Progetto democrazia

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David Graeber

Progetto democrazia Un’idea, una crisi, un movimento Traduzione di Daniela Antongiovanni, Marina Beretta, Francesca Cosi e Alessandra Repossi


Dello stesso autore Debito. I primi 5000 anni

Questo è un libro di saggistica. Alcuni nomi e altri dettagli che avrebbero potuto consentire l’identificazione di cose e persone sono stati modificati.

Sito & eStore – www.ilSaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreEd Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore © David Graeber, 2013 © il Saggiatore S.r.l., Milano 2014


Progetto democrazia A mio padre



Sommario

Introduzione 9 1. L’inizio è vicino

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2. Perché ha funzionato?

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3. «La massa inizia a pensare e ragionare»: la storia occulta della democrazia 131 4. Il processo di cambiamento

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5. Rompere l’incantesimo

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Ringraziamenti 247 Note 249 Indice analitico 263



Introduzione

Il 26 aprile 2012, una trentina di attivisti di Occupy Wall Street (Ows) si sono radunati sui gradini della Federal Hall di New York, di fronte alla Borsa. Io ero con loro. Da oltre un mese stavamo cercando di ricreare un avamposto a Lower Manhattan per rimpiazzare il presidio di Zuccotti Park da cui eravamo stati sfrattati sei mesi prima. Sebbene non fossimo in grado di creare un nuovo presidio, speravamo almeno di trovare un posto dove poter tenere assemblee regolari, e allestire biblioteca e cucine. Il grande vantaggio di Zuccotti Park era il fatto di essere un luogo dove chiunque fosse interessato sapeva dove trovarci per essere aggiornato sulle azioni in programma o semplicemente per parlare di politica; adesso, la mancanza di un punto di ritrovo causava un’infinità di problemi. Tuttavia, le autorità cittadine avevano deciso che non avremmo mai avuto un altro Zuccotti Park: appena noi trovavamo un angolo dove avviare legalmente l’attività, loro cambiavano le leggi per farci sgomberare, ogni volta. Quando abbiamo provato a stabilirci in Union Square, le autorità cittadine hanno modificato i regolamenti del parco. Quando un gruppo di occupanti ha iniziato a dormire sui marciapiedi di Wall Street, confidando in una delibera che riconosceva esplicitamente il diritto dei cittadini di dormire nelle strade di New York come forma di protesta politica, le autorità hanno stabilito che quell’area di Lower Manhattan era una «zona speciale» non vincolata da quella legge. Alla fine ci siamo sistemati sui gradini della Federal Hall, un’ampia


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scalinata di marmo che conduce alla statua di George Washington posta a guardia dell’edificio nel quale 223 anni prima era stato firmata la Bill of Rights (la Carta dei diritti). Quegli scalini non rientravano nella giurisdizione cittadina, ma erano territorio federale amministrato dal National Park Service (il Servizio dei parchi nazionali), e, forse consapevoli che l’intera zona era considerata un monumento alle libertà civili, i funzionari della U.S. Park Police (la Polizia dei parchi) ci avevano concesso di occuparli, a patto che nessuno vi dormisse la notte. I gradini erano sufficientemente ampi da poter ospitare agevolmente circa duecento persone, più o meno il numero degli occupanti che si erano presentati all’inizio. Tuttavia, non ci è voluto molto perché le autorità cittadine convincessero gli agenti dei Parchi a cedere di fatto la giurisdizione: avevano piazzato transenne d’acciaio intorno al perimetro e ne avevano collocate altre a dividere i gradini in due parti distinte, presto ribattezzate da noi «gabbie della libertà». All’ingresso è stata posizionata una squadra della Swat, mentre un capitano di polizia in camicia bianca controllava accuratamente chiunque cercasse di entrare, informandolo che, per ragioni di sicurezza, alle gabbie non potevano accedere più di venti persone alla volta. Nonostante ciò, alcuni attivisti hanno perseverato, rimanendo sul posto a turno ventiquattrore su ventiquattro, organizzando teach-in di giorno, dando vita a dibattiti improvvisati con gli annoiati trader di Wall Street in pausa caffè e, di notte, facendo la guardia sui gradini di marmo. Quasi subito sono stati banditi i cartelli grandi; poi qualunque cosa fatta di cartone. Dopodiché sono iniziati gli arresti di persone scelte a caso. Il comandante della polizia voleva farci capire chiaramente che, anche se non poteva arrestarci tutti, poteva in ogni caso imprigionare chi volesse, per qualunque motivo, in ogni momento. Proprio quel giorno avevo visto un attivista ammanettato e portato via per «disturbo alla quiete pubblica» perché ripeteva i nostri slogan e un altro, un veterano della guerra in Iraq, incriminato per atti osceni in luogo pubblico: aveva detto parolacce mentre teneva un discorso. Forse è accaduto perché avevamo pubblicizzato l’evento come un «dibattito aperto». Sembrava che l’ufficiale al comando volesse chiarire un concetto: persino nel luogo in cui era nato il Primo emendamento, aveva comunque il potere di arrestarci solo per aver tenuto un discorso politico. La protesta era stata organizzata da un mio amico, Lopi, celebre perché partecipa alle manifestazioni a bordo di un triciclo gigante con un


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cartello colorato che porta la scritta jubilee!. Lopi aveva pubblicizzato l’evento chiamandolo «Dibattito sulle ingiustizie di Wall Street: assemblea pacifica sui gradini del Federal Hall Memorial Building, casa natale della Bill of Rights, oggi blindato dall’esercito dell’1%». Io non sono mai stato un grande agitatore. Per tutto il periodo in cui ho preso parte a Occupy, non ho mai tenuto un discorso, desideravo presenziare perlopiù in qualità di testimone, per fornire un sostegno morale e organizzativo. Durante la prima mezz’ora della protesta, mentre, uno dopo l’altro, gli occupanti si radunavano a ridosso delle transenne di fronte a una manciata di videocamere improvvisamente comparse sul marciapiede, per parlare di guerra, devastazioni ecologiche e corruzione del governo, io me ne sono rimasto ai margini, a parlare con i poliziotti. «E così fai parte di un squadra Swat» ho detto a un ragazzo dall’espressione torva di guardia all’ingresso alle gabbie con un grosso fucile d’assalto. «Scusa, ma che cosa significa esattamente Swat? “Special Weapons”…» «… and Tactics» mi ha risposto rapido, prima che riuscissi ad articolare il nome originario di quella unità, ovvero «Special Weapons Assault Team» (Squadra d’assalto dotata di armi speciali). «Capisco, ma mi chiedo: che tipo di armi speciali ritiene necessarie il vostro comandante per gestire trenta cittadini disarmati pacificamente radunati sui gradini di un edificio federale?» «È una misura precauzionale» mi ha risposto, un po’ a disagio. Avevo già declinato due inviti a prendere la parola, ma Lopi continuava a insistere, perciò alla fine mi sono reso conto che avrei fatto meglio a dire qualcosa, anche poche parole. Così ho preso posto di fronte alle telecamere, ho guardato George Washington che teneva lo sguardo fisso sul cielo sopra la Borsa di New York e ho improvvisato. «Mi colpisce essere riuniti proprio qui, oggi, sui gradini dell’edificio in cui è stato firmata la Bill of Rights. È strano: la maggior parte degli americani crede di vivere in un paese libero, di far parte della più grande democrazia del mondo. È convinta che siano i nostri diritti e le nostre libertà costituzionali, stabiliti dai Padri fondatori, a definirci come nazione, a renderci ciò che siamo veramente… persino a darci il diritto di invadere altri paesi più o meno a nostro piacimento, a sentire i nostri politici. Ma in realtà, sapete, gli uomini che hanno scritto la Costituzione non volevano


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affatto che vi fosse una Bill of Rights. Ecco perché è composto da emendamenti: non erano compresi nel documento originale. L’unica ragione per cui tutte quelle frasi roboanti sulla libertà di parola e sulla libertà di assemblea sono finite nella Costituzione è che ci sono stati antifederalisti come George Mason e Patrick Henry che, di fronte all’ultima bozza, si sono indignati al punto di mobilitarsi contro la sua ratifica, a meno che il testo non venisse cambiato… cambiato in modo da comprendere, tra le altre cose, il diritto di partecipare a mobilitazioni esattamente come la nostra. Ciò terrorizzò i federalisti, dato che, tanto per cominciare, un motivo che li aveva spinti a indire la Convenzione di Filadelfia era stato il desiderio di prevenire il rischio, da loro avvertito, che nascessero movimenti popolari ancor più radicali di quelli che da tempo richiedevano la democratizzazione della finanza e persino la cancellazione del debito. Le assemblee pubbliche di massa e l’esplosione del dibattito a cui avevano assistito durante la rivoluzione era l’ultima cosa che volevano. Fu per questo che alla fine James Madison stilò un elenco di oltre duecento proposte e le utilizzò per scrivere il testo di quello che noi chiamiamo Bill of Rights. «Il potere non cede mai qualcosa spontaneamente. Se oggi abbiamo libertà, non lo dobbiamo alle concessioni dei saggi Padri fondatori. Perché ci fossero riconosciute quelle libertà, ci sono volute persone come noi che hanno continuato a esercitarle, facendo esattamente quello che stiamo facendo qui. «La Dichiarazione di indipendenza o la Costituzione non dicono da nessuna parte che l’America è una democrazia. E c’è un motivo. Uomini come George Washington si opposero apertamente alla democrazia, cosa che rende strano trovarci sotto la sua statua, oggi. E lo stesso dicasi per Madison, Hamilton, Adams… Scrissero esplicitamente che stavano cercando di costruire un sistema che potesse annullare e tenere sotto controllo i pericoli della democrazia, anche se erano state le persone che volevano la democrazia a fare la rivoluzione che, tanto per cominciare, li aveva portati al potere. Oggi la maggior parte di noi è qui perché ritiene ancora di non vivere in un sistema democratico, in nessuna delle accezioni pregnanti del termine. Voglio dire, guardatevi intorno. Quella squadra della Swat laggiù dice tutto quello che avete bisogno di sapere. Il nostro governo è diventato poco più di un sistema di corruzione istituzionalizzata e si rischia di essere trascinati in prigione solo per averlo detto. For-


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se oggi, nella maggior parte dei casi, ci possono tenere dentro solo per un giorno o due alla volta, ma state certi che stanno facendo del loro meglio per cambiare questa regola. In ogni caso, se non pensassero che abbiamo ragione, non ci arresterebbero di certo. Non c’è niente che spaventi di più i governanti americani della prospettiva che prorompa la democrazia. Che ci sia davvero questa prospettiva e che possano esistere gli eredi di coloro che scesero in strada per pretendere una Bill of Rights; be’, dipende solo da noi.» Prima che Lopi mi spingesse sul palco non avevo davvero pensato a Occupy Wall Street come a un movimento radicato in qualche grande tradizione della storia degli Stati Uniti. Ero più interessato a rintracciare le sue radici nell’anarchismo, nel femminismo o persino nel Global Justice Movement. Ma, con il senno di poi, penso che quello che ho detto fosse vero. C’è qualcosa di stranamente incoerente nel modo in cui negli Stati Uniti ci insegnano a pensare alla democrazia. Da un lato, ci viene costantemente ripetuto che democrazia significa solo eleggere i politici che ci governano, dall’altro sappiamo bene che tanti americani amano la democrazia, odiano i politici e sono scettici nei confronti dell’idea stessa di un governo centrale. Come possono queste cose essere tutte vere contemporaneamente? Quando gli americani sposano la democrazia pensano a qualcosa di molto più ampio e profondo della mera partecipazione alle elezioni (anche se comunque metà di loro non si fa problemi a disertarle); deve essere una specie di combinazione tra l’ideale di libertà individuale e la convinzione, finora irrealizzata, che essere liberi significa potersi mettere a un tavolo da adulti assennati e gestire i propri affari da sé. Se così fosse, non sorprende certo che coloro che attualmente governano l’America temano tanto i movimenti democratici: portata alle sue estreme conclusioni, la spinta democratica può solo finire col renderli totalmente inutili. Qualcuno potrebbe obiettare che, anche se ciò fosse vero, molti americani sarebbero senz’altro recalcitranti di fronte alla semplice idea di portare fino in fondo la spinta democratica. E non avrebbero torto. La maggioranza degli americani non è anarchica. Per quanto le persone possano dichiarare di non approvare il governo o in molti casi l’idea stessa di stato, sarebbero davvero pochi quelli che ne sosterrebbero lo smantellamento, soprattutto perché non saprebbero come rimpiazzarlo. La verità


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è che, sin dalla tenera età, gli americani si sono abituati ad avere orizzonti politici estremamente limitati e una percezione molto ristretta delle possibilità umane. Per molti di loro, la democrazia è sostanzialmente un ideale astratto, non qualcosa che abbiano mai esercitato o di cui abbiano fatto esperienza. Ecco perché così tante persone, quando hanno iniziato a partecipare alle Assemblee Generali e alle altre forme di attività decisionali «orizzontali» di Occupy, hanno avuto la sensazione che si fosse trasformato radicalmente ciò che ritenevano possibile in politica. E io mi ero sentito esattamente come loro nel 2000, quando per la prima volta a New York avevo preso parte al Direct Action Network, la confederazione di gruppi anarchici nata nel 1999 per protestare contro il Wto a Seattle. Quindi, questo libro non tratta soltanto di Occupy, ma anche della possibilità di realizzare una democrazia in America. Ancora meglio, è un libro sullo sviluppo dell’immaginazione rivoluzionaria innescato da Occupy. Basterebbe paragonare l’euforia diffusa che ha salutato i primissimi mesi di vita del movimento con l’atmosfera che si è creata durante le elezioni presidenziali un anno dopo. Nell’autunno 2012 si sono visti scendere in campo due candidati: il presidente in carica da cui i sostenitori del Partito democratico si sentivano completamente traditi e un rivale imposto dal mero potere dei soldi ai sostenitori repubblicani, che avevano fatto chiaramente capire che avrebbero preferito più o meno chiunque altro. I due candidati hanno poi speso gran parte delle loro energie a corteggiare miliardari, come si è potuto verificare sulle tv. Gli elettori sapevano benissimo che, se non facevano parte di quel 25% circa di americani che vivono nei swing states (o «stati in bilico», che oscillano tra democratici o repubblicani) i loro voti non avrebbero fatto la minima differenza. E anche nel caso di coloro i cui voti invece contavano, si dava per scontato che la loro scelta cadesse su una fazione che comunque avrebbe dovuto procedere al taglio delle pensioni, dell’assicurazione sanitaria Medicare e delle indennità della Social Security, dal momento che erano in vista sacrifici e la legge del potere è che non si prenda neppure in considerazione che i sacrifici possano essere sostenuti dai ricchi. In un articolo apparso su Esquire nell’ottobre 2012, Charles Pierce ha sottolineato che le apparizioni televisive degli opinionisti, in questa tornata elettorale, spesso sono parse poco più che celebrazioni sadomasochi-


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stiche dell’impotenza popolare, simili a quei reality in cui ci piace vedere i prepotenti che tiranneggiano i propri accoliti: Abbiamo permesso a noi stessi di impantanarci nelle consuetudini dell’oligarchia, come se non fosse possibile nessun altro tipo di politica, persino in una repubblica che si presume si autogoverni, e la rassegnazione è una delle consuetudini più ovvie. Ci siamo abituati a essere usati dai politici, invece di insistere per avere noi il comando su loro. Le star televisive ci dicono che i leader politici hanno intenzione di firmare i tagli previsti nel Grande patto (bozza di accordo tra Obama e i leader del Congresso sulla riduzione della spesa e del debito pubblico) e che poi «noi» li applaudiremo per aver fatto le «scelte difficili» per nostro conto. È così che si inculcano le consuetudini dell’oligarchia in una collettività politica. Primo, distogliendo le persone dall’idea che il governo sia l’espressione ultima di quella collettività, poi eliminando o indebolendo ogni centro di potere che sia indipendente dall’influenza asfissiante dell’oligarchia, come per esempio le organizzazioni sindacali, e infine facendo capire chiaramente chi è che comanda: il capo sono io, fatevene una ragione.1

Questo è esattamente il tipo di politica che rimane quando sfuma il concetto stesso della possibilità della democrazia, ma si tratta di un fenomeno passeggero. Faremmo bene a ricordare che gli stessi identici discorsi si sono tenuti nell’estate del 2011, quando la classe politica non parlava che di crisi e «tetto del debito», e del «Grande patto» (che consisteva nell’apportare ulteriori tagli a Medicare e alla Social Security) che ne sarebbe inevitabilmente conseguito. Poi, a settembre, è arrivato Occupy con centinaia di forum politici autentici in cui ogni americano ha potuto parlare dei suoi problemi e delle sue preoccupazioni reali… e tutto quel discorso è andato a gambe all’aria, e non perché gli occupanti abbiano presentato ai politici richieste e proposte specifiche, ma perché i membri del movimento avevano provocato una crisi di legittimità all’interno del sistema fornendo un assaggio di come avrebbe potuto essere una vera democrazia. Naturalmente, quegli stessi opinionisti hanno dichiarato che Occupy era morto a partire dagli sgomberi del novembre 2011. Quello che non hanno capito è che quando gli orizzonti politici delle persone si allargano, il cambiamento diventa permanente. Adesso centinaia di migliaia di ame-


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ricani (e non solo di americani, ovviamente, ma anche di greci, spagnoli e tunisini) hanno fatto un’esperienza diretta di autorganizzazione, azione collettiva e solidarietà. Per loro è praticamente impossibile tornare alla vita di prima e vedere le cose nello stesso modo. Mentre le élite finanziarie e politiche del mondo scivolano alla cieca verso la prossima crisi di proporzioni simili a quella del 2008, noi continuiamo a portare avanti l’occupazione (temporanea o permanente) di edifici, fabbriche, case pignorate e uffici, a organizzare scioperi di massa degli affittuari, seminari e assemblee dei debitori, e così facendo poniamo le basi di una cultura autenticamente democratica, nonché di competenze, consuetudini ed esperienze che faranno nascere un concetto totalmente nuovo di politica. Contestualmente si è verificata anche la rinascita dell’immaginazione rivoluzionaria che il buonsenso convenzionale aveva da tempo dichiarato morta. Tutte le persone coinvolte ammettono che creare una cultura democratica richiede necessariamente un orizzonte temporale lungo: dopotutto stiamo parlando di una profonda trasformazione morale. Ma siamo anche consapevoli che tali cose sono già accadute in passato. Negli Stati Uniti si sono avuti movimenti sociali che hanno generato profondi cambiamenti morali – i primi che vengono alla mente sono l’abolizionismo e il femminismo – ma i tempi sono stati lunghi. Al pari di Occupy, anche questi movimenti hanno agito in gran parte al di fuori del sistema politico convenzionale, utilizzando la disobbedienza civile e l’azione diretta, senza pensare di raggiungere gli obiettivi in un solo anno. Ovviamente, ci sono stati tantissimi altri movimenti che hanno cercato di dare il via a trasformazioni etiche altrettanto profonde e che hanno fallito. Eppure, vi sono ottime ragioni per credere che nella natura stessa della società americana stiano avvenendo svolte fondamentali – le stesse che hanno permesso a Occupy di decollare così in fretta – che fanno ben sperare in una rinascita del progetto democratico sul lungo periodo. La tesi sociale che sosterrò è piuttosto semplice. Quella che viene chiamata la Grande Recessione ha semplicemente accelerato una profonda trasformazione delle classi sociali americane in corso da decenni. Considerate queste due statistiche: mentre scrivo, un americano su sette è perseguitato da un’agenzia di recupero crediti; intanto, un recente sondaggio ha rivelato che per la prima volta solo una minoranza di america-


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ni (il 45%) si definisce «membro della classe media». È difficile credere che questi due fatti non siano collegati. Ultimamente abbiamo assistito a numerosi dibattiti sull’erosione della classe media americana, che però in genere tralasciano il fatto che negli Stati Uniti la «classe media» non è mai stata in primis una categoria economica. È sempre stata associata alla stabilità e sicurezza che deriva dal poter dare per scontato che, indipendentemente da ciò che pensiamo dei politici, le istituzioni della nostra quotidianità, come la polizia, il sistema scolastico, gli ospedali e le cliniche e persino gli istituti di credito sono di fatto dalla nostra parte. Se è così, è difficile credere che chi si vede pignorare la casa da «funzionari seriali» (robo-signers)2 possa sentirsi un membro della classe media; e questo è vero a prescindere dallo scaglione di reddito o dal grado di istruzione raggiunto. La sensazione sempre più forte che le strutture istituzionali che circondano gli americani in realtà non siano lì per aiutarli (anzi, che siano addirittura oscure forze nemiche) è una diretta conseguenza della finanziarizzazione del capitalismo. Ora, questa potrebbe sembrare un’affermazione alquanto strana, perché siamo abituati a pensare alla finanza come a qualcosa di molto lontano da simili preoccupazioni quotidiane. Molte persone sanno benissimo che gran parte degli utili di Wall Street non deriva più dai frutti dell’industria o del commercio, ma dalla pura e semplice speculazione e dalla creazione di complicati strumenti finanziari. Tuttavia, la critica che in genere viene mossa è che si tratta semplicemente di speculazioni o di elaborati trucchetti che creano la ricchezza limitandosi a dire che esiste. In realtà, la finanziarizzazione implica la collusione tra governo e istituzioni finanziarie mirata a garantire che una percentuale sempre maggiore di cittadini finisca sempre più indebitata. Ciò si verifica a ogni livello. In professioni quali quelle farmaceutiche e infermieristiche vengono introdotte, tra i requisiti, nuove qualifiche accademiche che costringono chiunque voglia lavorare in quei settori a sottoscrivere prestiti studenteschi finanziati dal governo, facendo sì che una parte significativa dei loro stipendi futuri finisca direttamente alle banche. La collusione tra i consulenti finanziari di Wall Street e le forze politiche locali ha portato sull’orlo della bancarotta le amministrazioni comunali, dopodiché la polizia locale riceve l’ordine di applicare in modo sempre più restrittivo i regolamenti relativi a giardini, rifiuti e manutenzione a scapito dei pro-


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prietari di case, in modo che il flusso di cassa che deriva dalle multe vada ad aumentare le entrate necessarie per ripagare le banche. In ogni caso, una percentuale degli utili che ne derivano viene nuovamente riversata sui politici attraverso lobbisti e lobby ufficiali di Washington. Se quasi tutte le funzioni del governo locale diventano meccanismi di prelievo finanziario e il governo federale dichiara di considerare come scopo fondamentale mantenere alte le quotazioni azionarie e far sì che un flusso costante di denaro vada a chi possiede strumenti finanziari (per non parlare del fatto di garantire che i principali istituti finanziari non possano mai fallire, indipendentemente da quello che fanno), si fa sempre meno chiara la distinzione tra potere finanziario e potere dello stato. Ovviamente, questo è proprio ciò che volevamo denunciare quando abbiamo coniato lo slogan «Siamo il 99%». In questo modo, abbiamo fatto una cosa senza precedenti. Siamo riusciti a riportare al centro del dibattito politico americano non solo il tema della classe sociale, ma anche quello del potere di classe. Credo che sia stato possibile solo grazie ai cambiamenti graduali che si sono verificati nella natura del sistema economico (a Occupy Wall Street lo chiamiamo sempre più spesso «capitalismo mafioso») e che rendono impossibile immaginare che il governo americano possa avere qualcosa a che fare con il volere del popolo o persino con il consenso popolare. Di questi tempi, qualunque risveglio della spinta democratica può essere solo un impulso rivoluzionario.


1. L’inizio è vicino

Nel marzo 2011, Micah White, direttore della rivista canadese Adbusters, mi ha chiesto un pezzo sulla possibilità che in Europa o in America sorgesse un movimento rivoluzionario. All’epoca, la cosa migliore che mi venne in mente di dire era che quando nasce un movimento davvero rivoluzionario, tutti, organizzatori compresi, vengono colti di sorpresa. Poco prima, al culmine della rivolta di piazza Tahrir, avevo parlato a lungo con un’anarchica egiziana di nome Dina Makram-Ebeid e quel colloquio era diventato l’incipit dell’articolo. «La cosa buffa» aveva detto l’amica egiziana, «è che fai questa cosa da così tanto tempo che arrivi a dimenticare di poter vincere. In tutti questi anni abbiamo organizzato cortei, manifestazioni… e se si fanno vive solo 45 persone ti deprimi. Se ne vedi 300 sei felice. Poi, un giorno, ne vedi arrivare 500 000. E non ci credi: da qualche parte dentro di te hai smesso di pensare che una cosa del genere potesse accadere.» L’Egitto di Hosni Mubarak è stato uno dei paesi più oppressivi che siano mai esistiti: l’intero apparato statale era strutturato in modo da evitare che si verificasse ciò che alla fine è accaduto. Eppure è andata proprio così. Perché non può succedere anche da noi? A essere sincero, gran parte degli attivisti che conosco se ne va in giro provando le stesse sensazioni di Dina: basiamo la nostra vita sulla possibilità che qualcosa accada, senza però crederci davvero. E poi a un tratto accade. Naturalmente, nel nostro caso non si è trattato della caduta di una dit-


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tatura militare, ma dell’esplosione di un movimento di massa basato sulla democrazia diretta, a suo modo un risultato tanto a lungo sognato dagli organizzatori quanto a lungo temuto da coloro che detengono il potere supremo nel paese e altrettanto incerto, per quanto riguarda l’esito, di quanto lo era stato il rovesciamento di Mubarak. La storia di questo movimento è stata già raccontata da innumerevoli testate, dall’Occupy Wall Street Journal al Wall Street Journal, quello vero, con motivazioni, punti di vista, protagonisti e livelli di accuratezza variabili. Spesso il mio ruolo è stato sopravvalutato. Ero ben lungi dall’essere il «cervello»; in realtà, ero un «ponte». Ma lo scopo di questo capitolo non è tanto correggere il dato storico, o addirittura scrivere una storia del movimento, bensì raccontare il mio coinvolgimento nella genesi di Occupy Wall Street, per far capire che cosa voglia dire vivere al centro di una simile convergenza storica. La nostra cultura politica e persino la vita quotidiana ci danno l’impressione che tali eventi siano semplicemente impossibili (in realtà c’è ragione di credere che la nostra cultura politica sia destinata a tale scopo). Il risultato ha un effetto paralizzante sulla nostra immaginazione. Anche quelli che, come me o Dina, hanno investito la propria vita, molte fantasie e aspirazioni, per tradurre tali visioni in realtà, sono rimasti sbalorditi quando questo ha effettivamente cominciato a verificarsi. Il che spiega perché sia cruciale iniziare a sottolineare che simili movimenti sono esistiti, esistono e di certo esisteranno. Chi ha vissuto tali eventi dall’interno ha imparato a spalancare gli orizzonti e a domandarsi quali altre cose che crediamo irrealizzabili siano invece possibili. Queste persone ci inducono a riconsiderare tutto ciò che pensavamo di sapere sul passato. Ecco perché quelli che sono al potere fanno del loro meglio per reprimere tali guizzi di immaginazione e trattarli come anomalie peculiari, evitando di riconoscerli come i momenti che hanno dato origine a ogni cosa, compreso il loro stesso potere. Perciò raccontare la storia di Occupy è importante, anche se lo fa un solo protagonista e dal proprio punto di vista; le mie parole acquistano significato solo alla luce del senso di apertura offerto da questa storia. Quando ho scritto il pezzo per Adbusters – i redattori lo hanno intitolato «Awaiting the Magic Spark» (In attesa della scintilla magica) – vivevo a Londra e insegnavo antropologia alla Goldsmiths, ed ero nel mio quarto anno di esilio dal mondo accademico statunitense. In quel perio-


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do ero stato piuttosto preso dal movimento studentesco inglese, ero andato in molte università occupate nel paese, dove si protestava contro il violento attacco sferrato dal governo conservatore al sistema di istruzione pubblica britannico, e avevo partecipato all’organizzazione e alle manifestazioni in strada. Adbusters mi ha espressamente commissionato un articolo in cui riflettere sulla possibilità che il movimento studentesco potesse segnare l’inizio di una ribellione più ampia, che interessasse l’Europa o addirittura il mondo intero. Ero un lettore di Adbusters da molto tempo, ma ne ero diventato un sostenitore solo da poco. Ero più un tipo da manifestazione che un teorico sociale. D’altra parte, Adbusters era una rivista che si rivolgeva ai «sabotatori culturali»: era stata creata da alcuni pubblicitari ribelli che detestavano il loro settore e avevano dunque deciso di unirsi al fronte opposto, utilizzando le loro capacità professionali per sovvertire il mondo delle corporation, che avevano imparato a promuovere. Erano diventati celebri soprattutto per aver creato subvertisements di taglio professionale – per esempio, pubblicità di «moda» con modelle bulimiche che vomitavano nei gabinetti – che poi cercavano di piazzare sulle testate più diffuse o sulle reti televisive – tentativo che veniva sistematicamente respinto. Fra tutte le riviste di protesta, Adbusters era di gran lunga la più bella, ma molti anarchici ritenevano il suo approccio elegante e sarcastico poco incisivo. Ho cominciato a scrivere per loro quando Micah White mi ha commissionato un articolo nel 2008. Durante l’estate del 2011 mi ha trasformato in una specie di corrispondente dal Regno Unito. Questo progetto è sfumato quando sono dovuto tornare in America per un congedo di un anno. Sono arrivato nella mia città, New York, nel luglio 2011, aspettandomi di passare gran parte dell’estate in giro a rilasciare interviste per Debito. I primi 5000 anni, da poco uscito. Volevo anche reinserirmi nel mondo dell’attivismo newyorchese, sebbene con qualche esitazione: avevo la netta impressione che quell’ambiente si trovasse nel caos. Mi ero gettato a capofitto nell’attivismo newyorchese per la prima volta tra il 2000 e il 2003, al culmine del Global Justice Movement. Questa rete di movimenti, avviata al tempo della rivolta zapatista del 1994 nel Chiapas, in Messico, e giunta negli Stati Uniti grazie alle azioni di massa che avevano messo fine agli incontri della World Trade Organization (Wto, Organizzazione mondiale


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del commercio) a Seattle nel 1999, era stata l’ultima occasione in cui i miei amici si erano resi conto che forse stava prendendo forma un’iniziativa rivoluzionaria globale. Erano giorni esaltanti. Subito dopo Seattle, pareva che tutti i giorni ci fosse qualcosa: una protesta, un’azione, un’iniziativa del tipo «Riprendiamoci le strade» o una festa nella metropolitana e migliaia di incontri di pianificazione. Ma le ramificazioni dell’11 settembre hanno inferto un colpo durissimo agli attivisti, anche se hanno impiegato qualche anno per manifestare il loro pieno effetto. La violenza arbitraria che la polizia era disposta a impiegare è aumentata in modo inimmaginabile; per esempio, quando nel 2009 un gruppetto di studenti disarmati ha occupato il tetto della New School a Manhattan durante una protesta, pare che il Dipartimento di polizia di New York abbia inviato quattro squadre antiterrorismo, tra cui alcuni commando che si calavano dagli elicotteri, equipaggiati con bizzarre armi fantascientifiche.1 E la portata delle manifestazioni svoltesi a New York contro la guerra e la convention repubblicana ha paradossalmente indebolito il movimento di protesta: i gruppi «orizzontali» di impianto anarchico, animati dai principi della democrazia diretta, alla lunga sono stati rimpiazzati da ampie coalizioni pacifiste dotate di organizzazione gerarchica, per le quali l’azione politica consisteva più che altro nel marciare in cerchio imbracciando cartelli. Nel frattempo, l’ambiente anarchico newyorchese, che aveva costituito il fulcro del Global Justice Movement, era devastato da interminabili dissidi e si limitava a organizzare una fiera annuale del libro.

Il Movimento 6 aprile Nel 2011, prima di tornare all’attivismo a tempo pieno, avevo già cominciato a reinserirmi nella scena newyorchese nella pausa primaverile di fine aprile, che avevo trascorso a New York. La mia amica di vecchia data Priya Reddy, un tempo tree sitter (vivevasulla cima di alberi che stavano per essere abbattuti) e veterana ecoattivista, mi aveva invitato a un incontro con due fondatori del Movimento giovanile egiziano 6 aprile che avrebbero parlato al Brecht Forum, un centro di cultura rivoluzionaria che spesso offriva uno spazio gratuito per gli eventi.


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Era una notizia entusiasmante, dato che il 6 aprile aveva svolto un ruolo fondamentale nella rivoluzione recentemente scoppiata in Egitto. I due egiziani, che si trovavano a New York per promuovere il loro libro, avevano solo poche ore libere e avevano deciso di sottrarsi ai loro addetti stampa e di incontrare altri attivisti. Avevano chiamato Marisa Holmes, regista anarchica e rivoluzionaria che stava lavorando a un documentario sulla rivoluzione egiziana: a quanto pareva era l’unica attivista newyorchese di cui avevano il numero. Marisa era riuscita a organizzare l’evento al Brecht Forum con un solo giorno di preavviso. Eravamo in venti seduti a un grande tavolo della biblioteca del Brecht Forum ad ascoltare i due egiziani. Uno di loro, Ahmed Maher, giovane, calvo e piuttosto silenzioso, soprattutto per via del suo inglese incerto, era il fondatore del gruppo. L’altro, Waleed Rashed, era grosso, rubicondo, eloquente e spiritoso: l’avevo inquadrato come oratore, più che come stratega. Insieme hanno raccontato le tante volte che erano stati arrestati e tutti i piccoli stratagemmi che avevano messo in atto per abbindolare la polizia segreta. «Abbiamo sfruttato tantissimo i tassisti, a loro insaputa. Vedete, in Egitto esiste una tradizione: i tassisti devono parlare continuamente. Non possono fare altrimenti. Si dice che una volta un uomo d’affari prese un taxi per fare un tragitto lungo e dopo mezz’ora, stufo del cicaleccio continuo dell’autista, gli chiese di stare zitto. Il tassista fermò il taxi e lo fece scendere. “Come si permette? Questo è il mio taxi! Ho il diritto di parlare quanto voglio!” Così un giorno, sapendo che la polizia avrebbe interrotto il nostro raduno, abbiamo annunciato su Facebook che ci saremmo incontrati tutti in piazza Tahrir alle 15. Naturalmente, sapevamo benissimo di essere tenuti d’occhio. Perciò quel giorno, ognuno di noi si è curato di prendere un taxi più o meno alle 9 del mattino e di dire all’autista: “Sa, ho sentito che ci sarà un grande raduno in piazza Tahrir oggi pomeriggio alle 14”. Nel giro di un paio d’ore, al Cairo lo sapevano tutti. Abbiamo registrato un’affluenza di decine di migliaia di persone, prima che la polizia si facesse viva.» A questo punto era chiaro che il 6 aprile non era affatto un gruppo radicale. Rashed, per esempio, era impiegato di banca. Per loro natura, questi due rappresentanti del movimento erano i classici progressisti, persone che, se fossero nate in America, avrebbero sostenuto Barack Obama. Tuttavia, quella volta avevano eluso la sorveglianza degli addetti stampa per


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parlare davanti a un gruppo eterogeneo di anarchici e marxisti che, come si erano resi conto, costituivano la loro controparte americana. «Quando hanno cominciato a lanciare gas lacrimogeni direttamente sulla folla, abbiamo preso in mano le bombolette e abbiamo notato una cosa» ci ha detto Rashed. «Su tutte era scritto “Made in Usa”. Ed era americana, come abbiamo scoperto in seguito, anche l’attrezzatura usata per torturarci in prigione. Cose del genere non si dimenticano.» Dopo il discorso ufficiale, Maher e Rashed hanno chiesto di vedere il fiume Hudson, che si trovava al di là dell’autostrada, perciò con sei o sette intrepidi si sono lanciati nel traffico della West Side Highway e hanno raggiunto il molo deserto. Ho utilizzato una chiavetta usb che avevo portato con me per copiare i video che Rashed voleva consegnarci, alcuni dei quali egiziani, altri, curiosamente, prodotti dal gruppo studentesco serbo Otpor!, che aveva svolto il ruolo forse più importante nell’organizzazione delle proteste di massa e di varie forme di resistenza nonviolenta che avevano rovesciato il regime di Slobodan Milošević alla fine del 2000. Il Movimento 6 aprile si era fortemente ispirato al gruppo serbo, ha spiegato Rashed: i fondatori del gruppo egiziano non si erano limitati a rimanere in contatto con i veterani di Otpor!, ma in molti erano andati a Belgrado, agli albori del progetto, per assistere a seminari sulle tecniche di resistenza nonviolenta. Il Movimento 6 aprile ha perfino adottato una variante del logo di Otpor! con il pugno alzato. «Ti rendi conto» gli ho detto, «che il gruppo Otpor! era stato fondato dalla Cia?» Lui ha alzato le spalle. A quanto pareva non gli interessava affatto l’origine del gruppo serbo. Tuttavia, la nascita di Otpor! era ancora più complicata. Alcuni di noi si sono affrettati a spiegare che in effetti le tattiche di Otpor! e di molti altri gruppi dell’avanguardia delle rivoluzioni colorate impiegate nel primo decennio del 2000 con l’aiuto della Cia – dal vecchio impero sovietico giù fino ai Balcani – erano le stesse che l’agenzia aveva imparato studiando il Global Justice Movement e comprendevano anche quelle utilizzate da alcuni attivisti riuniti sull’Hudson proprio quella sera. Spesso noi attivisti non sappiamo che cosa pensi davvero l’altra fazione. Non possiamo neanche sapere fino in fondo da chi sia esattamente composta: chi ci stia tenendo sotto controllo, chi abbia coordinato le misure di si-


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curezza internazionale contro di noi (ammesso che ci sia qualcuno). Ma non si può fare a meno di chiederselo. Intorno al 1999, più o meno all’epoca in cui aveva iniziato a mobilitarsi una rete globale indipendente di collettivi contro l’autoritarismo per interrompere i summit, da Praga a Cancún, utilizzando tecniche molto efficaci di democrazia diretta decentralizzata e di disobbedienza civile nonviolenta, certi elementi dell’apparato di sicurezza statunitense avevano non solo iniziato a studiare il fenomeno, ma anche cercato di capire se avrebbero potuto incoraggiare loro stessi tali movimenti. Un voltafaccia non privo di precedenti: negli anni ottanta la Cia aveva fatto qualcosa del genere, studiando la controrivoluzione degli anni sessanta e settanta per capire come agivano le truppe dei guerriglieri, allo scopo di organizzare insurrezioni come quella dei Contras in Nicaragua. Stava accadendo nuovamente qualcosa del genere. I soldi del governo cominciarono a riversarsi nelle casse delle fondazioni internazionali che promuovevano tattiche nonviolente, mentre gli addestratori americani – tra cui alcuni veterani del movimento contro il nucleare degli anni settanta – contribuivano a organizzare gruppi simili a Otpor!. È importante non preoccuparsi troppo per questo genere di tentativi. La Cia non può costruire un movimento dal nulla. I suoi sforzi si sono rivelati efficaci in Serbia e in Georgia, ma sono completamente falliti in Venezuela. Tuttavia, il vero paradosso storico è che sono state proprio le tecniche lanciate dal Global Justice Movement e poi trasmesse con successo in tutto il mondo dalla Cia ai vari gruppi supportati dagli Stati Uniti a ispirare a loro volta movimenti che hanno rovesciato gli stati satellite dell’America. Il fatto che, una volta scatenate nel mondo, le tattiche di azione democratica diretta diventino incontrollabili è una dimostrazione del loro potere.

Us Uncut/Uk Uncut Per me, la cosa più concreta che è venuta fuori da quella serata con Maher e Rashed è stato l’incontro con Marisa. Cinque anni prima, era stata una delle studentesse attiviste che avevano fatto il brillante tentativo (anche se in definitiva di breve durata) di ricreare il movimento degli anni sessanta «Students for a Democratic Society» (Sds, Studenti per una società democratica). Gran parte degli attivisti newyorchesi chiamava i coordina-


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tori chiave ancora «quei ragazzi dell’Sds», ma se a quel punto molti di loro si ritrovavano a lavorare da cinquanta a sessanta ore alla settimana per ripagare il debito studentesco, Marisa, che aveva fatto parte di una cellula dell’Sds in Ohio e si era trasferita in città solo di recente, era ancora molto attiva: di fatto, pareva avere le mani in pasta in quasi tutte le cose importanti che accadevano sulla scena dell’attivismo newyorchese. Marisa è una di quelle persone che in genere tendiamo a sottovalutare: minuta, dimessa, con la tendenza a farsi piccola e scomparire durante gli eventi pubblici. Tuttavia, è una delle attiviste più dotate che abbia mai incontrato. Come avrei avuto modo di scoprire, possedeva la capacità quasi prodigiosa di valutare all’istante una situazione e di capire che cosa stesse succedendo, che cosa fosse importante e che cosa andasse fatto. Quando la piccola riunione sull’Hudson si sciolse, Marisa mi parlò di un incontro che si sarebbe tenuto il giorno seguente a EarthMatters, nell’East Village, con un nuovo gruppo con il quale stava collaborando, Us Uncut. Mi spiegò che si erano ispirati al raggruppamento britannico Uk Uncut, creato per coordinare le azioni di disobbedienza civile di massa contro i piani di austerity del governo Tory nel 2010. Marisa mi disse subito che il gruppo era formato in gran parte da progressisti, non c’erano molti anarchici, ma in un certo senso questo era l’aspetto più interessante: la sezione newyorchese era formata da persone con retroterra molto diversi, «gente vera, non attivisti puri», tra cui casalinghe di mezza età e postini. «Ma sono davvero tutti entusiasti all’idea di fare un po’ di azione diretta.» L’ipotesi aveva un certo fascino. Non avevo lavorato con Uk Uncut quando stavo a Londra, ma li avevo incrociati. La strategia di Uk Uncut era semplice e geniale. Uno scandalo legato al pacchetto di austerity del governo conservatore del 2010 era che, mentre si strombazzava la necessità di triplicare le rette studentesche, chiudere i centri giovanili e tagliare i sussidi a pensionati e disabili per compensare quello che veniva definito un «rovinoso deficit di bilancio», non si pensava nemmeno lontanamente a reclamare i miliardi di sterline di tasse arretrate dovute da corporation che figuravano tra i principali finanziatori delle campagne governative – entrate che, se incassate, avrebbero reso superflui i tagli. Uk Uncut ha trovato il modo di presentare l’argomento dicendo: «Bene, se chiuderete scuole e ospedali perché non volete esigere il dovuto da banche come Hsbc o da aziende come Vodafone, sposteremo le classi e i pron-


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to soccorso nell’atrio delle loro sedi». L’azione più teatrale compiuta da Uk Uncut si è svolta il 26 marzo 2011, poche settimane prima del mio rientro a New York: sull’onda della marcia di mezzo milione di lavoratori a Londra per protestare contro i tagli, circa 250 attivisti occuparono il grande magazzino superchic Fortnum & Mason. Quest’ultimo era famoso soprattutto perché vendeva il tè e i biscotti più cari del mondo; i suoi affari prosperavano nonostante la recessione, ma i proprietari erano anche riusciti in qualche modo a evitare di pagare tasse per 40 milioni di sterline. All’epoca collaboravo con un altro gruppo, Arts Against Cuts, costituito da artiste che il giorno del corteo fornirono centinaia di bombe di vernice agli studenti attivisti equipaggiati di felpe nere con cappuccio, passamontagna e bandane (in linguaggio attivista, erano «Black Bloc»).2 Non avevo mai visto una bomba di vernice e, quando alcuni amici aprirono gli zaini, rimasi impressionato nel vedere quanto fossero piccole. In realtà non sono vere bombe, ma minuscoli palloncini d’acqua poco più grandi di un uovo, pieni per metà d’acqua e per metà di vernice idrosolubile colorata. Potevano essere lanciate come palle da baseball contro qualunque obiettivo (una vetrina incriminata, una Rolls Royce o una Lamborghini di passaggio, un poliziotto in tenuta antisommossa) spargendo colori dappertutto, senza correre il rischio di fare del male a qualcuno. Quel giorno il programma prevedeva che gli studenti e i loro sostenitori si staccassero dal corteo dei lavoratori alle tre del pomeriggio formando piccoli gruppi che poi si sarebbero sparsi per tutta la zona commerciale del centro di Londra, bloccando gli incroci e colpendo con le bombe di vernice i tendoni dei negozi di illustri evasori fiscali. Dopo circa un’ora, è venuta fuori la notizia che Uk Uncut aveva occupato Fortnum & Mason, siamo andati là alla spicciolata a vedere se potevamo dare una mano. Sono arrivato proprio mentre i poliziotti antisommossa stavano sigillando le vie d’accesso e gli ultimi occupanti che non volevano rischiare l’arresto stavano per saltare giù dagli enormi tendoni del grande magazzino, buttandosi tra le braccia degli altri manifestanti. Abbiamo dato il via al black bloc e, dopo aver lanciato i palloncini che ci erano rimasti, abbiamo formato una catena di braccia per impedire il passaggio ai poliziotti antisommossa che ci stavano venendo incontro per liberare le strade in modo da poter cominciare con gli arresti di massa. Qualche settimana dopo, a New York, avevo ancora sulle gambe i lividi e i graffi per i calci negli stinchi; ricor-


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do che all’epoca ho pensato di avere finalmente capito perché gli antichi guerrieri indossassero le schiniere: se ci sono due file nemiche di guerrieri armati di scudo, una di fronte all’altra, la cosa più ovvia è prendere gli avversari a calci negli stinchi. Da quello che si è poi scoperto, Us Uncut non stava architettando niente di così teatrale. Come ho detto, l’incontro si è tenuto nel portico sul retro del celebre negozio di specialità gastronomiche EarthMatters nel Lower East Side, che vende tè biologici cari quasi quanto quelli di Fortnum & Mason, ed era composto, come aveva previsto Marisa, da una folla eterogenea. Il piano consisteva nel realizzare un’azione simile a quella che Uk Uncut aveva escogitato davanti a Fortnum & Mason: per protestare contro la chiusura delle classi scolastiche di tutta la città a causa dei tagli di bilancio, il gruppo avrebbe tenuto le lezioni nell’atrio della Bank of America, un colosso finanziario che non paga neanche un centesimo di tasse. Qualcuno avrebbe interpretato la parte dell’insegnante e avrebbe tenuto nell’atrio una lezione sull’evasione fiscale delle grandi aziende; Marisa avrebbe ripreso il tutto e il video sarebbe stato diffuso in rete. Ma c’era un problema: non si trovava chi facesse il professore. Avevo il biglietto per tornarmene a Londra quella domenica, perciò non ero proprio entusiasta all’idea di un arresto, ma era destino. Dopo un attimo di esitazione, mi sono offerto volontario. In realtà, poi mi sono reso conto che non dovevo preoccuparmi: l’idea che Us Uncut aveva di un’occupazione consisteva nel disporsi nell’atrio della banca, approfittare della confusione per iniziare il teach-in e poi andarsene non appena la polizia cominciava a minacciare di partire con gli arresti. Sono riuscito a scovare qualcosa di simile a una giacca di tweed in fondo all’armadio, ho studiato bene la storia fiscale della Bank of America (ecco una chicca che ho infilato nel volantino distribuito durante l’evento: «Nel 2009, la Bank of America ha guadagnato 4,4 miliardi di dollari, non ha pagato alcuna tassa federale, ma nonostante ciò ha ottenuto una detrazione fiscale pari a 1,9 miliardi di dollari. Tuttavia, ha speso circa 4 milioni di dollari per fare attività di lobbying, e questo denaro è finito direttamente nelle tasche dei politici che hanno vergato le norme di diritto tributario che hanno reso possibile il tutto»)3 e mi sono fatto avanti per fare la mia parte, che Marisa ha filmato e messo immediatamente su Internet, in streaming. L’occupazione è durata circa quindici minuti.


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Tornato a New York nel luglio 2012, ho chiamato Marisa e lei mi ha subito inserito in un’altra azione della Us Uncut a Brooklyn. Quella volta siamo scappati via ancora più in fretta.

16, Beaver Street In quel mese la mia amica Colleen Asper mi ha convinto a partecipare a un evento previsto per il 31 luglio, ospitato dal 16 Beaver Group. 16, Beaver Street è uno spazio artistico che prende il nome dall’indirizzo in cui si trova, a un solo isolato dalla Borsa di New York. All’epoca, lo consideravo un posto dove gli artisti che apprezzano i movimenti della sinistra extraparlamentare degli anni settanta tenevano seminari sul volume di Nick Dyer-Witheford Cyber-Marx, sul cinema di protesta indiano o sul crescente impatto dello Scum Manifesto (trattato politico femminista del 1967) di Valerie Solanas. Colleen mi ha fatto capire che, se avessi voluto avere un’idea di ciò che stava succedendo a New York, avrei dovuto assolutamente partecipare. Avevo accettato, poi me n’ero quasi dimenticato: quella mattina ero con un amico archeologo inglese, di passaggio in città per una conferenza, entrambi molto presi dall’esplorazione dei negozi di fumetti di Midtown alla ricerca di regali adatti ai suoi figli. Verso le 12 e trenta ricevo un sms da Colleen: C: Vieni a questa cosa del 16 Beaver? D: Quand’è? Ci vengo. C: Ora. Finisce alle 17, anche se vieni più tardi ci sarà qualcuno che parla. D: Corro. C: Grazie! D: Ridimmi di che parlano… C: Un po’ di tutto. Lo scopo dell’incontro era presentare i movimenti contro l’austerity che stavano nascendo in tutto il mondo (Grecia, Spagna e altrove) per poi terminare con un dibattito aperto su come fare a portare un movimento simile negli Stati Uniti. Sono arrivato in ritardo. Mi ero perso il dibattito su Grecia e Spagna,


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ma sono rimasto colpito per la quantità di facce note presenti in quella stanza. Il discorso sui greci era stato tenuto da una vecchia amica, un’artista di nome Georgia Sagri e, proprio mentre entravo nella sala, ho visto che un amico di lunghissima data, Sabu Kohso, era a metà della sua relazione sulle mobilitazioni antinucleari post Fukushima. L’unico discorso che sono riuscito ad ascoltare per intero è stato l’ultimo, quello su New York: una vera delusione. Il relatore era Doug Singsen, uno storico dell’arte del Brooklyn College dalla voce carezzevole, che ha ripercorso la storia del gruppo New Yorkers Against Budget Cuts (Newyorchesi contro i tagli di bilancio), il quale aveva appoggiato un piccolo presidio di strada che aveva chiamato Bloombergville, dal nome del sindaco di New York, Michael Bloomberg, di fronte alla City Hall in Lower Manhattan. In qualche modo era una storia di frustrazioni. Il gruppo era nato da un’ampia intesa tra sindacati e associazioni newyorchesi con l’intento manifesto di appoggiare la disobbedienza civile contro l’austerity draconiana di Bloomberg. Era un fatto strano: di solito i rappresentanti sindacali si tirano indietro alla sola menzione della disobbedienza civile, o quantomeno di qualunque azione di disobbedienza civile che non sia completamente concordata e preorganizzata (per esempio, stabilendo in anticipo con la polizia dove e come arrestare gli attivisti). Quella volta, sindacati come la United Federation of Teachers (che rappresenta molti insegnanti delle scuole pubbliche di New York) avevano svolto un ruolo attivo nell’organizzazione del presidio, ispirati anche dal successo di simili campi di protesta al Cairo, Atene e Barcellona; poi ci avevano ripensato e si erano tirati indietro quando il presidio era ormai costituito. Nonostante ciò, quaranta o cinquanta attivisti, in gran parte socialisti e anarchici, avevano tenuto duro per circa quattro settimane, dalla metà di giugno ai primi di luglio. Con cifre così piccole e senza avere né una copertura mediatica come si deve né alleati politici, agire contro la legge era fuori questione: sarebbero stati subito arrestati tutti e nessuno lo avrebbe mai saputo. Tuttavia, il gruppetto aveva dalla sua un’oscura norma cittadina secondo la quale non era illegale dormire sui marciapiedi come forma di protesta politica, a patto che si garantisse una corsia aperta per il passaggio e non si erigesse niente di simile a una «struttura» (come una tettoia o una tenda). Ovviamente, senza tende o altri ripari era dura definire la cosa un «presidio». Gli organizzatori avevano fatto del loro meglio per mettersi d’accordo con


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la polizia, ma non si trovavano in una posizione granché forte per negoziare. Erano quindi stati allontanati dalla City Hall per poi essere dispersi. La vera ragione per cui l’intesa si era frammentata così rapidamente, ha spiegato Singsen, era di natura politica. I sindacati e molte associazioni stavano collaborando con alcuni alleati del Consiglio municipale, i quali a loro volta erano impegnati a negoziare un bilancio di compromesso con il sindaco. «È stato subito chiaro» ha detto Singsen, «che si erano delineate due posizioni. Da una parte i moderati, disposti ad accettare la necessità di alcuni tagli pensando che questo li avrebbe messi in una posizione negoziale migliore per limitare il danno; dall’altra i radicali – quelli del presidio Bloombergville – che rifiutavano in toto la necessità di fare tagli.» Quando all’orizzonte si è profilato un accordo, il sostegno alla disobbedienza civile, persino nelle sue forme più moderate, è svanito nel nulla. Tre ore dopo, a qualche isolato da lì, stavo sorseggiando una birra con Sabu, Georgia, Colleen e un paio degli studenti che avevano organizzato Bloombergville, cercando di sviscerare la faccenda. Ero contento di rivedere Georgia. L’ultima volta l’avevo incontrata a Exarchia, un quartiere di Atene pieno di centri sociali, parchi occupati, caffè anarchici dove avevamo trascorso una lunga notte a buttar giù bicchieri di ouzo nei bar agli angoli delle strade, discutendo delle implicazioni radicali della teoria platonica dell’agape, o amore universale, discussioni che venivano interrotte a intervalli regolari da battaglioni di poliziotti antisommossa in marcia nella zona durante la notte per assicurarsi che nessuno si sentisse a proprio agio. Colleen ha spiegato che era una cosa tipica di Exarchia: di tanto in tanto, soprattutto se un agente era stato ferito da poco in uno scontro con i manifestanti, la polizia sceglieva un caffè a caso, picchiava chiunque fosse a portata di mano e distruggeva le macchine del caffè. Tornando a New York, non ci è voluto molto perché la conversazione andasse a parare su ciò che occorreva per scuotere gli attivisti dal loro torpore. «La cosa che più mi ha colpito del discorso su Bloombergville» ho esordito, «è stato quando Singsen ha detto che i moderati erano disposti ad accettare alcuni tagli e che i radicali invece li rifiutavano in blocco. Seguivo il discorso, annuivo, ma a un certo punto mi sono detto: aspetta un attimo! Che cosa sta dicendo questo tizio? Com’è che siamo arrivati


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al punto che la posizione estremista consiste nel mantenere le cose esattamente come sono?» Le proteste di Uncut e la ventina di occupazioni organizzate quell’anno in Inghilterra erano cadute nella stessa trappola. Si trattava di militanti, senza dubbio: gli studenti avevano vandalizzato i quartieri conservatori e impedito il passaggio della famiglia reale. Ma non erano estremisti. Semmai il messaggio era quasi reazionario: basta tagli! Sì, e poi? Dobbiamo tornare al paradiso perduto del 2009? O addirittura del 1959 o del 1979? «E a essere onesti» ho aggiunto, «mi pare un po’ inquietante stare a guardare un manipolo di anarchici con le maschere davanti a Topshop, che lanciano bombe di vernice su una fila di poliziotti antisommossa al grido di “Pagate le tasse!”.» (Ovviamente io ero uno di quei contestatori che avevano lanciato le bombe di vernice.) C’era modo di uscire da quella trappola? Georgia si era infervorata per una campagna che aveva visto pubblicizzata su Adbusters e che si chiamava «Occupy Wall Street». Quando me ne aveva parlato, ero rimasto scettico. Non era la prima volta che qualcuno cercava di far chiudere la Borsa. Forse c’era stato anche un momento in cui ci erano riusciti, negli anni ottanta o novanta. E nel 2001 era nata l’idea di organizzare una protesta a Wall Street subito dopo quelle contro il Fondo monetario internazionale che si era riunito a Washington quell’autunno. Ma poi è arrivato l’11 settembre, a tre isolati dal posto in cui avevamo pensato di agire, e siamo stati costretti ad abbandonare i nostri piani. Temevo che fare qualunque cosa nei pressi di Ground Zero sarebbe stato impossibile per decenni, sia dal punto di vista pratico sia da quello simbolico. E soprattutto, non mi era neanche chiaro quali fossero gli scopi dell’occupazione di Wall Street. Nessuno li conosceva per certo. Ma Georgia era stata attirata anche da un altro annuncio che aveva visto online relativo a una cosiddetta Assemblea Generale, un incontro per pianificare l’occupazione di Wall Street, di qualunque cosa si trattasse. Ci ha spiegato che in Grecia avevano cominciato proprio così: occupando piazza Syntagma, una piazza pubblica vicino al Parlamento, e dando vita a una vera assemblea popolare, una nuova agorà, basata sui principi della democrazia diretta.4 Ha detto che Adbusters spingeva per un’azione in qualche modo simbolica. Volevano che decine di migliaia di persone piombassero su Wall Street, piantassero le tende e si rifiutassero di andar-


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sene finché il governo non avesse acconsentito a una richiesta chiave. Se ci doveva essere un’assemblea, la si sarebbe dovuta tenere prima, per decidere quale fosse quella richiesta: che Obama formasse una Commissione per reintrodurre la Glass-Steagall (la legge dell’era della Depressione che separava l’attività delle banche d’investimento da quella delle banche di deposito) oppure che approvasse un emendamento alla Costituzione per abolire la personalità giuridica delle imprese, o altro ancora. Colleen ha sottolineato che, poiché in pratica Adbusters era stato fondato da persone del marketing, la loro strategia aveva perfettamente senso dal punto di vista promozionale: trova uno slogan accattivante, assicurati che esprima esattamente quello che vuoi e poi continua a insistere sull’argomento. Ma, ha aggiunto, una trasparenza di quel genere è davvero positiva per un movimento? Spesso un’opera d’arte è d’impatto proprio perché non si è sicuri di capirne il messaggio. Che cosa c’è di sbagliato nel lasciare che l’altra parte provi a indovinare? Soprattutto se lasciare il finale aperto permette di aprire una discussione creando uno spazio per accogliere lo scontento che tutti sentono ma che ancora non hanno trovato modo di esprimere. Georgia era d’accordo. Perché non fare in modo che l’assemblea stessa fosse il messaggio, sotto forma di forum in cui la gente potesse parlare dei problemi e proporre soluzioni al di fuori del quadro del sistema attuale, o addirittura per discutere di come creare un sistema del tutto nuovo? Poteva essere un modello che si sarebbe diffuso fino a dar vita a un’assemblea in ogni quartiere di New York, in ogni isolato, in ogni ufficio. Quello era stato il grande sogno anche durante il Global Justice Movement. All’epoca lo chiamavamo «contaminazionismo»; dato che eravamo un movimento rivoluzionario e non un semplice movimento di solidarietà a supporto dei gruppi rivoluzionari oltreoceano, la nostra visione complessiva si basava su una fede incrollabile nella natura contagiosa della democrazia. O, quantomeno, della democrazia diretta e senza leader al cui sviluppo avevamo dedicato tanta cura e tanti sforzi. Nel momento stesso in cui le persone venivano in contatto con la democrazia diretta, vedere un gruppo di individui che si ascoltavano davvero e prendevano una decisione intelligente, insieme, senza che fosse loro imposta in alcun modo – per non parlare del fatto di vedere migliaia di persone fare la stessa cosa durante i grandi Consigli dei portavoce riuniti prima di


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ogni azione importante – cambiava la loro percezione di ciò che era possibile da un punto di vista politico. Di certo, questo era l’effetto che aveva avuto su di me. Ci aspettavamo che l’approccio democratico si sarebbe diffuso e, inevitabilmente, adattato ai bisogni dei gruppi locali: non ci era mai passato per la mente che, per esempio, un gruppo nazionalista di Porto Rico a New York e un collettivo ciclistico vegano di San Francisco potessero applicare la democrazia diretta in modo simile, ma perlopiù è successo esattamente questo, siamo riusciti a trasformare la stessa cultura attivista. Dopo il Global Justice Movement, i bei tempi delle commissioni di indirizzo programmatico e simili erano sostanzialmente finiti. Quasi tutti gli attivisti erano giunti all’idea della politica prefigurativa, cioè alla convinzione che la forma organizzativa di un gruppo attivista debba incarnare il tipo di società che si vuole creare. Il problema era far uscire queste idee dal ghetto attivista e portarle all’attenzione del grande pubblico, cioè di tutti quelli che non erano ancora coinvolti in una qualche campagna politica di base. I media non ci hanno aiutato: potevi ripercorrere le notizie di un intero anno senza capire che il movimento riguardava la diffusione della democrazia diretta. Perché il contaminazionismo funzionasse, avremmo dovuto mettere insieme la gente, e la cosa si era rivelata estremamente difficile. Forse, abbiamo concluso, adesso sarebbe stato diverso. Dopotutto, non era il Terzo mondo a essere colpito da crisi finanziarie e piani di austerity devastanti. Stavolta la crisi si era abbattuta su di noi. Ci siamo quindi dati appuntamento all’Assemblea Generale.

2 agosto Il Bowling Green è un minuscolo parco a due isolati dalla Borsa di New York, all’estremità meridionale di Manhattan. Si chiama così perché nel diciassettesimo secolo i coloni olandesi lo utilizzavano per giocare a bowling. Oggi è un parco recintato, con uno spazio acciottolato piuttosto grande nella parte settentrionale e, subito a nord di questo, uno spartitraffico sovrastato dalla statua di bronzo di un grande toro che punta gli zoccoli per terra, un’immagine dell’entusiasmo a stento trattenuto e po-


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tenzialmente letale che i rappresentanti di Wall Street hanno forse scelto come simbolo degli spiriti animali (nell’accezione di John Maynard Keynes) che guidano il sistema capitalista. Di solito il Bowling Green è un parco tranquillo, visitato da turisti stranieri e ambulanti che vendono modellini del toro. Erano circa le 16.30 del giorno dell’Assemblea Generale, ero in ritardo per l’incontro delle 16, ma stavolta di proposito: avevo scelto un percorso tortuoso che passava da Wall Street, giusto per farmi un’idea di quanti poliziotti fossero presenti. Era peggio di quello che mi ero immaginato. C’erano agenti ovunque: due squadre in uniforme pattugliavano i dintorni in cerca di qualcosa da fare, due gruppi di poliziotti a cavallo stavano di guardia alle strade che davano accesso alla zona, agenti in moto sfrecciavano su e giù oltre le transenne erette dopo l’11 settembre per sventare attacchi suicidi. Ed era solo un martedì pomeriggio qualsiasi! Quando sono arrivato al Bowling Green, mi sono trovato davanti una scena ancora più scoraggiante. All’inizio pensavo di essermi presentato all’incontro sbagliato. Era già in corso una manifestazione. C’erano due telecamere della tv puntate su un palco improvvisato delimitato da enormi striscioni, megafoni e pile di cartelli prestampati. Un uomo alto con dread al vento stava tenendo un discorso appassionato sulla necessità di opporsi ai tagli al bilancio a un gruppo di quasi ottanta persone, disposte a mezzaluna intorno a lui. Sembravano quasi tutti un po’ annoiati e a disagio, comprese le troupe televisive, dato che, guardando meglio, pareva che i cameramen avessero lasciato le telecamere incustodite. Nelle ultime file ho trovato Georgia, che guardava perplessa le persone riunite sul palco.5 «Aspetta…» le ho chiesto. «Quelli sono del Wwp?» «Esatto.» Ero rimasto fuori città per alcuni anni e c’ho messo un po’ a riconoscerli. Per molti anarchici, il Wwp (Workers World Party, Partito mondiale dei lavoratori, di orientamento marxista-leninista) era la nostra nemesi. Apparentemente guidato da un piccolo gruppo di dirigenti, perlopiù bianchi, che durante gli eventi pubblici indugiavano sempre in maniera discreta alle spalle di una compagine di afroamericani e latinos in prima linea, era celebre perché seguiva una strategia politica che veniva direttamente dagli anni trenta: creare grandi coalizioni da «fronte popo-


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lare» come l’International Action Center (Iac) oppure Answer (acronimo che sta per Act Now to Stop War and End Racism, Agire ora per fermare la guerra e mettere fine al razzismo), composte da decine di gruppi che si radunavano a migliaia per marciare esibendo cartelli. Molti membri ordinari di quei gruppi erano attratti dalla retorica militante e dalla disponibilità apparentemente infinita di denaro, ma rimanevano beatamente ignari di quali fossero le reali posizioni del comitato centrale sui problemi del mondo. Queste posizioni erano quasi una caricatura del marxismo-leninismo all’antica, al punto che di tanto in tanto molti di noi avevano ipotizzato che tutta la faccenda fosse un sofisticato scherzo finanziato dall’Fbi: per esempio, il Wwp continuava a sostenere l’invasione sovietica della Cecoslovacchia del 1968 e la repressione da parte della Cina delle proteste democratiche di piazza Tienanmen, e aveva sposato una linea antimperialista molto dura che non solo lo portava a opporsi a qualunque intervento americano oltreoceano, ma addirittura a schierarsi attivamente a favore di chiunque fosse oggetto della disapprovazione del governo americano, dal governo della Corea del Nord alle milizie Hutu del Ruanda. Gli anarchici li chiamavano «gli stalinisti». Cercare di collaborare con loro era fuori questione; non avevano alcun interesse a cooperare con coalizioni che non potevano controllare direttamente. Era un disastro. Ma come era riuscito il Wwp a gestire l’incontro? Georgia non lo sapeva, ma eravamo entrambi certi che, finché fossero stati loro a condurlo, non c’era alcuna possibilità che si svolgesse una vera assemblea. E in effetti, quando ho chiesto a un paio di partecipanti che cosa stesse succedendo, mi hanno confermato che il piano era quello di fare una manifestazione, a cui sarebbero poi seguiti un breve momento a microfono aperto e un corteo proprio a Wall Street, dove i leader del movimento avrebbero presentato una lunga lista di richieste prestabilite. Tra gli attivisti impegnati a sviluppare politiche di democrazia diretta, ossia tra gli «orizzontali» come ci piace definirci, la reazione più comune a questo genere di cose è la disperazione. Ed è stata anche la mia prima reazione. Camminare in mezzo a una manifestazione come quella ti fa sentire come se ti stessi infilando in una trappola. L’ordine del giorno è stabilito, ma non si sa da chi. Spesso, fino a pochi istanti prima che inizi l’evento, è difficile persino sapere quale sia questo ordine del giorno: a un certo punto


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qualcuno lo annuncia al megafono. La sola vista del palco e delle cataste di cartelli prestampati e il semplice suono della parola «corteo» mi hanno ricordato un migliaio di pomeriggi spesi a marciare a squadre, come un esercito impotente, lungo un tragitto predefinito, mentre i leader della protesta cooperavano con la polizia per condurre il corteo entro «recinti per manifestanti» delimitati da transenne. Eventi in cui non c’era spazio per la spontaneità, la creatività o l’improvvisazione, dove, in realtà, tutto sembrava fatto apposta per rendere impossibile l’autorganizzazione o l’espressione autentica. Persino i canti e gli slogan venivano forniti dall’alto. Ho individuato un gruppetto che mi pareva composto dai leader del Wwp: è facile, perché in genere sono di mezza età, bianchi e gironzolano vicino al palco (quelli che salgono sul palco sono invariabilmente di colore). Uno di loro, un tizio incredibilmente grosso, ogni tanto partiva e andava in mezzo al pubblico. «Ehi» gli ho detto quando mi è passato vicino, «sai, forse non dovreste dire in giro che fate un’Assemblea Generale se poi non avete intenzione di farla.» Forse l’ho messa in un modo un po’ meno educato di così. Mi ha fulminato con lo sguardo: «Ah sì, e questa è solidarietà, eh? Insultare gli organizzatori. Senti: se non ti piace, perché non te ne vai?». Ci siamo fissati in cagnesco, poi se n’è andato. Ho pensato di mollare, poi mi sono reso conto che nessuno era particolarmente soddisfatto di ciò che stava accadendo. Per usare un linguaggio da attivista, quella non era affatto una folla di «verticali», cioè di persone a cui piace davvero marciare con cartelli e ascoltare il portavoce di un comitato centrale. La maggior parte della gente sembrava «orizzontale»: persone più inclini ai principi organizzativi anarchici, a forme non gerarchiche di democrazia diretta. Alla fine sono riuscito a individuare almeno un wobbly (ovvero un membro di Industrial Workers of the World), un giovane con gli occhiali scuri e una maglietta nera dell’Iww, diversi studenti universitari con gadget zapatisti e altri palesemente anarchici. Ho riconosciuto anche alcuni amici di vecchia data, compreso Sabu, che era lì con un altro attivista giapponese, un tizio che avevo conosciuto durante le azioni di strada a Québec nel 2001. Alla fine, io e Georgia ci siamo guardati negli occhi e ci siamo resi conto che stavamo pensando la stessa cosa: «Perché siamo così compiacenti? Perché in queste occasioni


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ci limitiamo a borbottare e ad andare via?», ma in quel momento l’abbiamo messa giù più o meno così: «Sai cosa? ’Fanculo a questa merda. Hanno annunciato un’Assemblea Generale: be’, facciamola». Così mi sono avvicinato a un tizio che pareva dei nostri, un giovane coreano-americano che guardava il palco irritato: in seguito ho saputo che si chiamava Chris e che era un anarchico impegnato con Food Not Bombs (Cibo, non bombe è un’organizzazione anarchica che ridistribuisce autonomamente e gratuitamente alimenti, preferibilmente vegetariani, che altrimenti verrebbero gettati via). In quel momento, però, non lo sapevo. Sapevo solo che aveva l’aria incazzata. «Di’ un po’» gli ho detto, «mi stavo chiedendo una cosa. Se qualcuno di noi decidesse di andarsene e di fare un’Assemblea Generale, ti interesserebbe?» «Perché, c’è qualcuno che sta pensando di farlo?» «Noi.» «Sì, cazzo! Dimmi solo quando.» «A essere sincero» si è inserito il ragazzo accanto a lui, che, come ho saputo in seguito, si chiamava Matt Presto e che come Chris sarebbe poi diventato un organizzatore di Occupy, «stavo pensando di andarmene. Se è così, resto con voi.» Con l’aiuto di Chris e Matt, io e Georgia abbiamo riunito i partecipanti che sembravano «orizzontali» e abbiamo formato una piccola cerchia di una ventina di persone ai margini del parco, il più lontano possibile dai microfoni. Quasi all’istante, i delegati della manifestazione principale si sono avvicinati per richiamarci. I delegati non erano gente di Wwp, che tendeva a starsene alla larga da questo genere di cose, ma studentelli sbarbati con la camicia. «Ottimo» ho bisbigliato a Georgia. «Sono dell’Iso.» L’Iso è l’Organizzazione socialista internazionale. Nell’ampio spettro attivista, il Wwp probabilmente si trova agli antipodi degli anarchici, ma l’Iso si colloca fastidiosamente al centro: il più vicino possibile a un gruppo orizzontale, senza tuttavia esserlo. I membri dell’Iso sono trotzkisti e in linea di principio a favore dell’azione diretta, della democrazia diretta e di qualunque struttura che parta dal basso, sebbene il loro ruolo principale negli incontri paia quello di dissuadere gli elementi più radicali dal mettere davvero in pratica queste cose. L’aspetto frustrante è che, pre-


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si singolarmente, è evidente che i membri dell’Iso sono in generale brave persone. Sono ragazzi simpatici, perlopiù studenti, incredibilmente ben intenzionati; inoltre, al contrario del Wwp, i loro capi (nonostante il sostegno teorico alla democrazia diretta, il gruppo ha una struttura di comando gerarchica e organizzata in modo molto rigido) gli consentono di partecipare ad ampie coalizioni che non dirigono, fosse solo per valutare la possibilità di assumerne la direzione. Erano le persone perfette con cui stabilire un contatto e cercare una mediazione. «Credo sia tutto un grandissimo equivoco» ha detto uno dei ragazzi al nostro gruppetto di ammutinati. «Questo evento non è organizzato da alcun gruppo. È un’ampia coalizione di persone e movimenti di base impegnati nella lotta contro il pacchetto di austerity proposto da Bloomberg. Abbiamo parlato con gli organizzatori. Dicono che appena i relatori finiranno ci sarà senz’altro un’Assemblea Generale.» Erano in tre, tutti giovani e dall’aspetto curato e ho notato che ciascuno di loro, in qualche momento, aveva utilizzato la stessa identica frase: «Un’ampia coalizione di persone e movimenti di base». Non c’era molto da fare. Se gli organizzatori promettevano un’Assemblea Generale, dovevamo quanto meno dar loro una possibilità. E dunque, benché a malavoglia, ci siamo arresi e siamo tornati all’incontro. Ma, ovvio, non si è tenuta alcuna Assemblea Generale. L’idea di «assemblea» degli organizzatori consisteva nel microfono aperto, cioè nel concedere qualche minuto a chi tra il pubblico volesse esprimere la propria posizione politica di massima o i propri pensieri su un argomento, prima di partire tutti per il corteo prestabilito, come da programma. Dopo venti minuti, è stato il turno di Georgia che di mestiere faceva l’artista performativa e, come tale, ha sempre cercato di affinare una condotta pubblica accuratamente costruita, ovvero creandosi l’immagine di una pazza. Sono comportamenti costruiti a partire da qualche elemento della vera personalità dell’individuo, e nel caso di Georgia i suoi amici si chiedevano spesso quanto fosse davvero matta e quanto facesse finta. Senza dubbio è una delle persone più impulsive che abbia mai incontrato, e ha una capacità incredibile, in certi momenti e in certi luoghi, di toccare esattamente il tasto giusto, in genere rovesciando tutte le aspettative su ciò che si ritiene stia accadendo. Georgia ha esordito: «Questa non è un’Assemblea Generale! Questa è una manifestazione organizzata da un partito politico! Non


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ha niente a che fare con il movimento globale per un’Assemblea Generale», il tutto aggiungendo riferimenti alle assemblee greche e spagnole e alla loro esclusione sistematica dei rappresentanti di gruppi politici organizzati. A essere sinceri non ho capito proprio tutto, perché stavo cercando di individuare i potenziali oppositori per seguirci se avessimo deciso ancora di disertare. Ma come tutti quelli che erano lì quel giorno, ricordo il climax del suo discorso, quando il tempo a disposizione di Georgia era ormai scaduto e lei si è ritrovata coinvolta in una specie di accalorato botta e risposta con una donna afroamericana che aveva parlato per conto del Wwp all’inizio dell’incontro e che aveva improvvisato una risposta alle parole di Georgia. «Trovo che l’intervento di quest’ultima relatrice sia profondamente irrispettoso. È solo un deliberato tentativo di interrompere l’incontro.» «Non è un incontro! È una manifestazione.» «Ritengo che l’intervento di quest’ultima relatrice sia profondamente irrispettoso. Puoi anche non essere d’accordo con qualcuno, se vuoi, ma mi aspetto come minimo rispetto e solidarietà. Quello che ha fatto l’ultima relatrice…» «Aspetta, stai dicendo che dirottare un incontro non è una violazione del rispetto e della solidarietà?» Al che è intervenuto un altro relatore del Wwp, che con finto stupore e indignazione ha detto: «Non riesco a credere che tu abbia davvero interrotto una persona di colore!». «E perché non dovrei?» ha risposto Georgia. «Anch’io sono di colore.» Georgia è bionda e la reazione potrebbe essere descritta come un diffuso: «Eh?». «Cos’è che sei?» «Quello che ho detto. Sono nera. Credi di essere l’unica persona di colore, qui oggi?»6 La sorpresa che è seguita le ha concesso giusto il tempo di annunciare che stavamo per riunire la vera Ag e che ci saremmo trovati al cancello del parco quindici minuti dopo. Poi è stata cacciata via dal palco. Sono volati insulti e provocazioni. Dopo circa mezz’ora di scenate, abbiamo formato nuovamente il cerchio, sull’altro lato del Bowling Green, e questa volta quasi tutti quelli che erano rimasti hanno abbandonato l’incontro per unirsi a noi. Ci siamo resi conto che il gruppo era quasi interamente «orizzontale»: non c’erano solo wobbly e zapatisti,


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ma anche diversi spagnoli che avevano fatto parte degli Indignados di Madrid, un paio di anarchici insurrezionalisti che avevano partecipato alle occupazioni di Berkeley qualche anno prima, un manipolo di astanti confusi, forse quattro o cinque, che erano appena arrivati per vedere la manifestazione e altrettanti membri del Wwp (esclusi quelli del comitato centrale) che si erano avvicinati di malavoglia per controllare le nostre attività. Un giovane di nome Willie Osterwall, che aveva vissuto per un po’ come squatter a Barcellona, si è offerto volontario come facilitatore. Ci siamo resi conto ben presto di non avere la minima idea di quello che avremmo fatto. Purtroppo, Adbusters aveva già reso nota la data dell’evento: il 17 settembre, e questo era un problema per due ragioni. Primo, mancavano solo sei settimane. Ci era voluto più di un anno per organizzare i blocchi e le azioni dirette che avevano interrotto i negoziati del Wto a Seattle nel novembre del 1999. Quelli di Adbusters parevano convinti che in un modo o nell’altro saremmo riusciti a riunire ventimila persone e a farle accampare con le loro tende nel bel mezzo di Wall Street; anche ipotizzando che la polizia lo avrebbe permesso, cosa impossibile, chiunque avesse un minimo di esperienza nell’organizzazione di eventi analoghi sapeva che non era possibile riunire un numero simile di persone in un mese e mezzo. Mettere insieme una folla come quella significava richiamare gente da tutto il paese, per cui erano necessari gruppi di sostegno in diverse città e, soprattutto, pullman, il che a sua volta presupponeva l’organizzazione di campagne di raccolta fondi, dato che, per quanto ne sapevamo, noi non avevamo soldi. (O forse sì? In giro si diceva che Adbusters li avesse, ma nessuno di noi sapeva se la rivista fosse coinvolta in prima persona: a quell’incontro non c’erano suoi rappresentanti.) Secondo, sarebbe stato impossibile far chiudere Wall Street il 17 settembre, perché quel giorno cadeva di sabato. Se volevamo fare qualcosa che avesse un impatto diretto sui dirigenti di Wall Street, o che fosse quantomeno notato da questi, dovevamo in qualche modo trovare un modo per essere ancora lì lunedì mattina alle 9. E non eravamo nemmeno sicuri che la Borsa fosse il bersaglio ideale: dal punto di vista meramente logistico, e forse anche da quello simbolico, avremmo fatto meglio a scegliere la Federal Reserve o gli uffici di Standard & Poor’s, entrambi a qualche isolato di distanza. *


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