Roma occupata 1943-1944

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Anthony Majanlahti Amedeo Osti Guerrazzi

Roma occupata 1943-1944 Itinerari, storie, immagini



1. Dal bombardamento di San Lorenzo al crollo del regime, 19-25 luglio 1943

Sopra, danni dovuti al bombardamento della basilica di San Lorenzo. Sotto, San Lorenzo come appare oggi.

Le bombe che trasformarono il quartiere San Lorenzo in un cumulo di macerie, il 19 luglio 1943, furono lanciate dall’Usaaf, l’aviazione americana. Teoricamente l’area era un bersaglio militare perché sede di un importante scalo ferroviario, ma era anche molto di più. Era una zona densamente abitata, un vasto quartiere popolare posto accanto all’Università La Sapienza e al policlinico Umberto i, uno dei più grandi ospedali d’Europa. Inoltre il quartiere era attiguo al cimitero monumentale e a un gioiello dell’arte medievale, la basilica di San Lorenzo fuori le Mura. Gli americani arrivarono in sei ondate, a partire dalle 11.03, con 662 bombardieri, scortati da 268 caccia, che in due ore lanciarono 1060 tonnellate di bombe. I risultati furono devastanti: circa 1500 morti e 6000 feriti. I danni furono ingenti: vennero colpiti, oltre agli edifici civili del quartiere, l’ospedale, così come l’università e la basilica medievale.


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I romani non erano preparati a un tale attacco e il contraccolpo psicologico fu molto pesante. Mentre alcune città, come Cagliari, erano state danneggiate in maniera così seria da pensare di abbandonarle completamente, Roma, fino allora, era rimasta intatta e si credeva che così sarebbe rimasta. Il bombardamento ebbe inoltre un effetto molto concreto sulle scelte politiche: probabilmente fu proprio l’attacco aereo a convincere il re, Vittorio Emanuele iii di Savoia, a liberarsi di Mussolini e a rimpiazzarlo con il vecchio maresciallo Pietro Badoglio nella carica di capo del governo, per tentare di allontanare l’Italia dall’alleanza con la Germania. I fascisti avevano proclamato che neanche una rondine avrebbe potuto sorvolare Roma senza il loro permesso, ma la reazione dell’antiaerea fu nulla. Gli appena 38 caccia italiani inviati a fermare l’incursione americana arrivarono troppo tardi per influire seriamente sugli eventi. Soltanto un apparecchio americano fu abbattuto, mentre gli italiani persero tre aerei. Il re si convinse finalmente che la guerra era persa e che l’unica via di uscita fosse liberarsi di Mussolini e del fascismo in un colpo solo. Meno di una settimana dopo, il 24 luglio 1943, il Gran consiglio del fascismo si riunì e approvò un ordine del giorno che in pratica levava la fiducia a Mussolini rimettendo nelle mani del re la conduzione politica e militare del paese. Il giorno successivo Mussolini fu arrestato e l’incredulità generale ben presto si trasformò in esultanza. I romani si illusero che la loro guerra fosse finita. Invece era appena cominciata. Questo itinerario tratteggia un lungo percorso attraverso la tragedia in cui, sia pure indirettamente, la città precipitò in seguito al bombardamento, per finire con gli scontri nel Dopoguerra tra neofascisti e antifascisti all’Università La Sapienza. Suggerisce inoltre uno sguardo al quartiere San Lorenzo, un tipico agglomerato urbano otto-novecentesco di case popolari, ed esplora il campus dell’università (di notevole importanza architettonica), prima di avventurarsi nei luoghi chiave della caduta di Mussolini, dal suo ufficio a Palazzo Venezia, alla sua casa di Villa Torlonia, fino al luogo del suo arresto, la residenza privata del re, Villa Savoia.

Il policlinico Umberto i e la città universitaria Arrivate alla fermata della metro B Policlinico. Vi trovate in viale Regina Margherita. Percorretela fino a raggiungere viale Regina Elena, qui cercate il civico 299, dove comincia l’itinerario.


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Su viale Regina Elena, al numero 299, si erge l’enorme Istituto superiore della sanità, creato nel 1934 come istituto di sanità pubblica, uno dei centri di ricerca medica più importanti d’Italia, l’orgogliosa sede di non meno di cinque Nobel per la medicina. Questo edificio fu seriamente danneggiato da sette bombe il 19 luglio 1943. Il rapporto dei vigili del fuoco del giorno seguente recitava: «un’ala è crollata, e l’altra è pericolante». Il vicino istituto regina elena, proseguendo lungo la strada, fu evacuato dopo il crollo di due padiglioni in seguito al bombardamento. È stato completamente ricostruito. Ripercorrete viale Regina Elena fino all’incrocio con viale dell’Università, qui girate a sinistra. Proseguite fino a viale del Policlinico, e girate a destra. Al civico 155 troverete l’ingresso principale del complesso dell’ospedale Umberto I.

Il complesso originale del policlinico umberto i fu costruito nel 1889-1903 sul progetto dell’architetto Giulio Podesti, poco dopo la riunificazione di Roma con


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il Regno d’Italia, per servire da clinica universitaria e per rispondere ai crescenti problemi di salute pubblica della nuova capitale. Divenne in breve uno dei più grandi e avanzati ospedali d’Europa. Oggi è ancora uno dei maggiori nosocomi di Roma, nonostante i molti cambiamenti avvenuti dopo il 1943. I primi oggetti lanciati dai bombardieri, il 19 luglio 1943, non furono i volantini delle settimane precedenti, ma bombe da 500 libbre, che caddero nell’istituto di medicina clinica che si trovava, come oggi, all’interno del perimetro dell’ospedale. Sasà Bentivegna, all’epoca giovane studente di medicina, racconta così la scena: Anch’io quel giorno, quando suonò la sirena, non mi preoccupai di rispettare le disposizioni della difesa antiaerea. Saltai sulla bicicletta. Gli ululati lugubri ripetuti non erano ancora finiti. Avevo dato la prima pedalata, stavo già per oltrepassare il cancello del Policlinico, quando la prima bomba cadde sulla Clinica medica, la seconda sull’istituto di Chimica dell’Università. Centinaia di esplosioni sconvolsero, una dopo l’altra, d’improvviso il quartiere San Lorenzo che confinava con la Città universitaria. Era cominciato il primo bombardamento di Roma. Tornai di corsa nell’istituto. Urla di terrore si levavano dalle corsie. Gli ammalati che potevano muoversi da soli si affrettavano o si trascinavano verso i rifugi antiaerei. Alte colonne di fumo già si levavano a cento, duecento metri di distanza. I vetri si infrangevano agli scoppi e lo scrosciare freddo dei loro frammenti si aggiungeva alle esplosioni delle bombe, alle urla, ai lamenti degli ammalati. Con i miei colleghi, i medici, gli infermieri, i portantini, ci precipitammo nelle corsie. […] In breve tutti coloro che erano trasportabili furono al riparo. Ma subito dopo cominciarono a giungere da fuori centinaia e centinaia di corpi straziati. Presto l’atrio del Policlinico, i corridoi, le corsie, ogni stanza disponibile, furono stipati di feriti, di moribondi, di morti. Era la prima volta che vedevo la guerra. […] Lavorammo tutto il pomeriggio e tutta la sera, sino a notte inoltrata. Riprendemmo presto la mattina successiva e solo la sera del 20 riuscii a tornare a casa, stanco, affranto, disperato. Non avevo mai visto nella mia vita tanto sangue e tanta sofferenza. Pedalavo lentamente in quel crepuscolo estivo. Una folla sconvolta trascinava via povere masserizie dai quartieri distrutti verso chissà dove. Pedalavo lentamente e piangevo mentre me ne andavo a casa mia.1

Gli edifici furono tutti restaurati o ricostruiti subito dopo la guerra. Oggi l’edificio chiamato Clinica Medica 1 ospita vari dipartimenti ed è relativamente rinnovato, senza tracce visibili dei bombardamenti. Tornate indietro lungo viale del Policlinico fino a piazzale Aldo Moro, dove troverete l’ingresso principale dell’Università La Sapienza.


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Questo vasto progetto, ancora in costruzione nel 1930, cominciò a prendere una forma definitiva nel 1932 quando Marcello Piacentini, un architetto romano di cinquantun anni il cui astro era vertiginosamente asceso durante il regime fascista, prese il controllo del progetto disegnando una nuova sede per la venerabile università la sapienza di Roma, che fino allora era stata costretta nei vecchi e inadeguati edifici del centro storico, vicino a piazza Navona. Piacentini realizzò un esempio di architettura e urbanistica fascista nei 22 ettari del nuovo sito, con una pianta su due assi che si aprono su piazza delle Scienze (l’attuale piazzale aldo moro) lungo un ampio viale monumentale che termina in una grande piazza rettangolare; la vista dall’entrata si conclude con il piazzale della minerva e con il colossale rettorato, sede del preside dell’università che all’epoca, come oggi, viene insignito del titolo di «Magnifico Rettore».

La facciata del Rettorato della Sapienza disegnata da Piacentini, e la statua di Minerva di Arturo Martini, oggi.

Altri edifici furono disegnati da vari architetti, tra i quali Giò Ponti (Scuola di matematica), Giuseppe Pagano (istituto di Fisica), Giuseppe Capponi (istituto di Botanica), e lo stesso Piacentini, che disegnò il progetto nel 1932:


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Roma occupata 1943-1944 Non costruiremo facciate stempiate, costituite soltanto di vetro e d’acciaio o di grigio e monotono cemento come si usa oggi nel Nord Europa, a striscioni orizzontali senza simmetria […] ma useremo ampi e sontuosi ingressi posti sugli assi della compostissima planimetria […] Dunque edifici italianissimi anzi romanissimi.2

L’università rimane una testimonianza della grandiosità che poteva raggiungere l’architettura del regime, a cominciare dal capolavoro di Piacentini, il Rettorato, che utilizza «ampi e sontuosi ingressi» per creare un effetto di grande impatto; la generale severità degli edifici imprime una forte importanza alle poche decorazioni. La maggior parte dei lavori fu terminata nel 1935 e l’università aprì le sue porte a studenti come Bentivegna e a molti altri che in seguito, assieme a lui, avrebbero fatto parte della Resistenza. Le bombe del 19 luglio caddero numerose su tutta l’università, colpendo in maniera indiscriminata gli edifici del nuovo ateneo. Solo poche, piccole tracce della devastazione sono ancora visibili oggi, grazie all’attento restauro del Dopoguerra e alla costante manutenzione a cui tutti gli edifici sono soggetti. Tre dei quattro edifici (due per ogni lato) lungo il viale monumentale che parte dai propilei dell’entrata furono colpiti: gli istituti di igiene, ortopedia e chimica. L’ultimo, a destra del grande ingresso dal lato di piazzale Aldo Moro, era stato danneggiato più degli altri e il restauro è stato importante, con la costruzione di vani aggiuntivi per trovare spazio alla facoltà in espansione. L’aula magna all’interno del palazzo del Rettorato (l’ingresso, segnalato, si trova nel retro dell’edificio) è un eccellente esempio delle arti decorative del regime fascista, con il suo splendido affresco dell’Italia tra le Arti e le Scienze di Mario Sironi del 1932-33, sormontato da un’iscrizione latina che dice: «Lo studio dà significato e dignità alla vita. Giovane, se sarai sapiente sarai felice». La pittura muraria era uno dei capisaldi dell’arte decorativa fascista: in un manifesto del 1933 su questo argomento, Sironi in persona scrisse che «lo Stile Fascista sorgerà dal dipinto murale, nel quale la nuova civiltà si identificherà. La funzione educativa della pittura è dopotutto una questione di stile». Anche dopo la guerra, la città universitaria vide scontrarsi in maniera violenta bande di neofascisti e altri gruppi studenteschi. La storia recente era un soggetto talmente delicato che il primo corso sulla storia della Resistenza apparve soltanto nei piani di studio del 1963-64 e, naturalmente, fu oggetto di aspre controversie. In questo clima arroventato, il 27 aprile 1966, alla vigilia delle elezioni del Consiglio degli studenti, il gruppo neofascista La Caravella inscenò una violenta manifestazione nella facoltà di Lettere, vicino al Rettorato. Uno studente, Paolo Rossi, morì negli scontri, cadendo dalla cima dello scalone di entrata della facoltà. Gli studenti occuparono immediatamente l’intero edificio e furono cacciati dalla polizia. Il giorno seguente si riunì un’imponente assemblea studentesca e dopo pochi interventi si scatenò una batta-


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glia tra studenti fascisti e antifascisti. La polizia non fece nulla per fermare i gruppi neofascisti e, per protesta, gli studenti occuparono otto edifici di altrettante facoltà. I funerali di Rossi, che furono celebrati nel piazzale della Minerva in un’atmosfera di intensa emozione, furono l’occasione per mettere in discussione l’università come istituzione e la polizia. Alla fine il rettore rassegnò le dimissioni. Nessuno fu inquisito per la morte di Rossi, che rimane a tutt’oggi un mistero. Fuori dall’entrata principale della città universitaria, nel piazzale Aldo Moro, guardando a sinistra si trova il colossale palazzo del consiglio nazionale delle ricerche, o cnr (l’ingresso non è permesso al pubblico), fondato nel 1923 sotto il regime fascista che pose la sua sede in questo edificio alla metà degli anni trenta. Nonostante sia stato colpito dalle bombe, è rimasto praticamente intatto. Alla carica di presidente di questa augusta istituzione si succedettero personaggi come Guglielmo Marconi, il celebre scienziato, e Pietro Badoglio, che sarebbe diventato capo del governo. Il Cnr è la sede di una grande biblioteca che dispone di oltre 600mila volumi e di gruppi di studio e di ricerca. Con una breve passeggiata lungo viale Piero Gobetti, di fronte a piazzale Aldo Moro, si gira a destra per viale Pretoriano e si arriva davanti al ministero dell’aeronautica (non visitabile), forse l’espressione più autoritaria dell’architettura fascista nella zona, disegnato da Roberto Marino nel 1929-31. È particolarmente impressionante la notte, quando le ali da aeroplano della grande aquila che orna il fregio sul corni-

Particolare della pretenziosa facciata del ministero dell’Aeronautica, oggi.


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cione sono illuminate. È abbastanza ironico che questo ministero sia piazzato vicino a una zona che fu colpita così duramente dal bombardamento alleato che proprio l’aeronautica italiana non fu capace di impedire.

Il quartiere San Lorenzo Tornate a piazzale Aldo Moro, percorrete via dei Liburni e via dei Luceri fino all’angolo con via Tiburtina, dove si trova l’ingresso al Parco dei Caduti del 19 Luglio 1943. UNIVERSITÀ DI ROMA LA SAPIENZA

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Il quartiere popolare di San Lorenzo è il risultato della sfrenata speculazione edilizia che travolse Roma dopo la sua trasformazione in capitale del Regno d’Italia. I progetti furono impostati già nel 1878 per costruire sui terreni situati a nord fuori l’antica porta chiamata Porta Tiburtina. Questa prima fase si esaurì negli anni trenta del Novecento. Il quartiere, durante questo periodo, era un agglomerato urbano particolarmente povero con botteghe artigiane e fabbriche piazzate in mezzo agli edifici residenziali. Le strade erano state chiamate con i nomi delle popolazioni italiche precedenti la conquista romana, e lo stile degli edifici era caratterizzato da un sobrio eclettismo che si può ammirare anche in altri quartieri costruiti nello stesso periodo, come la vicina area attorno a piazza Vittorio Emanuele ii. Quando le prime bombe caddero su San Lorenzo, lanciate da un apparecchio soprannominato «Lucky Lady», colpirono un quartiere densamente abitato e una delle poche zone della città con una solida tradizione antifascista. Seguì un bombardamento a tappeto, che devastò l’intero reticolo di strade tra l’Università e i binari ferroviari, dalle mura della città al cimitero monumentale di Campo Verano. Una lista parziale dei danni, compilata dai vigili del fuoco il giorno seguente l’attacco, recita: Via Tiburtina: […] ai numeri 5 e 9, entrambi di cinque piani, quasi del tutto crollati; stabili ai numeri 33 e 35 di cinque e quattro piani, molto danneggiati; lo stabile a sei piani, ad angolo con via Baldini, completamente raso al suolo. Via dei Piceni angolo via dei Reti: incendiato il deposito del legname, che seguita a bruciare. San Lorenzo: zone spezzonate e mitragliate. Circa la metà dei fabbricati che si affacciano su via dei Sabelli, via dei Volsci, piazza dei Sanniti, via dei Reti, via degli Ausoni, via dei Sardi, via dei Liguri, piazza Campani, viale Scalo San Lorenzo, viale degli Apuli, via Tiburtina sono danneggiati più o meno gravemente. Il traffico stradale è gravemente ostacolato e in molti punti reso impossibile dalle macerie, dai cavi elettrici, dalle rotaie divelte e dai crateri delle bombe. In via Tiburtina interrotta la tubazione dell’acqua in due punti.3

Non esiste un elenco completo dei morti e le stime delle vittime oscillano tra i 1500 e i 2000. Sul lato di uno degli edifici distrutti dal bombardamento fu costruito un parco, che ora si chiama parco dei caduti del 19 luglio 1943. Nel 2003, nel 60º anniversario del bombardamento, fu innalzato un monumento ai caduti. Un pannello di metallo che si alza a circa mezzo metro da terra corre lungo il sentiero principale del parco, con incisi i nomi delle 1492 vittime protetti da un vetro. Rimangono alcune vivide tracce del bombardamento e sono presenti anco-


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ra spazi vuoti tra i palazzi e le costruzioni danneggiate. Con la recente trasformazione di San Lorenzo in quartiere borghese, comunque, questi spazi stanno per essere riempiti con nuovi edifici e i più vecchi sono in gran parte in fase di restauro. L’occhio si abitua rapidamente a scorgere i drastici cambiamenti del profilo degli edifici che si affacciano sulle strade, con una fila di condomini di cinque piani che viene improvvisamente interrotta da una costruzione a un piano, spesso un rozzo garage o un’officina che occupa lo spazio di un palazzo distrutto. Altre volte il sobrio stile fin de siècle si sovrappone a nuovi palazzi costruiti negli anni settanta e ottanta. Questi cambiamenti ricordano il fantasma di un condominio distrutto nel bombardamento dell’estate del 1943. Attraversando via Tiburtina dal Parco dei Caduti del 19 luglio 1943 e proseguendo lungo via dei Latini incrociate via dei Sabelli, una parallela della Tiburtina.

Un prete, padre Libero Raganella, raccontò la sua corsa attraverso questo tratto di via dei Sabelli durante il bombardamento. Possiamo seguirne le tracce: All’angolo di via dei Latini con via dei Sabelli mi devo fermare, è impossibile correre. Un vuoto immenso dove prima c’erano dei palazzi, la strada sparita sotto le macerie, un cumulo enorme, un polverone denso misto a fumo s’innalza pigramente verso il cielo.4

All’angolo di via dei Latini con via dei Sabelli oggi c’è un edificio basso a un piano, una specie di garage, e su per via dei Sabelli un paio di piloni tengono in piedi un muro che ancora mostra parti intonacate di bianco, spettrale testimonianza delle finestre e delle porte che un tempo vi si aprivano. Ancora don Libero: Mi chiamano da via dei Rutoli. Corro. A destra il vuoto di un altro palazzo con l’ingresso in via dei Volsci. Nella botteguccia un calzolaio sta seduto immobile sulla sedia di paglia davanti al deschetto con un scarpa in mano. È morto, e sembra vivo. Non scorgo ferite. Forse un collasso cardiaco o lo spostamento d’aria.5

Via dei Rutoli ancora oggi mostra tracce dei bombardamenti: un’improvvisa interruzione tra le facciate delle case segna la voragine dove un tempo c’era un condominio, un terreno ora circondato da un recinto. Mi ritrovo in piazza dei Campani. Altri palazzi crollati, altri cumuli di macerie. […] Chissà quanti sono sepolti sotto le macerie, o sono ancora vivi e sperano in un aiuto che tarda a venire. Un rombo cupo di motori sotto sforzo viene dal cie-


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lo. Un’altra formazione di bombardieri sta eseguendo il suo carosello di morte. Quante ondate si sono susseguite fino a questo momento? Non lo so. Tante. E ancora sembra che non siano soddisfatti. Ecco che sganciano le bombe. Puntini neri che scendono rapidamente, che si ingrossano a vista d’occhio, che vanno in una direzione, come legati da un filo invisibile. Cadono sullo Scalo merci. Un boato immenso, fragore di fiamme, fumo di fuoco. Hanno colpito le case del quartiere, ma certamente il loro obiettivo era proprio questo: la stazione di smistamento, il deposito delle locomotive, lo Scalo merci per paralizzare i movimenti e i rifornimenti della città.6

Oggi piazza dei Campani è stata completamente ricostruita, ma gli edifici moderni sono in netto contrasto con il palazzone di appartamenti degli anni trenta all’angolo sudorientale della piazza. Seguite via dei Campani fino a viale dello Scalo San Lorenzo. Il viale alberato dello Scalo merci, così bello, almeno per noi, è irriconoscibile. […] Non vedo segno di vita, e intanto le bombe continuano a cadere nell’interno del deposito. […] Dal cancelletto di servizio del personale del deposito vedo uscire due ferrovieri, neri dalla testa ai piedi. Si distingue solo il luccicare degli occhi e il taglio della bocca con il bianco dei denti. Sembrano ubriachi. Si appoggiano al muro, rasentandolo nel camminare. Corro da loro. Domando cosa è successo dentro il deposito. Mi guardano imbambolati, come assenti. Poi uno dice: «È la fine del mondo». […] È una distruzione quasi totale; sembra impossibile che fino a poche ore fa questo era un deposito pulsante di vita. Fin dove posso vedere scorgo locomotive sventrate, depositi rasi al suolo, binari sconvolti.7

Oggi padre Libero non potrebbe riconoscere viale dello Scalo San Lorenzo, sovrastato dall’oppressiva tangenziale e circondato sui due lati dai grandi condomini costruiti dopo la guerra. Lo scalo ferroviario esiste tutt’oggi, ed è ancora più grande, ma scompare dietro i palazzi. Lungo via dei Reti le tracce del bombardamento sono tuttora visibili. Brutti capannoni che dovevano essere provvisori con il tempo sono diventati permanenti e anche dopo tanti anni una generale atmosfera da baraccopoli si è preservata. Un grande edificio è circondato da impalcature, al momento in cui scriviamo, e sopravvive soltanto fino al primo piano. Anch’esso è in fase di ricostruzione dopo decenni dal suo fatale incontro con l’esplosivo americano.


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La basilica di San Lorenzo fuori le Mura Da via dei Reti tornate su via Tiburtina, quindi dirigetevi a nordest (allontanandovi dalle mura) verso piazzale del Verano e piazzale San Lorenzo.

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L’antica basilica dà il nome al moderno quartiere di San Lorenzo. san lorenzo fuori le mura (apertura invernale: tutti i giorni dalle 7.30 alle 12.30 e dalle 15.30 alle 19.00; apertura estiva: tutti i giorni dalle 7.30 alle 12.30 e dalle 16.00 alle 20.00) si situa in una zona che anticamente era la collinosa campagna fuori Porta Tiburtina. Nacque per commemorare uno dei santi più popolari di Roma, il diacono Lorenzo, il cui costante umorismo aveva irritato le autorità imperiali: quando il prefetto della città ordinò al santo di tirar fuori il tesoro della chiesa, lui rispose inviandogli un gruppo di poveri. Messo in prigione, battezzò la sua guardia, Ippolito, spruzzandolo con l’acqua della fossa dove era custodito. Ippolito si convertì all’istante e, poco dopo, fu martirizzato. Lorenzo fu messo


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su una graticola sopra il fuoco. Spiritoso fino alla fine, le sue ultime parole furono: «Giratemi, sono cotto da questo lato». I cattolici romani furono impressionati da questo ribelle indomabile e la sua tomba diventò immediatamente luogo di venerazione. L’imperatore Costantino costruì la prima basilica in questo sito, probabilmente un cimitero coperto come quello analogo della basilica di Sant’Agnese fuori le Mura sulla via Nomentana. Le indagini archeologiche hanno scoperto il perimetro dell’antica basilica dietro quella attuale, e più precisamente uno dei muri del lato lungo della basilica di Costantino risulta situato, più o meno, sotto il muro del moderno cimitero di Campo Verano, sebbene non ci siano più tracce visibili. La basilica attuale cominciò a prendere forma nel 579, sotto papa Pelagio ii (579-590), che scavò lo spazio per costruire la basilica dai clivi circostanti eliminando i corridoi e le gallerie delle catacombe di Santa Ciriaca nelle quali San Lorenzo fu seppellito, per poi collocare la tomba del santo all’interno di un reliquiario ben protetto. Fu in questo periodo che si affermò il turismo religioso, quando le reliquie del santo erano circondate dalla fama di un grande potere, a volte benigno, altre meno favorevole: gli operai che aprirono la tomba del santo morirono tutti dopo pochi giorni, «senza aver neanche toccato il corpo». Papa Clemente iii (1187-1191) fortificò la chiesa e il piccolo borgo che nel frattempo le era cresciuto intorno («Laurentopolis»), ma oggi non rimane alcuna traccia delle mura. Nel 1216 papa Onorio iii (1216-1227) decise che la popolarità del santo meritava uno spazio maggiore per il culto. Il papa abbatté l’abside della basilica di Pelagio, aggiunse una nuova navata, cambiando l’orientamento della chiesa, e usò le colonne, i capitelli e altri manufatti in pietra della basilica di Costantino, che era evidentemente in avanzato declino. La basilica che fu realizzata con questi cambiamenti divenne una delle più grandi chiese medievali di Roma e rimane tutt’oggi una delle poche basiliche importanti che non hanno perso il loro aspetto originale. I periodi architettonici e artistici successivi hanno modificato appena la basilica: si veda la cappella barocca dedicata a Santa Ciriaca sul lato sinistro, che presenta delle decorazioni sulla facciata ricalcanti disegni di Pietro da Cortona del 1676. Il xix secolo, che vide la nascita della nuova «Laurentopolis» del quartiere San Lorenzo, si vendicò della disattenzione dei secoli precedenti, quando San Lorenzo fuori le Mura fu sottoposta al pesante intervento decorativo di Virginio Vespignani, l’architetto favorito di papa Pio ix (1846-1878). Vespignani volle aggiungere alla facciata un finto mosaico medievale. Avvicinandosi alla fine terrena, Pio ix spiazzò il suo entourage chiedendo di essere seppellito in questa basilica «tra i poveri» nonostante la sua tomba fosse già stata preparata davanti all’altare maggiore di Santa Maria Maggiore. Essere sepolto fra i poveri non voleva dire essere sepolto come un povero: l’ultima costruzione di una certa importanza eseguita all’interno della chiesa è proprio la sua opulenta cappella funeraria


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disegnata da Raffaele Cattaneo (1882-1895), coperta dal pavimento al soffitto con mosaici blu e oro, in un fantasioso stile «paleocristiano» del xix secolo. La vicinanza della basilica con uno dei più importanti cimiteri di Roma l’ha resa molto popolare per i funerali, rendendone la visita spesso difficile ai turisti. Il bombardamento del 19 luglio ha lasciato cicatrici profonde. Guardando le colonne danneggiate dal centro della navata, si ha una precisa impressione del disastro. Soltanto una bomba centrò la basilica, ma causò il più grave danno di tutta la guerra al patrimonio artistico della città. Fotografie dell’epoca mostrano la chiesa in rovina, anche se in realtà le perdite non furono così gravi. Tre antichi sarcofagi nel portico furono ridotti in frantumi (quelli che si poterono recuperare furono riassemblati e sono oggi nel chiostro), il muro sopra il portico non si poté restaurare e la facciata con i falsi mosaici medievali, forse fortunatamente, fu consegnata alla pattumiera della storia. I lavori di restauro si svolsero dal 1947 al 1949 sotto la su-

Pio xii (Eugenio Pacelli) Assurto al soglio di Pietro nel 1939, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, papa Pio xii si trovò di fronte un compito non facile: quello, cioè, di guidare la Chiesa cattolica in uno dei periodi più tempestosi e difficili della sua plurimillenaria storia. Fedele all’insegnamento dei suoi predecessori, come Benedetto xv durante la Prima guerra mondiale, Pio xii mantenne una rigida neutralità tra le parti in conflitto, con lo scopo di evitare eventuali ritorsioni da parte, soprattutto, degli stati dell’Asse. Evitando di schierarsi, però, Pio xii mantenne il più assoluto silenzio anche sugli orrori compiuti dai nazisti durante l’occupazione dei territori orientali, nonostante le reiterate richieste di aiuto da parte di alti prelati, testimoni impotenti del massacro degli ebrei d’Europa. La razzia del Ghetto di Roma, compiu-

ta «proprio sotto le sue finestre» secondo le parole dell’ambasciatore tedesco presso la Santa Sede, e la mancanza di una qualsiasi reazione da parte del Vaticano, scatenarono nel Dopoguerra feroci polemiche. C’era chi vedeva nell’atteggiamento del papa un ipocrita silenzio che di fatto facilitò il compito ai nazisti, e chi indicava nell’aiuto silenzioso a tanti altri ebrei prestato dalle parrocchie romane, una politica certo non eclatante ma efficace e, in definitiva, l’unica possibile. La sola uscita pubblica del papa durante la guerra fu subito dopo il bombardamento di San Lorenzo. La sua foto, mentre con le braccia allargate invoca l’Altissimo, fece il giro del mondo e contribuì alla fama di «Defensor Urbis» che lo rese tanto popolare tra i cittadini di Roma, un titolo molto discusso negli anni successivi alla sua morte, avvenuta nel 1958.


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pervisione dell’architetto Alberto Terenzio, e non si limitarono a riparare i danni delle bombe, ma cancellarono anche le modifiche ottocentesche di Vespignani. La visita alla basilica comincia dal portico. È probabilmente un lavoro della scuola dei Vassalletto, grandi intagliatori di pietra dell’inizio del xiii secolo che sono anche i probabili autori del chiostro del Laterano e di San Paolo fuori le Mura. Il loro tocco è riconoscibile nei lavori in pietra sul frontone del portico, con frammenti di mosaici sopra l’ingresso principale. All’interno del portico è da notare il ciclo di affreschi del xiii secolo – quattro di essi si sono salvati – anche se quello più a sinistra fu pesantemente restaurato nel xix secolo. Una grande lapide messa dal Comune ricorda il bombardamento e la visita di Pio xii, un argomento su cui torneremo più volte. L’iscrizione lo elogia in maniera ridondante: Il xix Luglio mdccccxxxxiii mentre questa alma città fatta bersaglio di guerra era minacciata da miseranda distruzione apparve fra le rovine di questa casa di Dio alla moltitudine costernata il pastore angelico pio xii che inesauribile di aiuto e di conforto per i deboli vindice del diritto presso i forti rinnovando le gesta dei suoi immortali predecessori con parola potente serena illuminatrice con multiforme infaticabile azione la sua Roma salvò dall’estrema rovina. In segno di gratitudine imperitura il popolo romano alle soglie della risorta basilica questo ricordo pose a mdccccxxxxviii.

L’interno mostra ancora le ferite della guerra. Posta davanti alla facciata interna, la tomba del cardinale Guglielmo Fieschi (morto nel 1256), fu colpita dal crollo del tetto, come è possibile notare dalle fratture e ricuciture delle colonne che ne sostengono il canopo marmoreo. Più in alto, e quasi invisibile nella penombra, vi è uno dei pochi pezzi della decorazione inserita da Pio ix, un restaurato ma piuttosto indecifrabile affresco di CeIl porticato trecentesco, realizzato dai Vassal- sare Fracassini, che fu ritrovato gravemente danneggiato sul pavimento. letto e ricostruito dopo il bombardamento. Molte delle 22 colonne della navata mostrano i segni dell’esplosione: alcune furono abbattute, altre spezzate in due. Nessuna delle decorazioni dei muri è sopravvissuta, a parte pochi frammenti dell’affresco medievale sulla parte sinistra della navata. Un’iscrizione in mosaico


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inserita nel pavimento cosmatesco del xiii secolo ricorda il restauro della chiesa: «La casa di Lorenzo, abbattuta dalla guerra nel quattordicesimo giorno prima delle calende di Agosto, con l’aiuto di Dio è stata felicemente ricostruita». Le travi decorate del tetto della navata furono distrutte dal bombardamento e sono state rimesse al loro posto, e l’effetto d’insieme combina l’opulenza con l’austerità. Particolarmente belli sono i pavimenti cosmateschi e il trono episcopale nel presbiterio, nella parte più vecchia della chiesa (attorno all’altare), e le colonne della basilica pelagiana. Scavi effettuati durante i restauri del 1947 hanno rivelato i resti dell’abside pelagiana, costituiti da due brevi muretti in mattoni che sbucano fuori dai banchi di fronte all’«arco di trionfo» che separa la navata, dove si riunisce la congregazione, e il presbiterio, dove officia il clero. L’arco è decorato sulla parte che dà verso il presbiterio con mosaici del v-vi secolo, i quali mostrano Cristo con i santi Paolo, Stefano e Ippolito, su un lato, e i santi Pietro e Lorenzo con papa Pelagio ii, sull’altro. Anche le reliquie di santo Stefano sono custodite sotto l’altare maggiore. Una leggenda vuole che le ossa di san Lorenzo abbiano lasciato spazio a quelle di santo Stefano di loro spontanea volontà quando fu qui sepolto, facendo meritare a Lorenzo il soprannome di «santo cortese». Una scala sul lato destro della navata fa scendere il visitatore al livello del pavimento della basilica pelagiana e, sul retro, alla scintillante cappella funeraria di Pio ix, che è stato recentemente beatificato e il cui corpo ora giace sotto vetro in un nuovo altare nel centro della cappella. Il meraviglioso chiostro del xii secolo (raggiungibile dalla sacrestia posta sul lato destro della navata), tra i posti più tranquilli di Roma, contiene una notevole collezione di frammenti di marmi antichi murati, assieme a sottili frammenti metallici della bomba che colpì la basilica. Sono resti di un oggetto orrendo ma affascinante, pieno di implicita brutalità, il cui effetto risulta amplificato in questo luogo di quiete e pace. Spesso una candela viene accesa lì davanti.

Il cimitero monumentale di Campo Verano e il piazzale del Verano Dalla basilica uscite a sinistra e proseguite fino all’ingresso pedonale del cimitero.

Quando Napoleone, che aveva conquistato Roma nel 1798, emanò l’editto di SaintCloud (1804), proibendo le tumulazioni all’interno delle città del suo impero, l’antica tradizione di seppellire i morti nelle chiese sparì quasi del tutto. I campi attorno alla basilica di San Lorenzo fuori le Mura, sotto i quali nell’antichità si estendevano le catacombe di Santa Ciriaca nel periodo tardo-antico, furono nuovamente utilizzati come luogo dove seppellire i morti, questa volta in scala grandiosa, nel


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cimitero monumentale di campo verano (apertura: tutti i giorni dalle 7.30 alle 18; dal 1º aprile al 30 settembre la chiusura è alle 19). L’architetto di Napoleone, Giuseppe Valadier, cominciò a costruire il primo nucleo del cimitero nel 1807-1811. L’opera fu completata dall’architetto di Pio ix, Virginio Vespignani, autore dell’entrata monumentale, della cappella principale situata all’interno, dedicata a Santa Maria della Misericordia, e del vasto quadriportico vicino all’ingresso. Vespignani stesso è seppellito nell’entrata. L’autore dell’inno nazionale italiano, Goffredo Mameli, è sepolto proprio nel primo viale a sinistra La statua della Speranza all’ingresso del cimiteentrando dall’ingresso principale. Il cimitero, pieno di tombe e monu- ro del Verano, di Stefano Galletti, 1874-1878. menti in pietra del xix e xx secolo, non fu risparmiato dalle bombe del 19 luglio 1943. Molti corpi furono dissotterrati dalle esplosioni, evento che in seguito fece scrivere al poeta Giuseppe Ungaretti che le bombe avevano «ucciso i morti». La tomba della famiglia Pacelli, dove riposavano i parenti di Pio xii, fu danneggiata nell’attacco, e una sezione di venti metri del muro perimetrale fu distrutta. Una lapide nella tomba della famiglia Cartoni, posta sulla sinistra venendo dall’ingresso del quadriportico di Vespignani, dice:

Travolta l’antica pietra funeraria nel bombardamento del 19 luglio 1943 i discendenti di Antonio Cartoni posero questa lapide in memoria dei loro defunti, pregando Iddio perché gli orrori della guerra non turbino più il lavoro dei vivi e la pace dei morti.

Davanti all’entrata principale, danneggiata dalle bombe, furono portati i corpi delle vittime dalle strade circostanti. Come riportano le fonti ufficiali, il pavimento della piazza, oggi occupato da macchine parcheggiate e banchetti di fiori, era coperto con strati e strati di salme, 965 in totale. A ottobre soltanto 559 erano state identificate. Il piazzale del verano, che si trova di fronte ai cancelli del cimitero, è il luogo di uno dei più memorabili eventi della guerra a Roma: l’improvvisa visita di Pio xii al quartiere colpito quella stessa sera del 19 luglio. Alle 17.20 la macchina del pa-


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pa lasciò la Città del Vaticano. Pio xii, accompagnato dal sostituto della segreteria di stato Giovanni Battista Montini (più tardi papa Paolo vi) e dal suo chauffeur, arrivò dopo pochi minuti nella piazza. Nella sua veste candida e con la papalina, la figura alta, ascetica del papa era immediatamente riconoscibile, e una grande folla lo circondò, salutandolo e invocando la pace. Egli si inarcò all’indietro e aprì le braccia in un ampio gesto di benedizione. Poliziotti e militari fecero un varco tra la folla permettendo al papa di entrare nella basilica semidistrutta e di attraversare l’improvvisato obitorio dove giacevano i corpi delle vittime coperti con fogli di giornale. Un prete del luogo, Armando Castellani, descrisse la visita del papa: A stento, di fronte al pronao diroccato, Sua Santità poté scendere, mentre l’onda della commozione erompeva da tutti i cuori. Incurante del terreno impraticabile per le rovine si genufletteva sui detriti della Basilica e delle colonne ed invitava tutti alla preghiera. Poi rivolse alcune parole alla moltitudine. Disse che egli comprendeva l’affanno di tante famiglie, così tragicamente private dei loro cari, delle loro case, e che implorava il Signore di mutare sì grande dolore in tutta forza morale e spirituale. Benedisse quindi con particolare effusione i presenti, i danneggiati, le loro famiglie, l’intera sua amatissima città, l’Italia tutta. E con quel gesto che abbraccia, protegge, impetra, tutti benedisse da quel trono di rovine e di schianto. Dalla Basilica, attraverso via Tiburtina, passò nella nostra Parrocchia, di cui percorse lentamente le vie, procedente tra acclamazioni e implorazioni. A stento si poté arginare l’impeto filiale. […] La dolce visione del Papa tra quell’umile gente, immersa nel più acuto strazio, apparve come un raggio di ristoro e di fiducia.8

Un imbianchino, Anselmo Ricci, vide la scena: Ho visto quel gruppo di persone, davanti alla basilica, sul piazzale che era tutto una rovina, e mi sono precipitato perché credevo che fosse venuto qualche gerarca, qualche pezzo grosso del governo, magari lo stesso Mussolini. Ho preso un sasso da terra e mi sono detto «gli spacco la testa». Mia moglie e mia figlia erano rimaste sotto le macerie a via dei Marrucini; io giravo come un pazzo per cercare qualcuno che venisse a scavare con me, serviva una squadra e da noi ancora non veniva nessuno. Altre persone, come me, si avventavano su quel gruppo urlando «assassini», perché anche loro credevano fosse qualche gerarca. Invece un tizio si volta verso di noi e dice: «State buoni! È il papa». Era il papa, e allora ce semo messi tutti a piagne. Mia moglie e mia figlia non le ho tirate fuori più, sono morte là sotto.9

Incredibilmente gli abitanti di San Lorenzo, nonostante il quartiere fosse stato attaccato dagli americani, dimostrarono tutta la loro rabbia non contro il nemico ufficiale, ma contro il loro stesso governo. Il giorno dopo le bombe, una scrit-


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ta su un muro di via Casilina, non troppo lontano, diceva nel tipico dialetto della città: «Mejo l’americani su la capoccia che Mussolini tra li cojoni». Il quattordicenne Armando Bordoni ricorda che quando Mussolini visitò il quartiere il 22 luglio, di notte e senza apparato propagandistico attorno, sua nonna riconobbe il dittatore e saltò in piedi con l’intenzione di aggredirlo, ma cadde a causa di una specie di crisi apoplettica dovuta alla rabbia e al rancore. Nel piccolo giardino di fronte all’ingresso della basilica di San Lorenzo c’è un monumento che ricorda la visita del papa, il suo unico atto inequivocabilmente eroico di tutta la guerra. Una statua del papa mentre «abbraccia, protegge, implora» staziona in maniera discreta tra i pini marittimi. Il plinto ha un’iscrizione: «A Sua Santità Pio xii, Eugenio Pacelli, che in questo luogo con il conforto della Fede portò soccorso alla città bombardata, 19 luglio 1943». Il monumento è opera dello scultore Antonio Berti, pagato dai lettori del quotidiano Il Tempo, e inaugurato nel xxiv anniversario del bombardamento, il 19 luglio 1967.

La caduta del fascismo palazzo e piazza venezia

Da piazzale del Verano prendete l’autobus 3, direzione Thorvaldsen, o il 19, direzione Risorgimento/S. Pietro, per sette fermate e scendete a viale Regina Margherita/Nomentana. Qui prendete l’autobus 60, direzione Partigiani/Fs, per cinque fermate fino a Piazza Venezia. L’ingresso del palazzo si trova in via del Plebiscito numero 118. piazza Venezia eb el Pl via d

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Mussolini alla sua scrivania nella Sala del mappamondo.

Il severo palazzo venezia (apertura: da martedì a sabato dalle 9.00 alle 14.00; domenica dalle 9.00 alle 13.00), di origine rinascimentale (inizialmente chiamato Palazzo San Marco perché la costruzione include l’antica chiesa dedicata all’apostolo), fu una creazione voluta dal cardinale veneziano Pietro Barbo, che lo fece costruire tra il 1455 e il 1464. Barbo, nipote del papa veneziano Eugenio iv Condulmer (1431-1447), ascese a sua volta al soglio di Pietro nel 1464 come Paolo ii (m. 1471). Uomo vanesio e amante del lusso, soltanto le proteste dei suoi cardinali gli impedirono di prendere il nome di Formoso. Dal 1465, Paolo ii ampliò questo palazzo da cardinale in un palazzo adatto a un papa, costruendo un giardino interno circondato da archi (il viridarium) appoggiato a un angolo dell’edificio. Inoltre costruì la nuova facciata della chiesa di San Marco e la grandiosa sala del mappamondo, ed espanse la costruzione lungo la via che oggi si chiama via del Plebiscito. Il nipote del papa, il cardinale Marco Barbo, contribuì allo sviluppo del complesso per la maggior parte dei successivi quattro lustri. Nei secoli seguenti il palazzo fu rimaneggiato numerose volte. Papa Paolo iii Farnese (1534-1549) inserì la grande finestra centrale che sovrasta la piazza e unì il palazzo con la sua residenza estiva sul Campidoglio (demolita per costruire il monumento a Vittorio Emanuele ii alla fine dell’Ottocento), con un corridoio sopraelevato. Parte dell’edificio fu donata alla Repubblica di Venezia nel 1565 come residenza per l’ambasciatore, e nel Settecento l’intero palazzo divenne proprietà della Serenissima. Nel 1797, quando lo stato della Chiesa fu abbattuto dalle armate di Napoleone, Palazzo Venezia fu acquisito dallo stato francese e dopo la caduta di Napoleone nel 1814 passò nelle mani dell’Austria. Quando Italia e Austria si trovarono su fronti opposti durante la


Il Partito nazionale fascista

Nato nel 1921, il Partito nazionale fascista guidò la cosiddetta «rivoluzione delle camicie nere» che portò, nell’autunno del 1922, Benito Mussolini a divenire presidente del Consiglio. Unico partito politico ammesso in Italia dal 1928, il Pnf nel corso degli anni trenta diventò un immenso apparato di irregimentazione della popolazione italiana. Gli iscritti erano milioni, la tessera del fascio – di fatto un duplicato della carta d’identità – era necessaria per poter lavorare nell’amministrazione dello stato, ma anche per trovare lavoro in ditte private, tanto da essere definita da alcuni «la tessera del pane». Il partito assisteva il cittadino dalla nascita (con l’Opera nazionale maternità e infanzia), all’infanzia (nell’organizzazione dei Figli della Lupa), all’adolescenza (con i Balilla e le Giovani italiane), alla giovinez-

za (con gli Avanguardisti). Nel tempo libero (con l’Opera nazionale dopolavoro), nel lavoro (con i sindacati fascisti e le corporazioni), nella vecchiaia (con l’Istituto nazionale fascista della previdenza sociale), oltre a controllarlo con una miriade di apparati, di polizia e di spie. Nel 1939 su circa 42 milioni di abitanti, 24 milioni erano iscritti ad almeno un’organizzazione del partito, se non al partito stesso. Questa immensa organizzazione sembrava, quindi, incrollabile e capillarmente inserita nella società italiana. Tuttavia, alla prova della guerra, non resse il contraccolpo psicologico che la popolazione subì con la sconfitta militare. La retorica guerriera del fascismo, il mito dell’Italia diventata una grande nazione e la creatrice di un nuovo impero, si rivelò vuota di reali significati. Quando le città italiane cominciarono a essere colpite, il fascismo venne considerato l’unico responsabile dei lutti e dei disastri causati dalle bombe. A partire dall’autunno-inverno 1942-43, dopo le sconfitte di El Alamein e Stalingrado, che coinvolsero le truppe del Regio esercito, il fascismo diventò sempre più impopolare, tanto che, in alcune città, farsi vedere con la divisa fascista diventava pericoloso. Nell’estate del 1943 gli italiani volevano soltanto che la guerra finisse e che il fascismo scomparisse. Il 25 luglio, alla notizia della caduta di Mussolini, non vi fu nessuna resistenza da parte dei fascisti, che si nascosero nelle case o inneggiarono loro stessi alla caduta del «tiranno». Il 27 luglio il partito venne ufficialmente sciolto dal nuovo governo Badoglio.


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Prima guerra mondiale, il palazzo fu confiscato. Divenuto di proprietà dello stato, il palazzo doveva diventare un museo di arti applicate, la versione italiana del Victoria and Albert Museum di Londra. A questo scopo, nel 1924-1930 fu sottoposto a un importante restauro. Il viridarium di Paolo ii era già stato demolito e ricostruito in piccolo sull’altro lato della facciata di San Marco, tra il 1912 e il 1913. Mussolini capì i vantaggi che il palazzo offriva come sede per i suoi uffici personali. Oggettivamente era il luogo ideale: era in posizione centrale, molto vicino al Vittoriano, il monumento al primo re d’Italia, Vittorio Emanuele ii, e aveva di fronte una piazza da poco ingrandita, perfetta per le folle che il dittatore adorava arringare dal balcone della finestra centrale. Anche per questi motivi il palazzo ospitò, tra il 1929 e il 1943, il più importante organismo del Partito nazionale fascista, il Gran consiglio. Mussolini modificò notevolmente la struttura per adattarla ai suoi bisogni e al suo smisurato ego. La prima cosa che il visitatore nota è la colossale scalinata realizzata nel 1930 dall’architetto Luigi Marangoni in uno stile più o meno quattrocentesco. Di sopra, al piano nobile, è ospitato il museo di palazzo venezia (apertura: da martedì a domenica dalle 8.30 alle 19.30), di dimensioni leggermente più piccole rispetto a quelle pensate dal dittatore. La prima sala del museo mostra il gusto mussoliniano per il «restauro», con affreschi finto quattrocenteschi guarniti da medaglioni e soffitti a volta. La sala 4, nell’odierna sistemazione del museo, ha un soffitto a volta di rara bruttezza, con figure dello zodiaco che sembrano dipinte con uno spray dorato su un fondo blu notte. Si dice che questa sala sia stata affrescata secondo i gusti dell’amante di Mussolini, Clara (detta Claretta) Petacci. Non è improbabile che questa fosse la stanzetta definita dalla servitù il «salottino degli amori», che serviva al duce e a Claretta per appartarsi. Il museo ha rimosso ogni riferimento al passato fascista e ai suoi precedenti inquilini. La grande sala che una volta ospitava il Gran consiglio e gli uffici di Mussolini, la Sala del mappamondo, è ora aperta solo per le mostre e gli eventi speciali, quando i muri sono generalmente coperti. Se si tiene una mostra, comunque, è possibile entrare nell’immensa sala d’angolo, la sala del gran consiglio, dove l’organo principale del fascismo teneva le sue riunioni fino al 1939 quando, per lo scoppio della guerra, il duce smise praticamente di convocarlo. Il duce continuò a ignorare la presenza del Gran consiglio fino al bombardamento di San Lorenzo, quando lo riunì per discutere la situazione. Meno di una settimana dopo, i membri del consiglio si incontrarono per l’ultima volta in questa stanza. Negli ultimi mesi di guerra, Mussolini era notevolmente cambiato. L’uomo, il cui aspetto era di solito sanguigno e aggressivo, era diventato svagato, alle volte confuso, e visibilmente fuori dalla realtà. I gerarchi fascisti avevano perso completamente la loro fiducia nelle capacità del dittatore. La riunione del Gran consiglio fu una congiura, organizzata da alcune figure centrali del regime, incluso


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il genero di Mussolini, il conte Galeazzo Ciano, proprio per togliere al duce il comando supremo della guerra. Consapevole che il disastroso andamento bellico aveva distrutto la popolarità e la credibilità del regime, la vera intenzione del Gran consiglio era di forzare il re a mettersi in gioco attraverso un voto di sfiducia a Mussolini. La riunione durò dieci ore e fu piena di amare recriminazioni e discussioni animate. Alcuni gerarchi si erano preparati portando armi da fuoco, ma la riunione si concluse senza alcun gesto drammatico. Mussolini fu sconfitto sul voto di fiducia con 19 voti contro 7, ma non si rese conto dell’importanza dell’avvenimento. Non prese alcuna iniziativa per purgare il Gran consiglio dagli oppositori, ma chiese un appuntamento al re per il mattino dopo allo scopo di discutere le future azioni. Il dittatore si ritirò nel suo grande ufficio, la Sala del mappamondo. Era stata studiata per intimidire: la scrivania del dittatore era nell’angolo più lontano, accanto al caminetto sul fondo della sala, e il visitatore era costretto ad avanzare in maniera esitante attraverso i molti metri quadri in marmo, passando accanto a ciò che rimaneva della decorazione originaria dei muri (forse di Andrea Mantegna), e pazientare aspettando che il duce alzasse il suo famoso sguardo dai documenti. Mussolini era anche noto per lasciare accesa la lampada da tavolo tutta la notte, in modo che i romani che attraversavano la piazza pensassero che lui fosse sempre al lavoro per il suo paese. Anche quella notte tornò a casa a Villa Torlonia, non sospettando ciò che lo attendeva. Gli avvenimenti dei giorni seguenti produssero una fortissima reazione nei romani. La sconvolgente notizia della caduta di Mussolini era stata comunicata dalla radio alle 10.45, e già verso le 11 i cittadini accorsero in piazza Venezia, il luogo naturale di riunione. Era il posto più ovvio per celebrare la caduta del fascismo non soltanto perché in pieno centro, ma anche perché era da sempre lo spazio preferito per le grandi manifestazioni del regime. Gli architetti di Mussolini avevano modificato tutto il contesto urbanistico, demolendo interi isolati storici su entrambi i lati del Vittoriano, nella creazione della grande arteria che il dittatore chiamò via dell’Impero, l’attuale via dei Fori Imperiali, parte della nuova strada trionfale disegnata per i suoi eserciti vittoriosi. Sull’altro lato del Vittoriano, di fronte alla basilica di San Marco, eliminò un’intera parte della piazza triangolare dell’Aracoeli, nel 1928-29, senza un chiaro progetto di utilizzo per il nuovo ampio spazio vuoto che ne risultò. Alla fine, nel 1931, seguendo una proposta del vecchio archeologo Corrado Ricci, furono costruite due «esedre verdi», due aiuole curve guarnite con gradini e pini marittimi, per sostituire gli edifici distrutti. La folla affluì nelle strade principali e, nonostante l’oscuramento, una dopo l’altra le persiane si aprirono, mentre le notizie si accavallavano. Ricorda Sasà Bentivegna:


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Roma occupata 1943-1944 Uscii sul balcone, la città era oscurata. D’improvviso nel buio della notte, una finestra si spalancò luminosa, poi un’altra, un’altra ancora. Gli italiani si affacciavano. Poi, nella notte, un uomo urlò con tutto il fiato che aveva il corpo che prorompeva a soffocarne la voce, «Viva la libertà!». Non dimenticherò più quell’urlo, quella invocazione, quella voce roca, strozzata. Ormai tutte le finestre erano aperte. Le lampadine rovesciavano la loro luce sulle strade dove i lampioni schermati di blu, l’oscuramento, la guerra perfino, finivano con lo scomparire. Altre voci si unirono alla prima, risposero in un dialogo urlato verso il cielo, e gli uomini si chiamarono e si incontrarono e si abbracciarono, scesero nelle strade e si rovesciarono in fiumane sempre più grandi verso il centro. Il fascismo era finito e non sarebbe tornato mai più.10

Una giornalista svizzera, M. de Wyss, descrisse la stessa emozione popolare: Ascoltando le notizie, le persone scesero in strada come si trovavano: in vestaglia, in pigiama, alcuni in pantaloni corti e a torso nudo, alcuni in pantofole, altri a piedi scalzi, tutti ululanti, ridenti, urlanti. Ansanti e affannati, ridevano e piangevano e si abbracciavano. Buttavano giù le immagini del Duce e ci sputavano sopra. Una vecchia che aveva perso il marito in una prigione fascista e due figli in Abissinia e in Sicilia, arrivò di corsa, portando un ritratto di Mussolini sulla testa e urlando: «È tutto quello che ho, è tutto quello che ho». Quindi lo scagliò a terra e lo calpestò, raggiungendo con la sua gioia punte di isteria.11

Un rapporto di polizia del giorno seguente parla di incidenti e di disordini per tutta Roma, con la folla che riuscì a entrare nella prigione di Regina Coeli, nel quartiere di Trastevere, facendo scappare «416 donne e circa 1150 uomini, quasi tutti criminali comuni», e altre irruzioni negli uffici locali del Partito fascista, con la distruzione di immagini di Mussolini e il danneggiamento di dipinti murali, un atto dichiaratamente antifascista, data la centralità degli affreschi nello «stile fascista». Il maresciallo Badoglio agì rapidamente per reprimere altri eccessi e rimandò gli impiegati statali al lavoro, ma l’atmosfera di festa permase per molti altri giorni, prima che la realtà tornasse a farsi sentire.

villa torlonia

Da piazza Venezia prendete l’autobus 60, direzione largo Pugliese, e scendete alla quinta fermata Nomentana/Regina Margherita. Camminate per due isolati lungo via Nomentana fino all’ingresso di Villa Torlonia.


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L’ottocentesca e meravigliosa villa torlonia (apertura: tutti i giorni dalle 7 al tramonto) ha attraversato, nella sua vita relativamente breve, molte fasi drammatiche. Originariamente era un terreno di proprietà dei Pamphilj, passato in seguito alla ricca e potente famiglia principesca dei Colonna. All’inizio dell’Ottocento fu acquistata dalla famiglia Torlonia. Di origine francese, grazie a una combinazione di profitti di guerra e speculazioni finanziarie, avevano scalato metodicamente i gradini della società romana comprando titoli nobiliari, antichità e soprattutto proprietà in ogni dove. Per consolidare la propria posizione sulla scena romana il capostipite, Giovanni Torlonia (1754-1829), decise di costruire un buen retiro di lusso fuori città per rivaleggiare con la nobiltà più importante, i Borghese e i Pamphilj. Inseguendo questo sogno, commissionò il lavoro a Giuseppe Valadier, il più grande architetto dell’epoca, che aveva lavorato per Napoleone e che abbiamo già incontrato come autore del cimitero di Campo Verano. Il compito di trasformare il casino di caccia progettato da Va-


Benito Mussolini Nato a Predappio nel 1883, da una famiglia proletaria e socialista, Mussolini cominciò giovanissimo la sua attività politica nel Psi. Nel 1912 riuscì ad arrivare ai vertici del partito grazie alla sua linea politica estremista e rivoluzionaria e alla sua capacità retorica e propagandistica. Nel 1914 scelse di schierarsi per l’intervento dell’Italia nella Prima guerra mondiale nonostante la linea del partito fosse improntata al più deciso neutralismo. Cacciato dal Psi, fondò un giornale, il Popolo d’Italia, che rimase il suo personale organo di informazione fino al 26 luglio 1943. Dopo aver partecipato alla guerra con il grado di caporale, Mussolini fondò a Milano, il 23 marzo 1919, il movimento dei Fasci di Combattimento, che riuniva un piccolo gruppo di reduci ferocemente antisocialisti. Dopo un inizio stentato, grazie all’alleanza con le fasce più retrive del capitalismo agrario italiano, il fascismo assurse al rango di forza politica di primo piano, arrivando a contare decine di migliaia di «squadristi», ovvero di aderenti alle squadre paramilitari specializzate nella violenza contro gli organizzatori sindacali socialisti e cattolici. Nel 1922 il re, dopo una farsesca marcia su Roma promossa dai fascisti organizzati nel Partito nazionale fascista, gli diede l’incarico di formare un nuovo governo, sperando di interrompere così le violenze che avevano caratterizzato il Dopoguerra. In breve però Mussolini riuscì a trasformare il proprio governo in un vero e proprio regime totalitario, eliminando tutte le libertà garantite dallo Statuto

albertino. Il successo continuo della politica estera (Patti lateranensi del 1929, conquista dell’Etiopia nel 1936, occupazione dell’Albania nel 1939) e una propaganda che ne faceva oggetto di culto convinsero Mussolini di essere realmente infallibile. Così nel 1940 decise di entrare in guerra al fianco della Germania. La guerra si rivelò ben presto un disastro e nel luglio del 1943 l’Italia aveva perso tutte le colonie, la Sicilia era stata invasa e le maggiori città erano state semidistrutte dai bombardamenti. Il 26 luglio fu arrestato per ordine del re ma il 12 settembre venne liberato dai tedeschi. Hitler lo volle a capo della rinata Rsi. Il 25 aprile del 1945, durante l’insurrezione generale voluta dalla Resistenza, Mussolini tentò di fuggire ma fu intercettato dai partigiani e, il 28 aprile, fu fucilato. Il suo cadavere, assieme a quello di altri gerarchi fascisti e della sua amante, Claretta Petacci, fu appeso per i piedi a un traliccio di piazzale Loreto, a Milano, ed esposto al pubblico ludibrio.


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ladier – un edificio relativamente modesto – in una grande villa patrizia toccò a Giovanni Battista Caretti (1803-dopo il 1850). Questi assunse il compito di ristrutturare il casino nobile (l’edificio principale della villa), tra il 1832 e il 1840 per il figlio di Giovanni, Alessandro Torlonia (1800-1886). I discendenti costruirono molti altri edifici nel terreno della villa, con il risultato che nel 1925 il complesso aveva anche un teatro privato, una serie di serre e due obelischi di granito realizzati espressamente per la famiglia. In quell’anno il principe in carica, Giovanni ii Torlonia, un uomo estremamente riservato, decise di affittare la villa al capo del governo, Benito Mussolini, a un prezzo simbolico. Il principe si ritirò in un altro edificio del complesso, la particolarissima casina delle civette, che decorò con delle finestre di vetro piombato in uno straordinario stile liberty, con ebanisteria e mobili che riportavano in maniera esasperata disegni delle creature notturne: gufi, civette e pipistrelli. Affittando al duce, il principe non faceva altro che seguire la tradizionale politica della famiglia, di rimanere sempre molto vicina al potere: sotto Napoleone la famiglia era intensamente francofila, quando il potere tornò nelle mani del papato i Torlonia furono tra i primi a prestare i soldi per ristabilire le finanze vaticane, quando il Regno d’Italia mise la parola fine al potere temporale del successore di Pietro, superarono anche questa difficoltà con eleganza. Ora era il turno del leader fascista. La villa aveva languito per oltre venticinque anni in uno stato di relativo abbandono e il dittatore poté dire di aver riportato il Casino Nobile e molti degli altri edifici a nuova vita. Mussolini fece fare numerosi cambiamenti alla villa e al suo parco, costruendo un maneggio, trasformando l’area della giostra in un campo da tennis e includendo una terrazza sul primo piano del casino al fine di congiungere le due ali del piano superiore dell’edificio, per non menzionare gli enormi lavori di scavo necessari alla costruzione di un bunker ispirato all’esempio di Hitler, per ogni evenienza. Mussolini amava moltissimo lo sport e in particolare l’equitazione: il suo cameriere, Quinto Navarra, racconta che ebbe molti cavalli, battezzati con nomi piuttosto singolari, quali Aprile, Gombitor, Zibudoff e Ned. La moglie, Donna Rachele, odiava invece la villa che trovava troppo sontuosa e la chiamava, polemicamente, «il museo». Mussolini usò raramente la villa per eventi pubblici o ufficiali, anche se, per dimostrare il suo particolare favore, accoglieva i dignitari stranieri proprio a Villa Torlonia. Rimase famoso il suo commento alle leggi razziali – da lui volute nel 1938 e che escludevano gli ebrei dalla società italiana – secondo il quale «gli ebrei storicamente non avevano posto sul suolo italiano», sapendo benissimo che nel terreno della sua stessa villa esisteva un’antica catacomba ebraica scoperta nel 1918.


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Fu molto attento nel mantenere il suo ménage familiare il più normale possibile. Ovviamente, però, i figli avevano una vita estremamente controllata: venivano accompagnati a scuola da due agenti di polizia e il pomeriggio nella villa arrivava il gruppo degli amici, sempre gli stessi, accuratamente selezionati per far divertire i rampolli del duce. Il matrimonio di sua figlia Edda con il conte Galeazzo Ciano fu celebrato qui il 24 aprile 1930. Anche se è difficile da credere, nessuno della famiglia sembrò aver nulla da dire quando Mussolini sistemò la sua amante Claretta Petacci in un edificio nell’angolo più remoto della proprietà, il villino rosso. La villa soffrì terribilmente subito dopo la guerra. Nel giugno 1944 fu requisita dal comando angloamericano, che la usò come base militare. Gli Alleati distrussero gran parte del mobilio e delle decorazioni, e quando se ne andarono, la famiglia Torlonia, ancora proprietaria della villa, decise di chiuderla anche a causa della confusione della situazione legale, dato che Giovanni ii era morto nel 1938 senza eredi diretti. La villa rimase completamente abbandonata per decenni, preda di vandali e di ladri che fecero piazza pulita di quel poco che ancora si poteva portar via. Anche gruppi neofascisti si diedero all’asportazione di cimeli. I nostalgici del regime utilizzavano la villa per raduni notturni, così come i ragazzini in cerca di avventure. Final-

Sopra, il lato est del Casino Nobile in Villa Torlonia, oggi. Sotto, Mussolini davanti allo stesso portico, nel 1930.


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mente il Comune di Roma nel 1978 espropriò la villa, poiché i proprietari non mantenevano con la necessaria cura gli edifici neoclassici, e aprì il parco al pubblico, recintando tutte le costruzioni. Per molti anni gli edifici marcirono, ignorati come se fossero invisibili. Negli anni novanta, finalmente, cominciarono i lavori di restauro, dapprima nella Casina delle civette che è stata convertita in un museo del vetro piombato aper- L’elegante facciata del Casino Nobile, dopo i to nel 1997, quindi furono interessati recenti restauri. anche gli altri edifici e più recentemente lo stesso Casino Nobile, che è stato inaugurato nell’autunno 2006 con il nome di museo di villa torlonia (apertura: dall’ultima domenica di marzo al 30 settembre dalle 9.00 alle 19.00; dal 1º marzo all’ultimo sabato di marzo e dal 1º ottobre all’ultimo sabato di ottobre dalle 9.00 alle 17.30; dall’ultima domenica di ottobre al 28 febbraio dalle 9.00 alle 16.30. Biglietteria all’ingresso principale della villa). Nella dolorosa storia della relazione di Roma con il suo passato fascista, l’apertura di questo museo segna l’inizio di una nuova fase. Nel 1978, quando il parco della villa fu aperto al pubblico, non c’era alcuna menzione del fatto che fosse stata la residenza di Mussolini per quasi due decadi. Oggi invece il museo mostra alcuni pannelli che raccontano la vita della famiglia Mussolini nella villa, e la visita include anche un breve filmato del figlio del duce, Romano, registrato poco prima della sua morte, che cammina dentro il casino semidistrutto (prima dell’inizio dei lavori di restauro) e descrive com’era la vita quotidiana allora. Sembra che il ménage fosse piuttosto austero, nonostante le sontuose decorazioni, con pasti frugali e con un’unica stanza da bagno per tutta la famiglia. Romano ha una forte somiglianza con il padre e per questo sembra di vedere il dittatore passeggiare per le stanze dando allo spettatore un’immagine estremamente vivida ed efficace della storia di quei giorni. Al piano superiore, l’indiscussa protagonista della mostra è la stanza da letto di Mussolini con i suoi mobili originali, l’unica completa di tutta la casa. È stata messa al sicuro dopo la caduta di Mussolini e scoperta in alcuni magazzini statali grazie a delle ricerche d’archivio particolarmente pignole. Il mobilio non ha nulla a che fare con l’elegante design Art Déco dell’avanguardia artistica fascista. Era una parte del mobilio originale dei Torlonia, realizzato con lo scuro e pomposo legno lavorato del xix secolo.


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Mussolini tornò dalla riunione del Gran consiglio alle quattro circa del mattino del 25 luglio 1943. Sua moglie, Donna Rachele, dopo aver saputo come era andata la riunione, esclamò: «Spero che tu li abbia arrestati tutti!». Mussolini rispose che l’avrebbe fatto il mattino dopo. «Domani potrebbe essere troppo tardi» rispose asciutta Donna Rachele, ma il dittatore se ne andò a letto. Il mattino dopo si recò al lavoro nel suo ufficio di Palazzo Venezia e quindi ritornò come al solito a pranzo nella sala di alessandro, una delle più belle della villa. «Il popolo è con me» disse alla moglie, dando un’interpretazione completamente errata dello spirito pubblico. Egli spiegò alla moglie che avrebbe avuto un colloquio con il re nel pomeriggio che avrebbe risolto la crisi causata dal voto del Gran consiglio. Donna Rachele, rappresentando il ruolo di Calpurnia con il Cesare-Mussolini, lo pregò di non andare a Villa Savoia. Disse di aver avuto un presagio. Mussolini borbottò: «Il re è mio amico». Sarebbe stato il suo ultimo pasto a Villa Torlonia. villa savoia (oggi villa ada)

Dall’ingresso principale di Villa Torlonia, prendete l’autobus 90 all’angolo con via Alessandro Torlonia fino alla fermata di viale xxi aprile. Qui prendete l’autobus 310 fino a via Panaro. Continuate a piedi lungo via Panaro poi per via Anapo fino all’angolo con via Salaria. Dall’altra parte della strada si vede il muro che circonda Villa Ada (l’ex Villa Savoia). Girate a destra su via Salaria e troverete l’ingresso della villa dopo due isolati, all’altezza di via Nera.

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Il vasto spazio verde di villa savoia (apertura: tutti i giorni dalle 7 al tramonto) fu in origine proprietà del Collegio irlandese, la scuola romana per preti irlandesi. Poco prima del 1800 il collegio vendette la terra al principe Pallavicini, che lo trasformò in un’elegante villa suburbana. Vi costruì la sua residenza, il casino pallavicini, e la kaffeehaus, un arioso padiglione per prendere il caffè nel pomeriggio, la grande ossessione del xviii secolo. Questi edifici esistono ancora: il casino accanto al muro di cinta su via Salaria, e la Kaffeehaus, ora chiamata il Tempio di Flora, nei pressi del laghetto ornamentale. I Pallavicini vendettero alla famiglia Potenziani e nel 1872 la famiglia reale italiana acquistò la proprietà per farne la propria residenza privata. Il re Vittorio Emanuele ii ordinò una colossale ristrutturazione degli spazi della villa, comprando i terreni del vicinato per farne un parco da caccia e per far assomigliare il panorama a quello di una campagna inglese. Il re sembrava voler emulare la vicina Villa Torlonia: ordinò un nuovo edificio per sé e la sua famiglia, abbastanza simile a quello di Villa Torlonia, insieme a stalle, una «capanna svizzera» analoga alla Casina delle civette, e una torre neogotica. Dopo la morte di Vittorio Emanuele ii, i Savoia decisero di cedere la villa al conte svizzero Tellfner, l’amministratore capo delle proprietà reali, il quale ribattezzò la villa con

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Sopra, l’ex Villa Savoia vista dal giardino all’italiana. Sotto, la Kaffeehaus, nell’attuale stato di notevole degrado.


Vittorio Emanuele iii Terzo re d’Italia, Vittorio Emanuele iii era succeduto al padre, ucciso da un anarchico a Monza nel 1900, all’età di trentun anni. I suoi primi passi come capo dello stato furono improntati da caute aperture democratiche. Tuttavia, dopo la guerra, fu uno dei maggiori responsabili dell’avvento del fascismo quando, il 28 ottobre 1922, si rifiutò di firmare il decreto di stato d’assedio che avrebbe potuto bloccare la cosiddetta Marcia su Roma dei fascisti. Durante tutto il Ventennio del regime fascista tenne un atteggiamento piuttosto riservato, cercando di non esporsi troppo, anche se accettò sia tutti i titoli e gli onori datigli dal fascismo (il titolo di imperatore d’Etiopia nel 1936, di re d’Albania nel 1939) sia le non poche umiliazioni che il duce, che mal sopportava di dividere il potere, gli inflisse. Non si rifiutò nemmeno, nel 1938, di firmare le infami leggi razziali che rappresentano una macchia e una vergogna incancellabile nella millenaria storia della civiltà italiana. Soltanto le terribili conseguenze della guerra, e soprattutto i bombardamenti su Roma del 19 luglio 1943, convinsero il re a liberarsi di Mussolini e del regime fascista. Il colpo di stato veniva considerato dall’entourage reale come l’unico mezzo per sganciare l’Italia dalla Germania e salvare in qualche modo la monarchia. Il re, il 9 settembre, si diede a una precipitosa fuga assieme a Badoglio e a parte del governo, consegnandosi nelle mani degli inglesi. Per i primi

giorni dopo il suo arrivo a Brindisi l’ormai ex imperatore d’Etiopia era ridotto a regnare su un territorio che contava soltanto le quattro province pugliesi. Dopo la liberazione di Roma Vittorio Emanuele iii consegnò il potere al figlio, Umberto ii, che assunse la carica di luogotenente generale del regno. In un estremo tentativo di salvare la casa regnante sul trono, a un mese dal referendum popolare che avrebbe deciso del futuro assetto istituzionale italiano, nel maggio del 1946, l’anziano monarca si decise ad abdicare, dopo ben 46 anni di regno. Andò in esilio ad Alessandria di Egitto, dove morì, non rimpianto dal suo paese, nemmeno due anni dopo, il 28 dicembre 1947. La sua salma riposa nella cattedrale della città egiziana.


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il nome di sua moglie, Ada, nome con il quale la villa è tuttora conosciuta. Il conte fece bancarotta e la villa finì nelle mani delle banche che la rivendettero ai Savoia nel 1904, i quali la fecero tornare alla sua funzione originaria di residenza privata del sovrano. Dalla terrazza dell’edificio principale Vittorio Emanuele iii rimirò gli aerei nemici, la mattina del 19 luglio 1943, esclamando con ammirazione: «Guarda come volano in formazione, è come una parata! Formazione perfetta! Non un solo caccia in aria. Dove sono i nostri? Che gli è successo?». Il 25 luglio 1943, verso le 5 di pomeriggio, il corteo di macchine di Mussolini (la sedan del duce e altre tre vetture cariche di poliziotti e aiutanti) entrò nel parco di Villa Savoia. Mussolini fu accolto sui gradini della villa dal re in persona, mentre la scorta si allontanava. Cinquanta carabinieri erano nascosti tra le siepi vicine. Il sovrano condusse il dittatore in uno studiolo nell’angolo del pianterreno, dove i due ebbero un colloquio a quattr’occhi. I dettagli emersi dello storico incontro sono vaghi e contraddittori. Mussolini in seguito raccontò che il re gli disse che era diventato l’uomo più odiato d’Italia e che aveva in Vittorio Emanuele l’unico amico rimasto. Il re disse che Mussolini, dopo aver sentito queste parole, sembrò crollare, dicendo: «Questa è la mia rovina». Ciascuno dei due disse che l’altro tremava durante il colloquio. Il re concluse balbettando «Mi dispiace… mi dispiace» e accompagnò Mussolini fuori. Aveva appena dimissionato il dittatore. Sulla porta si scambiarono qualche parola sul tempo. Il re si girò e tornò in casa. Una volta fuori Mussolini incrociò un capitano dei carabinieri il quale, affermando di aver ricevuto l’ordine di proteggerlo, lo caricò su un’autoambulanza. Mussolini tentò di protestare ma vedendosi circondato da carabinieri, capì di non aver alcuna possibilità. L’ambulanza arrivò in una caserma nei sobborghi dietro San Lorenzo. Il re aveva fatto l’impensabile: aveva arrestato il dittatore. L’edificio dove si svolse questo ultimo incontro è adesso l’ambasciata egiziana e quindi non è possibile visitare la stanza dove ebbe luogo il drammatico faccia a faccia. L’aspetto del parco è stato modificato rispetto al passato e dovrebbe essere quasi del tutto irriconoscibile per un visitatore degli anni trenta. La nuova costituzione della Repubblica italiana postbellica prevedeva l’espropriazione di tutti i beni dell’ex re, ma poiché Vittorio Emanuele iii morì tre giorni prima dell’entrata in vigore della costituzione, la proprietà passò ai suoi eredi e potenzialmente poteva essere esente dall’esproprio. Una lunga azione legale tra lo stato italiano e gli eredi del re non ha ancora deciso la sorte di gran parte della proprietà.


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villa badoglio

Da via Salaria tornate verso il centro per sette isolati e girate a destra in via Bruxelles, proseguendo fino al numero 56.

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Parte di villa grazioli lante della rovere, una villa gentilizia del tardo xix secolo a sudest di Villa Ada, fu acquistata dallo stato italiano nel 1937 e data all’eroe di guerra Pietro Badoglio come forma di gratitudine per aver conquistato l’Etiopia. La posizione della rinominata Villa Badoglio, molto vicina alla residenza reale, fu un segno di grande favore. Il riconoscente stato italiano commissionò un moderno edificio all’architetto romano Clemente Busiri Vici (1887-1965), proveniente da una dinastia di architetti, uno dei quali aveva lavorato alla costruzione della grandiosa Villa Pamphilj, sull’altra sponda del fiume. Pietro Badoglio, che aveva ricevuto il roboante titolo di duca di Addis Abeba, volle orgogliosamente


Pietro Badoglio

Pietro Badoglio è una delle più controverse figure della storia italiana. Importante generale durante la Prima guerra mondiale, anche se molto criticato per la sua non mai chiarita responsabilità nella disfatta subita dall’esercito italiano a Caporetto, nel 1917, assunse le più alte cariche militari durante il fascismo. Protagonista della repressione della ribellione libica tra il 1922 e il 1930, capo di stato maggiore generale fino al 1940, arrivò al culmine della fama con la guerra d’Etiopia. Nel 1936 Badoglio aveva sostituito il generale De Bono alla testa delle truppe operanti in Africa orientale e ai primi di maggio del 1936, con una spericolata azione poi celebrata in toni quasi isterici dal fascismo, era riuscito a conquistare Addis Abeba, la capitale dell’Impero d’Etiopia. Negli anni successivi fu colmato di onori da parte del regime, che lo insignì dei titoli di maresciallo e di duca di Addis Abeba. Nel 1940 fu coinvol-

to nella disastrosa campagna di Grecia. Attaccato dalla stampa fascista, diede le dimissioni. Il re lo volle nuovo capo del governo dopo il colpo di stato del 25 luglio, per sostituire Mussolini. Nonostante il suo primo comunicato come nuovo presidente del consiglio dei ministri finisse con la frase «la guerra continua», Badoglio cominciò subito i colloqui con gli Alleati per sganciarsi dall’alleanza con la Germania e firmare l’armistizio. Tentò in tutti i modi di trascinare le trattative, terrorizzato dall’eventuale reazione tedesca, e finalmente fu costretto a rendere pubblico, l’8 settembre 1943, l’armistizio firmato a Cassibile, in Sicilia, cinque giorni prima. Il suo comportamento, e quello delle massime cariche dello stato, nelle ore successive, rimane una delle più gravi vergogne nella storia d’Italia. Badoglio, il re e parte del governo e dello stato maggiore fuggirono da Roma lasciando i soldati senza comandanti; arrivarono a Pescara e si imbarcarono su un cacciatorpediniere che li portò a Brindisi. Le truppe italiane si sbandarono e furono preda della vendetta tedesca. Seicentomila soldati furono presi prigionieri e internati in Germania, quelli che si opposero alla Wehrmacht, come la divisione Acqui, di stanza sull’isola greca di Cefalonia, furono massacrati. Badoglio rimase comunque tetragono al suo posto, nonostante il suo nome fosse diventato, per molti italiani e stranieri, sinonimo di traditore, fino alla presa di Roma da parte degli Alleati, il 4 giugno 1944. Diede allora le dimissioni e si ritirò a vita privata. Morì nel 1956.


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far iscrivere il testo del suo telegramma che annunciava la vittoria in Etiopia sulla facciata dell’edificio, che oggi è l’ambasciata della repubblica cinese (non aperta al pubblico): «Oggi alle ore 16, 6 maggio 1936, sono entrato a Addis Abeba». L’iscrizione non è più visibile. In questa villa, nella notte tra il 7 e l’8 settembre 1943, all’una di notte circa, Badoglio, capo del governo, incontrò segretamente il generale americano Maxwell Taylor. L’armistizio era stato firmato ma non ancora annunciato (Eisenhower voleva che l’annuncio fosse divulgato via radio la sera successiva, alle 18.30) mentre Hitler, che non aveva mai avuto fiducia nella volontà italiana di continuare la guerra al suo fianco dopo la cadu- Una delle Vittorie posta sulla facciata di ta di Mussolini, aveva spostato dodi- Villa Badoglio. ci divisioni nella penisola. Badoglio, in pigiama, disse all’attonito generale che il concordato lancio di paracadutisti di truppe americane sulla capitale sarebbe stato insufficiente a difendere la città dato il rafforzamento dell’esercito tedesco. Il maresciallo insistette per far posporre o abbandonare definitivamente il piano americano per conquistare Roma con un raid fulmineo. Taylor, disgustato da questo comportamento, cancellò il lancio di paracadutisti e Roma fu lasciata alla mercé dei tedeschi. Villa Badoglio non sembra che abbia portato particolare fortuna ai suoi occupanti. Dopo la morte di Badoglio, nel 1956, la villa fu affittata. Il suo inquilino più famoso, nel 1957-1959, fu il tenore Mario Lanza, che si trovava a Roma per girare un film. Morì a Roma, all’età di trentotto anni, in circostanze misteriose: dato che aveva appena cancellato un concerto a Napoli, sponsorizzato dal noto gangster Lucky Luciano, alcuni suoi familiari ritennero che la sua morte fosse stata causata da una vendetta della mafia.


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