Quando si spengono le luci

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Erika Mann

Quando si spengono le luci Storie dal Terzo Reich A cura di Agnese Grieco


In mancanza di un originale tedesco, la traduzione del presente volume ha tenuto conto sia della versione americana The Lights Go Down (Farrar & Rinehart, New York/Toronto 1940), prima edizione disponibile del testo, sia della versione tedesca Wenn die Lichter ausgehen (Rowohlt Verlag, Hamburg 2005), essa stessa basata sull’edizione Farrar & Rinehart.

Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreED Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore © 1940, by Farrar & Rinehart, Inc.;   2005, by Rowohlt Verlag GmbH, Reinbek bei Hamburg © il Saggiatore S.r.l., Milano 2013 Titolo originale: The Lights Go Down


Quando si spengono le luci



Sommario

La nostra città

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1. A causa di un deplorevole errore…

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2. Checks and Balances

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3. Herr Huber, proprietario di fabbrica

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4. «Giustizia è ciò che serve alla nostra causa»

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5. A ricordo di un eroe

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6. Un contadino fugge in città

111

7. Compagni di sventura

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8. L’ultimo viaggio

153

9. Su indicazione medica

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10. Quando si spengono le luci

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Appendice

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Note

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Postfazione. Un nuovo tipo di scrittrice di Agnese Grieco

225



Nella nostra città la vita continuava. Da centinaia d’anni l’antica piazza del mercato, con le sue case dalle facciate dipinte e la famosa statua equestre nel mezzo, non era cambiata per niente. Al visitatore casuale si offriva un’immagine di pace e incanto.



La nostra città

Uno straniero passeggiava per la città. Non conosceva nessuno tra gli abitanti, e nemmeno sapeva dove conducessero le strade. Imboccò la Glockenstrasse, uno stretto vicolo, e all’improvviso si trovò nella Marktplatz con le sue case dal tetto spiovente e la statua equestre. Lo straniero era piacevolmente colpito dalla grazia assonnata della città e dall’immenso silenzio che vi regnava, anche se, data l’ora, le nove e mezzo di sera, la cosa gli apparve strana. Si sentiva solo il fruscio delle bandiere di colore rosso appese alle finestre, che il vento faceva muovere dolcemente. Da qualche parte un cane abbaiava. O era piuttosto la voce di un uomo che proveniva da un altoparlante lontano? Lo straniero si mise a sedere sugli scalini alla base del monumento e guardò in alto il cielo. Era una fredda e chiara notte d’ottobre. La luce della luna faceva risplendere d’argento alcune variopinte immagini sacre esposte nella vetrina del negozio di fronte, all’angolo. Per il resto la piazza era quasi del tutto buia; i lampioni erano spenti, o forse nemmeno li avevano accesi. Lo straniero, che aveva ancora nelle orecchie il chiasso del viaggio e nel cuore l’inquietudine della partenza e dell’arrivo, respirava a pieni polmoni quell’aria serena. Questa è la Germania, pensò. Così sono le antiche città tedesche: amabili e piene d’incanto. Ieri a Berlino era tutta un’altra cosa. A Berlino si sente l’impegno gigantesco, l’energia inesauribile di un popolo che trasforma la notte in giorno, energia che ancora una volta solleva questo paese dalla rovina per farlo divenire una grande potenza.


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Berlino era di una luce abbagliante, un tumulto di città; i suoi ristoranti erano pieni fino all’ultimo tavolo di gente che rideva, e nessuno sembrava avere di che preoccuparsi. Non si percepiva alcun segnale di paura, da nessuna parte. Io odio tutte quelle chiacchiere – lo straniero scosse irritato la testa – odio quel parlare a vanvera del «terrore della dittatura». Questo Hitler ha fatto grandi cose, chiede ai tedeschi di compiere sacrifici assai gravosi, ma loro non lo danno a vedere. Come sono belle queste bandiere di colore rosso, anche sopra il piccolo negozio di oggetti sacri sventola la croce uncinata. Sono felice di essere in questa città, di sicuro rimarrò due o tre giorni anche se non ho nulla di preciso da fare qui. Soffia un bel vento fresco, sembra di montagna. In effetti le montagne sono vicine, le si possono raggiungere in poche ore. Ecco, sta arrivando gente. Camminano allo stesso passo, forse sono soldati che marciano alla luce della luna. Due uomini delle SA, due tipi ben piantati che indossavano eleganti uniformi brune, scendevano lungo la Marktstrasse. Attraversarono la piazza del mercato e si diressero verso lo straniero. Lui rimase tranquillamente seduto sui gradini. «Heil Hitler!» gridarono le due camicie brune e gli si piazzarono di fronte. «Heil Hitler!» rispose lo straniero, che però non alzò il braccio, perché un improvviso imbarazzo glielo impedì. «La invito ad alzarsi in piedi per il saluto tedesco!» ordinò una delle due SA. Lo straniero ubbidiente si alzò. «Heil Hitler!» gridarono di nuovo le camicie brune, levando il braccio in avanti. Questa volta anche lo straniero alzò il braccio destro. «Che cosa sta facendo qui?» domandò la SA che per prima gli aveva rivolto la parola. «Niente.» «Niente?» ripeté l’uomo, in tono sprezzante. «Non si faccia più stupido di quello che è. Lei sa bene che cosa intendo dire. Perché lei è qui e non sta ascoltando, questo voglio sapere. Forse che in città non ci sono abbastanza altoparlanti?» Lo straniero alzò le spalle confuso.


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«Ascoltare? Altoparlanti?» Solo allora le due SA notarono il suo accento straniero. «Le chiedo scusa» disse la SA. «Lei è straniero. Non l’avevamo capito subito. Questa notte siamo di servizio e controlliamo i passanti che non ascoltano il discorso di Hitler. Nel caso degli stranieri, naturalmente, è tutta un’altra cosa. La prego di scusarci.» Lo straniero sorrise. «Se avessi saputo che Herr Hitler teneva un discorso, lo avrei di certo ascoltato. Ma mi dica,» lo straniero si rivolse al più silenzioso dei due uomini «se io fossi stato un tedesco e voi mi aveste pescato qui, a non ascoltare, che cosa mi sarebbe successo?» La camicia bruna alzò le spalle. «A dire il vero, niente di particolare» disse. «L’avremmo condotta al nostro posto di guardia. Lì abbiamo la radio e lei avrebbe ascoltato da noi le parole di Hitler. L’avremmo poi rilasciata con un’ammonizione. Naturalmente una simile ammonizione non è proprio una sciocchezza. Al prossimo episodio, per quanto di poca importanza, che so, qualcuno sospetta di lei e la denuncia, allora ci siamo, via, in campo di concentramento! E…» La SA, che aveva parlato per prima ed evidentemente non gradiva il tono confidenziale del suo giovane collega, interruppe il flusso di parole con un gesto brusco. «… tanto basta!» disse. «Il signore non ha da preoccuparsi del campo di concentramento. Le chiediamo di nuovo scusa. Heil Hitler!» I due uomini scattarono sull’attenti, battendo all’unisono i tacchi, si voltarono e iniziarono ad allontanarsi. Per un attimo rimasero fermi davanti al negozio di oggetti sacri. Lo straniero li udì ridere, le loro giovani voci echeggiarono per tutta la piazza. Poi il silenzio inghiottì a poco a poco il rumore dei loro passi. Peccato, pensò lo straniero, non mi sarebbe affatto dispiaciuto ascoltare il discorso del Führer. Qualche cosa gli aveva rovinato il buon umore. I due giovani erano stati corretti e formalmente gentili. Tuttavia quell’incontro gli aveva lasciato un senso di oppressione. Perché mai si erano messi a ridere davanti alla vetrina? Lo straniero attraversò la piazza e trovò incollato sulla vetrina un biglietto, che da lontano non aveva potuto notare. pubblico scandalo! si leggeva sul foglietto. il führer ha bisogno di


14    Quando si spengono le luci soldati, non di baciapile! abbasso gli ipocriti nemici del popolo! fuori dai piedi i preti! fuori! heil hitler!

Lo straniero provò rabbia e disgusto nel leggere quelle parole. Poi pensò che simili porcherie accadono ovunque. In tutto il mondo i giovani compiono stupidaggini. Nel mio paese inghiottono i pesci rossi, pensò. E non è poi molto meglio. A parte questo, però, perché mai quei due in uniforme non avevano tolto il volantino? Probabilmente erano così giovani che trovavano la cosa divertente. A ogni modo non permetterò a questo foglietto di rovinarmi l’umore e la bella impressione che mi ha fatto questa città. Cominciava a sentire freddo e pensò che un cognac gli avrebbe fatto bene. L’atmosfera della piccola trattoria nella Glockenstrasse era satura dei suoni diffusi dall’altoparlante. Alcuni avventori sedevano davanti a una birra e ascoltavano in silenzio le parole del loro Führer. Perché mai impreca così, si domandava lo straniero. Aveva capito che il Führer stava parlando della crescita economica nel «Terzo Reich», tema che davvero non poteva giustificare una tale furia. Quante notti in hotel erano state prenotate in Germania nell’ultimo anno? Quanti rotoli di carta erano stati prodotti dalle fabbriche tedesche nell’ultimo anno? Quante erano le escursioni in montagna sul mercato? Simile a una catapulta, la voce al microfono lanciava nel vuoto ogni cifra, come se lo scopo fosse quello di distruggere e sottomettere gli ascoltatori. Da dietro il bancone l’oste sbadigliò rumorosamente. Il cognac tedesco sapeva di alcol metilico profumato, e il pezzo di pane servito allo straniero era umido, grigio e appiccicoso. «Avete uova?» chiese un avventore. «No» disse l’oste. «In compenso abbiamo il Völkischer Beobachter.» «Settecento-settantamila-ottocento-quarantuno lavoratori nell’industria» abbaiò la voce alla radio. L’avventore a cui era stato offerto il Völkischer Beobachter invece delle uova, si alzò stiracchiandosi, sbadigliò e guardò l’orologio. «Un’ora e mezzo» disse «e ancora nemmeno una parola sui nostri fratelli dei Sudeti.» Che significa tutto questo, si domandava lo straniero. Nessuno sembra particolarmente contento. Dei bei testoni questi bavaresi, gente davvero cocciuta, cauta nei giudizi, che non dà mai a vedere il proprio entusiasmo. In un angolo una bambina sedeva vicino alla stufa e scriveva.


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«Domani ha un compito in classe» disse l’oste. «Quindi deve prendere appunti e impararli a memoria. Altrimenti si becca una punizione.» «Quanti erano i lavoratori dell’industria?» domandò la bambina. Nessuno rispose. Lo straniero ascoltò il discorso fino alla fine. Anche dopo che la voce rabbiosa del Führer ebbe smesso di parlare e le ultime note della HorstWessel-Lied si erano dissolte nell’aria, l’uomo non si mosse, rimase seduto lì dove era. Voleva vedere che effetto avesse provocato il discorso e parlare con l’oste, che gli pareva una persona gentile e amichevole. I suoi folti baffi avrebbero probabilmente fatto onore a una foca, mentre i piccoli occhi chiari nel volto largo e massiccio sprizzavano vivacità. L’oste però non era uomo loquace. Anche ai tavoli si parlava poco. Nessuno commentava le parole del Führer. «Hai visto gli stendardi?» domandò una donna al marito. «Ne ho contati perlomeno otto, cinque solo nella Bärenstrasse.» Il marito annuì. Un sogghigno furtivo si impadronì per un attimo del suo viso. «Una bella mascalzonata!» disse. «Appendere stendardi ecclesiastici, quando è espressamente proibito!» Per rafforzare le sue parole, l’uomo batté la mano aperta sul tavolo. Tuttavia lo straniero aveva l’impressione che la faccenda gli facesse piacere. «Un vero e proprio atto di insubordinazione» ripeté gettando un sguardo allegro all’oste. Passarono alcuni minuti e gli ospiti lasciarono, uno dopo l’altro, il locale. Lo straniero, ansioso di cogliere qualsiasi cosa gli riuscisse ancora di carpire, non si mosse. «Quanti abitanti ha questa città?» domandò all’oste, sperando che iniziasse un dialogo. «120 000» rispose l’oste. «E una famiglia ogni cinque non ha una casa sua. Abbiamo poche vere case e molte caserme. Ma non importa» aggiunse in modo brusco, vedendo lo straniero corrugare la fronte. «È solo per il momento. Fino a che non si è completato il riarmo. È naturale che l’industria bellica, al momento, sia la cosa più importante. Prima viene la politica e poi la vita privata.» «Una famiglia su cinque?» domandò lo straniero. «Come fa lei a saperlo con una tale precisione?»


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L’oste sporse ancora di più il suo corpo massiccio oltre il bancone. Cominciò col dire che suo figlio, sposato da poco, viveva ancora con lui, in casa dei genitori, perché non riusciva a ottenere un appartamento. «E poi» continuò l’oste fissandolo amichevolmente con i suoi occhi azzurri «io leggo i giornali. Ci sono 21 000 famiglie in città e solo 17 000 case. Chi non l’ha ottenuta, una casa, naturalmente non è contento. Questa però è una visione egoistica e miope. Al giorno d’oggi bisogna invece essere intelligenti e capire le necessità politiche.» «Lei vive in una gran bella città» disse lo straniero. «È la prima volta che vengo qui e mi piace molto.» L’oste si mordicchiò i baffi, sfregandosi soddisfatto le mani. «Soprattutto oggi» notò «con tutte quelle bandiere.» Di nuovo lo straniero ebbe la sensazione che l’uomo non dicesse quello che pensava. Non riusciva a togliersi dalla testa la faccenda degli stendardi e il biglietto appiccicato sulla vetrina del negozio di oggetti sacri. La porta si aprì ed entrò una donna. Era ben piantata, poteva avere cinquant’anni. Indossava una giacca militare, pantaloni marroni e stivali di gomma che le arrivavano fin sopra il ginocchio. «La guardia antiaerea!» annunciò l’oste. «Un tè per il difensore della patria!» disse rivolto alla cucina. «Un bel tè caldo, è quello che ci vuole, non è vero Frau Murks?» Frau Murks annuì. «Proprio così» disse «altrimenti finisce pure che muoio congelata con questo freddo miserabile.» In effetti la donna batteva già i denti prima ancora di iniziare l’esercitazione. Si sedette al bancone, accanto allo straniero. «Quella di oggi è la numero sette» disse. «La settima esercitazione antiaerea di quest’autunno.» L’oste le batté una mano sulle spalle, per farle coraggio. «Congratulazioni» disse. «Già la settima. In tutto dieci, fino all’anno nuovo. Quindi ne mancano solo tre, e lei, Frau Murks, ce la farà di certo!» «Può darsi di sì, ma può anche darsi di no» rispose la donna. «D’accordo, questa non durerà quanto le altre, il Führer ha parlato tanto. Anzi, avevamo sperato che in suo onore l’esercitazione non avrebbe avuto


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luogo. Invece no, non se ne parla nemmeno. L’esercitazione la si fa, anche se alla fine inizierà addirittura a mezzanotte.» Lo straniero chiese il conto. Frau Murks gli gettò uno sguardo sospettoso, mentre girava di controvoglia il cucchiaino nel tè. «Il signore è uno straniero» disse l’oste. «È la prima volta che viene nella nostra città. Ma qui gli piace, ed è anche arrivato al momento giusto, con questo bel tempo…» «Capisco» disse la donna in tono già più amichevole. «Allora lei viene da fuori?» Frau Murks smise di parlare, sembrava però che volesse ancora domandare o aggiungere qualcosa. Lo straniero fece di sì con la testa, in modo incoraggiante; le avrebbe dato volentieri qualsiasi informazione desiderasse. Invece Frau Murks preferì rivolgersi di nuovo all’oste. «Lo sa che cosa è successo a mia cognata?» domandò. «Quella donna è perseguitata dalla sfortuna. Si è ammalata, niente di grave, solo un’influenza. Questa notte però non può venire a fare l’esercitazione. Così siamo in tre a trascinare quella canna pesante fino alla pompa dell’acqua, e in più con questo freddo.» Allo straniero sembrò che fosse Frau Murks e non sua cognata a essere perseguitata dalla sfortuna: la cognata poteva rimanere a letto, mentre le altre donne dovevano vedersela con la pompa. L’oste però era meglio informato. «Dio del cielo!» esclamò. «Una bella sfortuna! Alla settima esercitazione! E adesso deve cominciare di nuovo da capo. È davvero terribile!» Frau Murks scosse preoccupata la testa. «In più mia cognata non è certo forte come un toro, e non è nemmeno così giovane. Il mese prossimo compie cinquantotto anni. E adesso deve ricominciare da capo e rifare tutte e dieci le esercitazioni. Le sei che ha già fatto non contano più solo perché oggi ne ha saltata una. Se almeno potessimo esercitarci di giorno. Invece no, di giorno non c’è tempo. E di notte fa così freddo, che davvero ci si ammala.» Lo straniero mise una banconota davanti all’oste. È dura, pensava. Decisamente dura per una donna di cinquantotto anni. Dopotutto però è un bene che la popolazione sappia con precisione come comportarsi in caso di guerra. Inoltre simili esercitazioni, probabilmente, avranno anche i loro lati divertenti. Questa signora Murks ha l’aria allegra,


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in fondo anche le passeggiate in montagna spesso sono faticose e si gela dal freddo. Sembrava quasi che Frau Murks gli avesse letto nel pensiero. «Comunque io sono sempre concentrata, anima e corpo, su quello che c’è da fare, lei lo deve sapere, Herr Schindhuber… e anche lei, lo tenga presente, per il suon articolo.» Lo straniero si stupì. «Il mio articolo?» domandò. «Ma io non sono un giornalista.» «E come faccio a sapere chi è lei?» controbatté la donna. «Comunque se lei scrive un articolo, non importa di che genere, sia chiaro, io sto al cento per cento con il Führer. E a Londra fate le esercitazioni di contraerea?» chiese all’improvviso Frau Murks. Lo straniero spiegò che era americano e che finora non aveva mai partecipato a esercitazioni del genere. Per quanto ne sapeva, a Londra ce n’erano state, ma lì non si procedeva in modo così categorico. «Se a Londra una donna di cinquantotto anni si ammala, non la si punisce obbligandola a fare esercitazioni aggiuntive.» A questo punto Frau Murks si indignò. «Ecco che ci siamo!» esclamò. «Il fatto è che le democrazie non hanno la minima idea di cosa sia la disciplina. Il nostro ministro della Propaganda ha appena dichiarato che le democrazie gli sembrano conventicole di vecchi e ridicoli parrucconi. Anch’io la penso così, sono sistemi malati e corrotti fino al midollo. Che cosa sarà mai per mia cognata una piccola esercitazione militare? E supponiamo pure che lei si becchi la polmonite e ci muoia, che significato ha una simile morte per la collettività? È una morte da soldato come ogni altra e chi resta la ricorderà con orgoglio.» Lo straniero comprese che Frau Murks pensava veramente ciò che andava dicendo. Quanto è confusa questa poverina, rifletté lo straniero. Come oscilla da una parte all’altra – prima si lamenta, poi «sta al cento per cento con il Führer». Che cosa buffa. Prima è stata ben attenta per evitare che io la citassi nel mio articolo e ora si mette a parlare a ruota libera. A questo punto fu l’oste, che si lisciava la barba, a intromettersi nel discorso. «Mi dispiace per lei,» disse rivolgendosi allo straniero «ma Frau Murks ha ragione. La democrazia liberale ha perso la partita. E il mondo oggi appartiene alla razza padrona.»


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Lo straniero non aveva nessuna intenzione di mettersi a litigare. Di fondo, apparteneva anche lui alla medesima razza padrona, così come Herr Schindhuber e Frau Murks in uniforme, i cui zigomi larghi e massicci lasciavano tuttavia indovinare una provenienza da antenati slavi. «A ogni modo il vostro Führer ha raggiunto molti obiettivi. Se solo rinunciasse al suo atteggiamento aggressivo verso il mondo esterno…» lo straniero inghiottì quello che voleva aggiungere, che sarebbe stato più o meno: se il Führer rinunciava anche alle persecuzioni nei confronti degli ebrei. «Se solo volesse mantenere la pace, allora di sicuro nessuno avrebbe niente da ridire su di lui.» Frau Murks si fece aggressiva: «Noi siamo circondati e quindi dobbiamo poterci difendere». L’oste invece si sporse di nuovo sopra il bancone e con la sua espressione intelligente sussurrò all’orecchio dello straniero: «Ha già visto la nostra nuova fabbrica siderurgica? Sì, intendo quell’edificio imponente dall’altra parte del fiume. Sa che cosa si fabbrica lì dentro? Munizioni? Per carità di Dio! Si producono angeli della pace, nient’altro che angeli della pace, belli e rilucenti!». Nell’ultima mezz’ora Herr Schindhuber aveva bevuto un whisky dopo l’altro. Lo straniero pensava che non fosse più del tutto lucido; inoltre si era ormai fatto tardi e quindi decise di mettersi in cammino. «Heil Hitler!» disse, sollevando in modo precipitoso il braccio. «Heil Hitler!» esclamò Frau Murks, facendo di scatto il saluto tedesco. Herr Schindhuber invece disse solo: «Le auguro una piacevole notte». Poi vuotò un altro bicchiere. Fuori il cielo si era coperto. Cadeva una pioggerella sottile, ma continua. La strada luccicava. Alla fermata del tram nella Marktplatz la gente si accalcava. Una manciata di taxi era in attesa al posteggio, evidentemente nessuno voleva servirsene. Lo straniero decise di tornare in tram al suo hotel, così avrebbe raccolto altre impressioni sugli abitanti del luogo. L’incontro con Herr Schindhuber e Frau Murks gli aveva confuso le idee. Tremava dal freddo. Attese otto o nove minuti. All’arrivo del tram, la massa di gente scattò di slanciò in avanti, in modo quasi incontrollato. Alcuni uomini spingevano indietro le donne; una bambina, la cui mamma era già riuscita a salire, era rimasta giù dal tram, intrappolata in un intrico di gambe che volevano avanzare. Cominciò a


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piangere. Lo straniero si fece largo a forza, prese la piccola, la sollevò sopra la calca, riuscendo infine a passarla alla sua mamma che stava sul predellino. Il tram partì strapieno, con grappoli di gente appesa. Che fare? Raggiungere a piedi l’albergo? Il tempo era peggiorato. Inoltre l’uomo non si sentiva bene. Mille pensieri gli ronzavano per la testa. Fece cenno a un taxi che subito lo raggiunse. «All’Hotel Reichshof, prego» disse lo straniero. «Prima si chiamava Hotel Bavaria» disse il tassista in un tono di voce che sembrava addossare allo straniero la responsabilità del cambiamento di nome. Per tutta la corsa il tassista continuò a parlare fissando la strada, senza girarsi. Lo straniero aveva la nausea, mentre l’automobile si infilava per i vicoli stretti della nostra città. Perché mai questo tassista non si concentra sulla guida, invece di continuare a parlare, si domandava. «Non ce l’ha fatta a salire sul tram, vero?» disse il tassista ridendo perfidamente. «Beh, per lei non è un gran problema, lei non fa altro che salire su un taxi e farsi portare all’Hotel Bavaria. Ma per la gente di qui non è così facile. Avevamo centododici vetture ed essere erano sufficienti. Ora ce ne sono solo sessantadue. Le vetture vecchie sono state tolte della circolazione e manca il materiale per costruirne delle nuove. Tutte le materie prime finiscono nella produzione degli angeli della pace.» (Di nuovo questi angeli della pace!) «A parte questo, mancano anche i conducenti: quelli che abbiamo non bastano nemmeno per quei miseri sessantadue tramvai rimasti in funzione. I conducenti in servizio, inoltre, sono del tutto esauriti, distrutti a causa della situazione in cui si trova il traffico. Come si fa a guidare un tram, se i passeggeri non hanno nemmeno lo spazio per stare in piedi? Immaginiamoci poi quando c’è qualche avvenimento, come nel caso del discorso del Führer e la gente dopo vuole allontanarsi dagli altoparlanti ufficiali e si muove in massa verso casa! Allora i tram diventano dei manicomi. Ma nessuno prende un taxi. Il taxi se lo possono permettere solo i ricchi e i ricchi hanno comunque già le loro Mercedes.» Lo straniero inarcò le sopracciglia. «Anche le nostre metropolitane a New York sono spesso sovraffollate, ma per noi non è motivo di fare le facce tanto lunghe.» Il tassista pigiò sul pedale e diede gas. La strada che conduceva all’ho-


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tel era larga e dritta, l’asfalto però era scivoloso e lo straniero si augurò di essere al più presto nella propria stanza. «Facce!» disse il tassista. «E a chi importa che faccia abbiamo? Siamo già contenti se non viene la guerra. Lei crede che scoppierà la guerra?» Il tassista si girò a guardare lo straniero oltre la sua spalla, mentre l’automobile avanzava a una velocità da far paura. «Lei crede che gli inglesi entreranno in guerra?» Lo straniero disse: «Nessuno vuole la guerra. E tutto il mondo nutre il più grande rispetto per la Germania». Non era una vera risposta. Il tassista sospirò. «Ho tre figli e ogni giorno mi aspetto di essere epurato. Filtrato. Sa cosa significa? In città ci sono troppi tassisti e non c’è benzina. E quelli hanno bisogno di lavoratori per il Westwall. Ogni giorno potrei trovarmi trasferito, lontano dalla mia famiglia, a lavorare laggiù per la costruzione delle strutture di difesa. Ma io voglio rimanere a casa, qui, nella mia città, non m’importa se qui non è tutto oro. Il mio posto è qui, accanto a mia moglie e ai miei figli. Io non sono un prussiano, non so costruire fortificazioni, io sono un tassista bavarese!» Incredibile come quest’uomo parli apertamente, pensò lo straniero. Perlomeno tutti quei discorsi che si sentono sul clima di paura in Germania sono ingiustificati. Come fa a sapere quest’uomo che non lo denuncerò? Evidentemente non ha di che temere dalle autorità. Il taxi si fermò, lo straniero pagò la corsa lasciando una bella mancia. «Mille grazie!» si rallegrò il tassista. «E la prego, non racconti a nessuno che io oggi ho parlato troppo. È solo che a volte c’è bisogno di sfogarsi, altrimenti si scoppia. Quando il passeggero è uno straniero, allora non si ha tanta paura. Se lei mi denuncia, sono finito. Ma questo lei non lo farà: se io fossi arrestato e rinchiuso in prigione lei non ci guadagnerebbe niente. Nel caso dei miei connazionali è diverso. Loro ne ricaverebbero in cambio qualcosa. Una ricompensa o un avanzamento di carriera. Ma uno straniero…» Lo straniero scosse la testa, per rassicurarlo. «Dalla mia bocca non uscirà nemmeno una parola» disse. «Inoltre io qui non conosco nessuno a cui poter raccontare alcunché. Mi permetta però di darle un consiglio. Non se ne faccia un tormento.Tutto passa. In un paio di anni la dura disciplina, le restrizioni nella vita quotidiana e il lavoro al Westwall non saranno quasi più necessari.»


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«Lo pensa davvero?» domandò il tassista e sul suo viso erano apparsi gioia, ma anche timore. «Sul serio lo crede?» Lo straniero annuì. «Buona fortuna» aggiunse, prima di entrare nell’hotel spingendo la porta girevole. Arrivato nella sua stanza, lo straniero si affacciò dal balcone e si mise a guardare il grande viale. Molte finestre erano ancora illuminate. Ecco dove se ne stavano gli abitanti di questa città. Se ciò che lo straniero aveva visto quella sera lo si poteva considerare tipico, allora nelle teste di tutti i cittadini dovevano agitarsi ben strani pensieri. Una cosa davvero fuori del comune, pensò lo straniero. Ciò che si legge nei giornali tedeschi è semplice, chiaro. Secondo la volontà del Führer, gli ebrei e i comunisti devono essere eliminati. Ciò non è certo una bella cosa, ma se è per il bene del popolo, questo prezzo va pagato. Inoltre la nazione ora è unita nell’amor di patria e in un sentimento di rinascita morale. Ed è fuor di dubbio che l’onore di questo popolo orgoglioso e un tempo umiliato sia adesso di nuovo integro. Va poi detto che la disoccupazione è scomparsa, la gioventù del paese cresce sana e forte, e il cittadino che ai tempi della Repubblica ha dimostrato di non avere né inclinazione né talento per organizzare la propria vita ora sente la mano forte di un governo vincente. E non è così rilevante che noi, dal nostro punto di vista democratico liberale, non si sia poi così d’accordo con tale sviluppo. Anche se non bisogna tacere che, con la sua politica di espansione, il Reich comincia a minacciare i nostri interessi. A dover essere soddisfatti sono i tedeschi, ed essi in generale lo sono. Aveva smesso di piovere. Dietro i resti delle nuvole che scorrevano minacciose si vedevano splendere alcune pallide stelle. Questa bella, antichissima città, in cui soffiano venti freschi di montagna, con le sue case dalle facciate dipinte, i suoi abitanti per bene, tutti operosi, pieni di speranza, sorridenti, pronti a imprecare e a scherzare. Ci fosse qualcosa di simile a un berretto magico che rende invisibili! Se potessi infilarmelo e guardare così, non visto, nelle case. Mi piacerebbe osservare gli uomini al loro lavoro, le donne intente ai doveri di casa. Mi domando se la ragazzina, figlia di Schindhuber, domani soddisferà il maestro con la sua ricostruzione del discorso del Führer e se il proprietario della fabbrica di questi «angeli della pace» sia felice e contento, di certo non ci guadagnerà un capitale. Prima che io lasci domani la città, devo gettare di nuovo uno


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sguardo al negozio con le immagini sacre, dove era attaccato quell’orribile volantino. Sì! Parto domani, se possibile domani mattina presto. Dato che non possiedo nessun berretto magico, non avrò molta fortuna con il mio viaggio di scoperta. Potrei rimanere qui giorni, settimane, mesi e tuttavia non riuscirei a conoscere davvero la città. È molto bella, non c’è dubbio. In generale mi piace, la Germania. Ossia mi piace che stia bene a loro, ai tedeschi. In fondo noi non siamo gli unici sulla terra e ognuno dovrebbe seguire le proprie inclinazioni. I sogni dello straniero si annodarono tra loro fino a formare una matassa confusa. C’era il baccano fatto da un cane che, evidentemente fuori di sé, abbaiava numeri; una vecchissima donna, enorme, teneva in mano la pompa di un idrante, un uomo in divisa da chauffeur se ne stava sprofondato fino al mento in una trincea, mentre le pallottole fischiavano sopra la sua testa. Davanti agli occhi dello straniero c’era un bellissimo paesino di montagna, sembrava un giocattolo – ed ecco che un’enorme mano si sollevava e lo copriva dall’alto. Dal panno rosso, che la mano aveva steso sopra il piccolo paese, emerse una croce uncinata, nera, pesante, tridimensionale, grandissima, che si trasformò in un punto di domanda. E di nuovo il cane si mise ad abbaiare numeri… Lo straniero affondò il viso nei cuscini. Prese a lamentarsi nel sonno.



Su un lato della piazza c’era un piccolo negozio. Nella sua vetrina illuminata una Madonna gotica, benediceva pacificamente i passanti levando le mani al cielo.



1. A causa di un deplorevole errore…

Marie voleva diventare una maestra. I genitori della ragazza avevano un negozio di libri religiosi, immagini e oggetti sacri nella Marktplatz. La loro attività non era però più «al passo coi tempi» e quello che guadagnavano quasi non bastava per vivere. La costante paura che prima o poi fosse loro vietato di lavorare gravava sulla vita quotidiana e i genitori di Marie temevano di dover subire le offese, forse anche le aggressioni dei giovani nazisti. L’accesso al corso di studi pedagogici che Marie avrebbe voluto frequentare era stato appena sospeso per le donne, fino a data da definire. Il governo aveva inoltre introdotto l’obbligo di un «anno di servizio» da compiere prima di potersi iscrivere ai corsi superiori. E a parte tutto ciò, i soldi per finanziare gli studi Marie non li aveva. Dopo lunghe discussioni con i genitori e non poche visite all’onnipotente Ufficio del lavoro, a Marie venne assegnato un posto come cameriera presso la famiglia Pfaff. Dagli Pfaff avrebbe dovuto occuparsi di quattro bambini. Piccola di statura e di costituzione piuttosto delicata, Marie avrebbe di certo preferito un lavoro non così pesante e mal pagato. In verità, c’erano molti posti che le sarebbero piaciuti. Il personale di servizio domestico scarseggiava e Marie si era presa un bello spavento quando all’Ufficio del lavoro le tolsero di mano i seducenti annunci con offerte di impiego che lei aveva raccolto, per spedirla poi presso la famiglia Pfaff come fosse un soldato arruolato e costretto a raggiungere il proprio reggimento. Lo stipendio era di ventidue marchi al mese. Doveva cucinare, occuparsi dei bambini, cucire


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per la famiglia e pulire la casa. E, come se non bastasse, alla sera era naturalmente obbligata a prestare servizio nella Organizzazione delle donne Nazionalsocialiste. «Ma non posso andare dove mi piace?» aveva domandato Marie, mentre gli annunci con offerte di impiego che aveva raccolto scomparivano in un cassetto. «Voglio dire: non ho assolutamente nessuna possibilità di scelta?» L’impiegata addetta all’assegnazione dei posti di lavoro, una donna massiccia dai tratti duri ma non del tutto antipatica, reagì con una breve risata. «Assolutamente nessuna» rispose e fornì a Marie un giornale, come volesse scambiarlo con gli annunci che aveva requisito. Marie lesse il titolo di apertura: nascite: un problema primario.1 Bastarono le prime righe per capire come l’articolo fosse indirizzato proprio a lei, alla futura cameriera. Guardò di che giornale si trattasse e le venne la pelle d’oca. Era Das Schwarze Korps. Marie sapeva che tutto quello che era scritto su quel giornale, ogni minaccia e ogni segnale d’allarme, possedeva un’autorità indiscutibile. Das Schwarze Korps, l’organo delle Schutzstaffeln (SS), le truppe scelte di Hitler in uniforme nera, era sempre assolutamente sicuro del fatto suo. Già mesi prima che una legge o un’ordinanza fossero ufficialmente promulgate, Das Schwarze Korps era informato di ciò che stava per accadere. Di fatto non si trattava solo di informazione, ma anche di un contributo al verificarsi degli eventi. Se nelle colonne del giornale compariva un appello, oppure si portava alla luce un «pubblico scandalo», non c’era bisogno di nessuna ulteriore conferma: l’appello veniva ascoltato, lo «scandalo» eliminato. «La questione del personale di servizio domestico» lesse Marie «va a nostro avviso considerata alla luce dei molteplici provvedimenti di politica demografica voluti dal governo. E dal successo della nostra politica demografica dipende alla fine il futuro del nostro popolo.» «Ma in che senso?» si domandò Marie. «Qual è il legame?» Continuò a leggere. Secondo l’articolo la situazione era più o meno la seguente: dato lo scarso salario, molte cameriere non vogliono andare a lavorare presso famiglie con prole numerosa. Se però i genitori che hanno già una prole numerosa non riescono a ottenere un aiuto domestico, allora non vorranno più avere altri figli. Di conseguenza sarà il futuro del nostro popolo a essere danneggiato.


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«Non è più il caso di minimizzare» scriveva Das Schwarze Korps «perché ora ci troviamo di fronte a una situazione di emergenza nazionale che ha indubbiamente conseguenze incalcolabili.» Seguivano poi un secondo titolo in grassetto: stando semplicemente a guardare non si risolve il problema e un terzo: è il momento di intervenire energicamente. A quanto pareva, i chiari provvedimenti educativi voluti dallo Stato non avevano ancora sortito gli effetti desiderati. La parola d’ordine attuale doveva quindi essere «intervento energico». A quei compatrioti «di immorali inclinazioni» che «per mancanza di senso del dovere e di responsabilità» avevano abbandonato l’impiego precedente per assumerne un altro meglio pagato e meno pesante, la recente sentenza della pretura di Weimar doveva servire da «severo ammonimento». Una cameriera che aveva abbandonato il proprio posto di lavoro con intenzioni dolose era stata condannata a due mesi di carcere. «Noi approviamo questa decisione, poiché l’ultima cosa che deve far fallire importanti piani di politica demografica è il libero appagamento dei bisogni individuali.» Marie, attonita, riconsegnò il giornale alla massiccia impiegata dell’Ufficio del lavoro. «Vede, signorina?» disse l’impiegata. «Due mesi di carcere. Siamo in regime di emergenza nazionale. Allora, accetta di andare dagli Pfaff?» Marie fece cenno di sì. «Certo. Se le cose stanno così, è chiaro che sono costretta ad andarci.» Una volta a casa, ripresasi dallo spavento, Marie pensò che in fondo non le avrebbe fatto poi male. Io lavoro volentieri e quest’anno di «praticantato» mi servirà per la professione e anche per la mia futura vita matrimoniale. Riguardo al matrimonio Marie aveva già idee e piani concreti. Era fidanzata con il figlio di un operaio, che era appena riuscito a diventare caposquadra. Il giovane aveva però intenzione di diventare avvocato. La sera lavorava nella fabbrica siderurgica, di cui anche suo padre era dipendente, e di giorno si preparava al primo esame di Stato per l’avvocatura. Marie ammirava il suo zelo e amava il coraggio, la capacità di resistenza e il radioso ottimismo del suo Peter, che manteneva il buon umore in ogni occasione, indipendentemente da quali difficoltà si presentassero. Inutile dire che Peter era iscritto al Nationalsozialistischer Studentenbund, l’Organizzazione degli studenti nazionalsocialisti. Marie invece aveva appena


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lasciato il Bund Deutscher Mädel, l’Organizzazione delle ragazze tedesche, ed era entrata a far parte del Nationalsozialistischer Frauenschaft, l’Organizzazione delle donne nazionalsocialiste. Sia Marie sia Peter avevano tuttavia buone ragioni per non essere contenti dei nazisti. Di fatto restava loro pochissimo tempo per stare insieme, oppure per fare cose che davvero li interessavano. Erano continuamente costretti a partecipare alle esercitazioni, dovevano impadronirsi della «giusta visione del mondo», oppure adempiere a una qualche corvé, mentre loro volevano stare insieme, leggere o studiare. E se magari la domenica si rallegravano alla prospettiva di fare una gita in montagna, ecco che puntualmente capitava una «marcia a passo sostenuto con zaini in spalla» o un’altra esercitazione obbligata di carattere militare. Marie era una buona cattolica. Fin da bambina le piaceva guardare le immagini sacre nel negozio dei suoi genitori e ascoltare il padre mentre raccontava con passione le storie della Bibbia. Le sapeva rendere così vive! Dato che però Peter era un convinto nazionalsocialista e un ardente patriota, lei si era adattata al nuovo ordine delle cose e non aveva mai sentito l’esigenza di opporsi con azioni o pensieri allo Stato nazista e alle sue regole. In generale era piena di speranza per il futuro, così come anche il suo fidanzato, Peter, che tuttavia a volte nutriva qualche dubbio. La direzione del Nationalsozialistischer Studentenbund aveva pianificato di ridurre da tre a un anno la durata dello studio per conseguire il titolo di avvocato. «Temo che in questo caso si stia un poco esagerando» disse Peter. «Se si tiene presente che in quell’unico anno bisogna anche assolvere i doveri ufficiali di partito, a cui vanno aggiunte le quattro settimane da passare nel campo di esercitazione, è chiaro che la cosa non è umanamente fattibile.2 D’accordo, per noi nazionalsocialisti gli esami sono più facili, ma se si vuole diventare un buon avvocato bisogna comunque studiare molto. A volte mi spavento all’idea…» e mentre diceva queste cose, Peter sembrava davvero preoccupato, «… all’idea di diventare uno di quegli individui per cui il patriottismo va a sostituire capacità e affidabilità professionale. In qualche modo, comunque, noi ce la faremo…» concluse Peter e si informò della famiglia Pfaff. «Gli Pfaff non sono poi gente da invidiare» disse Marie. «Quattro bambini e in casa entrano duecento marchi al mese. D’altronde Herr


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Pfaff è un impiegato dello Stato e quindi non può avere meno di quattro figli.» Peter reagì all’improvviso con durezza: «Dio mio, parli come una che non capisce niente o come se il nostro governo si impuntasse per puro divertimento sulle famiglie numerose». Marie mise il braccio intorno al collo di Peter e accarezzò con dolcezza i suoi lineamenti duri da ragazzo. «E tu parli come se fossi l’incarnazione dello Schwarzes Korps e non il mio caro Peter, che appartiene a me e a nessun altro.» Peter si liberò dal suo abbraccio. «No, no! Qui si tratta di una cosa seria. Inoltre tu sai bene che io non appartengo solo a te. Io appartengo soprattutto alla nostra patria. E per quanto riguarda gli Pfaff, fanno solo il loro dovere, questo è tutto. Il Reichsführer delle SS Himmler si è espresso di recente con assoluta chiarezza: “Ogni tedesco sano e giovane commette in piena coscienza un grave crimine contro il popolo a cui appartiene, se tra il venticinquesimo e il trentacinquesimo anno di età […] non dona al suo popolo, e di conseguenza al futuro della sua nazione, almeno quattro o cinque figli”.»3 Marie sorrise: «L’hai imparato a memoria?». Peter che andava avanti e indietro per la stanza, come se tenesse una conferenza, rispose serio: «Me lo sono notato per iscritto perché equivale a una legge. Non dimenticare, io sono avvocato, e un giorno diventerò anche padre». Disse queste parole senza nessuna traccia di tenerezza e senza un’ombra di ironia. Pur commossa dalla giovanile serietà del suo fidanzato, Marie sentì tuttavia un brivido salirle lungo la schiena. «Ho parlato senza pensare» aggiunse. «Volevo solo dire che non è semplice farcela con duecento marchi al mese.» Irritato, Peter si mise a declamare: «“La questione dei figli non è in prima linea un problema economico.” E questo non sono io a dirlo. Si tratta di parole pronunciate dal Reichsführer delle SS Himmler nel suo discorso. Io le ho imparate a memoria, ti piaccia o meno. E Himmler dice altro ancora: “I nostri antenati, soprattutto nei periodi difficili tra il Diciassettesimo e Diciottesimo secolo, si sono forse chiesti, se a loro come genitori, la prole numerosa, cosa del tutto naturale all’epoca, finisse per togliere qualche piacere? Perché alla fin fine è solo questo il senso di tutte


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quelle mille scuse codarde, secondo cui non è possibile allevare quattro o cinque bambini e dar loro da mangiare. Tali obiezioni non sono solo disoneste e di carattere asociale, ma sono anche sintomo di un atteggiamento di innominabile sporcizia morale e profondo egoismo che mira esclusivamente al raggiungimento dell’indipendenza da qualsiasi legame e all’aumento dello standard di vita, prova ne sia l’utilizzo del denaro per bagordi e consumo di alcol invece che a beneficio della prole”». Mentre citava Himmler, Peter continuava ad andare avanti e indietro per la stanza. Marie avrebbe potuto obiettare molte cose. Il nostro standard di vita è già così basso e negli ultimi anni è talmente peggiorato, avrebbe potuto dire, che non sarebbe stato per nulla sintomo di «innominabile sporcizia morale», né atteggiamento «egoistico» o «asociale», il cercare di alzarlo un poco. E poi la ragione per cui si mettono al mondo non più di due o tre bambini è veramente il desiderio di innalzare lo standard di vita individuale? Certo che no. Così si cerca solo di non abbassarlo ulteriormente, di evitare che si sprofondi ancora di più in quell’abisso in cui quei quattro o cinque bambini che Herr Himmler pretende da noi comunque ci trascinerebbero. Tutto questo avrebbe potuto ribattere Marie. Di fatto lei però non arrivò nemmeno a formularli, simili pensieri. Anche Marie conosceva più o meno a fondo le idee di Herr Himmler che, come tutte le comunicazioni importanti, si potevano leggere sullo Schwarzes Korps. «Traditori della patria» e «criminali» erano le definizioni con cui egli indicava tutti coloro che «non seguivano l’imperioso richiamo della natura» e volevano generare meno di quattro figli. Himmler, cosa piuttosto curiosa, aveva anche aggiunto: «Soprattutto quei tedeschi che vogliono essere d’esempio, nei pensieri tanto quanto nelle azioni, non possono assolutamente dimenticare il fatto che il riconoscimento di questa minaccia per la sussistenza della nostra nazione non deve rimanere solo di carattere teorico». Marie fece un sospiro e scosse la testa. I traditori della patria in Germania venivano liquidati in fretta. Forse gli Pfaff avevano ragione, pensò. Forse è meglio avere quattro figli e infinite preoccupazioni, piuttosto che rifiutarsi di seguire «l’imperioso richiamo della natura» – che poi equivale alla voce del Reichsführer Himmler. Anche questo pensiero, però, Marie lo tenne per sé. Peter si sedette sul bracciolo della poltrona, allungò le gambe e divenne un poco più dolce:


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«E va bene, non ti preoccupare, Marie» disse. «Lascia perdere gli Pfaff. Noi» e nel dirlo si inorgoglì «noi ce la faremo. Aspetta solo che io abbia finito gli studi e cominci a lavorare.» Marie annuì. «Nei negozi non si trova più nulla di buono» disse. «A volte non so davvero più che cosa cucinare.» Marie si mise a ridere. «Vuoi sapere che cosa mi è successo ieri? Ero andata a fare la spesa ed è stata proprio una brutta giornata. Non c’era burro, non c’erano uova e non si trovava nemmeno la farina. Io però avevo bisogno proprio di burro, uova o almeno farina, ma, qualsiasi cosa chiedessi, il proprietario del negozio rispondeva: “No, non ce l’ho”. Alla fine mi ha detto: “Adesso, signorina, davvero mi lasci in pace. È qui per comprare qualcosa, o per iniziare una discussione politica?”. Poi mi ha proposto un nuovo tipo di tritello d’avena, a parer suo molto buono. Ma io non volevo farina d’avena.» Peter divenne inquieto. «Marie, davvero, stai più attenta. Lo sai che nei negozi non bisogna parlare di politica.» Marie stava ancora ridendo. «Ma scusa!» disse. «Se una cosa simile la chiami una discussione politica…» Peter cambiò argomento e chiese come erano i figli degli Pfaff. In realtà voleva capire se Marie avesse imparato abbastanza per essere poi in grado di crescere quei figli che un giorno avrebbero avuto. «Il piccolo Fritz è malato» disse Marie. «Continua a piangere. Non smette mai e ha in faccia delle macchie orribili. Il dottore dice che è colpa della margarina. Non c’è molto da fare.» Peter aggrottò le sopracciglia. «Stupidaggini!» disse. «Non può essere la margarina. Forse gli dai da mangiare qualcosa che gli fa male.» Peter e Marie indossavano le loro uniformi, la sera entrambi avevano un’esercitazione ufficiale. «Oggi devo mettercela davvero tutta» disse Marie. «L’altroieri, nella corsa sono arrivata due volte ultima. Non sto a dirti quanto si sia arrabbiata la nostra allenatrice.» Peter, che era un campione, quella sera fu fermo: «Sì, metticela tutta Marie, così evitiamo altre lamentele». Negli ultimi giorni Marie non si era sentita bene. Le faceva male la schiena e aveva perso l’appetito. L’atmosfera dagli Pfaff non era molto


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piacevole. La ragione non erano solo i pianti continui del piccolo Fritz, le tensioni dipendevano piuttosto da Herr Pfaff, esaurito dal lavoro e lunatico, che se la prendeva con chiunque in casa con la scusa del cibo scadente. Finiva sempre che Frau Pfaff si metteva a piangere. Il giorno prima Marie aveva cercato almeno di cucinare un gustoso sformato di patate, insieme a una torta di pane, usando la marmellata al posto della polpa dato che non si trovava nemmeno la frutta fresca. Come se non bastasse, gli Pfaff temevano anche di perdere la casa e a ragion veduta. L’intero edificio in cui si trovava il loro appartamento stava per essere requisito. Una decisione del partito. Per questo motivo nel poco tempo libero, Herr Pfaff era costretto a guardarsi attorno alla ricerca di una nuova casa. Gli avevano consegnato una lista di nomi di cittadini ebrei. Non appena egli avesse trovato una casa, oppure un bell’appartamento che facesse al caso suo, gli ebrei che vi abitavano sarebbero stati costretti ad andarsene per fare posto agli Pfaff, che così avrebbero ottenuto un nuovo focolare. A Herr Pfaff questa situazione non piaceva affatto. «Non voglio che quella gente venga sbattuta in strada, anche se sono ebrei» diceva. «E che senso ha sprecare così il proprio tempo… a correre da una casa di ebrei a un’altra come un venditore ambulante!» Secondo Marie, Herr Pfaff diceva sciocchezze. Gli ebrei erano una razza inferiore. Herr Pfaff lo sapeva, così come lo sapeva lei, Marie. Perché mai gli ebrei avrebbero dovuto avere un tetto sulla testa, mentre gli Pfaff, che erano dei buoni tedeschi, perdevano il proprio? A ogni modo Marie si sentiva priva di forze. Non era per nulla in forma. Quella sera fu di nuovo un fallimento, la responsabile del gruppo ginnico la criticò durante l’allenamento per il salto in lungo. Marie disse di voler andare il giorno dopo da un medico, che di certo le avrebbe prescritto qualche cosa. La responsabile le consigliò il giovane dottor Killinger. «È del partito» disse. «È il primo assistente nell’ospedale cittadino, ma al pomeriggio riceve nel suo ambulatorio. Il dottor Killinger l’aiuterà di certo.» Dalla visita presso il camerata medico Killinger, Marie tornò a casa più morta che viva. Per prima cosa aveva dovuto aspettare due ore. Poi il giovane medico nazista le aveva fatto delle avance, reagendo in modo assai aggressivo di fronte al suo rifiuto. La cosa peggiore però, la notizia terrificante, era arrivata dopo. In seguito a una visita precipitosa e super-


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ficiale – Marie aveva dovuto solo spogliarsi dalla pancia in su – il medico aveva emesso la sua diagnosi. «Ma scusi, che malattia crede di avere?» aveva detto ridendo. «Lei non ha proprio niente di niente, signorina. Lei è incinta, tutto qui.» La stanza dell’ambulatorio iniziò a girarle intorno. Per lo spavento e l’ansia Marie non riusciva a parlare. «Non può essere, non deve essere… è assolutamente impossibile» questo fu tutto ciò che riuscì a balbettare. Quel bambino, in nome di Dio, come avrebbe potuto sopravvivere, dato che né lei, né i suoi genitori, né Peter potevano provvedere a lui? Dopo una notte miserabile in cui pianse ininterrottamente, Marie si confidò con Peter. «Io semplicemente non riesco a crederci» disse Peter e aggiunse: «Sai che ti dico? Tu vai a Monaco. Lì mio zio dirige una clinica ginecologica. A dire il vero a me lui non piace molto, è uno di quei liberali di vecchia scuola, ma pare sia un ottimo medico. Questo dottor Killinger non ha studiato abbastanza e inoltre ha una marea di pazienti. Si è sbagliato di sicuro». Marie andò a Monaco. Lo zio di Peter, quel liberale di vecchia scuola, era un gentile signore abbastanza in là con gli anni. Le fece una visita approfondita e Marie sentì che si poteva fidare. «Nessuna traccia di un bambino» disse il medico alla fine. «Piuttosto lei, mia cara signorina, è denutrita. Esaurita dal lavoro e in complesso senza forze.» Il medico propose di trattenerla un paio di giorni nella sua clinica. Le avrebbe fatto fare qualche iniezione ricostituente, sottoponendola a un regime alimentare migliore. Si sarebbe rimessa in fretta. Marie ringraziò e accettò l’offerta. Gli Pfaff se la potevano cavare tre giorni senza di lei. Certo, la sua assenza avrebbe fatto infuriare l’allenatrice. Marie sperava però di tornare a casa in forze e di poter migliorare le sue prestazioni, e allora tutto si sarebbe sistemato. Telefonò a Peter. Lui fu contentissimo. «Vedi!» esclamò il giovane. «Te l’avevo detto! Quel Killinger dovrebbe farsi rimborsare il denaro delle tasse che ha pagato per studiare.» Al pensiero del camerata Killinger, Marie provò un evidente malessere. Era sicura che adesso lui l’avrebbe odiata. Marie non aveva solo rifiutato le sue avance, era poi andata anche da un altro dottore, un «liberale della vecchia scuola», che non aveva con-


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fermato la sua diagnosi. Ma come può nuocermi il camerata dottor Killinger? si chiese e decise di godersi il buon cibo che le veniva offerto in ospedale. Che cosa avrebbe potuto mai farle, dopo tutto, quel giovane medico, indubbiamente offeso nel proprio onore? Quando Marie, dopo i tre giorni d’assenza, tornò agli allenamenti dell’Organizzazione delle donne, la responsabile l’accolse con la faccia scura. «Lei quindi è stata a Monaco?» disse. Era chiaro che sapeva dove Marie aveva passato quei giorni. Marie annuì. «Speriamo che la passi liscia» continuò la donna. «Del resto a Dachau non si sta poi così male.» Marie in preda al terrore non comprese subito il senso di quelle parole. Più tardi fu Peter a chiarirle il significato della terribile osservazione fatta dalla responsabile del suo gruppo. «Lei crede che tu fossi incinta e che mio zio a Monaco ti abbia operato.» Passarono giorni e settimane piene di ansia, di incubi e di discorsi disperati che non portavano a nulla. «A noi non può succedere niente» diceva Peter. «Siamo del tutto innocenti e inoltre c’è la parola di mio zio contro quella del dottor Killinger. Che poi è un giovane ignorante che nemmeno ti ha visitata a fondo.» «Ma Killinger è iscritto al partito e tuo zio no. Inoltre io sono rimasta tre giorni nella clinica a Monaco… e questo vale come indizio a mio sfavore.» Peter era sprofondato nei suoi libri di legge: «E sia, ammettiamo che Killinger arrivi a querelare mio zio, allora potrebbe anche accadere qualche cosa. In un processo però la verità verrebbe comunque alla luce». Marie, che nell’Organizzazione delle donne era ormai guardata come una criminale, scosse disperata la testa. «La verità…» disse. «Non so… temo che da noi la verità non valga poi così tanto. Ho paura» esclamò, scoppiando piangere. «Non riesco nemmeno a dirti quanto sia terribile la paura che provo!» La fronte di Peter era imperlata di sudore, ma il giovane cercò di consolare Marie.


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«Non devi avere paura» disse e le accarezzò i capelli per tranquillizzarla. «Soprattutto non devi fare vedere a loro che hai paura. Se appena lo fai, siamo perduti.» «Perduti», era terribile sentir dire da Peter una cosa simile. Da Peter, che di solito era sempre così coraggioso e ottimista e così sicuro del fatto suo. «Perduti!», Marie aveva smesso di piangere e lo guardava con gli occhi spalancati e pieni di terrore. Come se fosse un fantasma, così Marie guardava il suo Peter. E poi accadde. Un giorno Frau Pfaff chiamò in disparte la cameriera e le disse: «Marie, mi dispiace molto, e tu sai bene quanto io abbia bisogno di te, ma sono certa che capirai, ho sentito delle cose, cose terribili, può finire molto male…». Marie rispose con la voce che le tremava e in modo poco convincente: «Ma non è vero, non c’è proprio nulla di vero…». Marie stava in piedi in mezzo alla stanza. Aveva le vertigini. Frau Pfaff, una donna benevola e maldestra, era convinta che la ragazza mentisse, tuttavia cercò di consolarla. «Ammetti che è vero, Marie!» disse. «Pensa ai tuoi genitori e a Peter. Se si arriva a un processo, scoppierà un enorme scandalo. Credo che oggi lo si chiami alto tradimento, oppure omicidio, o non so bene come…» La brava donna faceva una gran confusione coi termini, ma le sue parole trafiggevano Marie come lame di coltelli. La ragazza raccolse le sue cose e lasciò l’abitazione degli Pfaff. A casa sua non poteva andare, come avrebbero reagito i genitori? Anche a Peter non poteva dire di essere stata licenziata in tronco. Mise la sua borsa al deposito bagagli della stazione e per ore non fece altro che camminare per la città. La sera, alla riunione dell’Organizzazione delle donne, si ripeté la medesima scena, le fu rivolta la stessa accusa davanti al gruppo riunito, davanti a tutte le donne e le ragazze, che si parlavano all’orecchio, ridacchiando. Alcune di loro guardavano Marie con pietà, la maggioranza invece con astio. «Sospesa a tempo indeterminato!» questa fu la sentenza letta dal capo del gruppo prima di formare i ranghi. «E ciò significa fino a quando la situazione non sarà completamente chiarita… Sempre che ci sia ancora qualcosa da chiarire.»


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Marie decise di non dire a Peter nulla di quanto era accaduto. Forse non sarebbe comunque venuto a saperlo. In quei giorni Peter non parlava quasi con nessuno. Dai genitori, però, doveva tornarci, per forza. Mentre andava a casa, le venne in mente che due giorni prima avevano attaccato alla vetrina del negozio dei genitori un volantino di minacce, per via delle immagini sacre che erano esposte. Erano stati alcuni giovani nazisti scalmanati. Degli estremisti, naturalmente il partito non c’entrava. Il fatto era comunque orribile e decisamente inquietante. La mattina dopo i genitori avevano stracciato il volantino, non senza averlo fatto prima vedere al poliziotto all’angolo. Gli avevano anche chiesto, se non fosse così gentile da dare una controllata la sera al negozio, non si sa mai che cosa poteva succedere. Il poliziotto però, anche se quel volantino non era di suo gradimento, e si vedeva, aveva scosso la testa. «Mi dispiace», disse «mi dispiace molto, ma che io faccia la guardia al vostro negozio, non è cosa di pubblico interesse. Ho i miei ordini e quelli devo eseguire, altrimenti per me sono guai.» In seguito a quanto era successo, i genitori avevano cambiato la vetrina. Dove prima c’era la statua della Vergine Maria con il suo bel mantello azzurro, ora campeggiava un’immagine del Führer, e invece della Bibbia a ornare la vetrina minacciata c’era solo un’edizione del Mein Kampf. La notte dopo non era accaduto nulla. Marie andò a casa a piedi, i tram erano di nuovo strapieni. La ragazza temeva di incontrare qualche conoscente che avrebbe potuto farle domande spiacevoli. «Se dimostri di avere paura, allora siamo perduti» le aveva detto Peter. Marie non era però abituata a mentire e non riusciva a nascondere la paura, che si era impadronita di lei. La Marktplatz era piena zeppa di gente. Doveva essere successo qualcosa. Forse un tram era uscito dai binari, cosa che negli ultimi tempi accadeva spesso. Il cuore di Marie prese però a battere più veloce quando, avvicinandosi, vide che la folla si accalcava proprio intorno alla casa dei suoi genitori. Sentì qualcosa scricchiolare sotto la suola delle scarpe: erano schegge di vetro. La vetrina del negozio, pensò. L’hanno rotta! Un mucchio di schegge di vetro! Era difficile pensare che una sola vetrina potesse rompersi in così tanti pezzi. Per terra c’erano anche le immagini


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sacre in frantumi, insieme ai resti del crocifisso rotto, quell’antico crocifisso, stupendamente intagliato, davanti al quale Marie, da bambina, si era sempre inginocchiata; e poi pagine della Bibbia nere di cenere e bagnate. Qui e là brillavano le perle di un rosario strappato, come fossero lacrime. Il negozio era distrutto, dato alle fiamme. Quello che era rimasto gocciolava ancora dell’acqua degli idranti usati per domare il fuoco. Lei riuscì a stento a non cadere per terra e si aprì un varco tra la folla. Chi la riconobbe, la lasciò passare. Se avesse potuto percepire qualcosa d’altro oltre a tutta quella distruzione intorno a lei e alla paura che le attanagliava il cuore, Marie avrebbe visto che gli sguardi a lei rivolti non erano ostili. Al contrario, erano sguardi amichevoli, colmi di partecipazione. Molte persone erano decisamente arrabbiate e piene di disgusto per quello che era accaduto. All’improvviso comparve un giovane delle SS. La gente fece finta di non averlo visto. Il giovane contrasse le spalle, come se un brivido di gelo gli fosse appena passato lungo la schiena. Marie chiese: «Dove sono i miei genitori?». Il giovane delle SS rispose, con un tono quasi mortificato: «I suoi genitori sono ora agli arresti. La gente era fuori di sé, ce l’aveva con la posizione politica del mondo cattolico a cui i suoi genitori sfortunatamente erano legati. Non era più possibile garantire la loro incolumità. Si tranquillizzi signorina!» aggiunse, vedendo che Marie stava per svenire. «Gli arresti non sono nulla di vergognoso, e la vita delle persone arrestate non è in pericolo. Si tratta solo di una misura di Stato presa nell’interesse della sicurezza generale, niente altro che questo.» Un lavoratore che stava più o meno tre metri dietro l’SS si mise all’improvviso a gridare «Porci! Assassini! Tu, Nazi, vedi di filartela altrimenti…» L’operaio non ebbe bisogno di concludere la sua minaccia. Invece di fischiare per chiamare i rinforzi, l’SS se la diede semplicemente a gambe, come se fosse inseguito dal diavolo. Mentre correva a grandi falcate, perse anche il suo bel berretto nero. Lo lasciò lì, tra le schegge di vetro e le macerie. Il teschio sulla visiera brillava come le perle disperse del rosario. Marie non sapeva come fosse poi riuscita a trovare la strada per l’appartamento di Peter. Il giovane era alla sua scrivania, gli occhi fissi su una lettera. Sembrava che stesse lì seduto da ore.


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«Una citazione in tribunale» disse quando Marie entrò nella stanza. «Hanno citato mio zio e anche noi. Leggi…» Così dicendo mostrò a Marie la lettera in cui lo zio con la sua scrittura sottile e ampia comunicava le novità. «Hanno distrutto il nostro negozio. I miei genitori sono agli arresti – il crocifisso…» disse Marie e solo allora scoppiò in lacrime, come se quel crocifisso, il crocifisso così ben intagliato, fosse la cosa più triste di tutte. «Il crocifisso…» pianse Marie, abbandonandosi sulla poltrona, come se qualcuno l’avesse appena colpita. Peter non fece niente per consolarla. «È del tutto inutile, non ne veniamo fuori comunque» disse. «È tutto contro di noi. Mio zio è odiato, Killinger è potente e io sono stato già estromesso dall’Organizzazione degli studenti nazionalsocialisti.» (E io che non volevo raccontargli nulla… pensò Marie). «È inutile, tutto è inutile…» ripeté Peter senza abbassare la voce. Marie fece di sì con la testa. Peter aveva bisogno di pensare ad alta voce. Marie sapeva quello che ora era diventato inevitabile. Disse solo: «Sì… sarebbe di certo la cosa migliore». «Vieni!» disse Peter. «Non è il caso di spaventare la gente del palazzo…» Peter tirò fuori dal cassetto il suo revolver e prese il cappotto. Riesce ancora a non dimenticarsi il cappotto, pensò Marie. Nella tasca della sua giacca la ragazza sentiva la chiave del negozio, un pezzo di ferro freddo, duro. Una serratura di sicurezza, pensò. Ora chiunque può entrare, chiunque può rovistare tra le macerie… Lo stretto sentiero che conduceva al fiume a quell’ora era deserto. Peter e Marie si appoggiarono ai piloni del vecchio ponte. Si fissavano l’un l’altra, pallidi in volto. Nessuna lacrima, i loro occhi erano asciutti. Non c’era niente, assolutamente più niente da fare. Solo l’unico, enorme sgomento di essere arrivati a quel punto. Peter giocò con lo stemma del partito sulla giacca di Marie. «Io ce l’ho sempre messa tutta. Non ero cattiva e non sono mai stata ribelle. Peter, dimmi anche tu che non ero cattiva…» disse lei. Peter le mise il braccio intorno alle spalle. «No,» disse «noi non eravamo cattivi, ma ci sono molti che…» voleva dire «sono morti», ma non ce la faceva a pronunciare quelle parole «… che non ci sono più e non erano cattivi, e anche loro non erano ribelli o colpevoli…»


1. A causa di un deplorevole errore…  41

Marie appoggiò la testa sulle spalle di Peter: «Non dirmi quando lo fai, non dirmelo, non devo saperlo». Peter la baciò e tirò fuori il revolver dalla tasca. Marie aveva chiuso gli occhi. Peter teneva la sua mano sinistra appoggiata sulla spalla destra di Marie, come se volesse guardarla da vicino e con amore. Poi schiacciò il grilletto. Partirono due colpi. Due detonazioni attutite echeggiarono sotto le arcate del ponte. Marie morì subito. Peter durante il trasporto in ospedale. Nonostante l’assenza di due dei tre accusati, il processo si svolse puntualmente il giorno stabilito. L’accusato, grazie all’evidenza della situazione probatoria, poté dimostrare la sua innocenza. L’infermiera capo della sua clinica, un alto funzionario di partito, testimoniò a suo favore, mentre il giovane membro del partito Killinger non potè presentare alcun testimone. A parere del giudice, Killinger aveva agito «con una sconsiderata mancanza di responsabilità» sollevando un’accusa «insostenibile». «A causa di un deplorevole errore lo Stato nazionalsocialista ha perso due giovani vite, promettenti e volonterose» concluse il giudice. «Heil Hitler!» Il caso era chiuso. L’assemblea si sciolse. Tutti andarono via.



Nella nostra città nessuno se ne sta con le mani in mano, il morale è buono e tutto procede secondo la norma. Dopo aver fatto i loro acquisti, le nostre solerti donne di casa amano incontrarsi per scambiare due parole. Nel volto di alcune si può forse leggere stanchezza e abbattimento, tuttavia le loro chiacchiere vivaci non forniscono motivi di inquietudine.


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