Davide Rondoni
contro la letteratura Poeti e scrittori Una strage quotidiana a scuola
Le crisi dell’insegnamento non sono crisi di insegnamento; sono crisi di civiltà Charles Péguy L’immaginazione è la sorgente della ragione Giacomo Leopardi I tiepidi saranno vomitati dalla bocca di Dio Bibbia Un poeta vivente? Ehi ragazzi, guardate! Studenti in una scuola
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Facoltativo. Se dici questa paroletta vien giù un sistema. Facoltativo, cioè libero. Lo vorrei così l’insegnamento della letteratura nella scuola superiore. Per far saltare, con la leggerezza di un gesto di danza o di un colpo d’ali di farfalla, il sistema che sta uccidendo la letteratura tra i nostri ragazzi. E non ditemi che non è vero. Lo dico, lo ripeterò: non ce l’ho con la scuola, né coi professori in generale. Troppo facile. Ma è che amo certi capolavori, che sono poi capolavori «nostri». Ce l’ho con chi li tratta male. Con la mite prof dagli occhi da killer. E siccome mi fido del fatto (perché l’ho veduto) che la bellezza dei capolavori interessi e parli anche ai nostri figli e al loro spirito fantastico voglio puntare tutto sulla loro libertà. E sulla libertà degli insegnanti. Chiamatela pure: folle, allegra stima nei confronti di ragazzi e insegnanti. Perché la letteratura ha a che fare con la libertà. Leggere non può che essere un atto libero. Una specie di amore. E dunque a una certa età, da quando ci si
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avvia a uscire dall’obbligo scolastico (e ci si incomincia a innamorare sul serio) a quattordici, quindici anni, partiti per la grande avventura dell’adolescenza, si deve uscire dalla letteratura come obbligo. Si entra nel momento in cui si legge perché persuasi che farlo sia bello, sia un piacere, un bene. È l’unico modo, a mio parere, per uscire dalla strage. O se vi urta la parola troppo forte, invece di strage chiamatelo «oblio». Più della metà degli italiani d’età sopra i sei anni non legge un libro all’anno. Quasi la metà dei ragazzi tra i sei e i diciannove anni non legge neanche un libro eccetto quelli scolastici. Lo vedo, vacilla, trema tutto, sobbalza colpito. Mi sembra uno di quei personaggi nei film western o di azione: crivellato da una mitragliata o da una pioggia di pallottole viene ferito, si curva, si rialza, fa piroette, allarga le braccia tutto scosso. Eppure sembra non dover cadere mai. Resiste, non crolla, nonostante la potenza di fuoco. Una specie di danza magica? Lo riconosco a malapena: potrebbe essere Manzoni, o forse Alfieri, Leopardi. O uno degli altri nostri autori. Sono ancora in piedi, ma si agitano tra i colpi. Da dove sparano? Chi è il cecchino? Sta in agguato nell’ombra? È un pericoloso terrorista? — 14 —
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No. I nostri autori sono fatti fuori dalla scuola. La pistola fumante è appostata sul portone di ingresso di tante scuole medie superiori italiane. La sentenza di morte è eseguita nelle aule e nei corridoi ufficialmente preposti a conservare e a tramandare quelle lancinanti e meravigliose bellezze. È proprio lì che li accoppano. Ve lo confermerà il novanta per cento di coloro che si sono dovuti «sorbire» la letteratura a scuola. E che poi magari l’hanno dovuta «riscoprire dopo». La prof ha gli occhi da killer. E spesso ha la voce noiosa e distaccata di certi killer di mafia. Eppure la letteratura a detta di tutti è un grande bene. Un bene comune. Addirittura scritto con la maiuscola nelle manifestazioni, nei programmi di studio e in quelli televisivi: Letteratura, Poesia… A volte pure con lo svolazzo di patetici ghirigori di calligrafia. Presentata spesso con imbarazzanti immagini in dissolvenza tra veli, esseri angelici, rugiade e acque. Che starebbero a dire: purezza. O: anima. Insomma le cose importanti (immaginate così dagli amanti delle velature rugiadose, sob!). Fanno gli svolazzi di calligrafia sul suo nome e intanto le calpestano il viso, la sfigurano a calci. Gli si dedicano cattedre in tutte le scuole superiori dello Stato, con gran dispendio di soldi pubblici. E intanto le si lega le ali. — 15 —
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Dicono proprio tutti che si tratta di uno degli elementi che caratterizzano di più la cultura e il volto d’Italia. Di questo paese di cui si intende celebrare il centenario dell’Unità. In effetti, un pugliese e un friulano non hanno molte altre cose in comune oltre al giusto orgoglio di essere connazionali di Dante, o di Michelangelo, o di Leopardi e Ungaretti. La nazionale di calcio, ok. Anche se c’è qualche pirla che dice di non tifarla, e guarda un po’ si tratta quasi sempre di estremisti politici che, su fronti opposti nell’agone pubblico, si ritrovano per questo comune dispregio. Proprio non li capisco. Io (l’ho già scritto altrove, lo ripeto sempre) quando vedo la nazionale giocare non posso fare a meno di vedere Raffaello Sanzio battere la punizione con effetto, stravedo come un folle o un ubriaco felice Leonardo (l’umanista non il milanista) in panchina. Dante fa girare la palla, insieme al giro dei pianeti e dei beati, Caravaggio fantasista avanzato, Ungaretti uomo gol con la grinta di quei nostri attaccanti da zampata finale (Anastasi, Rossi, Inzaghi) e scattare un Pergolesi sulla sinistra con l’eleganza strana di un Grosso o dell’indimenticabile Domenghini… In questo paese si parla molto di grandi riforme. Della Costituzione, dell’architettura federale, del fisco. In molti, tra politici e opinionisti, si riempiono la bocca di tale necessità. Speriamo le facciano. Ma io credo che comunque senza una riforma del modo di — 16 —
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insegnare letteratura siamo spacciati. Destinati a perire come paese. Potremmo dividerci in stato federale oppure no. E avere il fisco, la magistratura, le regioni o le scuole organizzate in un modo o nell’altro. Ma se non verrà riformato radicalmente il modo con cui stiamo trasmettendo ai nostri ragazzi la poesia e la letteratura – e più in generale l’arte – siamo destinati a sparire. Perché è destinato a sparire il gusto della nostra lingua profonda e la poesia dell’Italia. Si corroderà del tutto il gusto, corrodendosi del tutto l’anima. In queste pagine parlerò di questo killer dagli occhi di mite professoressa. Lo guarderò dritto nelle pupille. Mi rivolgo in particolare alle scuole superiori. Perché se è vero che la partita del prender gusto per le parole, per il leggere e per lo scrivere, si gioca in modo importante negli anni precedenti della formazione di bambini e ragazzi, è però alle superiori che i nostri giovani tremendi e magnifici incontrano veramente la letteratura cominciando a maturare più coscientemente le domande, le inquietudini, le questioni che li accomunano a quanto emerge nelle opere. È alle superiori che si dice: mi interessa. Oppure: bleah! Farò una proposta alla prof dagli occhi da killer, la trovate delineata più precisamente nel capitolo «Gran Proposta»: rendere facoltativo l’insegnamento della letteratura nelle scuole superiori. Dev’essere propo— 17 —
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sto ai ragazzi, certo, ma in seguito, dopo le prime settimane o mesi, devono essere lasciati liberi di voler proseguire le letture guidate dall’insegnante. Se quell’insegnante è bravo, verrà di certo seguito. Se no cambi mestiere. Quello che andrò dicendo per tutto il maledetto libretto che tenete tra le mani e che mi sta procurando un sacco di guai vale per la letteratura come per l’educazione all’arte più in generale, per quella materia che viene chiamata storia dell’arte. Nella mia idea, come l’educazione alla letteratura anche l’educazione all’arte dovrebbe avvenire in modo facoltativo. Dev’essere proposta, certo. Ma in seguito lasciata al dramma della persuasione. Alla libertà. Senza la quale l’esperienza della letteratura si atrofizza. Il verbo «leggere», ha scritto Daniel Pennac, non sopporta l’imperativo. Fastidio condiviso con altri verbi quale «sognare», «amare»… È una sfida, lo so. Ma la prof dagli occhi da killer va sfidata ora e radicalmente. Sapendo che non si tratta di una persona cattiva. Anzi, è piena di buone intenzioni e di giustificazioni. Per questo è un killer più temibile. E i suoi alleati sono infiniti. Si annidano nei ministeri, nei giornali, nelle aule universitarie. E soprattutto è sua alleata la formidabile pigrizia e la mancanza di coraggio che aleggiano come spiriti inafferrabili in quest’aria che Baudelaire definiva dell’«av— 18 —
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vilimento dei cuori». La pigrizia domina quando il cuore è avvilito. La mia proposta non si basa sull’odio per la scuola. Nessuna buona proposta può nascere dal risentimento. Ma come diceva Ungaretti parlando del suo amato Jacopone, a me interessa l’«estrema soavità», proprio quella «ultima soavità che solo ai violenti è dato di conoscere». Ai violenti intesi come dice la Bibbia, quelli a cui è destinato il cielo. Quelli che non hanno paura di sembrare fuori luogo, o pazzi, o illusi. Che agitano passioni violente non perché sono violenti, ma perché inducono i cultori delle mezze misure a reagire. E quando molti di coloro che amano le mezze misure o si dicono moderati reagiscono – l’ho sperimentato spesso – sono i più feroci. Come quei figuri che pur di non riflettere sulla mia proposta che troppo li mette in questione hanno scritto in giro che la avanzo solo perché vorrei che le mie poesie fossero più lette nelle scuole. Oh leggiadri, vili babbei. Se lo scopo fosse quello, farei un libro ruffiano, mi accorderei ai loro ragionamenti conservatori, e non stamperei questa supplica abissale, svergognata. Il vizio di ritrarre mosso da bassi intenti il proprio interlocutore è l’atteggiamento proprio di chi non conosce più altezza e pensa che tutto stia al suo poco livello. La mia proposta non nasce dalla condanna o dal — 19 —
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risentimento. Ma dalla violenza che conosce la soavità. Nasce dallo stupore, dalla meraviglia di vedere come la letteratura, la buona poesia, i racconti sanno parlare ai nostri ragazzi e come i nostri ragazzi sanno rispondere e gustarli, diventando loro i nostri maghi, gli incantatori che restituiscono luminosa verticalità, e vero splendore alle nostre esistenze. Sono convinto, perché l’ho visto migliaia di volte, che la buona letteratura adeguatamente proposta ai ragazzi crea sempre – anche in quelli più svogliati o nei più bizzarri, e nei tanti stranieri ormai concittadini – un orizzonte di attesa, un’aspettativa di avventura. Un inizio di viaggio dentro di sé. È un grande spettacolo. Una delle cinque, sei cose per cui vale la pena campare. E allora liberiamola. Non chiudiamola in questo processo innaturale e fallimentare. In questo avvilimento. Una crisi di civiltà è sempre una crisi di educazione, scriveva Péguy. E prima di lui Charles Baudelaire diceva appunto che ogni grave crisi non dipende dal venir meno di una o di un’altra istituzione ma «dall’avvilimento dei cuori». Bene, questo è un libro per chi non ci sta ad avere un cuore avvilito. È per chi è disposto a dare la vita per comprendere sempre di più, e sentire sempre di più, e condividere parole come queste: — 20 —
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[…] Pur tu, solinga, eterna peregrina che sí pensosa sei, tu forse intendi questo viver terreno, il patir nostro, il sospirar, che sia; che sia questo morir, questo supremo scolorar del sembiante, e perir della terra, e venir meno ad ogni usata, amante compagnia. E tu certo comprendi il perché delle cose, e vedi il frutto del mattin, della sera, del tacito, infinito andar del tempo. Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore rida la primavera […] Giacomo Leopardi Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
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