Enzo Restagno
SchÜnberg e Stravinsky Storia di un’impossibile amicizia
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Schรถnberg e Stravinsky a tutti quelli che ho amato
Sommario
Introduzione. «Per rendere più viva la storia e quasi storica la vita»
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Berlino 1912
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Vienna e San Pietroburgo
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La musica come arte nazionale – I riti della società pietroburghese – La sindrome del moderno – Da una lettera all’altra – Tre scandali viennesi – L’incontro con Kandinskij – Un biennio indimenticabile – Ustilug – Il successo fulmineo
I due più grandi scandali musicali del secolo
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Un’anteprima con Debussy – Cronache, testimonianze e qualche riflessione – Wien, Wien nur du allein
Venezia 1925
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Stravinsky e Picasso – Dalla parte di Schönberg – Breve elogio della «cricca ebraica»
Parigi 1927 La Suite op. 29 – Nizza, Villa des roses – Dalle Symphonies d’instruments à vent a Oedipus rex – Apollon musagète e l’ombra del sacro – Il declino di Diaghilev – La Sinfonia di salmi – Schönberg e la naturale complessità – Musica contemporanea alla radio – Religiosità e mistero in Balzac – Schönberg e Rilke: un’intesa perfetta – Un dibattito radiofonico – Persona non grata
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America
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E invece a Parigi… – Una voce che viene da lontano – Storie americane intorno a un quartetto – Stravinsky fra Europa e America – Nuovi orientamenti culturali – I relitti del passato arrivano in America – Storia di una sinfonia dimenticata – 1260 North Wetherly Drive – Vivere la musica in America – Tre passi falsi – Altri sfioramenti – Finalmente un incontro, ma da lontano – La civetta e la sfinge – Dalla parte di Stravinsky – Diatribe letterarie – Il cuore antico del presente – Ripensare le proprie opere – La Kammersymphonie e Sigmund Freud – L’ultimo incontro
Le lacrime di Palmdale
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Intermezzo cubista: le stesse cose ritornano
Con l’approvazione del Maestro
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Vacanze romane – La visione del mondo del Canticum sacrum – L’architettura del Canticum sacrum
Nota bibliografica
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Indice delle illustrazioni
435
Indice dei nomi e delle opere
439
Introduzione «Per rendere più viva la storia e quasi storica la vita»
È cominciato tutto a un tavolino del Café Griensteidl; sapevo benissimo che quel caffè letterario viennese non è autentico ma lo hanno ricostruito con una certa cura, e così mi piaceva andare a rileggere i miei appunti in quell’ambiente confortevole e garbato, dove al visitatore fornito di un buon corredo di letture può capitare di vedere lo spazio popolarsi dei fantasmi che abitano benevoli nella sua memoria. Scorrendo le annotazioni che ho raccolto sulla vita del giovane Schönberg e sugli esordi di Stravinsky, mi chiedo come tutti quegli spunti potrebbero trovare una direzione verso la quale convergere che non sia né scontata né monotona. Difficilmente l’idea verrà dalla rilettura di quelle pagine così frammentate e allora tanto vale abbandonarsi al vagare dei pensieri che i passi felpati dei camerieri e la luce discreta delle lampade finiscono col suggerire. La riproduzione del ritratto di Adele Bloch Bauer1 alle mie spalle e i Fiaker che attraverso la finestra vedo parcheggiati sulla Michaelerplatz mi inducono a immaginare quel locale nei suoi anni migliori. Per farlo mi tocca arretrare più di un secolo e così, all’improvviso, mi viene in mente una storia vera che chiama in causa il giovane Schönberg e Hugo von Hofmannsthal. Accadde nell’autunno del 1890, quando l’attore Gustav Schwarzkopf entrò in quel locale in compagnia di un giovanotto di sedici anni con l’in1 Celebre ritratto realizzato da Klimt nel 1907, definito da Jean Clair: «Senza dubbio uno dei più bei quadri che l’arte occidentale abbia prodotto».
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tenzione di farlo conoscere agli scrittori che vi si riunivano abitualmente. Quel ginnasiale bello, elegante e un po’ timido Schwarzkopf l’aveva conosciuto qualche mese prima in una stazione termale dove soggiornava con la famiglia. Leggendo alcune delle sue poesie si era persuaso che il ragazzo fosse un genio; di qui il desiderio di introdurlo nella cerchia del Griensteidl rivelando chi si nascondeva dietro Loris Melikov, nom de plume col quale il supplemento letterario del quotidiano Die Presse pubblicava poesie che già avevano attirato l’attenzione dei lettori più esperti. Loris Melikov era Hugo von Hofmannsthal e Schwarzkopf fu fiero di svelare l’identità del poeta in erba a quei letterati illustri, che lo accolsero con affettuosa ammirazione. Questi gli esordi felici di una carriera iniziata a sedici anni da un enfant prodige che aveva potuto coltivare le sue qualità in una famiglia della migliore società viennese. La seconda parte della storia chiama in causa un altro giovanotto di sedici anni, che col precedente ha in comune solo l’origine ebraica. Si tratta di Arnold Schönberg, che proprio in quell’anno ha dovuto abbandonare gli studi per la morte improvvisa del padre e, per alleviare il disagio materiale della famiglia, si è impiegato presso la banca Werner and Comp. situata in Wipplingerstrasse 31. Il contrasto che caratterizza la nostra storia si fa ancora più acuto se pensiamo che in quella giornata d’autunno in cui Hofmannsthal entrò al Griensteidl, Schönberg era quasi sicuramente nella sua banca curvo su grossi libri contabili. Ormai si è fatta sera; esco dal Griensteidl e penso che la Wipplingerstrasse non è lontana, cinque o seicento metri a occhio e croce: decido di verificare, mi metto in cammino e conto i passi. Non mi sono sbagliato, ma tra il caffè dove i letterati festeggiano la loro preziosa matricola e la stanza coi libri contabili c’è una distanza abissale: Hofmannsthal era destinato a diventare l’interprete più sensibile della crisi dei valori che travagliava la Vienna di quegli anni e sarebbe arrivato fino al punto in cui le parole e le cose smarriscono il loro significato, ma di fronte al baratro del nulla arretrò e divenne il cantore insuperabile della nostalgia. Partendo dalla stessa crisi, nel volgere di pochi anni Schönberg seppe inventare il nuovo con un’energia tale da suscitare il risentimento di coloro per i quali la musica doveva restare un’arte sacra e intoccabile. Durante il percorso compiuto per verificare la distanza fra un luogo e l’altro, l’aria gelida e le sagome un po’ austere dei palazzi agiscono come
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un salubre richiamo alla concretezza: un’idea sempre più pressante mi induce a pensare la musica attraverso quegli edifici, come se invisibili risonanze fossero rimaste attaccate alle pareti e alle volte. Guardando infatti gli oggetti attraverso la musica si può scoprire un’azione reciproca tra ciò che è muto e immobile per definizione e ciò che, pur nella sua volatilità e inafferrabilità, possiede forma e colore. Quegli edifici che si ergono nel centro della città, a saperli guardare, sono ancor oggi i silenziosi custodi di un modo di intendere e ascoltare la vita. Basta osservare le facciate, i portoni, i bow window per comprendere che in quegli interni i suoni erano invitati a seguire un preciso percorso; eppure quella di Schönberg e, più tardi, anche di Stravinsky è la storia della trasgressione delle regole imposte da quei contesti ambientali. Finalmente le annotazioni raccolte nei miei taccuini trovano la loro strada e si dispongono con l’ordine delle tessere di un mosaico: tanto per cominciare presterò la massima attenzione ai luoghi in cui la musica è nata ed è stata pensata, a cominciare dagli studi dei due compositori. Quello di Schönberg l’ho visto tante volte nel centro di studi a lui dedicato,2 dove è stato trasportato da Los Angeles e ricostruito con affettuosa precisione dalla figlia Nuria; quelli di Stravinsky a Clarens e a Morges li ha descritti e analizzati Charles Ramuz con un acume capace di cogliere la connessione spirituale tra il laboratorio e l’opera che vi si foggiò, e l’ultimo, quello di Los Angeles, è stato evocato con precisione fotografica da Nicolas Nabokov. Riflettendo sugli edifici e sulla musica che vi prese forma, riconoscere che il nuovo è nato – ne furono testimoni negli stessi anni Schönberg e Kandinskij – nelle vecchie case di campagna dove i due trascorrevano le loro laboriose vacanze estive. In quegli ambienti quieti vennero alla luce mondi sonori e visivi che avrebbero cambiato le coordinate della nostra sensibilità. Murnau am Staffelsee con Kandinskij, Steinakirchen con Schönberg, la dacia di Ustilug con Stravinsky sono i luoghi in cui è nata la modernità. Ho cercato di rievocarli attraverso le voci dei protagonisti, perché vo2 L’Arnold Schönberg Center si trova a Vienna nel Palais Fanto, un solenne edificio situato in Schwarzenbergplatz 6.
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levo che il racconto assomigliasse a una sequenza di proiezioni fornite di didascalie in grado di raccontare quella relazione fra il dove e il come alla quale nelle cose della musica non si presta di solito molta attenzione. Coi suoi sbalzi imprevedibili il gioco dei contrasti mi ha indotto a lasciare i palazzi viennesi per una serata en plein air dedicata a Stravinsky, ricostruita attraverso frammenti di cronaca che ricordano il copione di una sequenza filmica. Tante volte arrivando a Parigi sono passato in taxi davanti alla Assemblée Nationale senza sapere che lì, sulla riva della Senna, su una chiatta sontuosamente addobbata, una coppia di giovani americani belli e pieni di entusiasmo aveva organizzato una festa in onore di Stravinsky dopo la prima di Les Noces. Si era nel pieno delle années folles e Gerald e Sara Murphy avevano fatto le cose alla grande: c’erano Picasso e Diaghilev, Cocteau e Coco Chanel, Hemingway e Francis Scott Fitzgerald in quella notte del 23 giugno 1923: lo champagne scorreva a fiumi, si ballava, si lanciavano «Urrà» di ammirazione per l’autore del nuovo capolavoro e Stravinsky saltava allegramente attraverso una corona di lauro sorretta dai maîtres de ballet. Sullo sfondo di quella baldoria alla quale partecipano, oltre ai soliti noti, ballerine stupende, beaux gosses, principi diseredati e personaggi stravaganti, si intravedono le ombre mistiche evocate da Jacques Maritain che di lì a poco avrebbero indotto alcune di quelle sagome così frivole a genuflettersi in improvvise conversioni. Da un lato una Parigi folle e incandescente, dall’altro un’Austria e una Germania la cui disperata e corrotta décadence viene raccontata da Stefan Zweig: Schönberg e Stravinsky diventano i poli musicali di quelle società tumultuose, e nella loro musica, sia pure attraverso pensieri e suggestioni diverse, acquista un’importanza crescente l’idea del sacro. I due ci paiono in quegli anni così agitati sempre più lontani e sempre più complementari; ancora non lo sanno, ma il destino tiene in serbo per entrambi la condizione dell’esule. L’emigrazione in America, vissuta e interpretata in maniera diversa dai due più grandi musicisti del secolo scorso, è la soglia attraverso la quale entriamo nel mondo di oggi. Eppure i due compositori che ci hanno guidati verso il mondo musicale contemporaneo nella loro vita si sono incontrati una volta sola, nel lontano 1912. Questo fatto conferisce alla loro
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storia qualcosa di paradossale, come se si trattasse di una non storia trascorsa nell’ignoranza reciproca. Ma sappiamo che non è così: sfioramenti, incontri mancati, vedersi a distanza, magari fingendo di non accorgersi dell’altro; gli amici comuni che erigono barriere ben protette per evitare che i due si incrocino e, a partire da un certo momento, l’azione corrosiva degli esegeti e dei seguaci che alimentano e rendono più aspra la contrapposizione… Tutte queste cose costruiscono una trama in negativo la cui importanza e ricchezza sono difficilmente calcolabili. Sempre più mi sono convinto della necessità di raccontare questa storia di occasioni perdute, di battute caustiche e di omaggi ufficiali. Schönberg e Stravinsky non avrebbero mai potuto diventare amici perché le loro personalità erano troppo forti e contrastanti, ma al di là di un’impossibile amicizia si percepisce in loro un interesse reciproco che non venne mai meno. E ora la più importante delle coincidenze: una di quelle rivelazioni retrospettive che ti costringono a batterti una mano sulla fronte dicendo: «Come ho fatto a non accorgermene quando l’avevo sempre davanti agli occhi?». Quello che ho consultato innumerevoli volte è un poderoso volume intitolato Arnold Schönberg 1874-1951, al quale la curatrice Nuria Nono Schoenberg ha posto come sottotitolo Lebensgeschichte in Begegnungen (Storia di una vita attraverso gli incontri). Questo sottotitolo, preso da un appunto riprodotto in fotocopia nella prima pagina del volume, contiene il progetto di un’autobiografia e indica il metodo che il compositore intendeva seguire nel realizzarla. Schönberg non scrisse mai l’autobiografia progettata, ma il metodo merita la massima attenzione: Già da qualche tempo ho in mente di scrivere una storia della mia vita che si basi, per quanto la memoria me lo consente, sulle persone con cui sono venuto in contatto e sull’interesse che questi incontri hanno suscitato in me. Descriverò queste persone così come mi sono apparse e racconterò con precisione che tipo di relazione è intercorsa fra di noi. Naturalmente non si tratta di un comportamento vendicativo, bensì di un metodo che spero aiuterà la mia memoria. In questo modo affioreranno le relazioni fra le singole persone e gli eventi. Seguendo questo indirizzo credo che dovrei riuscire a raggiungere il massimo di verità possibile, laddove sicu-
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ramente fallirei se cercassi di ricostruire i fatti in base alla loro successione cronologica.3
A lavoro finito mi sono reso conto con soddisfazione di aver applicato il metodo suggerito da Schönberg raccontando due vite attraverso gli incontri. Questo libro non è però una biografia e gli incontri avvenuti in due vite piuttosto lunghe, trascorse parte in Europa e parte in America, furono molto numerosi e altrettanto numerosi i luoghi e gli eventi che entrarono in relazione fra di loro. Schönberg ha perfettamente ragione quando afferma la priorità degli incontri e delle relazioni rispetto alla sequenza cronologica, perché gli eventi si dilatano nel tempo e finiscono col modificare la nozione stessa di tempo, lo occupano e lo plasmano con ritmi esistenziali diversi e questa azione plasmatrice è anche fatta di silenzi e di attese. Il ricordo dal quale sono partito, quello della coincidenza che vede Hofmannsthal e Schönberg agire a cinquecento metri di distanza in contesti tanto diversi, è un tipico esempio di evento costruito sulla lontananza e sull’assenza; ora, il rapporto fra i nostri due musicisti, fondato su un apparente, reciproco ignorarsi, acquista con gli anni un’importanza tale che viene da chiedersi se la lontananza e l’assenza non svolgano talvolta un’azione più penetrante di quella che scaturirebbe dalla vicinanza e dalla presenza. Gli incontri mancati tra Schönberg e Stravinsky costituiscono i capitoli del mio racconto e sono persuaso che nel loro susseguirsi queste occasioni perdute abbiano disegnato una storia il cui esito diventa col passare degli anni sempre più visibile. E tuttavia lo scopo col quale in questo libro sono raccontate tante vicende della vita e delle opere dei due musicisti non è quello di tracciare coordinate storiche, linee di sviluppo e analisi che per altro già esistono. «Rendere più viva la storia e quasi storica la vita» è l’obiettivo che mi sono proposto e per comprenderlo occorre qualche considerazione preliminare. Stravinsky e Schönberg fanno parte del nostro passato prossimo; per 3
Gli autori delle traduzioni delle citazioni sono indicati in calce; quando l’indicazione manca, come in questo caso, ho provveduto personalmente. Si noteranno discrepanze nella grafia di alcuni nomi, è una scelta: i nomi seguono le vicende biografiche dei protagonisti e la bibliografia corrente.
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dirla in termini inequivocabili, appartengono a una generazione di persone che abbiamo o avremmo potuto conoscere personalmente. Le loro opere sono entrate nella storia e da anni sono oggetto di studi accurati, ma sussiste con le loro vite e le loro opere un rapporto di contiguità generazionale che costituisce un momento particolarmente delicato del quale non dobbiamo lasciarci sfuggire l’irripetibile pregio, anche perché non durerà molto a lungo. Tutto sta nella distanza tra la vita e la storia: entrare nella storia vuol dire passare attraverso un filtro in cui le vibrazioni della vita si placano e si sublimano in una cosiddetta oggettività. Si tratta di un passaggio che il tempo rende inevitabile e che coincide col venir meno delle testimonianze dirette: buone, cattive, meschine, interessate, nobili, generose, comunque dettate dall’essere partecipi. Il flusso di queste testimonianze può anche essere fuorviante, e uno dei compiti della storia consiste proprio nel vagliarne l’autenticità e nello scoprirne i moventi, ma tra la vita con tutte le sue scorie e la storia nella sua distillata purezza esiste quella zona intermedia che ho definito contiguità generazionale. Si tratta forse dell’unico miracoloso caso in cui assistiamo all’allungarsi della nostra vita oltre i suoi limiti naturali poiché, grazie alle testimonianze dirette delle generazioni che ci hanno immediatamente preceduti, il nostro tempo si flette all’indietro e ci mette in comunicazione con un’epoca nella quale non eravamo fisicamente presenti. Dopo questa premessa torniamo ai nostri due musicisti: della vita dell’uno e dell’altro conosciamo moltissime cose: i documenti che abbiamo a disposizione – epistolari, diari, autobiografie, opere teoriche, interviste, documentari filmici e radiofonici – costituiscono un elenco quasi interminabile. Tale enorme quantità di informazione, buona o cattiva, faziosa o attendibile – il lettore intelligente saprà distinguere –, è il collante che tiene i due grandi personaggi ancora in sospeso fra la vita e la storia, e questo vuol dire che possiamo osservare l’immensa scena musicale costruita dai due sentendo in essa ancora vibrare i fremiti della vita vissuta. Questo è il senso della contiguità generazionale al quale ho fatto cenno e, per dirla con Proust, essa è «un ponte leggero gettato fra il presente e un passato già lontano che unisce, per rendere più viva la storia e quasi storica la vita, la vita alla storia».4 4
Marcel Proust, Journeé de lecture, in Écrits sur l’art, Flammarion, Parigi 1999, p. 247.
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Per costruire quel «ponte leggero» ho cercato di far parlare il più possibile in prima persona i protagonisti di questa vicenda, ma ho chiamato spesso in causa anche le voci di coloro che in un senso più ampio delle stesse vicende furono partecipi. Talvolta queste voci sono come specchi in cui la stessa epoca accende riflessi diversi nei quali cogliamo improvvisi parallelismi tra le architetture di una chiesa e quelle di una Kammersymphonie, affinità profonde tra i mondi poetici di Rilke e di Schönberg, o la ragione dei contrasti fra Stravinsky, Cocteau e André Gide sull’interpretazione dei miti classici, nonché la perfetta intesa tra la sobrietà espressiva del musicista russo e il pensiero di un poeta-filosofo come Paul Valéry. A questo punto non mi resta che ringraziare, a partire dal mio editore Luca Formenton, tutti coloro che hanno sostenuto il mio lavoro, credendo nell’utilità di un racconto che reimmergesse i due grandi compositori nel flusso della vita. Un pensiero di sincera gratitudine rivolgo anche a quelli che hanno letto un pezzo alla volta questo scritto, comunicandomi suggerimenti preziosi. Si tratta di alcuni amici che desidero ricordare con speciale affetto: Roman Vlad e Licia Borrelli, Francesco Micheli, Hugues Dufourt, Giuseppe Farese, Giovanni Bietti, Sergio Bonazza, Miriam Cipriani, Anna Battaglia e tanti altri con cui mi sono intrattenuto più fugacemente. Grazie a tutti per aver condiviso il mio entusiasmo per i mondi di Schönberg e di Stravinsky. Torino, aprile 2014