stati, quando i governanti cercavano di monopolizzare la violenza legittima e di pacificare le proprie popolazioni. Tuttavia, questi stessi poteri divennero inutili e problematici nel momento in cui gli Stati si trasformarono in democrazie di stampo liberale, con un ordine sociale consolidato e istituzioni di polizia e di detenzione affidabili. Sono i mutati interessi degli Stati – così come percepiti dai funzionari statali e influenzati dalle forze politiche e dai sentimenti sociali – a spiegare in modo esauriente il percorso a lungo termine della pratica della pena di morte. Le ragioni della persistenza della pena capitale negli Stati Uniti, con riferimento sia alla misura in cui è ancora presente, sia ai luoghi in cui è in atto e alle sue specifiche forme. Per rispondere a queste problematiche, il volume presenta una teoria relativa allo Stato americano, alla sua storia, al suo carattere contemporaneo, e all’impatto delle sue istituzioni sulla pena capitale. Si discute il fallimento dello Stato americano nel monopolizzare completamente la violenza legittima – ricordiamo che l’istituto della schiavitù metteva in mani private i poteri di polizia – o nel pacificare totalmente la popolazione. Queste forme distintive dello sviluppo statale hanno determinato la persistenza costante, nella società americana, di alte percentuali di violenza interpersonale, di omicidi e di una diffusa circolazione delle armi da fuoco. Nel volume si descrivono anche la peculiare distribuzione del controllo del potere di punire, delegato a processi democratici locali, di impronta populista, che «pubblicizzano» la giustizia penale e conferiscono potere alle maggioranze sul territorio. Si descrive, inoltre, come la Corte suprema degli Stati Uniti ha tentato di sostenere «la volontà del popolo» in relazione alla pena capitale, perfino quando ha imposto i requisiti del due process, rendendo così il sistema più complesso e dispendioso, nonché caratterizzato da ritardi e da revoche. Come funziona la pena di morte negli Stati Uniti al giorno d’oggi. Appare evidente che gli scopi della giustizia penale standard non spiegano adeguatamente la struttura e il funzionamento della pena di morte nell’America contemporanea. Deterrenza, retribuzione, incapacitazione e soddisfazione delle vittime sono storie che alcuni americani si raccontano, ma non sono proprietà funzionali dell’istituto. Pertanto, il volume propone una teoria alternativa sugli usi politi-


Introduzione all’edizione italiana  27

ci e culturali della pena capitale: una teoria sull’immissione della pena di morte nel discorso pubblico per fini di potere, profitto e piacere. Sono «usi» di classe, piuttosto che sociali. Coinvolgono azioni da parte di specifici gruppi che fanno funzionare la pena di morte a proprio vantaggio, tentando di procurarsi opportunità e ottenere benefici dalla sua esistenza. Non sostengo che la pena di morte sia «funzionale» per la società. Piuttosto, che è fatta per essere funzionale nei confronti di specifiche classi sociali. Non sostengo neppure che questi usi spieghino la persistenza della pena di morte. Ritengo invece che data la sua persistenza – un risultato contingente, figlio delle istituzioni politiche americane e della politica degli ultimi quarant’anni – certi gruppi impieghino la pena di morte nei modi più diversi, producendo effetti di varia natura. Molti di questi effetti sono perlopiù raggiunti attraverso il discorso sulla morte, piuttosto che per via della morte in sé: da qui deriva la sproporzione tra la discussione attorno alla pena di morte e il numero di condanne eseguite. Ma una certa quantità di esecuzioni effettive è senza dubbio necessaria per sostenere la credibilità del sistema e dei suoi discorsi. Nel trattare tali questioni, il volume si avvale di un approccio molto peculiare, che appare utile delineare in questa sede. Per questo motivo esporrò di seguito le regole a cui mi sono attenuto quando ho intrapreso questo percorso di studio. In primo luogo, analizzare la pena di morte in America – la sua persistenza, le sue forme e le sue funzioni – come problema sociologico e non come questione morale, politica o di diritto costituzionale, e pensare la pena capitale americana come un fatto sociale che va spiegato. In secondo luogo, evitare di pensare alla «pena di morte» come un argomento senza tempo e astratto, guardando, invece, alle sue forme specifiche – i suoi specifici processi di attuazione ed esecuzione – in un dato tempo e in un dato ambiente. In terzo luogo, studiare l’intero istituto, vale a dire il complesso della pena capitale. L’obiettivo dello studio è l’analisi della totalità delle pratiche discorsive e non discorsive attraverso cui viene attuata, rappresentata e vissuta la pena capitale nell’America contemporanea. In quarto luogo, evitare gli assunti sociologici standard, molti dei quali sono mezze verità, derivanti dal dibattito normativo che circonda la pena di morte. In particolare, evitare di guardare alla pena di morte come a un anacronismo, senza alcuna funzione positiva, «meramente» simbolica, espressione dell’«eccezionalismo americano», e delineabile, secondo la prospettiva di Foucault, come un esercizio del potere sovrano. (Sorvegliare e Punire di Foucault, che fornisce la prospettiva sociologica per eccellenza della pena di morte e dei suoi usi, è un libro vitale, ma non offre una cornice utile all’inquadramento della pena di morte americana. Per certi versi, un contributo successivo, il primo volume di Storia della Sessualità – con la sua descrizione di come il sesso è en-


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trato nel discorso per produrre effetti di piacere e potere – risulta più istruttivo ai nostri fini.) Infine, sospendere il giudizio normativo. Uscire dal dibattito comune per osservare che il discorso morale è parte dell’oggetto della spiegazione. Tentare di analizzare l’istituto in modo spassionato, avendo cura di comprendere e di apprezzare i punti di vista e gli interessi di tutti gli attori coinvolti. Evitare, per quanto possibile, di prendere una posizione normativa a favore o contro l’istituto, e aderire, invece, ai valori della scienza e dello studio imparziale. Paradossalmente, è stata quest’ultima prescrizione – che potrebbe ingenuamente essere intesa come «apolitica» – ad aver reso possibile l’impatto politico, a cui ho accennato, dell’edizione originale di questo volume. Per la pena di morte americana nella sua attuale configurazione, è proprio un’analisi basata sui fatti a rappresentare la più potente accusa morale immaginabile. David Garland New York City, marzo 2013


Prologo. L’esecuzione esemplare

Il seguente resoconto è stato pubblicato sulle pagine di un giornale americano, martedì, 26 ottobre 2006. Giustiziato il killer di cinque studentesse della Florida Gainesville, Florida, 25 ottobre. Il serial killer che nel 1990 uccise in modo raccapricciante, qui a Gainesville, cinque studentesse del college è stato giustiziato mercoledì, tramite iniezione letale. Dopo l’esecuzione, i parenti delle vittime hanno detto di poter finalmente provare un po’ di sollievo. Il cinquantaduenne Danny H. Rolling è stato dichiarato morto alle 18.13 nella prigione statale di Starke, Florida, a circa trenta miglia a nordest di Gainesville. I testimoni hanno detto che Rolling li fissava cantando una canzone simile a un inno, prima che i farmaci venissero somministrati. «Forse, ora che non abbiamo più questo peso» ha dichiarato Dianna Hoyt, matrigna di una delle vittime «possiamo cercare di rilassarci e vivere con i ricordi che abbiamo dei nostri figli ed essere in pace.» Rolling aveva 36 anni quando arrivò a Gainesville, poco prima dell’inizio del primo semestre all’Università della Florida. Era un vagabondo con un passato criminale. Piantò una tenda nel bosco vicino al campus. Seguì due matricole universitarie, Sonja Larson, 18 anni, e Christina Powell, 17 anni, nel loro appartamento all’interno del campus. Violentò Christina Powell, pugnalò ripetutamente le due donne con un coltello da caccia, e mutilò i loro corpi. Il 26 agosto, la polizia ritrovò i corpi a seguito della denuncia fatta dai parenti di Christina Powell, che non rispondeva alla porta né al telefono. Più tardi, quella stessa sera, la polizia trovò Christa Hoyt, 18 anni, morta nel suo appartamento fuori dal campus.


30    La pena di morte in America Rolling l’aveva violentata e accoltellata, le aveva staccato la testa e l’aveva posta su uno scaffale. Il giorno successivo, non lontano da dove erano avvenute le altre uccisioni, furono trovate Tracy Paules e Manuel Taboada, entrambe ventitreenni, morte accoltellate nei loro appartamenti […]. Gainesville, una piccola cittadina di belle casette e querce, fu paralizzata dal terrore. Il campus chiuse per una settimana e molti dei 34 000 studenti fuggirono a casa, alcuni non tornarono più. Altri comprarono mazze da baseball e gas lacrimogeni, misero tre serrature alle porte facendo i turni per dormire […]. Nel gennaio 1991, la polizia trovò Rolling nella prigione della contea a sud di Gainesville, in attesa di processo per una rapina in un supermercato. Inizialmente, negò di avere commesso i reati, ma i test del Dna dimostrarono, senza dubbio, che era il responsabile. Si dichiarò colpevole alla vigilia del suo processo nel 1994, dicendo al giudice: «Ci sono alcune cose a cui non si può proprio sottrarsi». Rolling era considerato colpevole anche di tre uccisioni nella sua città natale, a Shreveport in Louisiana, ma non fu mai processato per quei crimini. Attribuiva il suo comportamento ad abusi da parte del padre, a un agente di polizia e a un malvagio alter ego. In carcere, disegnava figure confuse e scrisse un graphic novel dal titolo The Making of a Serial Killer (Come diventare un serial killer) in collaborazione con una donna che fu la sua fidanzata per un certo periodo. Una coda di aragosta e un gambero farfalla furono il suo ultimo pasto, come riportato dalle guardie carcerarie. Davanti alla prigione, dozzine di spettatori si riunirono in gruppi pro o contro la pena di morte. Si è trattato, forse, del più grande afflusso, in questo luogo, per un’esecuzione, dai tempi di Ted Bundy, che fu messo a morte nella prigione statale della Florida nel 1989, sospettato di avere ucciso più di 30 giovani donne in tutta la nazione… Rolling è stato il terzo detenuto nel braccio della morte a essere giustiziato qui, nelle ultime settimane, e, come gli altri, si era appellato, sostenendo che l’iniezione letale fosse una procedura talmente dolorosa da doversi considerare incostituzionale. Tuttavia, il procuratore statale dell’Eighth Judicial Circuit, Bill Cervone, e un testimone oculare dell’esecuzione hanno affermato che la morte di Rolling non è affatto apparsa punitiva a sufficienza. «Il fatto di vedere la sua morte in un ambiente così asettico e clinico, mi convince che la sanzione non sia adeguata al reato» ha detto Cervone. «Tuttavia, siamo in una società con delle leggi e ciò che abbiamo fatto stasera è regolato dal diritto.» Laurie Lahey, la sorella di Tracy Pauls, disse di essere stata restia ad assistere all’esecuzione, ma che dopo si era sentita euforica. «Una volta che tutto si tranquillizzerà, penserò a Tracy e sarò triste» disse. «Ma ora se ne è andato. Se ne è andato.»


Prologo. L’esecuzione esemplare  31

Questo resoconto riguarda un caso di pena capitale, una storia vera sulla pena di morte scritta da Abby Goodnough per il New York Times. Per certi versi, il caso di Danny Rolling è esemplare, pur non essendo tipico tra i casi di pena di morte nell’America contemporanea – al di fuori dei servizi riportati nei mezzi di comunicazione, i comuni assassini per rapina sono più noti delle macabre uccisioni seriali. Al giorno d’oggi, i casi di pena capitale fanno notizia a livello nazionale, perché hanno per oggetto la rivendicazione dell’innocenza dell’imputato o l’inadeguata assistenza legale oppure le ingiustizie di tipo razziale; perché il Dna scagiona l’accusato; perché i metodi sono giudicati «crudeli e inusuali»; o perché le esecuzioni pasticciate e i loro postumi causano sdegno nell’opinione pubblica. Quando la sanzione capitale attuale trova pubblicità tra le notizie, è rappresentata come un «sistema guasto», suscettibile di contestazione e di rimprovero. Al contrario, il caso Rolling rappresenta un esempio eclatante di una «corretta» inflizione e applicazione della sanzione capitale quale punizione per atti brutali di un orrore e di una malvagità tali da togliere il fiato. Il resoconto del Times dà un’idea di cosa sia la pena di morte o di ciò che dovrebbe essere, almeno ufficialmente. Il governatore della Florida, Jeb Bush, disse di Rolling: «È la figura emblematica… del perché deve esistere la pena di morte».1 Alternativamente, possiamo pensare all’esecuzione di Rolling come all’immagine-simbolo della pena di morte moderna in America, inflitta e applicata in conformità al diritto e al modo di intenderla da parte delle autorità. Un criminale violento trasformatosi in serial killer («Lo Squartatore di Gainesville»), condannato per crimini orrendi puniti con pena di morte (capi d’accusa multipli per omicidio, stupro, tortura, mutilazione e necrofilia) dopo un giusto processo (Rolling è stato rappresentato «dall’avvocato d’ufficio competente»; la sua dichiarazione di colpevolezza è stata confermata dalla confessione e dalla prova del Dna; i suoi appelli multipli sono stati debitamente valutati e respinti), riceve l’ultimo pasto («coda d’aragosta e gambero farfalla») ed è messo a morte tranquillamente con iniezione letale («si rilassò, andò a dormire e non sentì nulla»), mentre i familiari afflitti esprimono euforia e sollievo, e i funzionari conversano su ciò che va fatto in una «società di leggi».2 Immune da sospetti di discriminazione razziale (diversamente da molti serial killer americani, Rolling era bianco); non toccato da reali rivendicazioni di innocenza, di inadeguata assistenza legale o sproporzionalità; non viziato da intoppi nell’esecuzione del protocollo, il caso Rolling offre un’immagine della pena di morte nella sua forma più legittima, più aproblematica e, se i resoconti sono veri – circa la sua confessione ad altri assassini alla vigilia della morte, circa i sentimenti di sollievo provati dai familiari delle vittime e circa il suo effetto purificante sulla comunità locale –, più efficace.3


32    La pena di morte in America

Pur essendo a modo suo un caso esemplare, quello di Rolling non è, tuttavia, aproblematico. Nessun caso capitale è privo di problemi al giorno d’oggi. Il 4 ottobre 2006, pochi giorni dopo che il governatore Bush ebbe firmato l’ordine di esecuzione, gli avvocati di Rolling fecero ricorso perché al loro cliente sarebbe stato negato l’accesso a importanti registrazioni, perché il protocollo dell’iniezione letale doveva considerarsi incostituzionale ed era stata scoperta una nuova prova in base alla quale l’esecuzione risultava una punizione crudele e inusuale. Queste richieste furono rigettate sommariamente dalla Corte Distrettuale della Florida e, in sede di appello, dalla Corte suprema della Florida. Il 25 ottobre, mercoledì, la Corte suprema degli Stati Uniti decise, con sette voti contro due, di non concedere la sospensione dell’esecuzione, mentre era pendente l’appello che contestava il metodo di esecuzione. (La stessa obiezione è stata, infine, oggetto di valutazione da parte della Corte suprema l’anno successivo, producendo come effetto una lunga commutazione per centinaia di altri detenuti.) Il giorno prima dell’esecuzione di Rolling, la Coalizione nazionale per l’abolizione della pena di morte distribuì il seguente comunicato stampa: Non giustiziate Danny Rolling Danny Rolling deve essere giustiziato dallo stato della Florida il 25 ottobre. Alla fine dell’agosto 1990, Rolling commise una serie di omicidi a Gainesville. Rolling irruppe in tre appartamenti in cui vivevano cinque studentesse del college, da lui aggredite e uccise. Le vittime erano Christina Powell, Sonja Larson, Christa Hoyt, Manuel Taboada e Tracy Paules. Nonostante l’atrocità e l’inescusabilità di questi reati, la pena di morte non è la scelta giusta per Danny Rolling. Rolling è cresciuto in un contesto familiare disfunzionale, abusato dal padre. Inoltre, soffriva di problemi emotivi e psicologici, come osservato in un’opinione del giudice d’appello nella sua sentenza. Rolling si è dichiarato colpevole nel processo del 1994, nel corso del quale fu stabilito che, al tempo della commissione dei suoi reati, aveva la maturità emotiva di un quindicenne e che soffriva di gravi disturbi emotivi. Durante il processo, Rolling e il suo team di difensori tentarono, senza riuscirvi, di rinviare la causa davanti a un’altra corte. Il suo caso era stato talmente esagerato dai media da non poter ricevere un giusto processo nel luogo in cui i membri della giuria avevano pregiudizi sui reati. Inoltre, furono ammesse in giudizio molte prove, incluse affermazioni fatte in assenza del legale, e oggetti raccolti nella residenza di Rolling senza mandato. Rolling esprime rimorso per i suoi reati, come dimostrato dalla confessione e dalla dichiarazione finale di colpevolezza. La sua famiglia ha un passato di malattia mentale e gli abusi da parte di suo padre hanno influenzato la sua instabilità psi-


Prologo. L’esecuzione esemplare  33 cologica. Sia lo stato emotivo di Rolling, sia i molti errori nel suo processo dimostrano che la pena capitale non farà giustizia. Per favore inviate appelli al governatore Jeb Bush a favore di Danny Rolling.

Gli appelli degli avvocati di Rolling e dei suoi sostenitori non facevano leva sui suoi reati o sulla sua colpa, bensì sulla sua persona e sulla sanzione. Essi consideravano prova di malattia mentale e personalità disturbata ciò che per altri era da considerarsi malvagità e male. Essi vedevano nella pena di morte un atto immeritato, giuridicamente viziato e profondamente immorale, al contrario di altri che la consideravano una sanzione giusta e adeguata. Nell’America odierna, un imputato può dichiararsi colpevole di atroci omicidi, restare per anni coinvolto in appelli e riesami da parte delle corti e, addirittura, confessare altri omicidi, ma la sua condanna a morte sarà ancora considerata da molti ingiusta e inappropriata. Saranno sollevate questioni di ingiustizia procedurale, di attenuazione e di malattia mentale, così come altri numerosi argomenti che possono mettere in dubbio la condanna. E dietro queste obiezioni, sullo sfondo di ogni caso di pena capitale, verrà sempre evocato che «giustizia non sarà fatta, applicando la pena capitale». Anche nel migliore dei casi, negli esempi paradigmatici, la pena di morte americana è un istituto profondamente tormentato. Se la storia di Rolling è la migliore rappresentazione dell’istituto in questione, anche l’articolo pubblicato sul New York Times è, a sua volta, paradigmatico. I resoconti giornalistici delle esecuzioni hanno, infatti, un format definito e la storia pubblicata sul Times ne è un modello. Sono presenti tutti gli elementi tipici: descrizioni turbate del reato e del suo effetto; dichiarazioni commoventi dei parenti della vittima; la storia del criminale; gli anni di battaglie legali e di appelli fatti all’ultima ora; dettagli domestici dell’ultimo pasto; racconti dell’esecuzione da parte dei testimoni oculari e le ultime parole del condannato; le interviste fuori dalla prigione ai sostenitori e agli oppositori; dichiarazioni ufficiali da parte dei funzionari. Tutti questi elementi concorrono a creare la soddisfacente narrazione di un malvagio delinquente a cui sono stati riconosciuti i suoi diritti, portato davanti a un tribunale e poi giustiziato con il massimo dell’umanità. Il racconto pubblico della storia di Rolling, apparso sul Times nell’ottobre 2006, rappresenta il capitolo conclusivo di una storia cominciata decenni prima, nel 1990, con i racconti iniziali degli omicidi di Gainesville. Quella storia era continuata nelle notizie locali e nazionali, con resoconti drammatici dell’arresto, del processo, della condanna, seguiti da resoconti più sporadici relativi ai procedimenti postcondanna e alle sue azioni nel braccio della morte. Questa vicenda narrativa, se osservata lungo l’arco di tutto il suo sviluppo, assume le sembianze di un dramma allegorico in due atti – Atto i: il reato e la condanna del crimi-


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nale; Atto ii: la punizione e la sua esecuzione finale – di cui il Times presenta la scena conclusiva e l’epilogo. La singolarità del caso Rolling riguarda i personaggi, gli eventi, i colpi di scena e i cambiamenti nella sua narrativa, che lo rendono una storia mediatica fresca e avvincente. Però la trama del dramma, così come le dramatis personae coinvolte e gli argomenti morali in gioco, è molto familiare, in quanto ripetuta costantemente in una rappresentazione standard, ben nota al suo pubblico, e con una collocazione speciale nella cultura dell’America contemporanea. Nel caso Rolling, come in tutti gli altri, il dramma allegorico, rappresentato a beneficio del grande pubblico, inizia con la cronaca di un violento omicidio e termina con i resoconti oculari dell’esecuzione legale. La drammatica relazione tra queste due uccisioni – l’omicidio e l’esecuzione – coinvolge il pubblico, assicurando l’attenzione popolare, il coinvolgimento emotivo e il continuo interesse per la storia. Il sociologo Emile Durkheim ha osservato, tempo fa, che le notizie di reati efferati suscitano uno sdegno ardente, generano esaltazione collettiva e producono potenti narrazioni che fanno leva sul sentimento del pubblico, dandovi forza e attenzione. I casi capitali – dove è invocata la pena di morte – amplificano questo effetto drammatico. La storia dell’uccisione iniziale è rafforzata dalla promessa di un’altra uccisione più giusta che pareggia i conti, esprime rabbia collettiva, e accompagna, catarticamente, il pubblico dall’offesa al sollievo. Il mistero della morte, che sta al centro di questi drammi, serve solo ad acuire il loro impatto emotivo e a estendere la loro attrazione metaforica. La prova di questa esaltazione e del coinvolgimento emotivo diviene ancora più palese nelle storie raccontate nei giornali più estremisti del Times. Negli ansiosi resoconti dei giornali scandalistici si lascia ampio spazio a orrende descrizioni dei reati di Rolling – «Rolling ha posto le vittime mutilate in posizioni sessualmente provocatorie e ha conservato parti del corpo come trofei»; «la testa senza vita di Christa fu trovata su uno scaffale della stanza da letto e il suo corpo appoggiato sul letto» – e alle considerazioni espresse dalla gente locale sulla condanna: «Sono a favore della legge del taglione… penso che se la stia cavando troppo facilmente, è rivoltante».4 Le azioni, così come la morte di Rolling, furono rese note anche da altri mezzi di comunicazione: tv, film e internet. Se esaminiamo le parole e le immagini usate da questi media vediamo un’esaltazione drammatica che sfuma nella pruriginosa curiosità e nel fascino morboso, con un cambiamento dello stile narrativo che passa da sobria tragedia a sensazionale intrattenimento. Rolling scrisse e pubblicò un libro, mentre era detenuto nel braccio della morte, in collaborazione con una donna con cui si fidanzò mentre era in carcere. Molti libri furono scritti su di lui. Furono prodotti diversi film e drammi televisivi sulle sue azioni come serial killer e sulla sua esecuzione finale. E, inevitabilmente, la pubblicità


Prologo. L’esecuzione esemplare  35

attorno al caso Rolling ha prodotto uno scontro nel dibattito pubblico sulla legittimità della pena di morte.5 La sua storia, quale versione moderna dell’antico dramma allegorico, funge da mezzo di diffusione di idee contrastanti e del ritualizzato tira e molla nel discorso sulla pena di morte. La storia riportata dal New York Times non è solo il resoconto descrittivo di un caso, ma rappresenta la specifica manifestazione di una generale forma culturale. Nell’America contemporanea, i casi capitali non sono solo eventi giuridici o politici, bensì significative rappresentazioni di una data cultura. Lo scopo del presente volume non è quello di mettere in discussione la legittimità della pena capitale americana o di occuparsi di valutarne le modalità di esecuzione e di amministrazione. L’opera si propone di descrivere e spiegare nel dettaglio il peculiare istituto della pena capitale americana, in particolare la sua relazione con la società che lo sostiene. Questo obiettivo richiede un’operazione di distacco, una sospensione del giudizio nell’interesse di una descrizione chiara e di un’analisi oggettiva. Se vogliamo comprendere l’odierna pena di morte nel suo aspetto emotivo e contestato, dobbiamo mettere da parte gli argomenti faziosi (nei limiti del possibile) e sforzarci di comprendere le passioni e gli interessi delle due facce del dibattito, unitamente ai valori e agli atteggiamenti che lo accompagnano. Ho iniziato presentando la versione «ufficiale» dell’istituto, vale a dire una storia della pena di morte «correttamente» applicata, per mostrare che questa idea è una sua parte integrante, tanto quanto quella dei casi di errata applicazione delle procedure che così spesso lo indeboliscono. Ho citato il resoconto del Times per chiarire che la pratica della pena di morte contemporanea in America riguarda il dibattito che la concerne, la morte in quanto tale, e la politica culturale della punizione del crimine. Quando trattiamo della pena di morte, dobbiamo mostrare un’immagine della pratica americana contemporanea – l’iniezione letale somministrata dopo molti anni di processo legale – poiché i teorici sono troppo propensi a pensare alla pena di morte come se fosse ancora eseguita, in modo violento, sul patibolo, di fronte alla folla spettatrice. Il riferimento al caso atroce permette di valutare gli aspetti emotivi e morali di questo istituto in modo un po’ più complesso di quanto appaiano quando riflettiamo sull’ingiustizia, sul razzismo o sulle giustificazioni correlate. Comprendere la moderna pena di morte – che, nonostante il proverbio francese, non significa perdonarla – richiede il tentativo di vedere il suo potere morale, la sua portata emotiva, la sua pretesa di fare giustizia. Dobbiamo sforzarci di vederla con gli occhi dei suoi sostenitori e non fissarci sulle sue ingiustizie e patologie. Dal punto di vista sociologico, spiegare una pratica vuol dire comprenderne il significato per gli attori coinvolti. Pertanto, la condanna e l’esecuzione di Danny Rolling sono stati presentati


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come un mezzo per agevolare la riflessione e non come una storia morale. Nella turbolenta vicenda di Rolling e nel suo scioglimento cogliamo un aspetto del peculiare istituto operante oggi in America, e in nessun’altra parte nel mondo occidentale. Il volume si propone di comprendere questo istituto e la società che lo sostiene.


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