Giuliana Sgrena
Rivoluzioni violate Primavera laica, voto islamista
Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreED Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore © il Saggiatore S.r.l., Milano 2014
Rivoluzioni violate
Sommario
Introduzione
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1. La rivoluzione al volante
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2. Ben Ali, dégage!
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3. La verginità dei militari
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4. Algeria: eccezione o modello?
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5. La Libia nel caos delle milizie
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6. Il Nobel velato
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7. In Egitto la seconda rivoluzione
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8. La parità è sulla Carta
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9. Un nuovo califfato tra Siria e Iraq
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Glossario
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Introduzione
Le rivoluzioni hanno provocato una crisi di identità nel maschio arabo. Il protagonismo delle donne li ha terrorizzati e hanno risposto con violenza per ristabilire l’ordine patriarcale che garantisce il loro status. Come? Innanzitutto, facendo ricorso alla religione e votando i partiti islamisti. Il Corano, infatti, garantisce la superiorità dell’uomo rispetto alla donna. I partiti islamisti sono diventati l’utile strumento di questo riscatto. E quando il potere religioso mostra i suoi limiti e il fallimento del progetto politico, economico e sociale appare in tutta la sua evidenza, intervengono i militari. Ma il segno non cambia. Come afferma Hoda Badran, femminista egiziana: Militarismo e patriarcato sono strettamente legati, per entrambi la mascolinità è l’opposto della femminilità. Se i soldati – e tutti i «veri» uomini – sono forti e coraggiosi, le vere donne devono essere l’antitesi: passive, obbedienti e bisognose di protezione come «buone» mogli, sorelle e madri.
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Non sarà dunque l’esercito a garantire gli obiettivi delle rivoluzioni, negati dagli islamisti insieme ai diritti delle donne. La modernità delle rivoluzioni arabe non sta tanto e solo negli strumenti utilizzati – i social network – ma soprattutto nella sua motivazione più profonda: la rivendicazione della parità di genere. Solo l’affermazione di questa parità garantirà la riuscita del processo in corso. Dunque la rivoluzione è femmina. Quando parlo di rivoluzione mi riferisco alla Tunisia e all’Egitto. Le rivolte e le insurrezioni avvenute in altri paesi, infatti, hanno cambiato natura quando la parola è passata alle armi, per l’intervento occidentale (Libia) o per la degenerazione in guerra per bande superarmate e qaediste (Siria). La rivoluzione siriana si è trasformata in guerra civile, in lotta per il potere e le forze laiche e democratiche non hanno avuto più spazio né voce. In altri paesi – di cui parlo in questo libro – la situazione è ancora diversa, perché la rivolta non è stata così radicale (Yemen) o perché il contagio è ancora limitato e le proteste pesantemente represse (Arabia Saudita). Il dato comune, però, è la ribellione delle donne per l’affermazione dei propri diritti, anche in Algeria, il paese che in questo quadro rappresenta un’«eccezione». Una distinzione necessaria, quella tra rivoluzioni e non, per chi ha voluto negare il carattere rivoluzionario di queste lotte e poi si è affrettato a seppellirle come un illusorio miraggio. Visioni miopi, dovute all’incomprensione di un sommovimento popolare che ha abbattuto in breve tempo regimi che
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sembravano immutabili e irremovibili, che ha sconfitto ricchi satrapi appoggiati dalle potenze occidentali. Non sono state rivolte nate improvvisamente, dal nulla, ma sono state precedute da anni di lotte sindacali (infatti, il sindacato è stato e continua a essere il punto di riferimento politico in Tunisia) e di frustrazioni, che hanno ricevuto da gesti clamorosi come quello del giovane Bouazizi, che si è immolato a Sidi Bouzid, la spinta per l’insurrezione. Le rivendicazioni economiche e sociali si sono subito trasformate in richieste politiche: giustizia sociale, dignità, libertà e democrazia. Karama è diventata la parola simbolo di queste rivoluzioni. Le lotte del Sud – dopo le guerre di liberazione – per la prima volta tornano nell’immaginario dei giovani del Nord: per gli indignados spagnoli la Puerta del Sol diventa piazza Tahrir. Le due sponde del Mediterraneo si parlano in nome di pratiche comuni – la non violenza – e di rivendicazioni – la parità di genere, la dignità, la democrazia. È come se fosse caduto un altro muro, tra Nord e Sud. Non ha fatto lo stesso clamore di quello di Berlino, perché la cultura del Nord è ancora permeata di neocolonialismo. Eppure, al Forum sociale mondiale di Tunisi è nata un’identità mediterranea. Difficile da riconoscere sia sulla sponda settentrionale che su quella meridionale. Si è parlato di rivoluzioni postislamiste perché nelle parole d’ordine dei movimenti rivoluzionari non c’era alcun riferimento alla religione, così come i protagonisti provenivano dalla componente laica e democratica della società, soprattutto giovani e donne. L’unica loro bandiera era quella nazionale – tunisina o egiziana –, un’esplicitazione della fine del sogno panarabista. Libici e siriani vanno oltre, o forse tornano indietro, is-
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sando le vecchie bandiere: quella di re Idris a Tripoli e quella precedente alla presa del potere da parte del partito Baath a Damasco. La bandiera nazionale contrasta con i fautori del jihad globale, i quali innalzano il vessillo nero di al Qaeda, che ha fatto la sua apparizione in Libia e in Siria. Per l’Egitto e, in particolare, per la Tunisia, la rivoluzione è stata non violenta e continua a esserlo per coloro che l’hanno iniziata. Forse il limite di questi movimenti è stato l’assenza di un leader e soprattutto di un’organizzazione, che ha permesso agli islamisti di approfittare dell’insurrezione per essere legittimati in nome della democrazia e vincere le elezioni. Le forze rivoluzionarie si sono infatti scontrate con una parte di società, più organizzata e coesa, che si opponeva a trasformazioni progressiste e mirava alla costruzione di uno stato teocratico, utilizzando a fini politici una religiosità diffusa, che permea queste società, come era già avvenuto in altri paesi, fallendo in Algeria e trionfando in Iran. Sono due progetti di società incompatibili tra loro, quello islamista difficile da imporre in paesi come l’Egitto e la Tunisia, sostanzialmente laici. I motivi per cui gli islamisti hanno vinto le elezioni sono illustrati nel libro, così come gli effetti disastrosi dei loro governi. In questa fase, più che a governare, hanno pensato a porre le basi per una reislamizzazione della società. Egiziani e tunisini si sono ribellati a governi inetti, seguendo vie diverse: l’intervento militare in Egitto, il dialogo in Tunisia. I militari non sono un’alternativa agli islamisti, anche se in un primo momento possono apparire il male minore. Per la loro stessa natura, anche se si sono autoproclamati garanti della rivoluzione, non possono esserlo della democrazia.
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Il passaggio è ancora molto angusto, sebbene Tunisia ed Egitto abbiano sventato il pericolo di diventare stati islamici, mentre la Libia ha imposto la sharia e in Siria si contano ancora le vittime. Come si è tornati a fare anche in Iraq. In Siria, Libano e Iraq si gioca la partita tra sciiti e sunniti, guidati rispettivamente da Iran e Arabia Saudita. Uno scontro sanguinoso che ripropone nelle alleanze gli schieramenti della Guerra fredda: la Russia con l’Iran e gli Stati Uniti con l’Arabia Saudita. Seguendo un copione già visto negli anni ottanta in Afghanistan, l’Occidente si schiera con gli islamisti e i finanziatori dei gruppi di al Qaeda. Gli stessi che domani andranno a combattere. I paesi occidentali che si ergono a difensori della democrazia, dei diritti e delle libertà hanno appoggiato fino all’ultimo i dittatori, e dopo la loro caduta si sono schierati con le forze oscurantiste in nome della stabilità. Le forze democratiche vittime delle dittature non hanno mai goduto del sostegno internazionale. Gli islamisti, invece, beneficiano di ingenti aiuti dai paesi del Golfo, Arabia Saudita e Qatar in testa. Per gli islamisti è stato facile vincere le elezioni, ma poi non hanno retto alla prova del potere. Per tranquillizzare l’Occidente dicevano di ispirarsi al modello turco, che nel frattempo è miseramente crollato sotto il peso della corruzione e della contestazione. Per ora, a indicare la strada rivoluzionaria più coerente, anche se non priva di ostacoli, è ancora una volta la Tunisia, laddove la Primavera araba è iniziata.
1. La rivoluzione al volante
Khobar, Arabia Saudita, 21 maggio 2011. Manal si è appena alzata e si prepara per andare al lavoro: non indossa la tradizionale abaya, ma un semplice foulard, più pratico per guidare. Come se si trovasse ancora a Boston, dove era stata inviata per lavoro dall’Aramco (la compagnia petrolifera di stato), sale in macchina. Mentre accende il motore e parte, non ha dubbi: sta iniziando una rivoluzione. Wajeha al Huwaider, veterana della lotta per il diritto alla guida delle donne saudite, riprende l’amica al volante con il cellulare. Il filmato, caricato su YouTube, fa il giro del mondo, totalizzando in poche ore 700mila visualizzazioni. Manal al Sharif ha fatto centro. Il suo bel viso, la sua determinazione e soprattutto internet, oggi possono fare la differenza rispetto al passato. Lo sanno bene le autorità saudite, che prontamente la fanno arrestare. La donna esce dal carcere nove giorni dopo, si dice, a patto che non rilasci dichiarazioni ai media. Se l’accordo c’è stato, comunque Manal non può rispettarlo: si avvicina la giornata di mobilitazione del 17 giugno 2011,
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lanciata sul web con lo slogan «Women 2 Drive», e bisogna agire. Tutta la campagna si promuove attraverso la rete: l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi sono i due paesi con il maggior numero di smartphone al mondo; inoltre, i sauditi sono tra gli arabi più attivi su Twitter, nonché i maggiori fruitori pro capite al mondo di video su YouTube. Ma il sessismo della società saudita colpisce le donne anche attraverso internet: solo tre su dieci tra tutte coloro che hanno accesso alla rete (possiedono un computer, uno smartphone ecc.) hanno la possibilità di utilizzare i social network, contro una media mondiale di cinque su dieci. La causa principale è il rigido controllo maschile su tutte le attività delle donne anche tra le mura domestiche e la limitazione delle libertà imposta da una società misogina. Altro ostacolo è l’analfabetismo femminile. «Credetemi, registrare un video usando il mio nome, scoprendomi il viso è considerata un’offesa dagli uomini del mio paese» sostiene Manal al Sharif (Wired, 26 ottobre 2012). E lo si comprende bene guardando la pagina Facebook, comparsa subito dopo l’uscita dal carcere di Manal, che invita i mariti a picchiare le mogli che dovessero partecipare alla manifestazione per il diritto alla guida. La pagina registra rapidamente 6000 «mi piace», prima di venire cancellata per la violenza dei commenti. Ma Manal è già diventata un’icona globale, simbolo della lotta delle donne saudite «non per guidare ma per vivere» (Oslo Freedom Forum, 10 maggio 2012, YouTube), e il settimanale statunitense Time la inserisce tra i cento personaggi più influenti del mondo nel 2012.
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Manal vive a Khobar, una città dell’Arabia orientale, trasformata, dopo la scoperta del petrolio, da villaggio di pescatori in un grande porto industriale. Il clima è insopportabile, soprattutto nei tre mesi estivi, quando la temperatura si stabilizza tra i 42 e i 50 gradi, periodo non a caso definito «i novanta giorni del diavolo». È difficile immaginare come donne interamente coperte da veli, calze e guanti neri riescano a sopravvivere in quel periodo. Persino il clima sembra complice di chi le vorrebbe recluse dentro le mura domestiche a occuparsi dei mariti e dei figli. Per evitare qualsiasi promiscuità, le case hanno una doppia entrata e doppi ascensori. Del resto, le donne sembrano non avere neanche diritto a un nome proprio: sono identificate solo come «figlia di» o «madre di». Spesso anche i maschi nei paesi arabi usano chiamarsi «padre di», indicando però solo il primogenito, vanto della virilità del maschio. La società saudita è organizzata in modo che per le donne risulti impossibile spostarsi da sole: i trasporti pubblici non esistono e i taxi non hanno parcheggi fissi, per cui è difficile trovarli e salirvi non accompagnate. Per muoversi resta soltanto l’automobile. Pur non essendoci alcuna legge che impedisca alle donne di guidare, di fatto non possono. E per colmare la lacuna, nel 1990, dopo una prima protesta di donne al volante, un imam emise una fatwa che sanciva il divieto. La legislazione saudita si basa sulla sharia, ma è difficile immaginare che Maometto potesse vietare la guida quando si usavano i cammelli: e allora anche le donne li cavalcavano, persino per andare in guerra – come aveva fatto Aisha, una delle mogli del profeta, nella famosa e (per lei) sfortunata Battaglia del cammello (656 d.C.).
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Nonostante i divieti, sono sempre più numerose le donne saudite che acquistano un’auto: secondo l’Aramco tra il 2003 e il 2006 si è registrato un incremento del 60 per cento. Allora 75 522 donne possedevano 120 334 vetture, e si suppone che ora siano molte di più. Una provocazione o una speranza per il futuro? Per ora comunque le saudite devono avere un autista, che spesso viene «importato» dall’Asia (come gran parte della manodopera), al costo base di 2000 dollari, cui vanno aggiunte le spese per visto e permessi vari. E poi c’è il suo salario, che può equivalere anche allo stipendio di una lavoratrice e generalmente costituisce almeno un terzo delle entrate di una famiglia della classe media. Con costi simili, l’impossibilità per le donne di spostarsi diventa, oltre che la negazione di un diritto, un problema economico. Esistono delle rare eccezioni: le donne possono guidare nelle zone isolate abitate dai beduini o dentro il compound privato dell’Aramco e nell’enorme campus dell’Università per la scienza e la tecnologia Re Abdullah (3600 ettari). Ma per raggiungere l’università che si trova a Thuwal, 80 chilometri a nord di Jeddah, un autista è indispensabile. Oltre le mura di questi «parcheggi» privati, per tornare a casa occorre comunque un uomo. Perché le donne non possono guidare? Secondo un rapporto realizzato da Kamal Subhi, un accademico, per il Consiglio della Shura (il «parlamento»), le donne alla guida metterebbero a rischio la loro verginità e il loro onore, e comunque una donna che può muoversi in autonomia è considerata al pari di una prostituta. Ma non solo: «Le donne non devono guidare perché la
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guida può danneggiare le ovaie» ha affermato lo sceicco Saleh al Luhaidan, a pochi giorni dalla nuova mobilitazione – con lo slogan «Saudi Women to Drive» – indetta per il 26 ottobre 2013. Le donne sono viste solo come strumento di riproduzione di buoni musulmani. L’ossessione del contatto tra i sessi ha portato a un paradosso: il religioso saudita Sheikh Abdul Mohsen al Obeikan, nel giugno del 2010, aveva emesso una fatwa in cui invitava le donne ad allattare i colleghi, in modo da stabilire un rapporto «materno» ed evitare un’illecita promiscuità. Le donne avevano risposto che, nel caso non avessero ottenuto il permesso di guidare, avrebbero potuto «allattare» i propri autisti: un ruolo «materno» avrebbe garantito loro maggiore sicurezza. L’autista, infatti, non è sufficiente perché le donne viaggino in tranquillità. Nel giugno del 2011 – mentre la campagna per la guida era in pieno svolgimento – una donna ha denunciato un tassista per stupro. Secondo il racconto della vittima, della quale non è stato rivelato il nome, l’uomo la stava accompagnando a casa, quando improvvisamente ha cambiato strada dirigendosi verso la zona industriale di Medina e, fucile alla mano, l’ha violentata (Okaz, 2 giugno 2011). La violenza, il divieto di lavorare e il controllo del marito sul salario della moglie, sono tra le principali cause di richiesta di divorzio da parte delle donne. Il numero dei divorzi in Arabia Saudita è in continuo aumento: secondo una ricerca realizzata dal quotidiano economico Al Eqtisadiah, nel 2012 i divorzi erano 82 al giorno contro i 75 del 2010. In totale i divorzi sono stati 30mila nel 2012 a fronte di 70mila matrimoni celebrati nello stesso anno. Per i mariti è facile divorziare, per motivi anche futili («devo andare all’estero per lavoro e mia
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moglie non vuole seguirmi»): il ripudio può avvenire anche a distanza, addirittura per posta. Per la moglie, invece, la procedura è più complessa e la richiesta deve essere avanzata da un tutore. Uno dei motivi validi per rompere un matrimonio, secondo la sharia, è l’assenza di rapporti sessuali tra i coniugi. Nel 2013 oltre 1650 richieste di divorzio erano motivate dall’insoddisfazione sessuale, 1371 delle quali presentate dalle mogli. Questo dato, diffuso dal ministero della Giustizia e, secondo fonti legali, inferiore a quello reale, rende l’idea di una situazione che potrebbe apparire paradossale in una società sessuofobica, ma non in un paese dove vige la poligamia e gli uomini possono avere fino a quattro mogli. Naturalmente, i giudici uomini si trovano spesso in imbarazzo di fronte a una simile motivazione: la reazione può essere la concessione immediata del divorzio oppure, più di frequente, il rinvio della donna a un trattamento psicologico specifico per indurla alla riconciliazione. Un’altra possibilità per la donna è la khula, ovvero il divorzio a pagamento: la moglie, oltre a rinunciare a tutti i suoi diritti, deve restituire al marito la dote ricevuta al momento delle nozze. Spesso la moglie non è in possesso della cifra necessaria per la khula e chiede al marito di ripudiarla, ma molto di rado il marito è disponibile se non è lui a prendere l’iniziativa. Per porre un freno all’escalation dei divorzi, che spesso avvengono nei primi anni di matrimonio, dal 2013 le autorità hanno imposto alle donne un corso prematrimoniale, considerando la moglie la responsabile principale della separazione perché non accetta le imposizioni o le violenze del marito. Paradossalmente, il divorzio di una donna può essere richiesto dai suoi parenti, anche se lei è contraria. È stato il caso,
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nel 2005, di Fatima Azzaz e Mansour al Tamami, costretti a separarsi perché un fratello di lei aveva convinto il giudice di una corte coranica che il marito apparteneva a una tribù di rango sociale inferiore a quello della moglie. Fatima non ha voluto tornare dalla sua famiglia ed è stata rinchiusa in una sorta di ospizio con il figlio più piccolo, mentre al marito è stata affidata la figlia. Fatima e Mansour non si sono mai arresi e si sono rivolti all’Onu. L’organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch si è occupata del caso: tramite un avvocato che ha fatto ricorso alla Corte suprema, Fatima e Mansour hanno ottenuto l’annullamento del divorzio e finalmente, nel febbraio del 2010, si sono potuti ricongiungere. Ma molte altre coppie non hanno avuto la loro stessa fortuna. La società saudita è regredita rispetto al passato. «La generazione di mio padre era più liberale di quella attuale» sostiene Manal, che non si arrende di fronte a questo arretramento. Manal, ingegnere, 34 anni, dopo il divorzio ha ottenuto dal tribunale l’affidamento del figlio, ma non l’assegno di mantenimento da parte dell’ex marito. Fino al maggio 2012 non aveva problemi a mantenersi. Con il suo lavoro all’Aramco poteva considerarsi fortunata: sono solo 500mila le saudite impiegate, su 5 milioni di laureate. Molte professioni sono vietate alle donne, che comunque per lavorare devono sempre avere il permesso di un maschio della famiglia. La partecipazione all’Oslo Freedom Forum, nel maggio 2012, è costata il posto a Manal. «Il mio capo mi ha chiamato e mi ha detto: se vai a un’altra conferenza, perderai il tuo lavoro. Non puoi andarci» ha raccontato Manal a un quotidiano britannico (The Independent, 23 maggio 2012). Manal è partita lo stesso per Oslo, affrontando
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al ritorno il licenziamento, dopo dieci anni di lavoro, e la perdita della casa in cui viveva, di proprietà della compagnia. Per una donna sola la vita non è facile: anche per prendere in affitto una casa serve un tutore maschio, così come per aprire un conto in banca o sottoporsi a cure sanitarie. Addirittura, se una donna va alla polizia per denunciare il marito che la picchia, per identificarsi è costretta a portare anche il consorte. Ironia della sorte, in passato Manal al Sharif ha difeso le vessazioni e le segregazioni che ora denuncia. Nata nel 1979, è cresciuta alla Mecca, la più santa delle città sante per i musulmani; ricorda che la sua prima scuola aveva due entrate, separate per sesso. Ricorda ancora di aver bruciato le musicassette del fratello perché il mullah le aveva insegnato che la musica proveniva dal «flauto di Satana». All’Università di Jeddah ha frequentato insieme ad altre sessanta studentesse un corso di Scienze informatiche. Il professore insegnava alle ragazze – con velo integrale e guanti – attraverso una telecamera a circuito chiuso che impediva qualsiasi contatto. La vita di Manal cambia improvvisamente l’11 settembre del 2001. «Gli estremisti ci dicevano che era una punizione di Dio contro l’America» ricorda Manal. Ma quella sera, guardando in tv le immagini delle Torri Gemelle, «mi sono detta che qualcosa non andava. Non c’è nessuna religione sulla terra che possa accettare una simile crudeltà» (The Independent, 23 maggio 2012). Abbandonati il rigore wahabita e la cieca osservanza dell’apartheid sessuale, Manal comincia a scoprire il mondo intorno a sé. Ricorda con commozione quando per la prima volta si è concessa il lusso di ascoltare una canzone pop straniera: era dei Take That. Finita l’università, Manal ha la fortuna
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di trovare lavoro presso l’Aramco. Si sposa con un collega, ma il matrimonio non funziona e il divorzio rappresenta un’altra prova della discriminazione subita dalle donne saudite. Durante la missione di lavoro a Boston, nel 2009, scopre una vita «incredibilmente normale: potevo affittare un appartamento, andare in banca e aprire un conto, guidare la macchina». È allora, dall’esperienza negli Stati Uniti, che nasce in lei il desiderio di impegnarsi a favore dei diritti delle donne nel suo paese, a partire proprio dalla rivendicazione della guida. Ma Manal non è stata la prima. Già nel 1990 quarantasette donne erano state arrestate per essersi messe alla guida di un’auto. L’8 marzo del 2008 Wajeha al Huwaider ha rilanciato la sfida: si è fatta riprendere mentre guidava e ha poi caricato il video su YouTube: quelle immagini hanno fatto conoscere al mondo la situazione delle donne saudite. Nel 2011 è stata sempre Wajeha a filmare Manal, e la diffusione dei video si è rivelata ancora più ampia. Anche lei, come l’amica, aveva scoperto negli Stati Uniti, durante gli studi universitari, come poteva essere «normale» la vita di una donna. Ritornata nel suo paese, non ha mai abbandonato la lotta per ottenere il rispetto della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948. E, se Manal ha conquistato Time, Wajeha è stata inclusa da Newsweek tra le 150 donne che hanno scosso il mondo nel 2011. Giornalista, Wajeha lavorava per il quotidiano saudita al Watan, ma già nel 2003 il ministro dell’Interno, principe Nayef bin Abdulaziz al Saud, come ritorsione, le proibì di scrivere sui giornali di proprietà dello stato. Nel 2006, in occasione del primo anniversario dell’ascesa al trono di re Abdullah,
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Wajeha ha protestato sulla strada che dal Bahrein porta all’Arabia Saudita innalzando un cartello con scritto: date alle donne i loro diritti. È stata arrestata e, dopo lunghi interrogatori, rilasciata e affidata al fratello minore. «Nei paesi arabi e in particolare nel Golfo, la discriminazione delle donne comincia da quando sono un feto nella pancia della mamma, continua quando vengono alla luce e finisce solo con la morte» sostiene Wajeha. Una constatazione che mi ricorda l’affermazione di un leader islamista algerino, Ali Belhadj, numero due del Fronte islamico di salvezza (Fis) che sosteneva che le donne possono uscire di casa solo tre volte nella loro vita: la prima quando vengono al mondo, la seconda quando si sposano, la terza per il loro funerale. Le autorità saudite cercano di bloccare in ogni modo militanti scomode come Wajeha e in tribunale le accuse non devono essere necessariamente suffragate da prove perché sia emessa una sentenza di condanna. Nel giugno del 2011 la canadese Johanne Durocher – che da anni cerca di far uscire dal paese la figlia, sposata con un saudita – si mette in contatto con Wajeha perché la ragazza, Nathalie, è stata chiusa in casa con i tre figli piccoli dal marito, recatosi al matrimonio di un membro della famiglia, senza cibo e senza soldi. Wajeha, con l’amica Fawzia al Oyouni, decide di soccorrere Nathalie. Ma quando le due giungono nelle vicinanze della casa vengono arrestate. L’accusa è di favoreggiamento nella fuga di Nathalie e dei figli verso l’ambasciata canadese. Anche Nathalie viene fermata e interrogata per ore, con la minaccia di una possibile incriminazione per il rapimento dei tre bambini. Ma l’intimidazione non ha seguito, così come le accuse a carico di Wajeha e Fawzia. Del
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resto, l’ambasciata non riconosce più Nathalie Morin come cittadina canadese. Le attiviste saudite sono allora accusate di takhbib e per questo, il 15 giugno 2013, condannate a 10 mesi di reclusione e 2 anni di interdizione all’espatrio. Morin chiede di poter testimoniare al processo, sostenendo di non aver mai parlato con le due donne, ma è tutto inutile. Il 24 settembre la sentenza viene confermata in appello. «La condanna mia e della mia amica mira a intimorire tutte le donne saudite impegnate nella promozione dei diritti delle donne» è stata la reazione di Wajeha al Huwaider. In un paese dove le donne vivono come recluse, la possibilità di usare la rete e i blog, come Saudiwoman’s Weblog, ha dato alle attiviste nuove opportunità di comunicazione e di mobilitazione. Ma le nuove tecnologie sono anche un mezzo a disposizione del governo per mantenere il controllo sulla popolazione, e in particolare sulle donne: l’ultima trovata è un dispositivo che monitora il loro passaggio alle frontiere. Le donne, per poter viaggiare, hanno bisogno del permesso del tutore maschio che deve firmare un «foglio giallo» di autorizzazione. Così, dal novembre 2012, quando una donna passa i controlli in aeroporto, il tutore riceve un avviso via sms da parte dell’Ufficio migrazione. La decisione è stata sbeffeggiata su Twitter anche dagli uomini: qualcuno ha persino suggerito il ricorso a un braccialetto alla caviglia, come si fa con i detenuti. Sono reazioni ironiche che, purtroppo, non sembrano tanto paradossali in un paese in cui «le donne sono trattate come dei minori anche quando ricoprono ruoli di alto livello», come sostiene Suad Shemmari,
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attivista per i diritti umani. Che aggiunge: «Non ci saranno riforme nel regno senza un cambiamento dello status delle donne e un trattamento di parità con gli uomini». Ma la strada è ancora lunga. In Occidente si è diffuso il fascino per le femministe islamiche, un ossimoro (le religioni sono incompatibili con il femminismo), ma che ben si combina con quel relativismo culturale che non accetta l’idea che anche nei paesi arabi esista un movimento femminista simile al nostro. In tutti i paesi arabi musulmani che ho visitato ho incontrato femministe (e tali si definiscono) con una grande preparazione teorica ed esperienze di lotta per la conquista dei loro diritti. È concepibile un islam femminista? La fine della discriminazione può passare attraverso una rilettura del Corano? Molte femministe marocchine, a partire dalla più famosa tra di loro, Fatema Mernissi, ritengono di sì, rivalutando il ruolo delle donne nella storia dell’islam. In questo caso non si tratta di «femministe islamiche» perché respingono le discriminazioni della donna contenute nel Corano e ne fanno una rilettura progressista. Le cosiddette femministe islamiche, invece, accettano le discriminazioni e le giustificano. Ne avevo già discusso con le algerine del Fronte islamico di salvezza; poi, nel giugno 2008, ho partecipato a un dibattito sull’islam e le donne all’interno di un convegno organizzato dall’Università di Firenze su «Europa e Mediterraneo». Al dibattito partecipava Aicha el Hajjami, docente della facoltà di Legge all’Università Qadi Ayyad di Marrakech, divenuta famosa per aver tenuto una lezione sull’islam a re Mohammed vi durante il Ramadan del 2004. Aicha, «femminista islamica», vestita di nero e rigorosamente velata, giustificava la poligamia perché permette a donne, anche ve-
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dove, di avere un marito, l’importante è che l’uomo tratti tutte le mogli allo stesso modo (cosa che non succede mai e non potrebbe essere diversamente). Anche sull’eredità dimezzata per le donne Aicha conveniva: nell’islam la proprietà è di dio e se dio affida alle donne la gestione di una parte minore rispetto all’uomo è per proteggerla, per affidarle meno responsabilità. Sul femminismo islamico la saudita Wajeha ha le idee molto chiare: «C’è già un islam femminista, più che altro guidato da donne musulmane che vivono in Occidente. Però queste tendono a dimenticare che nessuna delle religioni monoteiste tratta uomini e donne allo stesso modo, e che c’è un limite a quello che gli studi accademici possono fare per cambiare questa realtà. Per esempio, le figlie ereditano la metà di quello che ereditano i figli maschi. Agli uomini è permesso sposare sino a quattro mogli. Due testimoni donne valgono un testimone maschio. Una società laica è una scommessa migliore, per le donne e anche per gli uomini» (The Nation, 8 giugno 2011). Una concessione fatta da re Abdullah nel 2011 è stata il voto promesso alle donne per le elezioni comunali del 2015. Ammesso che ci sia un autista che le porti al seggio e che abbiano il consenso del loro tutore. Del resto, se le donne devono avere il permesso per studiare, lavorare, sposarsi, divorziare, vivere da sole, viaggiare, affittare una casa, usufruire di cure mediche o sottoporsi a un intervento chirurgico, è difficile pensare che possano votare senza autorizzazione. L’unico altro atto di «distensione» sembra essere l’autorizzazione a vendere biancheria intima. Può forse apparire un fatto irrilevante, ma non lo è. Finora i negozi di intimo erano affidati a commessi immigrati, che spesso approfittavano delle clienti per molestarle. In un
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paese in cui sono ben poche le occupazioni concesse alle donne, anche questo è un piccolo passo avanti. Le proibizioni in Arabia Saudita colpiscono le donne fin da piccole. Le regole scolastiche sono molto rigide e, anche se le scuole femminili sono separate da quelle maschili, ogni atteggiamento sospetto può causare severe punizioni. Alle ragazze è proibito anche ridere: «La voce della donna è la sua nudità» dice la burbera insegnante alle sue allieve nel film La bicicletta verde (Wadjda è il titolo originale). È l’opera prima – dopo alcuni documentari – della regista Haifaa al Mansour, che per illustrare il mondo femminile saudita ha preso spunto dal divieto per le bambine di andare in bicicletta: se le donne al volante danneggiano le loro ovaie o sono considerate prostitute, le bambine in bicicletta potrebbero perdere la loro verginità. In ogni caso, ancora una volta all’origine del divieto sta il controllo della sessualità. La bicicletta verde è il primo film girato in Arabia Saudita, dove non esistono sale cinematografiche. Haifaa, nata in un piccolo centro, si è avvicinata al cinema grazie al padre, il poeta Abdul Rahman Mansour: quando lei era piccola, portava sempre a casa videocassette di film e poi, racconta la regista, «le guardavamo la sera tutti insieme». In seguito si è trasferita al Cairo, dove ha studiato Letterature comparate all’Università americana; a Sidney ha conseguito un master in Cinematografia, per poi stabilirsi in Europa. Wadjda è anche la prima pellicola saudita realizzata da una donna. È un sogno che si avvera, un sogno in cui ha creduto molto anche Abdul Rahman Mansour, morto qualche anno fa. «Sì, mio padre era molto orgoglioso di me. Mi ha sempre sostenuta, condivideva le mie aspirazioni, e questo è
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molto raro in Arabia Saudita» dice Haifaa. L’ho incontrata a Roma, in occasione della presentazione del suo film. È una donna esile, molto vivace, con lunghi capelli sciolti: le donne costrette a indossare il velo, quando non lo portano, godono visibilmente di questa libertà. Anche se Haifaa, vivendo in Europa, non è obbligata a coprirsi. È felice di poter stare in mezzo al pubblico, di soddisfare le curiosità di giornalisti e di spettatori, che difficilmente potranno visitare il suo paese. Com’è stato possibile per una donna girare un film in Arabia Saudita? «Sono riuscita a ottenere tutti i permessi, ma il problema erano le scene di esterni; a volte dovevo dirigere le riprese nascosta dentro un camper con un walkie-talkie e un monitor: in Arabia Saudita una donna non può dirigere un attore maschio né può rimanere sola per la strada» mi racconta Haifaa. Ma aggiunge: «Per cambiare le cose bisogna lavorare dall’interno, non voglio essere una ribelle per il gusto di esserlo». La bicicletta verde fa prevedere una carriera promettente per la regista. Dopo essere stato presentato alla Mostra del cinema di Venezia nel 2012, nella sezione Orizzonti, il film ha ricevuto diversi premi internazionali e ottimi giudizi dalla critica. Haifaa è molto soddisfatta del successo ottenuto, che le ha permesso di mostrare all’estero, con delicatezza e senza forzature, la realtà complessa del suo paese. Forse la sua opera sarebbe una sorpresa anche per i sauditi, che vivono ogni giorno quella realtà senza porsi troppi problemi: potrebbe rompere molti tabù. Ma il film potrà mai essere visto dai sauditi? «Nel mio paese il cinema è illegale, perciò i sauditi potranno guardare il film solo all’estero, o in dvd, di cui peraltro si fa ampio uso». In effetti, molti sauditi devono aver seguito le orme del padre di Haifaa:
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grazie alla visione domestica, si è aperto un dibattito tra i favorevoli e i contrari alla pellicola, e questo è già un fatto positivo. «Quale sarà il futuro di Wadjda, la ribelle protagonista del film?» le domando. «Le ragazze sono determinate a vivere la loro vita e non saranno costrette ancora a lungo a seguire regole drastiche e inaccettabili» mi risponde sicura. E forse fra non molto potremo vedere per le strade di Riad donne al volante e bambine in bicicletta. Almeno, questo è l’auspicio. Allora anche in Arabia Saudita sarà primavera, una nuova Primavera araba. Le manifestazioni dichiarate a favore dei diritti delle donne si intrecciano con l’attività di altre donne, le quali attraverso internet parlano di temi assolutamente tabù per la società saudita, come quello della sessualità. In Arabia Saudita ha suscitato molto clamore la pubblicazione, nel 2005 (in Libano, perché le autorità saudite l’avevano vietato), del libro Ragazze di Riad di Rajaa Alsanea, allora ventiquattrenne. Rajaa, alla sua prima esperienza letteraria, ha ottenuto un successo clamoroso raccontando la vita sentimentale e sessuale di quattro studentesse universitarie attraverso le email che si scambiano reciprocamente, unico strumento di comunicazione privata per donne come loro. Il modello rimanda in parte alla serie tv americana Sex and the City, seguita in tutto il mondo, e quindi anche in Arabia Saudita, via satellite. Il libro affronta un tema proibito e svela una realtà inimmaginabile che le autorità, obnubilate da una visione religiosa fondamentalista e repressiva, preferiscono ignorare o censurare. Ma, come succede per i film, anche i libri possono essere comprati nei paesi
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vicini. Ragazze di Riad è diventato presto un best seller tradotto in molte lingue; anche i sauditi l’hanno letto e i più oscurantisti hanno reagito minacciando di morte la giovane autrice. Rajaa, quasi sorpresa da quell’accanimento, si è difesa dichiarando di aver solo descritto una realtà, che la sua è una «letteratura umanitaria» e che rifiuta di dirsi femminista. Del resto, Rajaa indossa il velo anche quando guida l’auto a Chicago, dove si è specializzata in Odontoiatria. Rigorose anche le foto su Facebook, sebbene il suo volto sia sempre illuminato da un bel sorriso. A ogni modo, Rajaa auspica un cambiamento in Arabia Saudita, ma ritiene che non sia necessaria una rivoluzione come in altri paesi vicini. Il libro, nella versione in arabo, è giunto alla settima edizione, ma Rajaa, che avrebbe amato una vita da scrittrice, per ora è tornata a svolgere la professione medica come tutti i membri della sua famiglia. È difficile immaginare che grandi cambiamenti possano venire dall’alto. Nell’ultima giornata indetta per rivendicare il diritto alla guida (26 ottobre 2013) non sono state minacciate solo le manifestanti, ma anche gli uomini che hanno permesso loro di usare l’automobile, paventando pene fino a 5 anni di reclusione. A parte una quindicina di multe, però, non è accaduto nulla di concreto. Non sono molte le donne che rischiano in prima persona, ma su YouTube compaiono diversi video, alcuni dei quali mostrano anche l’appoggio esplicito da parte di autisti maschi, che si sporgono dai finestrini per fare cenni di approvazione. Nell’agosto del 2013 appare improvvisamente il manifesto di una donna con un occhio pesto, che si intravede sotto il
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niqab. Il manifesto pubblicato sui giornali viene diffuso soprattutto su internet, fa parte di una campagna lanciata dalla Fondazione Re Khalid che si occupa della protezione della donna e del bambino. Finalmente il regime riconosce la violenza domestica e sembra impegnato a combatterla, a quasi dieci anni da quando la presentatrice televisiva Rania al Baz aveva avuto il coraggio di denunciare il marito Mohammed al Fallatta, un ex cantante, che l’aveva picchiata, rompendole il naso e provocandole tredici fratture al viso. La presentatrice del primo canale della tv di stato del regno saudita aveva voluto denunciare «i troppo spesso taciuti abusi domestici nei confronti delle donne saudite» non solo informando la stampa dell’accaduto, ma anche facendosi riprendere con il viso tumefatto, irriconoscibile. Una principessa saudita aveva voluto pagare le spese per le sue cure: tra le donne della casa reale si possono trovare sensibilità che non sembrano invece contagiare il regime. «Annullare il divieto di guida per le donne, promuovere la classe politica femminile e vivere in una società che garantisca pari diritti per tutti» sono gli obiettivi della principessa saudita più «rivoluzionaria», Ameerah al Taweel. Trentenne, palestinese, amica di Rania di Giordania, ha sposato nel 2006 il principe Al Walid bin Talal, il ventiseiesimo uomo più ricco del mondo secondo Forbes. Con più di 873mila follower su Twitter, le sue proposte girano in rete e, mentre cerca di scalfire l’ostracismo wahabita, si dedica ad azioni umanitarie promosse dalla Fondazione Al Walid bin Talal in giro per il mondo. La campagna di sensibilizzazione contro la violenza domestica e la pressione delle organizzazioni per i diritti umani ha indotto
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il governo saudita a varare, il 26 agosto 2013, una legge ad hoc, in base alla quale l’abuso commesso entro le mura domestiche o sul luogo di lavoro costituisce reato e l’autore del crimine può essere condannato fino a un anno di carcere e al pagamento di un’ammenda di 13 300 dollari Usa. Lo stato si impegna anche a offrire «rifugio, aiuto medico, psicologico e sociale alle vittime». Le vittime di abusi sono per il 98 per cento donne. La legge è basata sulla sharia. Qui sta il paradosso: una donna può denunciare l’uomo (in genere il marito e guardiano) che le ha usato violenza, ma lui a sua volta può denunciarla per insubordinazione: la donna, secondo il Corano, deve ubbidire al marito. Così tutto finisce in un nulla di fatto. I mezzi per aiutare le vittime degli abusi sono molto scarsi, sia per quanto riguarda le case rifugio che per l’assistenza medica o psicologica. Della donna con l’occhio pesto è quindi rimasta solo un’immagine: efficace, ma pur sempre un’immagine, servita più a migliorare la reputazione del regime saudita in Occidente che ad affrontare un problema reale e dilagante nel paese. I regnanti sauditi sono i più feroci oppositori di qualsiasi innovazione, supportati dai religiosi wahabiti, che con le fatwa arrivano anche là dove le leggi degli uomini non valgono. Per ostacolare il cambiamento hanno esportato il wahabismo (una versione «medievale» dell’islam) in diversi paesi musulmani; hanno diffuso associazioni «umanitarie» che usano gli aiuti per fare proselitismo e diffondere la loro visione dell’islam, ovunque, anche in Italia. Hanno costruito moschee con la propria bandiera in tutto il mondo e, soprattutto, finanziato i Fratelli musulmani per bloccare le rivoluzioni in corso e sostenuto i jihadisti nella guerra santa contro i regimi laici.
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Tutto questo non è bastato a evitare il contagio. Nel paese, dal 2011, si sono svolte numerose manifestazioni, a volte di poche centinaia di persone. Quasi tutti i manifestanti sono stati puntualmente arrestati. Inutili le proteste dei familiari, che anzi a loro volta hanno rischiato la detenzione. Gli oppositori sono ancora in carcere, senza processo. La repressione per ora è riuscita a neutralizzare le proteste. Fino a quando?