Manuela Furnari
Paolo Conte
Prima
la musica
Redazione Livia Sorio Art Director FG Confalonieri Impaginazione Valentina Picco
www.saggiatore.it Š il Saggiatore S.P.A., Milano 2009 Referenze fotografiche: Inserto a colori: Gianni Vivoli p. 23 Daniela Zedda pp. 29, 213 Raffaella Cavalieri/Iguana Press Realizzazione grafica degli spartiti: Remo Cadringher La casa editrice, esperite le pratiche per acquisire i diritti di riproduzione delle immagini, rimane a disposizione di quanti avessero a vantare ragioni in proposito.
« …di un’orchestra eccitata e ninfomane.» «Il Maestro», 1990
«Psiche sa leggere, scrivere pallida lampada araba.» «Psiche», 2008
L’Azzurro nelle dita di Franco Fabbri
Q
uando nel 1976 Paolo Conte debuttò alla Rassegna della Canzone d’Autore organizzata dal Club Tenco al teatro Ariston di Sanremo, non ero presente. Ero stato lì l’anno
prima, nel luglio del 1975, e avrei incontrato Conte a Sanremo ai primi di settembre del 1978 (in quegli anni la Rassegna si svolgeva d’estate: solo in seguito – per ragioni più che altro logistiche, alberghiere – divenne un appuntamento autunnale): questa del ’78 sarebbe stata la seconda partecipazione, sia di Conte che degli Stormy Six. Non sono ricordi occasionali: associano Paolo Conte all’affermazione dell’idea (e anche dell’ideologia) della canzone d’autore, in un periodo cruciale; inoltre, attraverso le vicende non solo musicali degli Stormy Six, collegano Conte alla comparsa di alcuni dei primi saggi sulla popular music in Italia e in Europa, che lo videro come oggetto di studio. «Tra quaresima e carnevale. Pratiche e strategie della canzone d’autore», di Umberto Fiori, fu pubblicato sul numero 3 di Musica/Realtà, datato dicembre 1980 e probabilmente uscito a febbraio o marzo del 1981;1 nel giugno del 1981, alla conferenza di Amsterdam dove furono poste le premesse per la fondazione della International Association for the Study of Popular Music (Iaspm), presentai una relazione che si concludeva così: «È possibile che uno studio futuro della “canzone d’autore” mostrerà come norme quelle che oggi appaiono come caratteristiche individuali di questi due cantautori.»2 I due cantautori erano Paolo Conte ed Enzo Jannacci. Un altro ricordo personale di quelle prime edizioni della Rassegna del
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Tenco, solo apparentemente aneddotico, può aiutare a ricostruire il clima nel quale Paolo Conte fece il suo ingresso trionfale nel Pantheon della canzone d’autore. Nel 1975 gli Stormy Six avevano presentato il loro recentissimo album Un biglietto del tram (quello di «Stalingrado») in formazione incompleta: Umberto Fiori, autore e coautore di molte delle canzoni e voce principale nella registrazione delle medesime, era partito da un paio di mesi per il servizio militare. Toccò a me cantare anche quelle sul palcoscenico dell’Ariston. Questa può essere una delle parzialissime spiegazioni dell’incidente davvero spiacevole ma più che significativo che accadde tre anni dopo. Gli Stormy Six nell’estate del 1978 – quando ricevettero l’invito a partecipare alla quinta edizione della Rassegna sanremese – eseguivano dal vivo le canzoni del loro album L’apprendista, uscito l’anno prima, e già alcune cose del loro successivo lavoro discografico, come «Megafono»: all’epoca Umberto Fiori era diventato il cantante solista di tutto il nuovo repertorio e l’autore di tutti i testi. Eppure, quando arrivammo a Sanremo, i manifesti della Rassegna annunciavano: «Gli Stormy Six presentano L’apprendista di Franco Fabbri». Che la nostra amicizia e il gruppo stesso siano sopravvissuti a quei manifesti è una testimonianza del fatto che quelli erano proprio altri tempi. I responsabili del Club Tenco si giustificarono dicendo che erano in cartellone altre «opere rock» (quella di Tito Schipa jr., ad esempio) e a quelle il nostro spettacolo era stato assimilato. Ma L’apprendista non era un’opera rock, e non era un lavoro mio! L’episodio è perfettamente coerente con l’ideologia della canzone d’autore che si stava affermando, anche a prescindere dalle ottime intenzioni di chi aveva inventato il termine prendendolo a prestito dalla critica cinematografica (Enrico de Angelis, nelle sue rubriche omonime su L’Arena di Verona, a partire dal 1969) e da chi l’aveva ufficializzato nel nome della Rassegna. Per quanto quella definizione di autorialità provenisse da un mondo (quello del cinema, appunto) dove è scontata la dimensione collaborativa del lavoro artistico, e nonostante l’intenzione dichiarata di andare oltre il solito ambito dei cantautori – inglobando nell’idea di canzone d’autore qualsiasi prodotto «di qualità», indipendentemente dal processo individuale o collettivo della sua creazione – la comunità della canzone d’autore e il Club Ten-
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co avevano (e avrebbero avuto ancora per molto tempo) una seria difficoltà a incorporare a pieno titolo il lavoro di gruppo, il lavoro di un gruppo. Eppure, quelli erano anni (o meglio, mesi), in cui stavano venendo al pettine i nodi di una lunga discussione sulla qualità eminentemente musicale della produzione dei cantautori italiani, alcuni dei quali (soprattutto quelli emersi all’inizio degli anni settanta) erano accusati di sfruttare l’onda dei movimenti politici e di lucrare con spettacoli spartani, basati su voce e chitarra. Benché non fossero precisamente questi gli argomenti dell’orrendo «processo» a Francesco De Gregori al Palalido di Milano (il 2 aprile 1976: lì ero presente, testimone della violenza imbecille di personaggi che di lì a pochi anni sarebbero stati protagonisti della vita musicale e mondana della «Milano da bere»), l’immagine del cantautore di grande successo discografico che si presenta alla Festa de l’Unità con la sua chitarra – anzi, la «chitarrina» – e se ne va con il cospicuo incasso era molto discussa tra i musicisti militanti. E proprio tra il 1978 e il 1979 Fabrizio De André e la Pfm avrebbero offerto con la loro tournée una delle possibili soluzioni al problema: l’integrazione delle figure più note (e dei pubblici) di due dei generi dominanti dell’Italia di allora, la canzone d’autore e il progressive rock, sommandone la vocazione autoriale-letteraria e la ricchezza musicale. Ma, come ho appena detto, quella era una delle soluzioni, e di fatto rimase un’anomalia, legata al carattere del cantautore italiano più incline e abile al lavoro di gruppo, per quanto a condizione di esserne il leader indiscusso. È facile, invece, immaginare quale soluzione fosse destinata in quel clima a essere favorita nella comunità musicale della canzone d’autore. Era tale l’aspettativa, che la si può paragonare alla famosa profezia autoavverata formulata dal produttore di Elvis Presley: là si trattava di trovare un bianco che cantasse con la voce di un nero, qui di trovare un cantautore con una vena musicale che andasse oltre i «quattro accordi» rimproverati al chitarrismo primitivo della «nuova canzone italiana» dei primi anni settanta, un cantautore che fosse un «vero compositore». Di queste tipizzazioni ideali (in senso weberiano), di queste attese, la storia della musica offre esempi ricorrenti: dal «nuovo Beethoven» ai «nuovi Beatles». Nella popular music del nostro paese, più o meno contemporaneamente alle vicende che sto ricordando, fu quasi ossessivo il
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dibattito sul «rock italiano», che doveva esistere. Al punto che qualche tempo dopo descrissi quel fenomeno evocando il Cavaliere inesistente di Calvino, un’armatura vuota tenuta insieme dalla volontà del popolo che un simile guerriero senza macchia esistesse per davvero. Nel caso della canzone d’autore, questa creatura meravigliosa c’era, in carne e ossa, e si materializzò sul palcoscenico del Teatro Ariston di Sanremo nell’estate del 1976: Paolo Conte. Non fu una sorpresa. I primi due album non avevano avuto una grande circolazione, ma chiunque avesse allora qualche rapporto con quella che si cominciava a chiamare canzone d’autore non poteva non aver notato «La fisarmonica di Stradella», «La ricostruzione del Mocambo», «La Topolino amaranto» e le versioni dell’autore di «Onda su onda» e di «Genova per noi». E tutti sapevano, per lo meno, che Conte era l’autore di «Azzurro». Come ho detto, non ero lì nel 1976: ma nel 1978, quando gli album pubblicati erano ancora solo i primi due, vidi Conte entrare in scena non solo come uno di famiglia, ma già come quello che giornalisticamente si chiama «un mito». La cosa si ripeté l’anno dopo, accentuata dalla presenza di Roberto Benigni che – con le sue antenne ipersensibili – aveva colto benissimo l’aura che circondava l’avvocato di Asti. Tra le memorie del Tenco del 1979 ce ne sono due che spero rendano a chi mi legge quell’atmosfera: Benigni, Guccini e Amodei che si sfidano all’ottava rima in una trattoria dei colli, e di nuovo Benigni che mette insieme le suggestioni de «La donna d’inverno» con immagini voluttuose – accompagnate da gesti poco equivocabili – della moglie di Paolo Conte (davvero implacabile con le mogli, quel Benigni). Il bel lavoro che Manuela Furnari ha dedicato al Maestro (come le piace affettuosamente chiamarlo) offre molto materiale, efficacissimo, per comprendere le ragioni di fondo di quell’assunzione immediata, o quasi, nel Pantheon della canzone d’autore. Si tratta, sostanzialmente, di una questione di qualità, ed è proprio da un’analisi approfondita della scrittura musicale di Conte (termine appropriato, qui), e del rapporto fra musica e testo, che è possibile farla emergere. Non posso che concordare con l’autrice che la saggistica sulla popular music in generale, e sulla canzone d’autore in particolare, sia povera di analisi musicali, e abbia bisogno di accumulare molto lavoro in questa direzione.
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Non che queste analisi manchino del tutto, naturalmente, ma da quando nel 1998 scrissi in una recensione che «un libro su questi popolarissimi oggetti musicali, sonori, che li prenda in considerazione come tali, resta ancora da scrivere» (mi riferivo alle canzoni dei cantautori),3 la situazione non è molto cambiata: questo di Manuela Furnari, se non proprio il primo, è uno dei primi libri che corrispondano a quella descrizione. So bene, quindi, che in mancanza di molti precedenti corre un rischio: quello che le parti più tecniche risultino comprensibili solo a una minoranza. Ma va bene così: intanto perché l’intelligente divisione in sezioni (col richiamo alla mia «regola del pollice»4) e l’aiuto della grafica permettono di navigare nel testo saltando qua e là, senza l’obbligo di approfondire immediatamente le analisi più complesse; e poi perché fortunatamente lo studio della popular music – sotto le etichette più varie e buffe, per non scontentare i tradizionalisti – sta entrando nelle università e nei conservatori, e di libri come questo gli studenti avranno sempre più bisogno. Vorrei però aggiungere qualche riflessione complementare, che forse può aiutare il lettore a capire come e dove questo libro si inserisca negli studi sulla popular music, e quindi a dedurre quali sviluppi siano prevedibili, di quali altre ricerche ci sia bisogno. Manuela Furnari, in sostanza, dimostra con quanta abilità e con quanta cura Paolo Conte si dedichi alla stesura (alla scrittura!) delle musiche delle sue canzoni, stesura che senza il minimo dubbio precede e condiziona quella dei testi verbali; dimostra quanto l’attenzione di Conte si estenda dal minimo dettaglio compositivo (introduzioni, incisi, finali, simmetrie strutturali) all’orchestrazione/arrangiamento, all’esecuzione dal vivo e alla registrazione, inclusa la scelta dei collaboratori. In questo Conte è assimilabile al modello del compositore-demiurgo così ideologicamente presente nella storiografia «colta», anche se di fatto (per essere l’autore anche dei propri testi, e per il fatto di adattarli alla musica anziché viceversa) Conte assomiglia di più a Frank Zappa che a un operista o a un autore di Lieder dell’Ottocento. Il paragone con Wagner non sembra avere alcuna utilità; forse ne ha di più quello con Loewe. Ma è indiscutibile (anche questo l’autrice lo dimostra molto bene) che per creare le proprie canzoni Conte si serva di un armamentario in parte radicato nella tradizione eurocolta. Sotto alcuni aspetti, quindi,
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l’analisi musicale delle canzoni di Paolo Conte non richiede una competenza diversa da quella che viene richiesta agli studenti di composizione nei conservatori. Se si tiene presente la differenza – tutt’altro che trascurabile – per cui gli autori di Lieder per lo più musicavano il testo di un poeta, mentre Conte aggiunge delle parole a un materiale musicale sviluppato autonomamente dal testo, l’orecchio e l’occhio con cui si smonta un Lied di Schubert va bene anche per smontare una canzone di Conte. Andrebbe forse meglio, sarebbe più utile, avere un’esperienza di analisi sulle canzoni di Cole Porter, ma c’è qualcuno che fa analizzare le canzoni di Porter, nei conservatori? L’altra parte dell’armamentario di Conte, appunto, viene dagli standard e dal jazz. Non si deve pensare, però, a qualcosa di separato, scisso, e nemmeno a una contaminazione. In primo luogo, perché il linguaggio armonico del jazz (soprattutto del jazz che piace a Paolo Conte e ha avuto influenza su di lui) è comunque impregnato di elementi di origine eurocolta; e secondariamente (ma non in ordine di importanza) perché il terreno comune è la tastiera del pianoforte. Intendo proprio la tastiera, la manualità, il modo di condurre le parti, di aggiungere o sostituire note negli accordi, che secondo me costituisce la vera «teoria», una teoria incarnata (embodied),5 che sta alla base della musica di Paolo Conte. Ecco, qui si diparte una diramazione che varrebbe la pena di seguire: cioè, la ricerca del rapporto tra manualità e composizione, tra il modo in cui una tradizione musicale si incorpora (letteralmente) nelle dita, nelle mani, nelle braccia, nel corpo intero (pensiamo a uno strumento come la batteria) di un musicista. Me ne sono occupato anch’io, molto sommariamente, quando mi sono interessato al riff e al rock,6 ma sono certo che questo sia un tema che si estende alle più diverse culture musicali, compresa quella eurocolta: va anche in questa direzione il lavoro interessantissimo che Luca Chiantore sta portando a termine sugli esercizi tecnici, sugli appunti compositivi, sugli «schizzi» di Beethoven, in relazione alla sua tecnica improvvisativa e compositiva. Del resto, che le canzoni di Paolo Conte siano composte sul pianoforte è del tutto evidente, e non occorre nemmeno una competenza analitica per rendersene conto: non voglio spingermi a razionalizzare in modo così meccanico la transizione dalla «chitarrina» di alcuni can-
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tautori alla sensazione liberatoria che accompagnò la ricezione di Paolo Conte, seduto al pianoforte, al Tenco del 1976, ma credo di poter dire che questa dialettica sia stata all’opera in quello e in altri momenti della storia della popular music. A partire dal 1967, ad esempio, Paul McCartney e John Lennon iniziano a comporre al pianoforte: non si sente? Non fu percepito? E che funzione assumono, in generale, le tastiere da lì in poi, nella popular music angloamericana? Questi ragionamenti ci conducono all’ultima riflessione che vorrei offrire, prima di cedere formalmente la parola a Manuela Furnari. Le canzoni analizzate in questo libro, e molte altre dello stesso autore, sono davvero mirabili. Ma perché? E per chi? Insomma, c’è in loro un valore intrinseco, assoluto? È possibile, come si sarebbe tentati di pensare, misurarlo? Si può dire che tra le varie funzioni assolte da questi oggetti musicali, quella estetica sia presente in maggiore o in minor grado? E, in caso affermativo, si può sostenere che la musicologia può prendere in considerazione questi oggetti a condizione che la loro funzione estetica sia dominante, o perlomeno sviluppata? La risposta è no, a tutto, tranne che alle prime due domande. Non esiste una «temperatura estetica» assoluta, perché (in sostanza) il significato di questi oggetti o fatti musicali è creato in collaborazione con chi li ascolta. È il destinatario, con la sua competenza, con la sua storia individuale, a decidere se un messaggio «funziona» esteticamente. La storia dell’etnomusicologia offre numerosissimi esempi (anche basati su ricerche ed esperimenti ad hoc) che nessuna musica è universale, che anche le opere dei maggiori compositori europei il cui valore pare a molti europei (non a tutti!) «assoluto» risultano incomprensibili a chi sia cresciuto in un’altra cultura musicale. Gli antropologi ritengono di aver trovato alcuni universali della comunicazione, anche musicale, che comunque non sembrano avere nessuna relazione con le supposte basi dell’universalità della musica. Tra le molte conseguenze di queste constatazioni, che dovrebbero essere familiari a chiunque si occupi di studi musicali, una mi pare fondamentale per i popular music studies: non esiste nessun rapporto tra il valore estetico e la legittimazione allo studio, né in un verso né in quello opposto. Non è il valore estetico che legittima allo studio di una musica, non è il fatto che una musica venga studiata che la legittima esteticamente. Uno dei
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saggi musicologici più densi, innovativi e affascinanti che sia mai stato scritto (se mi è permesso dirlo, in assoluto!) aveva per argomento una canzone degli Abba, che nessun critico ha mai pensato di far entrare nel Walhalla della canzone d’autore: ed è noto che tra le varie ragioni per cui Philip Tagg scelse «Fernando» c’era anche quella di analizzare un grande successo internazionale che non fosse in odore di «qualità».7 E ormai, quando qualcuno mi chiede per quale ragione si debba studiare la popular music (domanda alla quale, se proprio si vuole, posso fornire una lunga serie di risposte molto varie e articolate) la mia risposta preferita è: «Perché no?». Detto questo, chiarito ogni equivoco valoriale, sono davvero molto contento che questo bellissimo studio di Manuela Furnari abbia come oggetto le canzoni di Paolo Conte. Perché sono le canzoni che hanno accompagnato la nostra vita negli ultimi quarant’anni, perché sono dannatamente ben riuscite e apprezzate da una vasta comunità internazionale (che va oltre quella della canzone d’autore, così pronta ad accoglierle fin dall’inizio), perché in tempi come questi il fatto che siano state scritte da un gentiluomo che sa di fallimenti, di ciclisti, di luoghi esotici e di donne d’inverno, è un valore in sé.
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