A cura di Roberto Alajmo
Repertorio dei pazzi d’Italia Lunatici, giullari e matti che vagano per le nostre città Testi di Francesco Abate, Roberto Alajmo, Silvia Ballestra, Giuseppe Catozzella, Gian Luca Favetto, Marcello Fois, Andrej Longo, Pulsatilla, Ugo Riccarelli, Sandro Veronesi
www.saggiatore.it (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore © il Saggiatore S.p.A., Milano 2012
Repertorio dei pazzi d’Italia
Sommario
Introduzione
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Repertorio dei pazzi della città di Trieste di Roberto Alajmo
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Repertorio dei pazzi della città di Milano di Giuseppe Catozzella
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Repertorio dei pazzi della città di Torino di Gian Luca Favetto
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Repertorio dei pazzi della città di Bologna di Marcello Fois
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Repertorio dei pazzi della città di Prato di Sandro Veronesi
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Repertorio dei pazzi della media costa adriatica di Silvia Ballestra
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Repertorio dei pazzi della cittĂ di Cagliari di Francesco Abate
91
Repertorio dei pazzi della cittĂ di Roma di Ugo Riccarelli
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Repertorio dei pazzi della cittĂ di Napoli e della regione Campania di Andrej Longo
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Repertorio dei pazzi della regione Puglia di Pulsatilla
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Non tutti lo sono, non tutti ci sono. Iscrizione all’ingresso del manicomio di Agrigento
Il curatore sente di dover ringraziare Enrico Deaglio, direttore del settimanale Diario, dove una rubrica «Enciclopedia dei matti italiani» è apparsa per un paio di anni. Grazie poi agli editori Letizia Battaglia, Garzanti, Mondadori e Lint per l’opportunità, ogni volta, di ricominciare a cercare. E, infine, a tutte le persone che hanno avuto la pazienza di ricordare e tramandare le storie che si trovano in questo libro.
Introduzione
Meglio sempre domandarsi se per caso i tempi belli erano belli perché noi eravamo più giovani, ma si può dire con ragionevole certezza: i matti non sono più quelli di una volta. Gli ultimi cinquant’anni, in maniera quasi inavvertita, hanno segnato una trasformazione nella percezione della follia da parte della società. Dallo scandalo post-Basaglia si è passati all’omologazione. Persino la pazzia si è andata adeguando a determinati modelli. Specialmente nelle grandi città, i matti pubblici rientrano quasi tutti in due o tre prototipi: la gattara, il comiziante, il tizio col carrello del supermercato. Prototipi che si incontrano quasi a ogni angolo. Matti senza sugo, che osservati una volta escono subito dall’immaginario proprio perché contraddistinti da un troppo forte sapore di déjà vu. Basta rivolgere loro uno sguardo che è di volta in volta irridente o pietoso, e subito finiscono all’ammasso dei luoghi comuni. In questo libro dieci scrittori sono stati chiamati ad aggirare questi luoghi comuni grazie alla loro scrittura; e ancora prima, grazie al loro sguardo sulla rispettiva città di origine o di ado-
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zione. Dieci scrittori scelti sulla base di competenza e appartenenza. Competenza letteraria, appartenenza culturale. Lo sguardo pubblico sui matti, lo sguardo dei sedicenti normali, è schizofrenicamente spartito fra pietismo e sarcasmo. Guarda quel poveretto. Oppure: guarda quel cretino. Difficile riuscire a mantenersi sul crinale sottilissimo che separa la commozione a buon mercato dalla trivialità di una barzelletta sui matti. Proprio qui si misura la competenza di ciascun autore: nella capacità di resistere su questo crinale senza precipitare né da una parte, né dall’altra. Sono belle storie, cioè brutte, cioè belle. L’occhio di chi guarda è diverso quando si va da una provincia a una grande città, fosse anche solo perché nei piccoli centri ci si osserva molto di più. Per questo vivere in una città come Palermo ha consentito di collezionare tre diverse riscritture e riedizioni del Repertorio dei pazzi della città di Palermo. Ma le città italiane, anche quando si fingono metropoli, mantengono un cuore antico che è ancora possibile riuscire a svelare. Ogni città fa storia a sé, e nessuna città italiana può definirsi abbastanza grande e impersonale da avere omologato del tutto i prototipi della follia. Forse ogni città del mondo dovrebbe possedere un repertorio dei pazzi, così come di ogni città esistono le guide dei ristoranti e degli alberghi. Servono a orientarsi, a conoscere di ogni luogo le storie e le filosofie. Certo: i matti di Milano risponderanno a un profilo diverso rispetto a quelli di Foggia. Nelle città a misura d’uomo la pazzia viene coltivata con perseveranza. I poveri perché disoccupati, i ricchi perché disdegnano di lavorare: sta di fatto che una vasta
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percentuale della popolazione ha molto tempo per mettere in pratica ogni personale stranezza. E poi c’è il vento, che in certe città disperde i pensieri sulla pubblica piazza come fogli di un discorso il cui filo sarà impossibile da riprendere. La pazzia, come il gioco, è una delle poche cose che andrebbero prese sul serio. Serissimo è il problema di chi si trova a dover gestire un matto nella propria cerchia familiare. Serissimo dovrebbe essere pure l’approccio verso un mondo che si pone come alternativo alla visione ordinaria della realtà. La follia è una finestra aperta su un paesaggio improvviso e inedito. Quella finestra che in maniera tanto rassicurante aprivamo ogni giorno per vedere il palazzo di fronte, e che improvvisamente, una mattina, si apre su un mondo diverso. Il deragliamento della percezione, anche per un solo giorno, anche per una sola mezz’ora, rappresenta, per tutti coloro che hanno la fortuna di poterlo osservare senza farsene coinvolgere, un’opportunità di arricchimento. Se non altro, il benessere conseguito negli anni dal dopoguerra a oggi non dovrebbe fare perdere di vista a ognuno di noi la possibilità che le cose non vadano sempre e comunque come sono sempre andate. La nostra vita rassicurante è solo un’ipotesi che potrebbe venire smentita da un momento all’altro. A questo, forse, servono i matti nella società odierna: paradossalmente, a non smarrire la strada del buonsenso. Al lettore di questo libro viene chiesto di non abbandonarsi del tutto alla lettura, ma prendersi il tempo di investire sul proprio sguardo. Se ne consiglia una fruizione diluita e ponderata, in modo da non lasciarsi saziare dalla quantità delle storie, e apprezzare di ciascuna la qualità e l’unicità. Per i lettori di ogni
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città il gioco può essere «Questo lo conosco». Ma più interessante ancora è il gioco «Io ne conosco un altro che». Gioco che rende potenzialmente infinita la compilazione di questa «finta enciclopedia», che rappresenta un tentativo maldestro – perecchiano, borgesiano, velleitario – di mettere ordine nel disordine del mondo. R.A., maggio 2012
Repertorio dei pazzi della città di Trieste di Roberto Alajmo
Uno, il più matto di tutti, aprì le porte del manicomio e fece scappare via tutti. Quelli che potevano fare? Certuni nemmeno ci credevano, esitavano. Ma insomma: andarono per le strade, cosa che non si era mai vista. Le persone perbene facevano finta di non vederli, e fu per questo che la cosa funzionò. Fu da allora che, per dire «uomo», in dialetto si disse «matto»: «Quel mato el xé mato». La bora fece il resto, tanto che «impazzito» si dice «imborezà». Uno era un settantenne che si vedeva spesso in piazza della Borsa. Possedeva un paio di scarpe bianche da tennis molto più grandi della sua misura. Aveva un’andatura sincopata, nel senso che camminava fermandosi ogni tanto a guardare le scarpe per vedere se c’erano ancora, e quanto erano belle, e se erano ancora perfettamente bianche.
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Uno era l’Omo Vespa, che aggrediva le donne e le colpiva alle natiche con un punteruolo. Scrisse pure una lettera al Piccolo, sostenendo di essere in missione per conto di Dio, che gli chiedeva di castigare a campione la spudoratezza delle donne. Dopo un mese, così come era comparso, scomparve. Uno circolava in zona Sant’Antonio Nuovo. Indossava una divisa blu da poliziotto. Non aveva le mostrine, ma il berretto era quello. Stava immobile, spesso in piedi, qualche volta seduto in maniera precaria. Solo i primi tempi qualcuno ci cascava e lo prendeva per un agente. Poi la divisa diventò troppo sudicia. Uno era un anziano che indossava sempre – estate e inverno, sempre – mutandoni e maglia di lana. La sua passione era quella di pulire le strade, soprattutto nella zona di piazzetta Belvedere. In nome di questa passione si portava dietro un suo baracchino a rotelle che conteneva scopa, secchio e tutto. Lo fece gratis per molti anni, fino a quando gli abitanti del quartiere, vedendo tanta disinteressata abnegazione, trovarono giusto pagarlo per questo servizio. Mandarono quindi una delegazione a dirglielo, che volevano pagarlo, ma lui si offese moltissimo, tanto che da allora in poi cambiò zona e andò a pulire da un’altra parte. Uno era sempre vestito di rosso, entrava nei negozi e chiedeva se per favore gli regalavano qualcosa di rosso. Fumava in continuazione e non si soffiava mai il naso, anche quando ne aveva estremo bisogno.
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Eccezionalmente chiedeva cento lire. Sempre cento lire. Fino a quando qualcuno gli fece notare che cento lire erano poche: «Chiedine mille, almeno». Da allora in poi, alzò la tariffa. Una era una signora oltre la sessantina. Indossava abiti che sembravano dell’Ottocento, con la veletta e tutto. Faceva il giro dei caffè e si vedeva la sera all’albergo Continentale. Non pagava mai: poi passava un fantomatico marito a saldare i conti. Aveva educato pure sua figlia allo stesso tipo di abbigliamento, e certe volte la portava con sé. Una era la figlia. Viveva facendosi regalare fiori vecchi e andando a venderli al cimitero. Oppure faceva avanti e indietro sul vaporetto che va a Muggia e si offriva di leggere le carte ai gitanti. L’equipaggio l’aveva adottata, regalandole anche un giaccone blu d’ordinanza, che da allora entrò a far parte della sua mise. Uno andava a tutti i funerali, anche a quelli delle persone che non conosceva. Si informava in giro o sul giornale se era morto qualcuno e si presentava vestito di nero, coi fiori. Il momento più interessante era quando bisognava abbracciare i parenti, e i parenti lo abbracciavano veramente, la maggior parte delle volte sulla fiducia. Ma lo abbracciavano anche quelli che sapevano di non conoscerlo, perché in certi momenti pare brutto sollevare questioni. Una era una fioraia serba con gli occhi molto azzurri. Bastava guardarla negli occhi e si capivano un sacco di cose.
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Uno era Diego de Henriquez, che collezionava cimeli di guerra in senso ampio: dai soldatini di piombo ai cannoni veri, anche certuni che, volendo, potevano sparare. Trovava elmetti e fucili dai rigattieri, che avevano imparato a mettergli da parte anche i singoli bossoli che si trovavano in Carso. Oppure se li andava a cercare lui stesso, sugli antichi campi di battaglia. La sua teoria era che ogni pallottola, anche vecchia, sottratta alla guerra era una pallottola guadagnata alla pace. Con gli anni la passione diventò smania. A forza di mettere assieme scatole di bossoli, pistole e bombe a mano riempì la casa di famiglia, e poi altre case, e poi un deposito e ancora altri depositi. Cercando e comprando fece fuori tutto il patrimonio di famiglia, e ancora non ne aveva abbastanza. A un certo punto i cimeli erano diventati troppi anche per lui, quindi cercò di regalarli al Comune. Il sindaco però non ne voleva sapere, allora lui si offese e mise assieme un’ultima cifra per andare a Roma e cercare lì una sede per il suo museo. Nelle more, però, anche quei soldi li spese per cercare e comprare altra roba che non sapeva dove mettere. L’altra sua fissazione era quella di non lasciarsi sorprendere dalla morte e, allo stesso tempo, semplificare la vita dei posteri. Per questo motivo dormiva sempre dentro una bara. E dentro la bara infatti morì, la notte in cui rimase vittima di un incendio. Una era una gattara che aveva i suoi gatti in un quartiere perbene. Portava due borse di plastica col mangiare sia per loro che per lei, si metteva su una sedia mezza sfasciata, mangiava e li guardava mangiare, quando faceva freddo all’interno di cer-
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ti ripari di legno che lei stessa aveva costruito per loro. Alla fine puliva con una scopetta e andava via. Ma si vede che non puliva abbastanza bene, perché gli abitanti della zona un giorno fecero sparire quella specie di baraccopoli per gatti che era una vergogna. Lei e i gatti si ritirarono allora al teatro romano, ma non era per niente la stessa cosa, perché i ripari non glieli fecero costruire. Uno era Gildo, che si fregava le mani in continuazione. Aveva un grosso naso aquilino e indossava sempre il cappotto. Saliva sugli autobus solo per molestare le donne. Nella migliore delle ipotesi, si limitava a una richiesta ossessiva: «Bea, bea, che voi? Dìme, dìme!». Uno era un professore convinto di essere seguito dalla Cia e dall’Fbi, perché tutti complottavano contro di lui. Quando si scoprirono certe possibili infiltrazioni della Cia cominciò ad andare in giro con aria molto soddisfatta, dicendo: «Savevo mi!». Una si aggirava nei pressi di Barcola. Diceva di essere una stilista. In effetti, portava sempre con sé una valigetta dentro la quale teneva alcuni bozzetti di costumi da bagno che non erano per niente male. Raccontava che certi grandi stilisti glieli avevano rubati facendoli passare per loro, senza mai darle un soldo. Se trovava qualcuno che le dava ascolto poteva parlare per ore raccontando sempre questa stessa storia, con minime varianti.
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Uno era un tizio alto dai tratti mediorientali, che sosteneva di essere persona facoltosa. In effetti girava accompagnato da una specie di cameriere, un uomo molto basso vestito quasi da paggetto, che lo guardava con estrema deferenza. Erano soliti passeggiare in piazza Goldoni e importunavano le ragazze. Certuni dicevano che era stato ricco sul serio, ma aveva dissipato tutto al gioco. Uno era una persona colta, che dopo due lauree decise di prenderne una terza. C’era quasi, ma a un certo punto si perse e non si ritrovò più. Montava spesso sui semafori del centro, specialmente su quelli di via Carducci, e si dimenava urlando frasi che nessuno riusciva a decifrare. Una era una donna che circolava alla Stazione centrale vestita in modo succinto. Quando era in sì, domandava cortesemente ai passanti: «Scusa, parli italiano?». Non insisteva, chiedeva solamente. Nei giorni brutti invece si metteva a raccontare di se stessa come se qualcuno fosse lì ad ascoltarla. Diceva di essere un uomo, si sentiva un uomo. Se nessuno le dava importanza, si metteva a urlare e inveire contro il primo che incontrava. Ogni tanto provava a uccidersi, e allora arrivavano gli infermieri. Certe volte la portavano via, certe volte le davano solo qualcosa per farla calmare. Uno si vedeva nei pressi di San Giovanni. Era sempre arrabbiato e bestemmiava in continuazione. Urlava: «Basta! Basta! Allora? Allora?».
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Uno era un nonno che negli ultimi anni scappava di casa in mutande. Il problema era che a casa i parenti non ce la facevano a gestirlo e, siccome non voleva attorno altri vecchi, non potevano metterlo da nessuna parte. Pagarono allora una giovane donna che si occupò di lui fino all’ultimo. Non per molto, comunque, perché, risultò poi, il nonno aveva tendenze maniaco-suicide. Uno sembrava molto distinto, ma una volta, quando vide una signora che fumava nella sala d’aspetto della stazione, cominciò a inveire contro di lei: «La fumadora! La fumadora m’insegue!». Invece era il contrario: lei cominciò a scappare e lui la inseguiva, sempre senza smettere di accusarla di inseguirlo. Uno era un pescatore che un giorno, al porto, chiacchierava con un amico: «Non so cossa go in sto pie». «Secondo mi el se incancrenissi.» «Ti cossa te farìa?» «Mi, lo taierìa.» L’amico scherzava, ma il pescatore non aveva un gran senso dell’umorismo, quindi prese un’accetta e si tagliò il piede. Uno era un giornalista di Trieste, anche bravo, che se ne andò a vivere agli antipodi d’Italia, a Palermo, città dove nulla poteva piacergli. Ma se la fece piacere. Dopodiché, come se non bastasse, da Palermo se ne tornò a Trieste.
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Due erano Francesca Longo e Matteo Moder, che per un sacco di tempo dormirono assieme senza mai sapere bene se erano fidanzati o no. Funzionava così: ogni sera lei lo invitava a cena, se no lui ci rimaneva un po’ male. Poi dopo cena gli chiedeva: «Vuoi dormire qua?». E lui accettava. Accettava sempre. La situazione andò avanti per parecchi anni, anni che furono molto felici. Uno era stato prigioniero di guerra negli Stati Uniti, fin quando convinse gli americani a mandarlo a combattere per la Liberazione. Passati cinquant’anni si fece due conti e scatenò una battaglia legale per scoprire chi si era fregato i soldi – ormai, secondo lui, miliardi di lire – che gli spettavano. Una era un’insegnante di inglese che sul Piccolo scriveva e pagava di tasca sua dei necrologi molto coloriti. Uno era uno scrittore che aveva pubblicato un romanzo molto bello e spergiurava di averlo trovato fra le carte di suo padre. Uno credeva di essere l’Anticristo e aveva scritto un libro per dimostrarlo. L’aveva firmato con uno pseudonimo perché si riteneva una persona discreta, ma poi fece di tutto per presentarlo in pubblico, senza mai riuscirci. Si convinse allora di essere al centro di un complotto. Quando una volta passò il Giro d’Italia, lui rinunciò a qualsiasi discrezione, salì su un’impalcatura davanti alla facciata del Municipio e fece un comizio minacciando di buttarsi giù.
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Uno lo portarono per la prima volta fuori a fare una passeggiata fino al Posto delle Fragole. C’era nell’aria un po’ di apprensione, ma era una bella giornata e lui pareva tranquillo. Tutto filò liscio fino al momento in cui il suo accompagnatore si distrasse per pagare e lui ne approfittò per dare un gran morso al braccio della banconista. Uno era un tossicodipendente ricco, che un giorno venne arrestato. Passarono poche settimane e lo cacciarono dal carcere mandandolo agli arresti domiciliari perché dicevano che in carcere rovinava l’ambiente. Una portava degli occhiali scuri. Se vedeva chiunque, anche uno sconosciuto, gli chiedeva con insistenza: «Le piace Pantani? Le piace Pantani?». Poi, senza aspettare la risposta, aggiungeva: «A mi no. A mi, me piasi Fontanelli». Uno stava su una panchina di viale xx settembre a fumare in silenzio. Di sigarette fra le dita ne teneva sempre due, di cui una spenta. Quando un passante arrivava a portata di voce gli chiedeva: «Scusi, la gavessi una sigaretta?». Se pure quello passava cento volte, cento volte lui gliela chiedeva, perché si dimenticava. Una era una profuga della guerra nei Balcani. Doveva essere bellissima, ma aveva smesso di lavarsi e pettinarsi, perché pensava che così la puzza avrebbe scoraggiato gli eventuali violentatori.
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Una dicevano che fosse sieropositiva. Si aggregava sempre a qualche comitiva di ragazzi e assieme a loro non faceva altro che cantare, ballare, strillare e ridere. Sulle prime era di grande compagnia, ma alla lunga diventava un po’ pesante. Uno venne internato a dodici anni perché la madre era sparita e la nonna non ce la faceva a gestirlo. Prima probabilmente era solo un po’ vivace, mentre quando lo lasciarono uscire, trent’anni dopo, era diventato molto aggressivo, salvo diventare buonissimo e leale con chi secondo lui se lo meritava. Per campare adottava i cani dal canile in modo da ricevere il contributo comunale, ma poi li abbandonava quasi subito. Uno era Adriano Colla, che si incontrava per strada e chiedeva in continuazione: «Mille lire, mille lire, mille lire…». Oppure: «Una sigaretta, una sigaretta, una sigaretta…». Certe volte, se era ispirato, provava a fare il colpo che lo avrebbe sistemato per almeno una settimana: «Diecimila lire, diecimila lire, diecimila lire…». Una era una signora che camminava attraverso piazza Unità d’Italia spingendo una carrozzella. Dentro la carrozzella teneva due bambole. Uno raccoglieva il cartone spostandosi su una specie di trabiccolo. Si vedeva dalle parti del Ponterosso, indossava una palandrana scura ed era molto suscettibile. Se qualche ragazzo lo prendeva in giro rispondeva urlando
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e inseguendolo per qualche decina di metri. Negli ultimi tempi sul trabiccolo portava anche un piccolo cane. Uno era un genio della filosofia. Lo dicevano tutti i professori. Ma gli successe qualcosa poco prima della tesi di laurea, non si sa cosa. Da quel momento in poi non fece altro che grattarsi la testa. Uno andava sempre alle conferenze. Stava zitto fin quando chiedevano se c’erano domande. Dopodiché era in grado di ripetere parola per parola, in forma interrogativa, qualsiasi discorso avesse appena ascoltato. Alla fine del discorso piazzava il suo punto interrogativo, e pretendeva che qualcuno gli rispondesse. Uno era Diego Porporati, che aveva inventato la macchina del moto perpetuo, costruendola con le sue mani. Costava anche poco, visto che aveva adoperato solo materiali di scarto che aveva sottomano. Depositò pure il brevetto. Solo che siccome la macchina era troppo grande, veramente enorme, al manicomio gliela fecero smontare quasi subito. Uno era l’inventore Antonio Ventura, che una volta andò pure al Maurizio Costanzo Show. Fra le altre cose, aveva inventato un sistema per lavare le mutande la sera e averle asciutte la mattina. Consisteva in alcuni speciali supporti che consentivano di appendere, prima di andare a dormire, calze e mutande fra le tapparelle e il vetro della finestra. Così nel corso della notte la
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biancheria faceva un bagno d’aria e l’indomani era bella fresca, se non proprio pulita. L’idea di fondo era che, in teoria, ognuno potesse risparmiare limitandosi a possedere solo un paio di mutande e un paio di calze. Uno era un ubriaco che un giorno passeggiava dalle parti di Riva Gulli. Incontrò un passante e l’afferrò per il bavero gridando disperato: «Mi, no go più el retrotera!». Mollò il bavero dello sconosciuto solo dopo che quello gli ebbe espresso piena solidarietà: nemmeno lui pensava di avere più un retroterra. Una era Diana Goat, che era riuscita a contenere la sua vita in un ciclo di cartelloni che a San Giovanni avevano appeso alle pareti. A volerli leggere, c’era praticamente tutto. Nel terzo di questi cartelloni si leggeva: quand’ero al burlo c’era il grammofono e ho imparato «giovinezza giovinezza»: un giorno l’ho cantata al bar e la signora alda mi ha regalato cinque cioccolatini. Durante la guerra invece ho imparato «bandiera rossa».
E così via: tutta la sua vita. Una era una donna che abitava a Roiano e che non volle andarsene nemmeno quando gli offrirono un bel po’ per speculare sulla ristrutturazione del palazzo. Insistettero anche parecchio, ma alla fine dovettero ristrutturarlo con lei dentro. Furono lun-
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ghi mesi in cui i costruttori erano convinti che si sarebbe stancata di vivere in quel caos di polvere, disagi e muratori. Ma lei non cedette, seppe aspettare e si rifece sui nuovi condòmini. Per vendicarsi scatenò una tempesta di lettere anonime, frasi offensive scritte sui muri coi gessetti e scampanellate nel cuore della notte, finché qualcuno non chiamò il centro di igiene mentale. Da allora la signora cominciò a prendere degli psicofarmaci e il problema fu quasi risolto. Uno era un prete che consigliava dal pulpito di votare per Rifondazione comunista. Uno era un candidato di Forza Italia che, siccome aveva un negozio di scarpe ben avviato, si fece ritrarre sul manifesto elettorale mentre guardava una scarpa. Uno era Nando detto Susta, che conosceva a memoria tutti i santi del calendario. Tu dicevi una data e lui subito diceva il nome del santo. Sapeva anche i giorni coi santi multipli. Uno, dicevano, era uno scienziato, un fisico pakistano, che viveva in mezzo a un bosco ma veniva spesso in città. Quando arrivava si portava dietro tutto quello che possedeva, perché non si sa mai. Uno era un albanese che un giorno si presentò all’ufficio informazioni turistiche della Stazione centrale per chiedere se per favore potevano ospitarlo. Non per molto, tre giorni.
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Indossava una giacca in finta pelle e una felpa in acrilico di quelle che si portavano negli anni settanta. Spiegò all’impiegato che i tre giorni gli servivano ad aspettare la prima nave in partenza per il suo paese. Visto che tempo ne aveva, spiegò anche il resto: era stato otto anni a lavorare in Germania, non gli era piaciuto per niente, e voleva tornare facendo il viaggio contromano per andare a dire a tutti, in paese, che non ne valeva la pena. Uno era l’impiegato dell’ufficio informazioni turistiche della Stazione centrale che, dopo aver sentito la storia dell’albanese, si attaccò al telefono per trovargli una sistemazione. Ma siccome non trovò nulla, tirò fuori il portafogli e gli diede i soldi di tasca sua. Uno era Giovanni Doz, istriano, che rimase bloccato a Trieste quando chiusero il confine. Un po’ per ragioni sanitarie, un po’ perché non sapevano come regolarsi con lui, lo tennero per vent’anni ricoverato a San Giovanni. D’altronde non aveva documenti, né familiari che venivano a trovarlo. A intervalli di tempo metteva assieme chissà come cinquecento lire e cercava di consegnarle a uno dei medici. Siccome il medico ogni volta si rifiutava di prendere quei soldi, lui spiegava che i soldi non erano per lui: doveva solo metterli da parte, servivano a comprare un pezzo di terra per la sua vecchiaia, quando lo avrebbero fatto uscire. Alla fine lo rimandarono al suo paese. Ogni tanto certi dottori di lì andavano a trovarlo per vedere come stava e lui li accoglieva tirando zolle di terra e gridando: «Andè via! Questa xe tera mia! Qua son paron mi!».
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Uno era Ferdinando Di Gloria, barbiere, nato a Sommatino, provincia di Caltanissetta, emigrato per trentacinque anni in Pennsylvania e finito poi a Opicina, il posto dove era nata sua moglie. Quando viveva in America fra i suoi clienti c’era il pugile Larry Holmes, il quale gli aveva promesso che, se anche fosse emigrato, lui sarebbe andato a trovarlo dopo essere diventato campione del mondo per farsi tagliare i capelli da lui. Ferdinando Di Gloria lo aspettò per molto tempo, vantandosene in giro. Poi andò in pensione, ma Holmes a Opicina non si fece vedere mai. Uno era nonno Berto, persona molto ingegnosa. Affrontò e risolse, fra l’altro, il problema dei gradini troppo alti che devono salire i passeggeri dell’autobus: inventò una pedana mobile da mettere davanti alle fermate per agevolare soprattutto i pensionati. La pedana progettata da nonno Berto, per quanto mobile, misurava dodici metri di lunghezza, ottanta centimetri di larghezza e venticinque di altezza. Malgrado l’ingombro, l’inventore era pronto a elencare i ben dodici vantaggi che la sua pedana avrebbe consentito se il Comune si fosse deciso a adottarla. In qualsiasi momento, da dentro una valigia che portava sempre con sé, tirava fuori i progetti e persino un piccolo plastico dai quali si capiva tutto. Uno era l’attore Galavotti, che se il traffico gli faceva perdere la pazienza lasciava la macchina in mezzo alla strada e proseguiva a piedi. Aveva con la madre un rapporto di odio e amore. In par-
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ticolare, non sopportava un certo cappotto di lei, un cappotto vecchio, di quelli che si continuano a mettere per abitudine. Diceva: «No lo posso veder». Perché Galavotti parlava troncando le finali. A proposito del cappotto, si convinse a un certo punto che la madre lo mettesse ancora solo per fare dispetto a lui; per cui un giorno prese le forbici e lo ridusse a strisce sottilissime. (Grazie a Pietro Spirito, Gea Polonio, Eleonora Righini, Maria Mastroianni.)