Ritorno al piccolo regno

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Michael Moritz

Ritorno al piccolo regno Steve Jobs e la Apple Alle origini del mito Traduzione di Paola Bonini


www.ilsaggiatore.com (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore © 1984, 2009 by Michael Moritz © il Saggiatore S.p.A., Milano 2012 Published by arrangement with Marco Vigevani Agenzia Letteraria Titolo originale: Return to the Little Kingdom­­


Ritorno al piccolo regno



Sommario

Prologo Introduzione «È il tuo party che dobbiamo mettere sul mercato?» chiese Jobs

9 15 18

1. Il boom dell’urbanizzazione nella baia

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2. Spie celesti supersegrete

31

«Sarà il miglior simulatore di volo del mondo» disse Schweer

37

3. Carburatori e microfoni

42

4. Il Cream Soda Computer

47

«Vende pesci rossi» disse Goldman

62

5. Il direttore d’orchestra

68

6. La piccola blue box

75

«Dobbiamo ancora vedere lo straccio di qualcosa» disse Carter

84

7. Miele e nocciole

90

8. Secchi di rumore

105

«Johnny Carson non sarebbe male» disse Jobs

9. Stanley Zeber Zenskanitsky «Il tempo di completamento è una costante» disse Andy Hertzfeld

114 119 130


10. Ragione a metà

138

11. Una montagna di cacca

158 168

«Costa uno sproposito fare la rivoluzione» disse Goldman

12. Mercedes e Corvette «In Cina farebbe faville» esclamò Paola Ghiringhelli

172 185

13. E che scheda madre

189

14. Conforme alle specifiche

199 216

«Lo Star è una porcata incredibile» disse Hertzfeld

15. Il miglior venditore «Bisogna metterci anche l’anima» disse Morris

219 240

16. L’esplosione dei buffoni

243

17. La carta di credito platino

273 289

«Non vuole fotografie, in questo momento» disse lei

18. Benvenuta Ibm, sul serio «Il paradiso è un cheeseburger» disse Jimmy Buffet

293 318

Epilogo

325

Ringraziamenti

343

Indice dei nomi

345


Prologo

Ogni volta che Time si dedica al rituale della selezione del personaggio dell’anno, inevitabilmente mi torna in mente un episodio cruciale accaduto trent’anni fa. Al principio del 1982, durante un congedo retribuito dalla mia posizione di corrispondente della rivista dalla sede di San Francisco, la redazione decise che la «persona» dell’anno era il computer. Sepolto in quel numero della rivista c’era un pezzo cui avevo collaborato: un profilo del cofondatore della Apple Steve Jobs. I miei guai sono iniziati allora. È difficile dire se quell’articolo avesse fatto arrabbiare più Jobs o me. Il ritratto, giustamente, offese Steve, che lo percepì come un clamoroso tradimento di fiducia; dal canto mio, fui altrettanto infastidito per il modo in cui il materiale che con molta fatica avevo raccolto per un libro su Apple era stato equivocato, filtrato e avvelenato a botta di pettegolezzi da un redattore newyorkese – il cui lavoro, di norma, era occuparsi del rutilante mondo del rock. Steve non fece mistero della sua rabbia e lasciò una marea di messaggi sulla segreteria telefonica del mio cottage antisismico ai piedi della collina di Potrero, a San Francisco. Comprensibilmente, mi bandì da Apple e vietò a chiunque nel suo entourage di rivolgermi la parola. Quell’esperienza mi spinse a decidere di non lavorare mai più dove non potessi esercitare il pieno controllo sul mio destino o fossi pagato un tanto a parola. Terminai il mio congedo; pubblicai il mio libro, The Little Kingdom: The Private Story of Apple Computer che, a differenza del


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disgraziato articolo sulla rivista, credo presentasse un ritratto equilibrato del giovane Steve Jobs; onorai i miei impegni con Time e, alla prima occasione, tagliai la corda. Divenni la metà della forza lavoro di una casa editrice specializzata che, molti anni dopo – quando da tempo ormai mi ero lanciato nel campo del venture capital – fu acquisita da Dow Jones. In questi trent’anni mi è capitato, talvolta, di ripensare agli scherzi del destino che mi hanno avvicinato a Steve. Non avessi avuto poco più di vent’anni, probabilmente Time non mi avrebbe mandato a San Francisco, dove i miei coetanei stavano iniziando a fondare società informatiche e biotecnologiche. Non avessi conosciuto Steve, non avrei mai incontrato Don Valentine, il fondatore di Sequoia Capital, uno degli investitori originari di Apple. Non fossi incappato in Don, non avrei mai fatto un colloquio per divenire l’ultima ruota del piccolo carro di Sequoia Capital. Non avessi scritto di Apple, ossessionato com’ero dalla sua storia, che era agli albori e ancora sconosciuta, non mi sarei mai messo a riflettere sul serio sulle caratteristiche e le casualità che forgiano un’azienda. Non avessi iniziato a studiare investimenti a rischio e pericoli connessi, a metà degli anni ottanta, non avrei mai avuto la fortuna di cui ho goduto in seguito. Non avessi fatto la conoscenza di Steve e Don, infine, non avrei mai capito perché è molto meglio non ragionare come tutti gli altri. Sono sicuro che quando Steve era adolescente, a Los Altos, in California, non avrebbe mai immaginato che un giorno sarebbe stato a capo di una società la cui sede principale, stando a Google Maps, si trova a 1,6 miglia dall’ingresso principale del suo liceo, e che dal 1996 ha venduto oltre 200 milioni di iPod, un miliardo di brani su iTunes, 26 milioni di iPhone e più di 60 milioni di computer;* o che la sua faccia sarebbe comparsa sulla copertina di Fortune per dodici volte; né infine che, quasi fosse una seconda attività, avrebbe contribuito in prima persona a finanziare e forgiare Pixar, la società di computer animation che con una decina di film di smisurata popolarità ha sfondato il tetto complessivo dei 5 miliardi di dollari di incassi al botteghino. Quanto alle svolte del destino che l’hanno reso l’uomo che è stato, lui stesso avrebbe di che riflettere: l’aver passato la prima gioventù in una zona che a quei tempi non era *  Nel periodo che segue la prima edizione inglese del libro (2009), le cifre di Apple sono ulteriormente lievitate. Nel 2011 è divenuto il principale produttore mondiale di computer e ha venduto decine di milioni di iPhone. [N.d.R.]


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ancora stata ribattezzata Silicon Valley; il fatto che il cofondatore di Apple, Stephen Wozniak, fosse suo amico fin da ragazzino; l’aver trascorso un’estate a lavorare come tecnico di laboratorio per Atari, l’azienda che ha realizzato Pong, il primo videogame per sale giochi; il fatto che il fondatore di Atari, Nolan Bushnell, abbia ricevuto un finanziamento da Don Valentine, e che proprio Nolan sia stata una delle persone che hanno spinto Steve verso Don. Sono fatte così, le bricioline casuali sparse per il sentiero dell’esistenza. Oggi, grazie all’esperienza dura e caotica di venticinque anni nel campo del venture capital, ho sviluppato – spero – una prospettiva più raffinata sugli straordinari risultati della vita lavorativa di Steve, un uomo che merita di essere collocato fra i più grandi americani, viventi e non. Steve era l’amministratore delegato di Apple ma, circostanza ancor più importante, malgrado il suo biglietto da visita non ne facesse menzione, anche uno dei fondatori della società. Come la storia di Apple dimostra, non c’è distanza maggiore nota all’uomo di quella, di per sé brevissima, fra questi due ruoli. Perlopiù gli amministratori delegati sono il prodotto di una formazione didattica e istituzionale. I fondatori, o almeno i migliori fra loro, sono forze della natura irrefrenabili ed esuberanti. Dei tanti fondatori che ho conosciuto, Steve era il più affascinante. Più di chiunque altro ha saputo trasformare l’elettronica moderna in una galleria di oggetti del desiderio. Ha sempre avuto l’animo del poeta dubbioso – una persona un po’ distante da tutti noi, che fin dalla più tenera età ha battuto un sentiero del tutto personale. Fosse nato in un’epoca diversa, è facile pensare che avrebbe viaggiato sui vagoni merci per seguire la sua stella (non è una coincidenza che lui e Apple abbiano contribuito a finanziare l’avvincente No Direction Home: Bob Dylan di Martin Scorsese). Steve è stato adottato e cresciuto da genitori con buone intenzioni e poco denaro. Ha subìto l’attrazione del Reed College, un’istituzione capace di esercitare un richiamo unico per adolescenti brillanti e profondi e che negli anni settanta sembrava tagliata su misura per qualunque ragazzino sognasse di andare a Woodstock. È stato lì che le lezioni di calligrafia hanno affinato il suo senso estetico: quell’influenza è ancora tangibile in tutti i prodotti Apple, come nelle sue pubblicità. I detrattori diranno che Jobs sapeva essere caparbio, ostinato, irascibile, umorale e testardo – ma fatemi il nome di qualcuno che abbia ottenuto


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qualcosa di significativo senza, di tanto in tanto, manifestare caratteristiche simili, o che non sia un perfezionista. Il circo intorno a Steve, per giunta, è stato spesso maligno, calcolatore e sospettoso. Era un venditore tenace, persuasivo e ipnotico – l’unico che io abbia conosciuto tanto audace da riempire le fermate degli autobus dell’intero paese con la pubblicità di un oggetto banale come un mouse senza fili. Allo stesso tempo era l’uomo che decenni fa ebbe la premura di andare a trovare in ospedale un amministratore delegato vittima di un ictus, e che da ultimo, alla sua maniera benevola, fece generosamente da consigliere a diversi giovani amministratori delegati di Silicon Valley. Più o meno all’epoca in cui sono entrato nel mondo del venture business, il consiglio di amministrazione di Apple ha licenziato Steve, preferendogli un uomo dell’Est, personaggio convenzionale. Come nel suo carattere, Steve ha ceduto tutte le sue azioni societarie, tranne una; alla Sequoia Capital scuotevamo la testa sconsolati, mentre costruiva l’azienda che avrebbe poi chiamato NeXT. Aveva raccolto denaro da diversi investitori (fra cui Ross Perot) in ragione di una stima molto ottimista; ricordo di aver fatto visita alla sede principale dell’azienda e di avervi letto tutti i segni del fiasco incombente. C’erano un marchio disegnato da Paul Rand e, nell’atrio, una scala sospesa, la cui eco oggi è ben visibile in molti Apple Store. NeXT ha spinto Steve fuori dal suo ambiente naturale. L’idea era di vendere computer alle grandi aziende – delle realtà su cui l’appeal viscerale del prodotto aveva ben poca influenza. Quella scelta l’ha tagliato fuori dalla conquista del mercato dei consumatori proprio nel momento in cui le società informatiche stavano iniziando a dimostrare che, grazie alle loro competenze all’avanguardia in termini di software e silicone, potevano contare su un vantaggio intrinseco sulle aziende consumer che cercavano di convertirsi alla distribuzione di computer. Steve ha resistito alla NeXT quando animi più deboli avrebbero gettato la spugna; alla fine, quando per la società hanno cominciato a suonare le campane a morto, sembrava che anche lui dovesse essere consegnato a una nota a piè di pagina della storia. È difficile oggi, sedici anni più tardi, rendersi conto appieno delle gravi difficoltà in cui versava Apple nel 1996 quando, nel disperato tentativo di risollevare le sue sorti, ha comprato NeXT. Gli animi più cinici di


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Silicon Valley hanno avuto di che divertirsi, quando Steve è riuscito a cederle NeXT per più di 400 milioni di dollari, malgrado la società avesse al suo attivo non più di 50 000 computer venduti; alla Apple, Steve è rientrato con la pelle indurita da anni di avversità commerciali. La storia della rinascita di Apple è nota a molti. Potrebbe esserlo meno il fatto che la vicenda non ha praticamente precedenti. Quando mai qualcuno è tornato alla società che ha fondato e da cui è stato malamente cacciato per dar vita a una svolta assoluta e spettacolare come quella vissuta da Apple? Invertire le tendenze è difficile in tutte le circostanze, ma lo è doppiamente nel settore tecnologico. Non è paradossale affermare che Steve ha fondato Apple non una, ma due volte. E la seconda era da solo. Se volete farvi un’idea più precisa di Steve, vi consiglio di cercare su YouTube il video dell’intervento tenuto alla cerimonia di consegna dei diplomi di Stanford, nel 2005, uno dei discorsi più schietti e significativi mai rivolti a una folla di giovani. Fra i pensieri espressi, i più importanti riguardano l’opportunità che tutti hanno di lasciare un segno, di fare qualcosa di speciale e, soprattutto, di seguire la propria strada. Il discorso si chiude con un monito, mutuato dall’ultima edizione del Whole Earth Catalog: «Stay Hungry. Stay Foolish» (Siate affamati. Siate folli). Un consiglio eccezionale, ho scoperto, anche per chi decida di dedicare la vita a investire in società nuove. Michael Moritz San Francisco, 2012 Per le ottime integrazioni alla prima edizione: HCH JWM WJM



Introduzione

Scrivere di aziende può essere un’attività rischiosa. Non sono mai davvero come sembrano: proprio come le persone, infatti, hanno l’impulso a rivelare solo la parte migliore di sé. Le società, però, e in particolare quelle più grandi, investono nelle apparenze molto più tempo e denaro di quanto faccia qualunque individuo. Le pubblicità sono fatte apposta per mettere il marchio e i suoi prodotti nella miglior luce possibile. Per scrivere i comunicati stampa, gestire i giornalisti e affrontare le questioni più spinose ci sono le agenzie di pubbliche relazioni. Gli analisti della sicurezza, i banchieri e i broker vengono assiduamente corteggiati per assicurarsi che le borse prestino la dovuta attenzione alle azioni societarie. Esiste, poi, il fascino delle aziende che non emergono alle luci della pubblica ribalta. Non devono preoccuparsi delle restrizioni imposte dalle agenzie federali o di quanto gli azionisti apprezzino il lavoro sulla notorietà. I fondatori e i manager di queste ultime tendono a parlare con maggiore libertà rispetto ai dirigenti di organizzazioni più grandi, e custodiscono con minor ansia i loro segreti. Durante i primi anni di vita, la maggior parte delle società si accontenta di qualunque sorta di pubblicità. Gli articoli pubblicati sui principali giornali e riviste, comunque, in virtù dell’argomento di solito sono brevi e superficiali quando si tratta di descrivere i progressi di un’azienda agli esordi; la suggestione della novità, in genere, attenua inoltre le critiche. Quando si arriva a commissionare la storia di un’azienda, quindi, i dettagli sui suoi primi passi spesso ormai sono andati persi. Fanno capolino i miti legati ai bei vecchi tem-


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pi, e anche gli sforzi generati dalle migliori intenzioni finiscono per confondere fatti e finzione. La nostalgia, dice il saggio, non è ciò che è stato. Ci sarebbe parecchio da dire, dunque, sul fatto di scrivere di un’azienda prima che i fondatori e i dipendenti della prima ora siano morti o persi nei fumi dell’alcol. Finché sono piccole, le società sono abbastanza facili da descrivere, ma appena superano i confini del garage o del primo ufficio, il panorama si fa sempre più caliginoso. Gli impiegati vengono disseminati nelle fabbriche e nei magazzini di tutto il paese o all’estero, e in mano resta solo una serie di impressioni da registrare con i tocchi minuti del puntinismo pittorico. Al di là dell’ostacolo rappresentato dalle dimensioni, ci sono poi degli impedimenti di natura più meccanica. Sforzarsi di capire taglio e natura di una grossa società è un po’ come tracciare il diagramma delle avventure sentimentali di Gorki. Certe storie possono venire alla luce grazie al risentimento di qualche profugo, ma un’indagine più approfondita è un azzardo. È difficile ottenere un visto turistico, semplice apprendere la linea ufficiale, impossibile muoversi senza essere seguiti e fin troppo facile essere espulsi. Per quanto sia triste dirlo, c’è un angolino della California in cui le piccole aziende hanno il brutto vizio di trasformarsi in società enormi. Da trent’anni i frutteti fra San José e San Francisco vengono falciati via per far spazio alle dozzine di realtà che oggi formano Silicon Valley. La maggior parte fa soldi con attività variamente legate all’elettronica, ed è cresciuta così in fretta da far pensare che prugne e albicocche abbiano lasciato residui fertili nel terreno. Nell’ultimo decennio, man mano che i progressi della microelettronica passavano dai missili alle scrivanie, quelle aziende hanno attirato le solite schiere parassite di politici, consulenti aziendali e giornalisti bramosi di scoprire la cura per i mali che affliggono altre industrie. In qualche misura, la concezione popolare di queste società si è formata su illusioni ponderate. Si presume che svolgano i loro affari in maniera innovativa. Sono considerati luoghi di lavoro informali e rilassati, in cui si possono mettere all’opera le menti più brillanti. Si presume anche che i loro fondatori condividano la ricchezza, in una dimensione in cui gerarchie e burocrazia, le croci di tutte le aziende convenzionali, sono abolite. I dipendenti di queste aziende, ci raccontano, hanno il permes-


Introduzione  17

so di entrare a piacimento nell’ufficio del capo, che a sua volta mostra riluttanza a licenziare chiunque, se proprio non è un ladro o un fanatico. A dar retta ai mercanti della pubblicità, queste imprese sono fondate da persone dall’immaginazione audace e con il pallino del rischio. Sembra che lancino prodotti con la certezza prevedibile con cui Henry Kaiser un tempo varava le navi Liberty; lo sviluppo di un nuovo chip o di un computer più veloce inevitabilmente viene descritto come risultato dell’avanzata del destino. Di rado se ne discute senza invocare Dio, patria e spirito pionieristico. Non c’è esempio migliore, per tutto questo, di Apple Computer Inc., la figlia più precoce dell’intera Silicon Valley. Nel giro di otto anni è passata dalle dimensioni di un soggiorno domestico a un volume di vendite annuali superiori al miliardo di dollari, mentre la borsa ha attribuito alle sue azioni un valore di oltre 2 miliardi e mezzo di dollari. Per entrare nella classifica Fortune 500 le ci è voluto meno tempo che a qualunque altra start-up della storia dell’indice stesso, e ci sono ottime probabilità che entro il decimo compleanno sarà fra le cento maggiori industrie degli Stati Uniti. Si dice che due dei suoi azionisti siano fra i quattrocento uomini più facoltosi d’America, e oltre un centinaio dei dipendenti è diventato milionario. Anche secondo parametri più convenzionali, Apple ha polverizzato i risultati di qualunque altra società nata nella Silicon Valley. È più grande di molte organizzazioni costituite decenni prima, ha concepito e messo sul mercato prodotti innovativi e non ha mai dovuto prostituirsi con alcun equivalente aziendale della figura del vecchio facoltoso. Quando ho iniziato a pensare di scrivere questo libro, Apple era già una società di spicco. Era sospesa fra il grande successo del personal computer Apple ii e la doppia sfida di costruire e lanciare una nuova generazione di macchine e, allo stesso tempo, competere con il Rullo compressore di Armonk, Ibm. Gli albori di Apple non ci hanno messo molto a costituire materia di canzoni popolari e di leggenda, mentre l’industria informatica rapidamente maturava. Le piccole aziende sopravvissute al proprio debutto stavano iniziando a cadere a pezzi. Poche si erano affermate in ruoli di comando. Apple era una di quelle. Ho pensato che su Silicon Valley, sull’avvio di una nuova industria e sulla vita in un’azienda agli esordi avrei capito più cose concentrandomi


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su un’unica realtà invece di cercare di afferrarne molte. Mi interessava scoprire se l’immagine corrispondeva al vero, se le affermazioni pubbliche riflettevano le azioni private. Volevo puntare sugli anni in cui Apple non era ancora una società quotata, esaminare l’atmosfera che aveva nutrito i fondatori e scoprire come le loro personalità avevano inciso sull’impresa. In seconda battuta, volevo affrontare alcuni quesiti di rito: Perché? Quando? Come? La formula «al posto giusto al momento giusto» spiega chiaramente parte del successo di Apple; eppure, dozzine di altre persone che negli stessi anni hanno dato vita a società di microcomputer hanno fallito. Per alcuni mesi, in azienda ho goduto di una libertà attentamente circoscritta. Mi era permesso partecipare alle riunioni e seguire i progressi di un nuovo apparecchio. La società che ho trovato nel 1982, però, era ben diversa dalla piccola impresa che occupava un garage nel 1977. Per questo ho disseminato il testo di istantanee aziendali. Questo non è un ritratto autorizzato di Apple Computer, né aspira a dire l’ultima parola sulla sua storia. Fatta eccezione per alcune carte divulgate, non ho mai avuto accesso ai documenti societari. Il nome di uno dei personaggi che ricorre in questa narrazione, Nancy Rogers,* è stato cambiato, e alcune delle persone menzionate hanno lasciato l’azienda, oppure hanno assunto ruoli diversi al suo interno. Ho appreso molto in fretta che scrivere un libro su una società in crescita, nel quadro di un’industria che cambia a ritmo vertiginoso, ha almeno un aspetto in comune con la produzione di un computer. I risultati potrebbero essere migliori in entrambi i casi, se solo si potesse includere ogni nuovo, allettante sviluppo. Come accade agli ingegneri, però, ho dovuto fare in fretta e mettere il prodotto sul mercato. Quel che segue è dunque il racconto della strada percorsa da Apple per arrivare al suo primo milione di dollari.

«È il tuo party che dobbiamo mettere sul mercato?» chiese Jobs Una successione interminabile di portefinestre sfumava il sole della California. La luce che ne filtrava, con i suoi allungati toni autunnali, giocherellava con una fila disordinata di valigie, sacche per abiti, zaini e custodie *

Si tratta di Chrisann Brennan, madre della prima figlia di Jobs, Lisa. [N.d.T.]


Introduzione  19

di chitarra. I proprietari dei bagagli erano riuniti in ampi semicerchi di sedie intorno a un caminetto di pietra. Di quella sessantina di volti, la maggior parte si trovava in quella fase incerta che rende impossibile distinguere i ventenni dai trentenni. Per un terzo donne, quasi tutte con uniformi androgine: jeans, maglietta o canottiera, scarpe da ginnastica. Poche pancette, ancor meno chiazze di capelli grigi, e una quantità di occhiali ben superiore alla media. Diverse guance non rasate, alcune ancora gonfie di sonno. Cappellini da baseball bordati d’azzurro con la sagoma di una mela morsicata su un lato che campeggiava sulla scritta nera MACINTOSH DIVISION. Di fronte al gruppo, seduta sul bordo di un tavolo d’acciaio, c’era la figura alta e sottile di un ragazzo che non arrivava ai trent’anni. Portava una camicia a scacchi, jeans slavati, scarpe da ginnastica sdrucite. Al polso sinistro aveva un sottile orologio digitale. Le dita lunghe ed esili culminavano in unghie mordicchiate fino ai polpastrelli, mentre la chioma nera e lucida era ben pettinata, con le basette rasate di fresco. Sugli occhi castani e profondi le palpebre battevano senza sosta, come per un’irritazione da lenti a contatto. Aveva una carnagione pallida e il volto diviso da un naso sottile, aquilino. La parte sinistra era dolce e maliziosa, la destra tradiva una nota crudele, accigliata. Era Steven Jobs, presidente e cofondatore di Apple Computer, oltre che direttore generale della Macintosh Division. Il gruppo in attesa del suo discorso lavorava per l’ultima nata delle divisioni Apple. Era arrivato in pullman dalla sede della società a Cupertino, in California, e dopo un viaggio fra colline coperte di pini era pronto a un ritiro di due giorni in un villaggio vacanze sulla costa del Pacifico. Gli alloggi erano in legno, in condomini irti di canne fumarie. Il vento e gli spruzzi d’acqua avevano fatto virare al grigio le facciate degli edifici, incastonati fra dune di sabbia e chiazze d’erba pungente. Riunita alla luce tersa del mattino, la compagnia incarnava il tipico assortimento umano delle giovani società informatiche. C’erano segretarie e tecnici di laboratorio, tecnici hardware e programmatori. Alcuni lavoravano al marketing, alla produzione, all’amministrazione e all’ufficio del personale. Un paio scrivevano i manuali di istruzioni. Qualcuno era fresco di assunzione e incontrava i colleghi per la prima volta; altri erano stati trasferiti da un reparto chiamato Personal Computer Systems, dove erano nati gli apparecchi Apple II e Apple III; solo in pochi provenivano dalla Personal Office


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Systems Division, che si preparava a lanciare la macchina battezzata col nome di Lisa, destinata alle imprese. A volte la Macintosh Division veniva chiamata semplicemente Mac; l’assenza di una denominazione ufficiale ne rifletteva la nascita incerta. Perché per certi versi il computer noto, in codice, come Mac, era un orfano aziendale. Jobs cominciò a parlare lentamente, a voce bassa. «Questo è il fior fiore di Apple» esordì. «Abbiamo riunito le persone migliori per fare una cosa che la maggior parte di noi non ha mai fatto: superare un prodotto.» Si avvicinò con passo elastico a un leggio per mostrare alcune massime vergate con grafia infantile su grandi fogli color avorio. Recitate da lui, divennero altrettante omelie. «Non è fatta finché non vai oltre» lesse. «Abbiamo miliardi e miliardi di dettagli da mettere a punto. Sei mesi fa nessuno avrebbe creduto che potessimo riuscirci. Ora ci credono. Venderemo un sacco di Lisa, ma il futuro di Apple è il Mac.» Piegò il primo dei fogli e passò allo slogan successivo: «Non si fanno compromessi». Ricordò la data di lancio prevista e disse: «Sarebbe meglio mancare l’appuntamento, piuttosto che uscire con la cosa sbagliata». Dopo una pausa, aggiunse: «Ma noi non mancheremo l’appuntamento». Sfogliò un’altra pagina e proclamò: «Il viaggio è il premio», predicendo: «Fra cinque anni, ripensando a oggi direte: “Sono stati i giorni migliori”. Sapete» rifletté con la voce che saliva di mezza ottava «in Apple, il posto migliore in cui lavorare è questo. Riflette l’azienda di tre anni fa. Se riusciamo a conservare questa purezza e coinvolgiamo le persone giuste, resterà tale». Jobs prese dal tavolo un sacchetto di plastica strappato, lo fece dondolare all’altezza delle ginocchia e col tono di chi conosce già la risposta domandò: «Vi va di vedere una cosa eccezionale?». Dalla busta pescò un oggetto che assomigliava a un’agenda da tavolo. La custodia era rivestita di feltro marrone e, aprendosi, rivelava il prototipo di un computer. Uno schermo ne occupava la metà; l’altra era costituita da una tastiera. «Questo è il mio sogno» disse «quel che faremo dalla metà alla fine degli anni ottanta. Non ci arriveremo con il Mac Uno o con il Mac Due, ma con il Mac Tre sì. E sarà il culmine di tutta la storia del Mac.» Debi Coleman, la responsabile amministrativa, sembrò interessata più al passato che al futuro, e con l’aria di una bambina che aspetta la favola della buonanotte domandò a Jobs di spiegare ai nuovi arrivati come aveva messo a tacere il fondatore della Osborne Computers, il cui portati-


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le rischiava di mettere in difficoltà le vendite aziendali. «Racconta cosa hai detto a Adam Osborne» implorò. Stringendosi riluttante nelle spalle, prima di imbarcarsi nella cronaca Jobs attese che l’aspettativa montasse. «Adam Osborne non fa altro che gettare fango su Apple. Non smetteva di parlare di Lisa e di chiedere quando l’avremmo dismessa, e poi ha iniziato a fare battute sul Mac. Io ho cercato di mantenere il sangue freddo e di essere cortese, ma lui ha continuato: “Cos’è questo Mac di cui si sente tanto parlare? Esiste davvero?”. A un certo punto ha iniziato a darmi sui nervi, finché non gli ho detto: “Adam, è di una qualità tale che non vedrai l’ora di uscire a comprarne uno per i tuoi figli anche dopo che ti avrà fatto fallire”.» Le riunioni al coperto si alternarono a quelle all’aria aperta, su una distesa d’erba riarsa dal sole. Da uno scatolone saltarono fuori delle magliette con il nome del computer scritto a caratteri punk sul davanti. Sembrava un incrocio fra un ritiro spirituale e una terapia di gruppo. Aleggiava un’ilarità un po’ nervosa, quasi venata di tensione, ma chi aveva già partecipato ad altri incontri del genere trovò l’atmosfera rilassata, tranquilla. Un paio di programmatori dissero che avrebbero preferito restare a Cupertino a lavorare, ma questo non impedì loro di stendersi sul prato ad ascoltare gli interventi degli altri membri del gruppo. Mentre il pubblico attingeva liberamente alle ceste di frutta, sgranocchiava noci o giocava a schiacciare lattine fra le mani, Michael Murray, esperto di marketing dai capelli scuri, le fossette e gli occhiali a specchio, proiettò alcune statistiche sulle vendite e sulla composizione del mercato. Spiegò che il Mac si sarebbe posizionato a metà fra i computer aziendali più costosi, prodotti da concorrenti del calibro di Ibm, Xerox e Hewlett-Packard, e i più economici apparecchi domestici di aziende come Atari, Texas Instruments o Commodore. «Abbiamo un prodotto che si dovrebbe vendere a 5000 dollari, ma come per magia lo proponiamo a meno di 2000. Stiamo per ridefinire le aspettative di un sacco di gente.» Gli chiesero come il Mac avrebbe inciso sul computer di Apple concepito per l’ufficio, Lisa, che, pur essendo costruito intorno agli stessi principi, risultava più sofisticato. «Esiste uno scenario catastrofico» ammise Murray. «Potremmo dire che, per noi, Lisa ha rappresentato un grande esercizio. Possiamo consegnarlo all’esperienza e venderne una decina.» «Lisa avrà un successo enorme» intervenne Jobs con decisione. «Ven-


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derà dodicimila pezzi nei prossimi sei mesi e cinquantamila nel primo anno.» Gli addetti al marketing esposero alcuni stratagemmi per incrementare le vendite. Discussero di quanto fosse importante riuscire a vendere o a regalare centinaia di Mac alle università più ambite. «Perché non regalare i Mac alle segretarie?» chiese Joanna Hoffman, una donna vivace dal lieve accento straniero. «Non vogliamo che le aziende pensino che sia un semplice elaboratore di testo» replicò Murray. «Ci sono molti modi per risolvere il problema» obiettò Hoffman. «Per esempio potremmo dire alle segretarie: “Ecco la vostra possibilità di fare carriera”.» Si dibatté del miglioramento delle vendite oltreoceano. «L’aura di alta tecnologia che ci distingue può attirare i giapponesi» osservò Hoffman. «Per giunta loro non hanno alcuna probabilità di riuscire qui, con noi presenti, mentre da loro noi avremo comunque successo.» «Siamo andati forte, in Giappone, fino a poco tempo fa» commentò a scatti Bill Fernandez, un tecnico sottile come un gambo di sedano. Chris Espinosa, che dirigeva gli autori dei manuali di istruzioni, ciabattò di fronte agli altri in sandali. Aveva appena compiuto ventun anni, e mentre tirava fuori gli appunti da uno zainetto rosso, scherzò: «Vi siete persi un party da favola». «Ho sentito che l’acido era gratis» commentò qualcuno. «Era in vendita fuori» ridacchiò lui. «È il tuo party che dobbiamo mettere sul mercato?» chiese tagliente Jobs. Espinosa impallidì e tornò subito a parlare di lavoro. Ai colleghi disse delle difficoltà nel trovare autori qualificati e della necessità di fornire al suo staff un maggior numero di prototipi di Mac con cui lavorare; aggiunse anche che il dipartimento grafico di Apple non era attrezzato per andare incontro ad alcune delle sue esigenze. «Vogliamo che i nostri manuali siano stupendi» disse «talmente belli che una volta letti facciano venir voglia di esporli in libreria.» *


Introduzione  23

Le sessioni lavorative furono intervallate da pause caffè e passeggiate lungo la spiaggia, partite a frisbee sul prato, qualche giro di poker e un tramonto fucsia. Per cena ci si ritrovò intorno a grandi tavolate, ma non si ebbe certo la sensazione di essere in mensa: su ogni tavolo faceva mostra di sé un trionfo di bottiglie di Zinfandel, Cabernet e Chardonnay, anche se i grissini sparirono troppo in fretta. Dopo cena, un tipo con l’aria da ortodontista timido, i capelli grigi radi e un paio di occhialetti da gufo si esibì in quello che solo tra informatici avrebbe potuto essere definito un numero da cabaret. Era Ben Rosen, con tanto di maglietta Mac calcata sulla giacca del completo elegante. Grazie alla reputazione conquistata come analista del settore elettronico a Wall Street e alla proficua esperienza editoriale di un ottimo bollettino informativo, oltre che alla partecipazione a molte conferenze annuali sui personal computer, era riuscito ad avventurarsi in una carriera di investitore in capitali di rischio. Prima ancora che iniziasse a investire in società informatiche, ogni suo commento era già ambito almeno quanto la sua attenzione. Al gruppo Mac, Rosen offrì un contributo informale condito di osservazioni, battute, consigli e pettegolezzi industriali. Fece una breve panoramica sui concorrenti di Apple e liquidò così Texas Instruments: «Una società buona per i casi di studio delle scuole di economia». Anche se come per un ripensamento sentì di dover aggiungere: «Entro tre settimane annunceranno il loro computer compatibile Ibm». «Prezzo?» chiese Jobs. «Venti per cento al di sotto dei prodotti della stessa categoria» replicò Rosen. Parlò dei computer domestici di fascia bassa e menzionò Commodore: «Le considerazioni su di loro sarei disposto a condividerle solo fra pochi intimi. Più si sa della società, più è difficile vedere le cose con ottimismo». Il frivolo mormorio di fondo si spense appena Rosen si mise a parlare di Ibm, i cui personal computer rappresentavano una concorrenza critica. «Uno dei timori per Apple» disse «consiste nel futuro di Ibm.» Ammise di essere stato colpito da una recente visita alla divisione personal computer della società a Boca Raton, e descrisse quelli che riteneva fossero i loro programmi per tre nuovi apparecchi. Poi si guardò intorno e disse: «Questa è la parte più importante di Apple Computer. Mac è la vostra arma di offesa e difesa più efficace. Non ho visto nulla che regga il confron-


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to». Provocatoriamente accennò a un’altra voce in circolazione: «A Wall Street si mormora di una fusione fra Ibm ed Apple». «Dall’Ibm hanno già detto di non essere in vendita» scherzò Randy Wigginton, un ragazzino biondo addetto alla programmazione. I presenti cominciarono a fare domande. Il primo chiese a Rosen una previsione sull’andamento delle azioni Apple. Un altro sembrò ansioso di sapere quando una società informatica sarebbe arrivata a vendere per 100 milioni di dollari; con orientamento più strategico, un terzo domandò come avrebbe fatto l’azienda ad assicurarsi che i rivenditori di computer facessero spazio per i Mac sui loro affollatissimi scaffali. «C’è in corso una crisi» disse Jobs a Rosen dal fondo della stanza. «Dobbiamo decidere come chiamare il Mac. Potremmo chiamarlo Mac, Apple IV, Rosen I. Mac come ti pare?» «Buttaci 30 milioni di dollari di pubblicità» fece Rosen «e mi sembrerà grandioso.» Rosen fu l’unico oratore esterno a spezzare la sequela di presentazioni dei singoli dipartimenti Mac. Nel complesso, fu una sorta di corso accelerato sulle società informatiche che seppellì tutti sotto una montagna di dati. A ogni notizia buona o inaspettata, uno scroscio di applausi interrompeva gli interventi disinvolti. Il direttore tecnico Bob Belleville, un garbato ingegnere appena arrivato da Xerox, disse: «In Xerox eravamo soliti dire che era importante progredire un po’ ogni giorno. Qui, direi che è importante progredire molto ogni giorno». Arrossendo ferocemente, l’ingegnere hardware più importante, Burrell Smith, confessò di non avere materiale sufficiente per colmare i dieci minuti, quindi si mise a suonare la chitarra. Un designer della scocca del computer accese qualche candela, si accomodò con le spalle al pubblico e propose le sue osservazioni registrate su cassetta. Qualcun altro dissertò sulle difficoltà di soddisfare gli standard per gli apparecchi elettronici prescritti dalla Fcc (Federal Communications Commission). I programmatori aggiornarono tutti sui progressi del software. Robusto e dall’aria tormentata, il responsabile di parte della produzione Matt Carter snocciolò un vademecum sull’allestimento delle fabbriche, proiettando un video sulla futura linea di produzione del Mac. Si concentrò su nastri trasportatori e depositi, inseritori automatici e sistemi lineari, prototipi e politica dei prezzi. Un altro addetto alla produzione parlò di valida-


Introduzione  25

zione, miglioramenti delle prestazioni individuali giornaliere e gestione dei materiali. Chiese a Jobs di promettere: «Dobbiamo usare la mano pesante con i nostri venditori. Una mano pesante come non mai». Debi Coleman, la responsabile amministrativa, illustrò i principi fondamentali della sua attività, spiegando le differenze fra costi di lavoro diretti e indiretti e dando delucidazioni su controlli delle giacenze, tracciamento dei beni patrimoniali, analisi delle attrezzature, valutazione dell’inventario, variazione dei prezzi di vendita e livelli di pareggio. In chiusura si presentò Jay Elliot, uno spilungone del dipartimento risorse umane di Apple. «Sono un manager delle risorse umane» disse. «E sono davvero lieto di essere qui. Grazie anche a voi per la vostra presenza. Alle risorse umane cerchiamo di forgiare dipendenti di livello eccellente…» «Sarebbe a dire, in inglese?» lo freddò Jobs. «Le risorse umane» balbettò Elliot «di solito vengono viste come un’organizzazione che produce cazzate e burocrazia…» Appena si fu ripreso, suggerì dei modi per affrontare l’urgenza di effettuare assunzioni. Proiettò un organigramma della divisione Mac disseminato di quadratini con la sigla TBH: to be hired, da assumere. Elliot sottolineò che il suo dipartimento era subissato da oltre millecinquecento curricula al mese, e avanzò l’ipotesi di vagliare come candidati innanzitutto gli acquirenti Mac: i loro dati si sarebbero potuti recuperare dai certificati di garanzia spediti all’azienda. «Non ce lo manda nessuno, il certificato di garanzia» obiettò Jobs. Si voltò, puntellandosi sullo schienale, per rivolgersi a Andy Hertzfeld, uno dei programmatori. «Andy, tu l’hai mai spedito, il tuo?» «Dentro la scatola il venditore ce l’ha messo» rispose Hertzfeld. «Lo vedi?» fece Jobs girandosi di scatto. «Potremmo mettere delle pubblicità su Arpanet» consigliò Hertzfeld riferendosi alla rete di computer fondata dal governo per collegare università, istituti di ricerca e basi militari. «Ci sarebbero problemi legali, ma potremmo ignorarli.» «Oppure potremmo fare pubblicità sui giornali, anche se l’efficacia non è altissima» propose Vicki Milledge, a sua volta dipendente del dipartimento risorse umane. «Quel che dovremmo fare» disse Jobs «è sguinzagliare Andy nelle


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università e farlo girare per laboratori finché non trova gli studenti più in gamba.» Quando Elliot ebbe finito, Jobs si lanciò in un monologo. Giocherellando con una cartelletta grigia lucida che conteneva una sintesi dell’evoluzione del Mac, esortò tutti a proteggere con cura i documenti societari. «A uno dei nostri commerciali di Chicago un tipo dell’Ibm ha offerto l’intero piano iniziale di vendita di Lisa» disse. «Hanno occhi ovunque.» Infine, tornò al leggio. Sull’ultima pagina della flip chart c’era l’immagine di una piramide rovesciata. La prima riga in basso portava la scritta MAC; salendo verso l’alto, le altre recitavano FABBRICA, VENDITORI, FORNITORI, SOCIETÀ SOFTWARE, COMMERCIALE, CLIENTI. Jobs spiegò la struttura a triangolo sottolineando la logica dei livelli. «Abbiamo la grande opportunità di incidere sulla direzione che prenderà Apple. Ogni giorno che passa, il lavoro che cinquanta persone fanno qui scatena un’onda gigantesca nell’universo. Sono davvero colpito dalla qualità delle nostre onde.» Fece una pausa. «So che trattare con me può essere difficile, a volte, ma questa è la cosa più divertente che abbia mai fatto in vita mia. È uno sballo.» In volto gli apparve l’ombra di un sorriso.


1. Il boom dell’urbanizzazione nella baia

Escavatrici e bulldozer si muovevano pesanti lungo la cava, aprendo squarci rossastri su un lato della collina. I mezzi sollevavano pennacchi di fumo nel cielo a sud della baia di San Francisco. Enormi cartelloni in legno dichiaravano l’appartenenza delle macchine e della cava alla Kaiser Cement Company. Il terriccio nei rimorchi dei camion sarebbe stata la sostanza degli insediamenti pronti a sorgere sulla piana ai piedi della collina. Gli autoarticolati passavano fragorosamente fra rotoli di filo spinato e segnali di allerta per la ripidezza della pendenza e, mettendo alla prova i freni, imboccavano una strada di campagna e affrontavano curve strette e buche fino a Cupertino, un paese che con tutte le sue forze cercava di non diventare città. Dai cancelli della cava, in quelle mattine feriali degli anni cinquanta, la posizione dell’incrocio al centro di Cupertino si distingueva per la sagoma cilindrica color argilla dei silos di grano e mangimi. Negli anni cinquanta, Santa Clara Valley era un luogo prevalentemente rurale. Il verde era interrotto solo a tratti da qualche edificio. Da lontano, poteva sembrare che qualcuno avesse abbandonato piccoli cumuli di rifiuti qua e là, che erano in realtà le cittadine della pianura fra San José e San Francisco: Los Gatos, Santa Clara, Sunnyvale, Mountain View, Los Altos, Palo Alto, Menlo Park, Redwood City, San Carlos, Hillsborough, Burlingame e South San Francisco. La maggior parte di quelle cittadine conservava stili e abitudini degli anni trenta. Gli edifici di rado superavano i due piani. Le automobili potevano parcheggiare a spina di pesce sul viale principale. Gli angoli erano


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spesso decorati da un ufficio dell’Assicurazione agricola statale, da una pompa di benzina, da una filiale della Bank of America e da una concessionaria International Harvester.* Nei centri come Cupertino, fino a non molto tempo prima, era stato necessario escogitare modi per attrarre la presenza di dentisti e medici residenti. Non si faticava a capire quale fosse il centro di quel mondo: un municipio costruito con mattoni di terracotta, secondo i dettami architettonici delle missioni spagnole, posto fra una biblioteca, un dipartimento di polizia, una caserma dei vigili del fuoco, un tribunale e schiere di palme tozze. Le cittadine, però, si distinguevano l’una dall’altra sotto ogni aspetto. Ognuna aveva il suo clima, sempre più caldo mano a mano che ci si allontanava dalla nebbia di San Francisco. All’estremità meridionale della penisola, l’atmosfera era decisamente mediterranea; il piccolo seminario affacciato su Cupertino avrebbe potuto benissimo collocarsi su una tranquilla collina toscana. Ogni comunità aveva consigli comunali e tasse, emanava ordinanze e coltivava le sue peculiarità, pubblicava quotidiani e si fondava su consuetudini precise. Le elezioni del sindaco erano infarcite dei pettegolezzi e delle allusioni tipici di una collettività in cui tutti, anche se non il primo cittadino, conoscevano di persona almeno qualcuno che con lui aveva dei rapporti. Ogni insediamento, come naturale, era infine innervato di gelosie e snobismi. Gli avvocati e i medici che mettevano su casa sui colli di Los Gatos usavano dire – senza la minima ironia – che le menti di San José dormivano a Los Gatos. Chi viveva sulle alture di Los Altos si sentiva superiore agli abitanti della pianura sottostante. Con le sue graziose schiere d’alberi e l’università di Stanford, Palo Alto aveva un respiro più ampio, oltre che un manipolo di società di elettronica fondate da ex studenti. Luoghi come Woodside e Burlingame, incastonati al di sopra della piana, si distinguevano per i cavalli, le partite di polo e i golf club più esclusivi. A Burlingame c’era la sede del primo country club della Costa occidentale. I residenti della vicina Hillsborough indicavano spesso Burlingame nel loro indirizzo, per timore di essere considerati dei parvenu. Oltre San Carlos, San Bruno e Redwood City, poi, c’era la ventosa South San Francisco – una sorta di nota a piè di pagina della città stessa – incune*

Il maggior rivenditore di macchine agricole dell’epoca. [N.d.T.]


1. Il boom dell’urbanizzazione nella baia  29

ata fra gli arrivi e le partenze dell’aeroporto della città. In quel punto si concentravano acciaierie, fonderie, raffinerie, rivenditori di macchinari e depositi di materiali per costruzioni; lì, i Padri della città avevano manifestato un atteggiamento vigoroso, autorizzando i bulldozer a incidere a enormi lettere, sul fianco della collina alle spalle degli edifici, lo slogan SOUTH SAN FRANCISCO, LA CITTÀ INDUSTRIALE. A quel punto, però, soprattutto intorno a Sunnyvale, il panorama di frutteti cominciava a essere discontinuo, e lasciava spazio a un nuovo mondo. Era in quelle zone che la maggior parte dei camion della Kaiser Cement si dirigeva uscendo dalle cave. Draghe, gru e motolivellatrici aspettavano il cemento e l’acciaio per costruire la sede della nuova sezione missilistica della Lockheed Corporation. Nel 1957, Sunnyvale era sei volte più grande rispetto alla fine della Seconda guerra mondiale, e cominciava ad avere i numeri per essere inclusa negli almanacchi nazionali. Le discussioni cittadine viravano con forza verso tassazione, perizie, permessi edilizi, pianificazione urbana, infrastrutture fognarie, energia idroelettrica. Si parlava di nuove imprese e girava voce che una delle maggiori società automobilistiche avrebbe costruito una fabbrica in zona. Alla fine degli anni cinquanta, la Camera di commercio di Sunnyvale informò con gioia che le statistiche sulla città diventavano obsolete ogni ora: nei giorni feriali, arrivava infatti un nuovo lavoratore ogni sedici minuti. Gli opuscoli promozionali dicevano che era «la città con il futuro dentro», il «boom dell’urbanizzazione nella baia». I nuovi arrivati nel luogo che «puntava in alto» e «precorreva il futuro» erano parte integrante della spinta statunitense verso un’esistenza suburbana. Le case erano isolate dal trambusto della comunità e c’era sempre un negozio raggiungibile con un breve tragitto in auto. In sé, le residenze avevano l’inconfondibile aspetto dell’architettura della Bay Area. Erano casette basse, al massimo a un piano, con i tetti piatti o appena inclinati, come quelli di un capanno da giardino (gli agenti immobiliari dicevano che i ragazzi in questo modo facevano meno fatica a recuperare dai tetti delle abitazioni i modellini di aeroplani). Dall’esterno, comunque, a dominare le facciate erano i garage; sembrava che le stanze fossero state aggiunte in base a un ragionamento successivo, più approfondito. Le grandi porte metalliche della rimessa parevano l’ingresso principale più naturale. I dépliant menzionavano il riscaldamento a pannelli, «il modo più sa-


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lubre e moderno per tener calda la casa», la boiserie alle pareti, le mattonelle di asfalto e sughero, i legni di qualità delle cucine e i grandi armadi a porte scorrevoli, «che si aprono con un dito». Tendevano, invece, a non dire che i pompieri locali scherzavano sul fatto che quegli ammassi di colonnine e travi potevano essere distrutti dal fuoco in sette minuti – e che la comunità nera era isolata dalla parte sbagliata dei binari della Southern Pacific e della superstrada. La maggior pare delle famiglie giunse a Sunnyvale attratta dalla prospettiva di un lavoro alla Lockheed. Molti dimostrarono grande cautela, perfino calcolo: si informarono presso gli agenti immobiliari su dove sarebbe stata costruita l’autostrada di cui si sentiva parlare – l’Interstate 280 – e controllarono di persona i progetti agli uffici del comune. Chiesero consigli per le scuole agli amici, sentendosi rispondere che i luoghi con la reputazione migliore nella zona erano Palo Alto e Cupertino. Si parlava di insegnanti intraprendenti, borse di studio federali, sperimentazioni nell’insegnamento della matematica, classi aperte. Visitando il distretto scolastico, ricevettero una mappa che indicava gli istituti esistenti e i siti in cui avrebbero potuto esserne costruiti di nuovi. Poi scoprirono la scelta anomala del provveditorato locale: non dovevano essere residenti a Cupertino per mandare a scuola lì i loro figli. Il distretto abbracciava parti di San José, Los Altos e Sunnyvale, e i prezzi delle case in zona lievitavano di conseguenza. In alcuni punti, i confini cittadini passavano addirittura nel bel mezzo delle abitazioni. Jerry Wozniak, un ingegnere intorno ai trentacinque anni, fu tra le migliaia di persone assunte dalla Lockheed alla fine degli anni cinquanta. Insieme alla moglie Margaret e ai figli Stephen, Leslie e Mark si trasferì in un quartiere tranquillo di Sunnyvale, nel distretto scolastico di Cupertino. Nello stesso periodo, all’altro capo della penisola, nel quartiere Sunset di San Francisco, Paul e Clara Jobs adottarono il loro primo figlio, Steven. Spesso, durante i primi cinque mesi della sua vita, andarono a passeggio spingendo la carrozzina del piccolo sotto i lampioni finto Ottocento, lungo i binari del tram, sulla spiaggia, all’ombra dei frangiflutti umidi, nella nebbia, sotto i cieli plumbei solcati da gabbiani grigi.


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