Nassim Nicholas Taleb
Robustezza e fragilitĂ Che fare? Il Cigno nero tre anni dopo Traduzione di Libero Sosio
1. Imparare da Madre Natura, la maestra più antica e più saggia
Come farsi amici fra i camminatori – La saggezza delle nonne – Le attrattive dell’eco-Estremistan – Mai abbastanza piccoli – Chic sovietico-harvardiano
Sto scrivendo questo poscritto tre anni dopo avere terminato Il Cigno nero, da allora ho pubblicato una dozzina di saggi e articoli «accademici» su alcuni aspetti dell’idea del Cigno nero. Sono testi davvero molto, molto noiosi da leggere, dal momento che quasi tutti i lavori accademici sono fatti per annoiare, impressionare, fornire credibilità, intimidire persino, essere presentati a convegni, ma non per essere letti tranne che da creduloni (o da detrattori) o, peggio ancora, da dottorandi. Qui mi occuperò particolarmente del «che cosa fare dopo»: a volte non basta condurre un cavallo all’abbeveratoio, ma bisogna anche cercare di farlo bere. E questo saggio mi permetterà di approfondire alcuni punti. Come nel testo del Cigno nero, l’esposizione sarà all’inizio più «letteraria», come si suol dire, per poi diventare progressivamente più tecnica. Devo l’idea di questo saggio lungo come un libro a Danny Kahneman, nei confronti del quale io (e le mie idee) abbiamo un debito più grande che verso qualsiasi altra persona su questo
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pianeta: mi convinse che avevo l’obbligo di cercare di far bere il cavallo.
Passeggiate lente ma lunghe Negli ultimi tre anni la mia vita ha sperimentato un po’ di cambiamenti, per lo più in meglio. Le feste, per esempio: un libro può contribuire a farti scoprire dagli altri, e addirittura a farti invitare a più feste. Nei miei giorni più oscuri, a Parigi fui definito operatore commerciale (qualcosa di estremamente vulgaire), a Londra filosofo (nel senso che mi occupavo di problemi troppo teorici), a New York profeta (in senso spregiativo, a causa della mia profezia sbagliata) e a Gerusalemme economista (qualcosa di molto materialistico). Oggi mi vedo invece costretto a gestire lo stress di dovermi dimostrare all’altezza di elogi totalmente immeritati, come quello di profeta (un progetto molto, molto ambizioso) in Israele, di philosophe in Francia, di economista a Londra e di operatore commerciale a New York (dove quest’attività è totalmente rispettabile). Questa esposizione all’attenzione pubblica mi ha portato lettere cariche d’odio, almeno una minaccia di morte che mi procurò un grande orgoglio (da parte di ex dipendenti della banca d’investimenti Lehman Brothers)* e, cosa più terrorizzante di qualsiasi minaccia, continue richieste di interviste da parte di giornalisti turchi e brasiliani. Ho dovuto passare una notevole quantità di La Lehman Brothers era un’istituzione finanziaria con uffici grandiosi, che fallì improvvisamente durante la crisi del 2008. *
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tempo a scrivere biglietti personalizzati e cortesi per rifiutare inviti a pranzo con persone di successo di oggi, di ieri e dell’altroieri, e con quelle dall’aria distinta che parlano con apparente familiarità delle persone più importanti di questo mondo. Questa situazione mi ha però portato anche qualche beneficio. Mi ha fatto entrare in contatto con persone di idee simili alle mie – persone che non mi sarei mai sognato di conoscere in passato, o che non pensavo nemmeno esistessero –, appartenenti a discipline completamente fuori delle mie frequentazioni normali, le quali mi aiutarono a sviluppare le mie ricerche con le intuizioni più inattese. Spesso sono entrate in contatto con me persone che ammiravo e di cui conoscevo bene il lavoro, le quali divennero miei naturali collaboratori e critici: ricorderò sempre l’emozione procuratami dall’inattesa e-mail di Spyros Makridakis, delle M-Competitions descritte nel capitolo 10 del Cigno nero – Makridakis è il grande demistificatore delle predizioni sbagliate – o da quella di Jon Elster, lo studioso norvegese di rara erudizione e dalle acute percezioni, che ha integrato il sapere degli antichi nel pensiero delle moderne scienze sociali. Ho conosciuto romanzieri e pensatori filosofici di cui ho letto e ammirato le opere, come Louis de Bernières, Will Self, John Gray (il filosofo, non lo psicologo pop) o l’astronomo Sir Martin Rees; in tutt’e quattro i casi ho avuto il piacere inatteso di sentirli parlare con me del mio libro. Poi, attraverso una catena di amici di amici, di cappuccini, di vini da dessert e di code per operazioni di sicurezza in aeroporti, sono arrivato a condividere e a capire l’efficacia della conoscenza orale, poiché le discussioni fatte a voce sono molto più efficaci della sola corrispondenza. Nelle conversazioni dirette, le persone dicono ciò che non esprimerebbero mai a
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mezzo stampa. Ho conosciuto Nouriel Roubini (che a quanto so è l’unico economista di professione che ha davvero predetto la crisi economica del 2008, ed è forse l’unico pensatore indipendente in questo settore). Sono incappato anche in una quantità di persone di cui non conoscevo l’esistenza, economisti di buon livello scientifico come Michael Spence e Barkley Rosser. Anche Peter Bevelin e Yechezkel Zilber hanno continuato a fornirmi gli articoli che cercavo senza saperlo, il primo di biologia, il secondo di scienze cognitive: in questo modo hanno avviato il mio pensiero nella direzione giusta. Ho quindi avuto occasione di dialogare con molte persone. Purtroppo ne ho trovato solo due in grado di fare una conversazione durante una lunga camminata (a passo lento): Spyros Makridakis e Yechezkel Zilber. La maggior parte delle persone cammina infatti troppo velocemente scambiando una camminata per un allenamento sportivo; queste persone non capiscono che, per poter discorrere in modo soddisfacente, si deve camminare con lentezza, a un passo tale che ci si dimentica di farlo: perciò, per poter indulgere alla mia attività preferita, quella di flâneur, devo continuare ad andare ad Atene (dove vive Spyros).
I miei errori E, naturalmente, ora molti analizzeranno criticamente il mio testo. Dopo avere esaminato messaggi e relazioni, non sento il bisogno di ritrattare nulla della mia versione iniziale, o di correggere inesattezze (al di là di refusi e piccoli errori di stampa), con l’eccezione di due errori connessi fra loro. Il primo mi è stato segnalato da Jon Elster. Avevo scritto che le analisi storiche sono
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pervase dalla fallacia narrativa, credendo che non fosse possibile verificare un’affermazione storica per mezzo della predizione e della falsificazione. Elster mi ha invece spiegato che ci sono situazioni in cui una teoria storica può sottrarsi alla fallacia narrativa ed essere sottoposta a una confutazione empirica: campi in cui stiamo scoprendo documenti o siti archeologici che forniscono informazioni capaci di confutare un certo racconto storico. Così, con riferimento alla tesi di Elster, mi sono reso conto che la storia del pensiero arabo non era poi definitiva come si credeva, e che io ero caduto nella trappola di ignorare i continui cambiamenti nella storia passata, e che anche il passato era in gran parte una predizione. Ho scoperto (accidentalmente) di avere sbagliato per essermi attenuto troppo fedelmente al sapere convenzionale dei manuali sulla filosofia araba, un sapere che era contraddetto da documenti esistenti. Avevo attribuito troppa importanza alla controversia fra Averroè e al-Ghazali (Algazel). Come tutti gli altri, anch’io pensavo che 1) fosse stata molto importante, e che 2) avesse distrutto il falasifah arabo. Risultò però che questo era uno degli errori recentemente smascherati da alcuni ricercatori moderni (Dimitri Gutas e George Saliba nella fattispecie). La maggior parte di coloro che teorizzavano sulla filosofia araba non conosceva l’arabo, cosicché lasciarono molte cose alla loro immaginazione (ciò vale per esempio per Leo Strauss). Mi vergogno un po’ del fatto che, pur essendo l’arabo una delle mie lingue madri, stavo riportando da fonti di decima mano sviluppate da studiosi che non lo capivano minimamente (ed erano così sicuri di sé e poveri di sapere da non rendersene conto). Ho sbagliato a causa della «prevenzione della conferma» individuata da Gutas: «Pare che uno studioso prenda sempre
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l’avvio da un preconcetto di quel che la filosofia araba dovrebbe dire, e poi si concentri solo su quei passi che sembrano sostenere quella prevenzione, dando in tal modo l’impressione di corroborare il preconcetto sulla base dei testi stessi». Ancora una volta, guardatevi dalla storia.
Robustezza e fragilità Dopo avere completato Il Cigno nero ho trascorso un po’ di tempo a meditare sugli argomenti che avevo presentato nel capitolo 14 sulla fragilità di alcuni sistemi con grande concentrazione e illusioni di stabilità che mi avevano convinto che il sistema bancario era la madre di tutti i disastri incombenti. Con la storia delle elefantesse anziane, nel capitolo 6 avevo spiegato che i migliori insegnanti di saggezza sono naturalmente i più vecchi, semplicemente perché potrebbero avere colto trucchi e sistemi euristici invisibili che sfuggono al nostro paesaggio epistemico, trucchi che li avevano aiutati a sopravvivere in un mondo più complesso di quello che pensiamo di poter capire. Così un’età più avanzata implica un livello più elevato di resistenza ai Cigni neri, anche se, come abbiamo visto nella storia del tacchino,* non c’è una prova sicura; «più vecchio» è quasi sempre sinonimo di «più solido», Vedi Il Cigno Nero, il Saggiatore, Milano, 2008, 2009, pp. 60-61 (d’ora in poi citato come CN). L’esempio è tratto da Bertrand Russell, che se ne serve per illustrare il problema della conoscenza induttiva. Mentre Russell usa nel suo esempio un pollo, Taleb adatta l’esempio all’ambiente del Nordamerica, sostituendo il pollo con un tacchino, la vittima tradizionale del giorno del Ringraziamento. [N.d.T.] *
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ma non necessariamente di perfetto. «Qualche miliardo di anni» di sopravvivenza ha però un valore di prova molto maggiore rispetto a «un migliaio di anni», e il sistema più antico che vediamo intorno a noi è chiaramente Madre Natura. Questo fu, in un certo senso, il ragionamento sottostante all’argomento dell’«epilogismo» degli empiristi medici del Levante postclassico (come Menodoto di Nicomedia), che furono gli unici professionisti a fondere scetticismo e potere decisionale nel mondo reale. Furono anche l’unico gruppo di persone a usare la filosofia per qualcosa di utile. Essi proposero la historia: massimo di registrazione di fatti con minimo di interpretazione e di teorizzazione, descrizione di fatti senza occuparsi del perché e resistenza agli universali. La loro forma di conoscenza non teoretica fu disprezzata dalla Scolastica medievale, che favorì una forma di apprendimento più esplicito. La historia, ossia la semplice registrazione dei fatti, era inferiore alla philosophia o scientia. Fino ad allora, persino la filosofia aveva a che fare con l’uso della saggezza decisionale più di quanto non faccia oggi – e non col fine di impressionare un comitato universitario per le promozioni accademiche – e la medicina era il campo in cui quella forma di saggezza veniva praticata (e imparata): Medicina soror philosophiae, la medicina, sorella della filosofia.* L’empirismo non mira a non avere teorie, convinzioni, cause ed effetti; esso si propone di evitare un atteggiamento di creduloneria, avendo una prevenzione decisa e prestabilita su dove debba trovarsi l’errore: dov’è il default, la mancanza. Un empirista affronta serie di fatti o di mancanze di dati con sospensione del giudizio (di qui la connessione fra l’empirismo e la più antica tradizione scettica pirroniana), mentre altri preferiscono sospendere il giudizio su una caratterizzazione o una teoria. L’idea è quella di evitare la prevenzione della conferma (gli empiristi preferiscono sbagliare dal lato della *
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Assegnare uno status ancillare a un campo che antepone i particolari agli universali è ciò che ha fatto la conoscenza formalizzata a partire dalla Scolastica, che dedica necessariamente scarsa attenzione all’esperienza e all’età (troppo accumulo di particolari), favorendo coloro che hanno ottenuto un dottorato, come il dottor John.* Questo approccio può funzionare in fisica classica, ma non nell’ambito di una realtà complessa: esso ha condotto alla morte di molti pazienti nella storia della medicina, soprattutto prima della nascita della medicina clinica, e sta causando molti danni in campo sociale, specialmente al tempo in cui sto scrivendo. Gli insegnamenti fondamentali che ci hanno tramandato gli antichi maestri sono, per esprimerci in termini religiosi, dogmi (regole che devi eseguire senza necessariamente comprenderle) e non cherigmi (regole che puoi capire e che hanno un senso chiaro per te). Madre Natura è chiaramente un sistema complesso, con reti di interdipendenza, non linearità e una ecologia robusta (altrimenti sarebbe crollata molto tempo fa). È una persona vecchia, molto vecchia, con una memoria infallibile. Madre Natura non contrae la malattia di Alzheimer: in effetti ci sono prove che nemmeno gli esseri umani perderebbero facilmente con l’età le loro funzioni cerebrali se seguissero un regime di esercizi fisici e di digiuni stocastici, se facessero lunghe passeggiate, evitassero di consumare zucchero, pane, riso non integrale e di fare investimenti in borsa, e si astenessero dal seguire corsi di lezioni di economia e dal leggere cose come il New York Times. confutazione/falsificazione, che scoprirono più di millecinquecento anni prima di Karl Popper). * Sulla caratterizzazione del dottor John, vedi CN, p. 138. [N.d.T.]
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Vorrei compendiare le mie idee su come Madre Natura si occupi del Cigno nero, sia positivo sia negativo: essa sa molto meglio degli esseri umani come trarre vantaggio dai Cigni neri positivi.
La ridondanza come assicurazione Innanzitutto, Madre Natura ama le ridondanze. Tre tipi diversi di ridondanze. Il primo, quello più facile da capire, è la ridondanza difensiva, una sorta di assicurazione che ti permette di sopravvivere in situazioni avverse, grazie alla disponibilità di parti di ricambio. Consideriamo il corpo umano. Noi abbiamo due occhi, due polmoni, due reni e persino due cervelli (con la possibile eccezione dei dirigenti di aziende commerciali), e ognuno di noi ha più capacità di quanta ne occorra in circostanze ordinarie. La ridondanza equivale quindi a un’assicurazione, e le apparenti inefficienze sono associate ai costi di mantenere in ordine queste parti di ricambio e all’energia necessaria per conservarle nonostante la loro inattività. L’esatto opposto della ridondanza è un’ottimizzazione ingenua. Io dico a tutti di non seguire corsi di economia (ortodossi) e che l’economia ci verrà a mancare e crollerà (come vedremo, abbiamo prove che ci ha già abbandonati, ma tanto, come continuavo a ripetere nel testo originale, non ne abbiamo bisogno; tutto ciò di cui abbiamo bisogno è osservarne la mancanza di rigore scientifico e di etica). La ragione è la seguente: l’economia ortodossa si fonda in gran parte su nozioni di ottimizzazione ingenua, matematizzata (mediocremente) da Paul Samuelson, e questa matematica ha contribuito in modo
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massiccio alla costruzione di una società incline all’errore. Un economista troverebbe inefficiente mantenere due polmoni e due reni: consideriamo semplicemente i costi richiesti dal trasporto di tali parti relativamente pesanti del nostro corpo attraverso la savana. Una tale ottimizzazione, infine, ci ucciderebbe, dopo la prima eventualità infausta, il primo evento isolato anomalo (outlier). Consideriamo inoltre che, se avessimo lasciato Madre Natura agli economisti, essa avrebbe fatto a meno anche di reni singoli: dal momento che non li usiamo per tutto il tempo, sarebbe più «efficiente» vendere i nostri reni e usare un rene centrale solo secondo le regole di condivisione del tempo proprie di una multiproprietà. Potremmo anche affittare i nostri occhi di notte, dato che per sognare non ne abbiamo bisogno. Nell’economia convenzionale, quando si modifica qualche assunto – ovvero nel caso di una cosiddetta «perturbazione» –, quando si cambia un parametro o quando si rende aleatorio un parametro in precedenza considerato fisso e stabile dalla teoria, quasi tutte le idee principali (e anche un piccolo numero di quelle meno importanti) non funzionano più. Questa situazione è nota in gergo come «randomizzazione». Si parla in proposito di «studio dell’errore del modello» e di «esame delle conseguenze» di tali mutamenti (la mia specializzazione accademica ufficiale attualmente è l’errore del modello o il «rischio del modello»). Per esempio, se un modello usato per il rischio suppone che il tipo di randomizzazione considerato si riferisca al Mediocristan, ignorerà grandi deviazioni e incoraggerà la costruzione di una quantità di rischio che ignori grandi deviazioni; perciò la gestione del rischio sarà scorretta. Di qui la metafora del «sedersi su
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un barile di dinamite» che usai con riferimento a Fannie Mae (ora fallita).* Per fare un altro esempio di un errore del modello singolare, consideriamo la nozione del vantaggio comparativo che sarebbe stato scoperto da Ricardo e che si celerebbe dietro la macchina della globalizzazione. L’idea è che i paesi dovrebbero concentrarsi, come direbbe un consulente, su «ciò che fanno meglio» (o, più esattamente, su dove stanno perdendo il minimo numero di opportunità); così un paese dovrebbe specializzarsi in vini e un altro nell’abbigliamento, anche se uno di essi potrebbe primaneggiare in entrambi i campi. Ma introduciamo alcune perturbazioni e alcuni scenari alternativi: consideriamo che cosa accadrebbe al paese specializzato in vini se il prezzo dei vini fluttuasse. Basterebbe una semplice perturbazione applicata a quest’assunto (supponendo per esempio che il prezzo del vino fosse casuale e che potesse sperimentare variazioni in stile Estremistan) per rendere possibile una conclusione opposta a quella di Ricardo. Madre Natura non ama l’iperspecializzazione, poiché limita l’evoluzione e indebolisce gli animali. Anche questo spiega perché io abbia trovato certe idee correnti sulla globalizzazione (come quelle promosse dal giornalista Thomas Friedman) un po’ troppo ingenue e pericolose per la società, a meno che non si tenga conto degli effetti collaterali. La globalizzazione potrebbe dare un’impressione generale di efficienza, ma la misura dell’indebitamento in gioco e i gradi di interazione fra parti avranno come conseguenza che piccole crepe Il riferimento è alla nota di pagina 239 di CN. Il nome Fannie Mae (Fnma) è una sorta di abbreviazione scherzosa del nome della Federal National Mortgage Association. [N.d.T.] *
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in un certo luogo determineranno infiltrazioni nell’intero sistema. La situazione sarebbe simile a quella di un cervello che sperimentasse un attacco epilettico in conseguenza della scarica simultanea di un numero eccessivo di cellule. Teniamo a mente che il nostro cervello, un sistema complesso che funziona bene, non è «globalizzato», o almeno non è «globalizzato» ingenuamente. La stessa idea si applica al debito: il debito ci rende fragili, molto fragili in caso di perturbazioni, particolarmente quando passiamo dall’assunto del Mediocristan a quello dell’Estremistan. Attualmente, nelle nostre scuole commerciali noi impariamo a indebitarci (dagli stessi professori che insegnano, fra altre pseudoscienze, quella grande frode intellettuale che è la curva a campana di Gauss) a dispetto di tutte le tradizioni storiche, dal momento che ogni cultura del Mediterraneo nel corso del tempo sviluppò un dogma contro il debito. Felix qui nihil debet: è felice chi non deve nulla a nessuno, dice un antico proverbio romano. Le nonne sopravvissute alla Grande depressione avrebbero consigliato l’esatto opposto del debito: la ridondanza. Avrebbero raccomandato di avere in cassa le entrate di vari anni prima di assumersi qualsiasi rischio personale: esattamente la mia idea del bilanciere nel capitolo 13 del Cigno nero,* in In sintesi, dalle pp. 217-218 di CN: «… il concetto di strategia “barbell” (o a bilanciere) […] consiste in questo: se sapete di essere vulnerabili agli errori di previsione, e se accettate il fatto che la maggior parte delle “misure del rischio” è difettosa […], la vostra strategia deve consistere nell’essere contemporaneamente il più iperprudenti e il più iperagressivi possibile […]. Invece di mettere tutti i vostri soldi in investimenti “a medio rischio” […], dovete metterne una parte, diciamo tra l’85 e il 90 per cento, in strumenti molto sicuri, come i buoni del tesoro […]. Ciò che rimane, tra il 10 e il 15 per cento, va puntato su scommesse estremamente speculative». [N.d.T.] *
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cui si mantengono grandi riserve di denaro mentre si affrontano rischi più aggressivi, ma con una porzione minore del portafoglio. Se le banche avessero adottato questo orientamento, non ci sarebbero state crisi delle banche nella storia. Possediamo documenti sull’argomento da quando i babilonesi illustrarono i mali dell’indebitamento; le religioni del Vicino Oriente proibivano i debiti. Questo fatto mi dice che uno dei fini della religione e della tradizione è stato quello di fare rispettare le proibizioni, semplicemente per proteggere la gente contro la propria arroganza epistemica. Perché? Perché un debito implica un’affermazione forte sul futuro e un alto grado di affidamento sulle previsioni. Se prendi in prestito cento dollari e li investi in un progetto, avrai ancora un debito di cento dollari nel caso che il tuo progetto vada a male (ma ti troverai in una situazione molto migliore se andrà a buon fine). Contrarre un debito è quindi pericoloso se si ha una fiducia eccessiva nel futuro e una cecità nei confronti dei Cigni neri, tendenze che tutti noi abbiamo. E la previsione è dannosa, in quanto le persone (e specialmente i governi) si indebitano in risposta a una previsione (o usano la previsione come scusa cognitiva per contrarre prestiti). Il mio «scandalo della previsione» (le previsioni mediocri che sembrano esistere solo per soddisfare bisogni psicologici) è aggravato dallo scandalo del debito: il ricorso al prestito rende più vulnerabili a errori di previsione.
Grande è brutto. E fragile In secondo luogo, Madre Natura non ama niente di troppo grande. L’animale terrestre più grande è l’elefante, e c’è una buona
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ragione. Se io mi infuriassi e abbattessi un elefante, potrei essere incarcerato e rimproverato aspramente da mia madre, ma non disturberei granché l’ecologia di Madre Natura. D’altro canto, la mia osservazione sulle banche nel capitolo 14 – quella del fallimento di una grande banca: «mi vengono i brividi solo a pensarci», con la prospettiva che «quando ne cade una, cadono tutte» – fu successivamente illustrata da eventi concreti. Il fallimento di una banca, la Lehman Brothers, nel settembre del 2008 fece crollare l’intero edificio. Madre Natura non limita le interazioni fra enti, ma limita solo la grandezza delle sue unità. (Perciò la mia idea non è quella di fermare la globalizzazione e proibire Internet: come vedremo, si conseguirebbe una stabilità molto maggiore impedendo ai governi di aiutare le società di capitali quando diventano troppo grandi, e restituendo vantaggi alle piccole imprese.) Ma c’è un’altra ragione per impedire a strutture costruite dall’uomo di diventare troppo grandi. La nozione di «economie di scala» – le società risparmiano denaro quando diventano grandi, e quindi più efficienti – è spesso chiaramente dietro espansioni e fusioni di società. Essa domina nella coscienza collettiva pur non essendoci alcuna prova a suo sostegno; le prove suggerirebbero in effetti l’opposto. Eppure, per ragioni ovvie, si continuano a fare queste fusioni; esse non sono vantaggiose per le società, bensì per i bonus ai manager di Wall Street: una società che si ingrandisce distribuisce premi ai direttori generali. Io mi resi conto che, diventando più grandi, le società sembrano diventare più «efficienti», ma diventano anche molto più vulnerabili a contingenze esterne, quelle comunemente note, dopo l’uscita di un certo libro intitolato Il Cigno nero, come «Cigni neri». Tutto questo sotto l’illusione di una maggiore stabilità. Aggiungiamo
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che, quando le società sono grandi, hanno bisogno di ottimizzarsi per soddisfare le richieste degli analisti di Wall Street. Questi analisti (tipi da master in Business Administration) eserciteranno pressioni sulle società perché vendano il rene extra o si sbarazzino delle loro assicurazioni al fine di aumentare il rendimento azionario e migliorare il bilancio profitti-perdite, contribuendo infine in tal modo alla loro bancarotta. Charles Tapiero e io abbiamo mostrato matematicamente che una certa classe di errori imprevisti e di colpi casuali danneggiano i grandi organismi assai più di quelli piccoli. In un altro saggio calcolammo i costi per una società di tale grandezza; non dimentichiamo che le società, quando falliscono, sono un costo anche per noi. Il problema, nel caso dei governi, è che tenderanno ad aiutare questi fragili organismi «perché danno lavoro a un gran numero di persone» e perché hanno lobbisti, gruppi di pressione che danno alle società quel sostegno fasullo ma molto visibile tanto deprecato da Bastiat. Le grandi società ottengono aiuti governativi e diventano progressivamente più grandi e più fragili, e in un certo senso gestiscono il governo, un’altra visione profetica di Karl Marx e Friedrich Engels. Parrucchieri e piccole aziende, di contro, falliscono senza che nessuno se ne curi; essi devono essere efficienti e obbedire alle leggi della natura.
Cambiamento climatico e inquinatori «troppo grandi» Mi sono state spesso rivolte domande su come si potrebbe affrontare il cambiamento climatico in connessione con l’idea dei Cigni neri e con il mio lavoro sul processo decisionale in
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condizioni di opacità (ossia in caso di informazione incompleta). La posizione da me suggerita dovrebbe fondarsi sia sull’ignoranza sia su un senso di deferenza verso la sapienza di Madre Natura, la quale è più vecchia di noi, e quindi più sapiente, e si è sempre dimostrata molto più intelligente degli scienziati. Noi non comprendiamo abbastanza Madre Natura per poterci intromettere nelle cose che fa, e io non credo che i modelli che usiamo per prevedere il clima possano cambiare. Semplicemente, ci troviamo di fronte a non-linearità e ad amplificazioni di errori derivanti dal cosiddetto effetto farfalla – di cui ci siamo occupati nel capitolo 11 del Cigno nero – scoperto effettivamente da Edward Lorenz mentre usava modelli di previsione del tempo. Piccoli cambiamenti nei dati iniziali, provenienti da errori di misurazione, possono condurre a previsioni molto divergenti, supponendo – generosamente – di possedere le equazioni giuste. Abbiamo inquinato per anni, causando molti danni all’ambiente, mentre gli scienziati che stanno elaborando questi complicati modelli di previsione non prendevano posizioni forti e non tentavano di impedirci di esporci a tali rischi (da questo punto di vista essi assomigliano a quegli «esperti di rischi» in campo economico che combattono la guerra precedente): sono questi gli scienziati che oggi tentano di imporci le soluzioni. Ma lo scetticismo su modelli che propongo io non conduce alle conclusioni appoggiate dagli antiambientalisti e dai fondamentalisti pro-mercato. Al contrario: dobbiamo essere iperconservazionisti sul piano ecologico, dal momento che non sappiamo con che cosa stiamo provocando danni oggi. A coloro che dicono «Non c’è alcuna prova che stiamo arrecando danni alla natura», una risposta corretta è: «Non c’è nemmeno alcuna prova che non lo stiamo facendo». L’onere
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della prova non compete al conservazionista ecologico, ma a chi sta sconvolgendo il vecchio sistema. Inoltre non dovremmo «tentare di correggere» il danno fatto perché potremmo creare un altro problema su cui attualmente non siamo molto informati. Una soluzione pratica in cui mi sono imbattuto, fondata sulle non-linearità del danno (facendo l’assunto che il danno cresca sproporzionalmente alle quantità distribuite, e usando lo stesso ragionamento matematico che mi condusse a oppormi al concetto del «troppo grande»), è ripartire il danno fra gli inquinanti – sempre che avessimo bisogno di inquinare, ovviamente. Proviamo a compiere un esperimento mentale. Caso 1. Somministriamo a un paziente una dose di cianuro, di cicuta, o di una qualche altra sostanza velenosa, supponendo che esse siano ugualmente dannose e supponendo nel caso di questo esperimento l’assenza della superadditività (ossia l’assenza di qualsiasi effetto sinergico). Caso 2. Somministriamo al paziente un decimo di una dose di dieci di tali sostanze, per la stessa quantità totale di veleno. Vediamo chiaramente che il caso 2, in cui il veleno ingerito è distribuito fra varie sostanze, è nella peggiore delle ipotesi altrettanto dannoso (se tutte le sostanze velenose agiscono nello stesso modo) e nella migliore quasi innocuo per il paziente rispetto al caso 1.
La densità delle specie Madre Natura non ama troppo la connettività e la globalizzazione (biologica, culturale o economica che sia). Uno dei privilegi che ho conseguito grazie al Cigno nero è stato quello di
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conoscere Nathan Myrrhvold, il tipo di persona che vorrei venisse clonata, in modo da poterne avere una copia qui a New York, una in Europa e una in Libano. Cominciai a incontrarmi con lui regolarmente; ogni incontro ha condotto a una grande idea o alla riscoperta di mie idee attraverso il cervello di una persona più intelligente: Myrrhvold potrebbe facilmente sostenere di essere il coautore del mio prossimo libro. Il problema è che, diversamente da Spyros e da pochissimi altri, egli non ama conversare camminando (anche se ci siamo sempre visti in ristoranti eccellenti). Myrrhvold mi ha illuminato su un altro metodo di interpretare e dimostrare in che modo la globalizzazione ci conduca nell’Estremistan: attraverso il concetto di densità di specie. Semplicemente, gli ambienti di maggiore estensione sono più scalabili* degli ambienti meno estesi, permettendo agli animali più grandi di diventare ancora più grandi, a spese di quelli più piccoli, attraverso il meccanismo dell’attaccamento preferenziale, di cui ci siamo occupati nel capitolo 14. Ci sono prove del fatto che le piccole isole hanno molte più specie per metro quadrato delle isole più grandi e, ovviamente, dei continenti. Quanto più viaggeremo sul nostro pianeta, tanto più le epidemie diventeranno acute: avremo una popolazione di germi poco numerosa e i germi più pericolosi si diffonderanno con molta più efficacia. La vita culturale sarà dominata da meno persone: per ogni lettore, ci saranno meno libri in inglese che in italiano (compresi i cattivi libri). Le aziende saranno sempre più diseSui concetti di scalabile, scalabilità, vedi CN, pp. 50-53. Può essere utile vedere anche, sui rapporti con Mediocristan ed Estremistan, la tabella 1 in CN, p. 57. [N.d.T.] *
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guali in grandezza. E le mode passeggere saranno sempre più vistose, e ovviamente molti più clienti delle banche si precipiteranno a ritirare i loro depositi. Ancora una volta, non sto dicendo che dobbiamo fermare la globalizzazione e impedire i viaggi. Dobbiamo solo essere consapevoli degli effetti collaterali, dei compromessi, e poche persone lo sono. Io vedo i rischi di un virus acuto molto strano che si sta diffondendo in tutto il pianeta.
Gli altri tipi di ridondanza Le altre categorie di ridondanza, più complicate e sottili, spiegano come taluni elementi della natura sfruttino Cigni neri positivi (e abbiano uno strumentario addizionale per sopravvivere ai Cigni neri negativi). Parlerò diffusamente di questo problema, servendomi del bricolage o della domesticazione dell’incertezza, nel mio prossimo libro sullo sfruttamento dei Cigni neri e dunque qui ne discuterò solo brevemente. La ridondanza funzionale studiata dai biologi è questa: diversamente rispetto alla ridondanza degli organi – in cui la disponibilità di parti di ricambio permette che la stessa funzione venga svolta da elementi identici –, molto spesso in quella funzionale la stessa funzione può essere svolta da due strutture diverse. A volte viene usato il termine degenerazione (da Gerald Edelman e da Joseph Gally, per esempio). Esiste anche un altro tipo di ridondanza: quando un organo può essere usato per compiere una funzione che non è la sua funzione principale attuale. Il mio amico Peter Bevelin collega questa idea ai «pennacchi di San Marco» di Stephen Jay
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Gould.* Nel saggio di Gould si sottolinea come i pennacchi – i triangoli allungati a superficie curva che è stato necessario inserire fra gli archi al di sotto della cupola perché la sostenessero – della cattedrale veneziana di San Marco hanno condotto a un’opera d’arte che ha un’importanza centrale nella nostra esperienza estetica quando visitiamo la chiesa. In quello che è oggi noto come l’effetto dei pennacchi, una ramificazione ausiliare di un certo adattamento conduce a una nuova funzione. Io riesco a vedere in questo adattamento anche una funzione potenziale dormiente che, nell’ambiente giusto, potrebbe attivarsi. Il modo migliore per illustrare una tale ridondanza è con un aspetto della storia della vita del brillante filosofo della scienza Paul Feyerabend. Feyerabend fu reso permanentemente impotente da una ferita di guerra, ciò nonostante si sposò quattro volte e fu un tale incorreggibile donnaiolo da lasciarsi dietro una scia di fidanzati e mariti privati della loro compagna, e una scia altrettanto lunga di cuori infranti, fra cui quelli di molte sue studentesse (al tempo di Feyerabend ai professori, e specialmente ai professori di filosofia dotati di fascino, erano concessi certi privilegi). Il suo fu un successo singolarmente importante Di questo saggio, di cui è coautore Richard C. Lewontin, uscito nel 1979 nei Proceedings della Royal Society, esistono due traduzioni italiane: I pennacchi di San Marco e il paradigma panglossiano: una critica del programma adattamentista, tr. it. di Alessandro Volpone e Lidia Scalera-Liaci, Edizioni on line del Quaderni SWIF [Sito Web Italiano per la Filosofia] di Storia della Scienza, © 2002, Piccola Biblioteca di Storia della Scienza; e I pennacchi di San Marco e il paradigma di Pangloss. Critica del programma adattazionista, tr. it. di Marco Ferraguti, Piccola Biblioteca online, Giulio Einaudi Editore, Torino 2001, www.einaudi.it. [N.d.T.] *
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se si considera la sua impotenza. C’erano dunque altre parti del suo corpo capaci di soddisfare le donne e tenerle legate a lui. All’inizio Madre Natura creò la bocca per mangiare, forse per respirare o forse anche per qualche altra funzione connessa all’esistenza della lingua. Poi emersero nuove funzioni che probabilmente non facevano parte del piano iniziale: alcune persone usano la bocca e la lingua per baciare o per fare qualche cosa più vicina all’uso che ne avrebbe fatto Feyerabend. Negli ultimi tre anni sono stato ossessionato dall’idea che, tenendo conto dei limiti epistemici – una qualche opacità concernente il futuro –, non possa esserci progresso, né sopravvivenza, senza uno di questi tipi di ridondanza. Oggi non sappiamo di che cosa potrebbe esserci bisogno domani. Ciò è in netto conflitto con la nozione di disegno teleologico che noi tutti abbiamo tratto dalla lettura di Aristotele, nozione che ha plasmato il pensiero arabo-occidentale del Medioevo. Per Aristotele ogni oggetto aveva un fine chiaro, fissato da colui che lo aveva progettato. Un occhio era fatto per vedere, un naso per odorare.* Questo è un argomento razionalistico, un’altra manifestazione di quella che io chiamo platonicità. Eppure qualsiasi cosa abbia un uso secondario, e un uso per cui non hai pagato, presenterà un’opportunità extra qualora dovesse emergere un’applicazione fino a questo momento ignota o un nuovo ambiente dovesse fare la sua comparsa. L’organismo che dispone del massimo numero possibile di usi secondari è quello che guadagnerà di più dalla casualità ambientale e dall’opacità epistemica! O, secondo la visione leibniziana del migliore dei mondi possibili messa in satira da Voltaire attraverso il personaggio del Candido, Pangloss, il naso è stato fatto «per portar gli occhiali, infatti ci sono gli occhiali». [N.d.T.] *
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Consideriamo l’esempio dell’aspirina. Quarant’anni fa la sua ragion d’essere era la proprietà antipiretica (la sua capacità di far diminuire la febbre). In seguito fu usata per il suo effetto analgesico (di riduzione del dolore), ma anche per le proprietà antinfiammatorie. Oggi si ricorre a essa anche come anticoagulante, nella prevenzione di un secondo (o anche del primo) infarto. Le stesse considerazioni si possono fare anche per molti altri farmaci, parecchi dei quali sono usati per proprietà secondarie e terziarie. Ho appena dato un’occhiata alla scrivania nel mio ufficio di lavoro non letterario (io separo il funzionale dall’estetico). Un computer portatile è appoggiato su un libro, poiché mi piace che sia un po’ inclinato. Il libro è una biografia francese dell’appassionata Lou Andreas-Salomé (amica di Nietzsche e di Freud). Posso dire con certezza di non averlo mai letto; lo scelsi perché aveva lo spessore giusto per la mia esigenza di dare al portatile l’inclinazione che volevo. Questo fatto mi fece riflettere sulla follia di pensare che i libri siano fatti unicamente per essere letti e che potrebbero essere sostituiti da file elettronici. Pensate alla quantità di ridondanze funzionali fornite dai libri. Non potete impressionare con file elettronici i vostri vicini. E nemmeno puntellare il vostro ego. Gli oggetti sembrano avere funzioni ausiliari invisibili ma importanti di cui non siamo consapevoli a livello cosciente, ma che consentono loro di «sopravvivere», e a volte, come nel caso dei libri decorativi, una funzione ausiliare diventa quella principale. Perciò, quando si hanno un quantità di ridondanze funzionali, a conti fatti la casualità aiuta, ma a una condizione: che se ne possa trarre profitto più di quanto si possa esserne danneggiati
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(argomento che chiamo più tecnicamente convessità rispetto all’incertezza). È sicuramente così nel caso di molte applicazioni tecniche, nelle quali emergono strumenti da altri strumenti. Inoltre sono attualmente impegnato nello studio della storia della medicina, durante la quale si lottò, sostenuti da questa illusione aristotelica del fine, contro i metodi razionalistici di Galeno, che uccisero un così gran numero di persone mentre i medici pensavano di stare curandole. E ci si mette anche la nostra psicologia: le persone amano recarsi in una qualche destinazione precisa piuttosto di dover affrontare qualche misura di incertezza, anche se benefica. E la ricerca stessa, il modo in cui è progettata e finanziata, sembra essere teleologica, mirando a risultati precisi più che cercando un’esposizione massima a una molteplicità di sbocchi alternativi. Oltre a convessità, ho assegnato a quest’idea nomi più complicati, come opzionalità – dal momento che si ha la scelta di prendere dalla casualità il gratuito – ma questo per me è ancora un lavoro in corso. Il progresso proveniente dal secondo tipo di casualità è quello che io chiamo tinkering, o bricolage, l’argomento del mio prossimo libro.
Distinzioni senza una differenza, differenze senza una distinzione Un altro beneficio della duplicazione. In tutto il mio libro mi sono concentrato sull’assenza di distinzioni pratiche fra le varie nozioni di fortuna, incertezza, casualità, incompletezza di informazione e casi fortuiti, usando il semplice criterio della prevedibilità, che le rende tutte funzionalmente uguali. La probabilità può essere costituita da vari gradi di fiducia, quelli su
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cui ci si basa per fare una scommessa, o da qualcosa di più fisico, associato alla vera casualità (specificata come «ontica», una nozione su cui torneremo più avanti). Per parafrasare Gerd Gigerenzer, un «50 per cento di probabilità di pioggia domani» a Londra può significare che pioverà per mezza giornata, mentre in Germania significherà che metà degli esperti pensano che pioverà, e a Brooklyn (aggiungo), il mercato delle scommesse al bar è tale che, se pioverà, si pagheranno 50 centesimi per riceverne un dollaro. Per gli scienziati il trattamento è lo stesso. Noi usiamo la stessa equazione per descrivere una distribuzione di probabilità, a prescindere dal fatto che la probabilità sia un grado di fiducia o qualcosa di decretato da Zeus. Per noi probabilisti (persone che lavorano con le probabilità in un contesto scientifico), la probabilità di un evento, comunque possa essere definito, è semplicemente un «peso» compreso fra 0 e 1, chiamato misura dell’insieme in oggetto. L’assegnazione di nomi e simboli diversi comporterebbe una distrazione e impedirebbe il trasferimento di risultati analitici da un campo all’altro. Per un filosofo è tutta un’altra cosa. Ho pranzato due volte, a tre anni di distanza una dall’altra, col filosofo (analitico) Paul Boghossian, una al termine della stesura della prima edizione del Cigno nero e l’altra alla fine della stesura di questo saggio. Durante la prima conversazione Boghossian mi disse che, da un punto di vista filosofico, è un errore fondere la probabilità come misura del grado razionale di fiducia di qualcuno con la probabilità come proprietà di eventi nel mondo. Il che per me significava che non dovremmo usare lo stesso linguaggio matematico, per esempio lo stesso simbolo p, né scrivere la stessa
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equazione per i diversi tipi di probabilità. Spesi tre anni a domandarmi se Boghossian avesse ragione o torto, se questa fosse o no una ridondanza buona. Poi pranzai di nuovo con lui, anche se in un ristorante migliore (e anche più amichevole). Egli mi mise in guardia con un’espressione che usano i filosofi: «distinzione senza una differenza». Allora mi resi conto dell’esistenza di distinzioni impiegate dai filosofi che hanno senso filosoficamente ma non pare ne abbiano in pratica, che possono però essere necessarie, se si approfondisce l’idea, e possono avere un senso anche in pratica nel caso di un cambiamento ambientale. Consideriamo l’opposto: differenze senza una distinzione. Queste possono essere brutalmente svianti. Si usa la stessa parola, misurare, per misurare un tavolo con un metro da falegname e per misurare un rischio, ma in questo secondo caso la misurazione è solo una previsione, o qualcosa del genere. Inoltre la parola misurare trasmette un’illusione di conoscenza che può essere gravemente distorcente: vedremo che siamo psicologicamente molto vulnerabili ai termini usati e al modo in cui le cose sono formulate. Così, se avessimo usato il verbo misurare per il tavolo e prevedere per il rischio, avremmo avuto molto meno insuccessi conseguenti ai Cigni neri. Confusioni di significati nelle stesse parole sono stati molto comuni nella storia. Vorrei riprendere ancora una volta l’idea di chance (caso, casualità, fortuna, occasione, felicità…). A un certo punto nella storia una stessa parola latina, felix (da felicitas) fu usata sia per una persona felice sia per una persona fortunata. (Questa confusione di felicità e fortuna era facilmente spiegabile in un contesto antico: la dea Felicitas rappresentava
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entrambe le cose.) La parola inglese luck (fortuna) proviene dalla parola tedesca Glück, che significa «felicità». Un antico avrebbe visto nella distinzione fra i due concetti uno spreco, visto che tutte le persone fortunate sembrano felici (non pensando che una persona potrebbe essere felice senza essere fortunata). In un contesto moderno, però, abbiamo bisogno di sciogliere la fortuna dalla felicità – l’utilità dalla probabilità – per poter eseguire una qualsiasi analisi psicologica del processo decisionale. (È vero che è difficile distinguere fra le due nozioni osservando persone che prendono decisioni in un ambiente probabilistico. Le persone possono essere così timorose degli eventi avversi che potrebbero accadere da tendere a pagare più di quanto sarebbe necessario per garantirsi un’assicurazione, cosa che, a sua volta, potrebbe farci erroneamente credere che questi eventi abbiano una probabilità elevata.) Così, possiamo ora vedere che proprio l’assenza di una tale distinzione rese il linguaggio degli antichi alquanto opaco per noi; per gli antichi, però, la distinzione sarebbe stata una ridondanza.
Una società robusta contro gli errori Vorrei discutere solo brevemente la crisi del 2008 (che si è verificata dopo la pubblicazione del libro e che è stata una quantità di cose, ma non un Cigno nero, bensì solo il risultato della fragilità di sistemi costruiti sull’ignoranza – e sulla negazione – della nozione di eventi dei Cigni neri. Sappiamo con una certezza quasi totale che un aereo affidato a un pilota incompetente finirà per schiantarsi).
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Perché brevemente? In primo luogo, questo non è un libro di economia, bensì un libro sull’incompletezza della conoscenza e sugli effetti di un’incertezza ad alto impatto: è solo per accidens se gli economisti sono la specie più cieca ai Cigni neri sulla faccia del nostro pianeta. In secondo luogo, io preferisco parlare degli eventi prima che accadano, non dopo. Ma il pubblico generale confonde anticipazione e retrospezione. Gli stessi giornalisti, economisti ed esperti politici che non videro arrivare la crisi fornirono abbondanti analisi ex post facto sulla sua inevitabilità. L’altra ragione, quella reale, per cui voglio sbrigarmi in breve è che la crisi del 2008 per me non è stata abbastanza interessante intellettualmente: nei suoi sviluppi non c’è stato niente che non fosse già accaduto prima in scala minore (per esempio banche che persero, nel 1982, fino all’ultimo centesimo tutto ciò che avevano accumulato prima). Per me è stata semplicemente un’opportunità finanziaria, come spiegherò più avanti. In verità ho riletto il mio libro e non ho trovato nulla da aggiungere, nulla in cui non ci fossimo già imbattuti in qualche punto della storia, come gli insuccessi anteriori, nulla da cui avessi potuto imparare qualcosa. Purtroppo, proprio nulla. Il corollario è evidente: dal momento che nella crisi del 2008 non c’è stato niente di nuovo, non abbiamo niente da imparare da essa e commetteremo lo stesso errore in futuro. E ci sono già le prove, proprio mentre sto scrivendo: il Fondo monetario internazionale (Imf) continua a emanare previsioni (non rendendosi conto che le precedenti non hanno funzionato e che quei poveri creduloni che prestano loro fede incorreranno di nuovo in grossi guai); i professori di economia usano ancora la curva gaussiana; l’amministrazione attuale è popolata da coloro che
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stanno portando l’errore del modello a proporzioni industriali, inducendoci a fidarci dei modelli ancor più di quanto non avessimo mai fatto in passato.* Ma la crisi fornisce anche un’illustrazione del bisogno di robustezza che val la pena di discutere qui. Nella documentazione scritta degli ultimi due millenni e mezzo, soltanto gli sciocchi e i platonici (nonché la specie più recente dei banchieri centrali) hanno creduto in utopie costruite ad arte. Vedremo che l’idea non è quella di correggere errori e di eliminare la casualità dalla vita sociale ed economica attraverso la politica monetaria, sussidi e via dicendo. L’idea è semplicemente quella di lasciare che gli errori di pensiero e di calcolo rimangano confinati, e di impedire che si diffondano nel sistema, ispirandosi in tal modo al comportamento di Madre Natura. La riduzione della volatilità e della comune casualità accresce l’esposizione ai Cigni neri, creando una quiete artificiale. Il mio sogno è avere una vera epistemocrazia, ossia una società robusta contro gli errori degli esperti, gli errori di previsione e l’hybris, una società in grado di resistere all’incompetenza dei politici, dei regolamentatori, degli economisti, dei banchieri centrali, dei banchieri, degli sgobboni della politica e degli È chiaro che l’intero establishment economico, con un milione circa di persone impegnate in tutto il mondo in un qualche aspetto dell’analisi e pianificazione economica, nella gestione del rischio e nella previsione economica, è risultato composto da incompetenti, come ha dimostrato il loro semplice errore di non capire la struttura dell’Estremistan, i sistemi complessi e i rischi occulti; essi si sono fondati infatti su misure e previsioni del rischio del tutto idiote, e ciò nonostante l’esperienza passata, visto che le loro contromisure non avevano mai funzionato prima. *
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epidemiologi. Noi non possiamo rendere gli economisti più scientifici; non possiamo rendere gli uomini più razionali (qualunque cosa ciò possa significare); non possiamo fare sparire le mode. La soluzione è abbastanza semplice una volta che abbiamo isolato gli errori dannosi, come vedremo nel caso del Quarto quadrante. Perciò io sono attualmente diviso fra a) il mio desiderio di spendere tempo rimuginando le mie idee in caffè europei e nella tranquillità del mio studio, o cercando qualcuno con cui poter conversare, camminando lentamente in un bell’ambiente urbano, e b) il sentimento dell’obbligo di impegnarmi in una qualche forma di attivismo per irrobustire la società, il che comporta che io parli con persone non interessanti e mi immerga nella cacofonia del mondo antiestetico dei giornali e dei media, che io vada a Washington e osservi persone ipocrite vestite elegantemente camminare per le strade, che io debba difendere le mie idee facendo al tempo stesso uno sforzo per mantenermi calmo e dissimulare il mio disprezzo. Tutto questo si è rivelato molto distruttivo per la mia vita intellettuale. Ma ci sono alcuni trucchi per difendersi. Un trucco utile, come ho scoperto, è quello di evitare di dare ascolto alle domande dell’intervistatore, rispondendo invece con argomenti su cui avevo meditato recentemente. È degno di nota il fatto che né gli intervistatori né il pubblico si accorgano della mancanza di correlazione fra domanda e risposta. Una volta fui scelto per far parte di un gruppo di cento persone che sarebbe andato a Washington per partecipare a due giorni di discussioni su come risolvere i problemi della crisi cominciata nel 2008. Nel gruppo furono incluse quasi tutte le
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personalità importanti. Dopo un’ora di discussioni, durante un discorso del primo ministro dell’Australia, uscii dalla sala in preda a dolori intollerabili. La schiena cominciò a farmi male quando guardai la faccia dei presenti. Il cuore del problema era che nessuno di loro conosceva il cuore del problema. Tutto questo mi convinse che c’è una soluzione unica per il mondo intero, che dovrà essere progettata secondo linee semplicissime di robustezza nei confronti dei Cigni neri: in caso contrario il mondo esploderà. Così ora mi sono disimpegnato. Sono tornato nella mia biblioteca. Non sto provando neppure un piccolo senso di frustrazione, non mi preoccupo nemmeno di come le previsioni possano fare esplodere la società, e neppure riesco a irritarmi per la stupidità dei fautori del caso (al contrario); devo forse tutto questo a un’altra scoperta, connessa a una particolare applicazione dello studio dei sistemi complessi, l’Estremistan, e alla scienza delle lunghe passeggiate.