Charles A. Kupchan
Nessuno controlla il mondo L’Occidente e l’ascesa del resto del mondo La prossima svolta globale Traduzione di Marco Allegra
Un libro del Council on Foreign Relations
www.ilsaggiatore.com (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore © Charles A. Kupchan, 2012 All rights reserved © il Saggiatore S.r.l., Milano 2013 Titolo originale: No One’s World
Nessuno controlla il mondo Alla mia famiglia: passata, presente e futura
Sommario
Premessa 9 1. La svolta Modernità multiple La tesi di fondo Piano dell’opera
2. L’ascesa dell’Occidente La parabola della storia Le trasformazioni della mappa politica dell’Europa medievale
13 13 17 23 27 27 31
La Riforma 39 Verso la tolleranza religiosa e il pluralismo politico
3. L’ultima svolta. Come l’Occidente eclissò il resto del mondo L’Impero ottomano Cina, India e Giappone L’Occidente si fa globale
4. La prossima svolta. L’ascesa del resto del mondo Fatti nudi e crudi
5. Le alternative alla via occidentale Le autocrazie I regimi teocratici Uomini forti
46 61 62 73 79 89 90 101 107 133 144
I populisti Democrazie con un proprio punto di vista Un dissenso globale
6. Rinvigorire l’Occidente La coesione dell’Occidente La (in)governabilità dell’Occidente Recuperare la «solvibilità» dell’Occidente
7. Governare un mondo che nessuno controlla Principi per il mondo prossimo venturo
150 158 162 165 166 170 187 205 210
Note 231 Bibliografia 261 Indice analitico 277
Premessa
Negli ultimi duecento anni Europa e Stati Uniti, insieme, hanno dato forma al mondo moderno. Sostenuto dal suo potere così come dalle sue idee, l’Occidente è stato contemporaneamente artefice e amministratore dell’ordine globale che iniziò a emergere nel xix secolo. Con il collasso dell’Unione Sovietica alla fine del xx secolo, la via occidentale (Western way) – fondata su democrazia liberale, capitalismo e nazionalismo laico – sembrava aver definitivamente prevalso sui suoi numerosi avversari. L’Occidente ha certamente goduto di un lungo ed eccezionale periodo di predominio mondiale, ma questa supremazia si avvia al tramonto. Nel corso di questo nuovo secolo il potere sarà distribuito in modo più ampio su tutto il globo. Paesi che hanno vissuto a lungo all’ombra dell’egemonia occidentale si stanno trasformando in potenze di primo piano e si aspettano ora di esercitare un’influenza proporzionata al loro status. Come cambierà il mondo, con intere regioni che si sviluppano acquisendo benessere, forza militare, influenza? Le idee e le concezioni dell’Occidente sull’ordine politico sopravvivranno alla fine del suo predominio o le potenze emergenti affineranno un proprio approccio a temi quali governance, commercio e gestione degli affari internazionali? Le risposte a queste domande avranno un impatto fondamentale sulla natura del mondo che sta emergendo man mano che ci addentriamo nel xxi secolo. Ho iniziato a fare ricerche su questi temi più di un decennio fa. Nel 2003 pubblicai La fine dell’era americana, un saggio che prevedeva la con-
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clusione della supremazia statunitense e la nascita di un mondo multipolare. Il mio ultimo libro, Come trasformare i nemici in amici (2012), esaminava come e quando paesi rivali riescano a diventare partner, trasformando l’antagonismo in concordia. Nessuno controlla il mondo rappresenta per molti versi la logica continuazione dei miei lavori passati. Questo saggio affronta il tema della lotta ideologica e politica che si produrrà con l’affermazione di Cina, India, Brasile e altri stati in via di sviluppo, mentre il dominio occidentale lascia il campo a una distribuzione più egualitaria del potere globale. Come il titolo mette in evidenza, sostengo che il mondo prossimo venturo non apparterrà a nessuno in modo esclusivo. La via occidentale non sta diventando universale, in larga parte perché è emersa da una serie di condizioni socioeconomiche peculiari dell’Europa e degli Stati Uniti. Ma a essa non si sta nemmeno sostituendo un nuovo baricentro o modello politico egemone. Il mondo del futuro, piuttosto, sarà multipolare e allo stesso tempo politicamente plurale; sarà caratterizzato da un certo numero di potenze di primo piano, ciascuna dotata di una propria concezione di che cosa costituisca un ordine giusto e legittimo. Di conseguenza, se vogliamo che questa svolta globale si compia in modo pacifico, l’Occidente e il resto del mondo in ascesa dovranno non solo raggiungere un accordo su questioni di status e prestigio internazionale, ma anche stabilire un consenso sulle regole che definiscono il concetto di legittimità e governano il commercio, la guerra e la pace. Questo saggio cerca di offrire un contributo in tal senso, discutendo i fondamenti sociali ed economici del mondo occidentale, descrivendo il panorama politico che sta emergendo nel resto del mondo e proponendo una serie di principi basilari cui fare riferimento per farsi parte attiva nella sempre più rapida transizione che coinvolge l’ordine globale. Vorrei ringraziare le due istituzioni in cui lavoro, la Georgetown University e il Council on Foreign Relations, per avermi fornito un sostegno morale e finanziario, offrendomi inoltre una riserva illimitata di stimoli intellettuali. Consapevolmente o meno, colleghi e studenti sono stati per me interlocutori fondamentali nello sviluppare e definire la mia visione sulla natura del mondo che si sta affermando e su come gestire in modo opportuno questa fase di trasformazione globale. Carol Lancaster, direttrice della School of Foreign Service di Georgetown, mi ha costantemen-
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te incoraggiato e sollevato dagli obblighi d’insegnamento, permettendomi di completare il manoscritto. Vorrei ringraziare il presidente del Council on Foreign Relations, Richard N. Haass, e il direttore della ricerca, James M. Lindsay, per il loro supporto personale e professionale e per avermi concesso la Whitney Shepardson Senior Fellowship dell’istituto. Sono grato all’International Institutions and Global Governance Program del Council on Foreign Relations, diretto da Stewart Patrick e finanziato dalla Robina Foundation, per le risorse messe a mia disposizione e per avermi dato l’opportunità di confrontarmi con la comunità intellettuale del centro. Ringrazio altresì, per lo stimolo intellettuale e il sostegno fornito, il programma Europe and Global Challenges finanziato dalla Compagnia di San Paolo (Italia), dalla Riksbankens Jubileumsfond (Svezia) e dalla VolkswagenStiftung (Germania). Per contribuire alla revisione della bozza del manoscritto il Council on Foreign Relations ha organizzato tre seminari, che mi hanno fornito un feedback di inestimabile valore. Sono profondamente grato a Jodie Allen, Sebastian Mallaby e Anne-Marie Slaughter, che hanno diretto i lavori dei seminari, oltre che a tutti i partecipanti: Abdullah Akyüz, Lawrence Bruser, Aimee Carter, Thomas Christensen, Jean-Marc Coicaud, Heidi Crebo-Rediker, Elizabeth Economy, Amitai Etzioni, Rosemarie Forsythe, Henry Gaffney Jr., Colin Grabow, John Ikenberry, Koichi Imura, Robert Jervis, Peter Kellner, Judith Lee, Aaron Lobel, Paul McQuade, Maurizio Molinari, Adam Mount, William Murray, Daniel Nexon, Stewart Patrick, Stanley Roth, Jack Snyder, Ronald Steel, Paula Stern, Nigel Sutton, David Wargin, Patrick Weil, Allan Wendt, Chris Wood, e Nobuo Yoneyama. Ho presentato un primo estratto del saggio a un seminario organizzato presso la University of Virginia: ringrazio i partecipanti per le osservazioni e i suggerimenti. Sono inoltre in debito nei confronti di alcune persone, per i loro commenti al manoscritto: Cliff Kupchan, Simma Kupchan, Jim Lindsay, Hans Maull, John McNeill, John Owen, David Shambaugh e Julia Sweig. Sono stato fortunato a beneficiare della generosità e dell’acume di tutti questi amici e colleghi, cui va la mia riconoscenza. Ho uno speciale debito di gratitudine nei confronti di Adam Mount and Peter Trubowitz, con cui ho pubblicato recentemente una serie di saggi. Buona parte delle idee nate dallo scambio intellettuale con questi miei «spiriti affini» è presente nel libro, e specialmente nel sesto e nel set-
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timo capitolo. Vorrei anche ringraziare le riviste Democracy, Foreign Affairs e International Security per avermi permesso di utilizzare per questo saggio il materiale di alcuni articoli in coautoraggio.1 Molte persone mi hanno aiutato durante le ricerche. Sono particolarmente riconoscente nei confronti di Isabella Bennett, John Elliott, Connor Mills e Conor Savoy, miei colleghi al Council on Foreign Relations, che non solo mi hanno supportato durante il lavoro, ma hanno dato un importante contributo intellettuale al libro. Ringrazio anche Alex Erines, Seth Gainer, Anson Gorga-Highland, Florian Kern, Andrew Pazdon, Hop Wells, Alexandra Wilson e Stephen Wittels per avermi concesso il loro tempo e la loro assistenza. È stato un piacere lavorare con David McBride della Oxford University Press. Il valore dei suoi commenti al manoscritto è stato inestimabile. Vorrei ringraziare anche il mio agente, Andrew Wylie, per i suoi saggi e costanti consigli. Infine, sono profondamente grato alla mia famiglia: Simma Kupchan, Nancy Kupchan Sonis, Clifford Kupchan, Sandy Kupchan e Nicholas Kupchan, per il loro affetto e sostegno. Mio padre, S. Morris Kupchan, e il mio patrigno, H. Richard Sonis, nonostante non siano più tra noi, sono stati dalla mia parte dal principio alla fine. Vorrei anche ringraziare Steve e Louie Asher per la loro amicizia e il loro appoggio, e per la loro pazienza, poiché a volte il lavoro necessario per scrivere il libro ha implicato la mia assenza a molte riunioni di famiglia. Mia moglie, Simma, mi ha sostenuto emotivamente e materialmente, e ha rivisto parola per parola il manoscritto. Ha inoltre sopportato i disagi tipici della convivenza con uno scrittore al lavoro: cene a tarda sera, passeggiate solitarie, tavoli ingombri di pile di libri e articoli e, occasionalmente, un compagno di cattivo umore. La mia famiglia è il mio mondo, e sono davvero grato a tutti. Charles A. Kupchan Washington D.C.
1. La svolta
Modernità multiple Nell’agosto del 1941, Franklin Roosevelt e Winston Churchill tennero una serie di colloqui segreti sulla uss Augusta e sulla hms Prince of Wales, entrambe all’ancora in un porto sicuro di Terranova. Mentre in Europa infuriava la Seconda guerra mondiale, i due leader si incontrarono per definire un piano per il mondo che avrebbe potuto sorgere dopo la fine delle ostilità. La Carta Atlantica che ne risultò delineava un ordine globale fondato sull’autodeterminazione, sul libero scambio e sul disarmo. All’epoca gli Stati Uniti non erano ancora entrati in guerra; l’incontro, tuttavia, segnò il momento in cui iniziarono ad assumere un ruolo guida nel mondo occidentale. Dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor, avvenuto più tardi lo stesso anno, gli Stati Uniti condussero le democrazie atlantiche alla vittoria della Seconda guerra mondiale. Da allora, sono stati il perno fondamentale dell’ordine liberale che si impose sul blocco comunista e vinse la Guerra fredda. Alla fine del xx secolo era in voga sostenere che la storia fosse giunta alla fine.1 A seguito della caduta del muro di Berlino e del collasso dell’Unione Sovietica, democrazia e capitalismo si diffusero rapidamente; l’ordine internazionale forgiato dagli Stati Uniti e dai loro alleati europei sembrava sul punto di estendersi a tutto il globo. Sebbene Cina, Russia, Cuba, la maggior parte del Medio Oriente e dell’Africa fossero caparbiamente refrattari, ci si aspettava che presto finissero per soccombere all’ir-
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resistibile fascino della via occidentale (Western way). All’inizio del nuovo millennio, non solo l’Occidente teneva in mano le redini del gioco, ma sembrava aver finalmente sconfitto i suoi molti avversari. Spostiamoci avanti di qualche anno: Copenaghen, dicembre 2009. Un centinaio di leader mondiali si trovano in Danimarca per stipulare un accordo sulla limitazione delle emissioni inquinanti che contribuiscono al riscaldamento globale. Barack Obama arriva all’undicesimo giorno della conferenza, caratterizzata fino a quel momento da scarsi passi avanti. La sera stessa Brasile, Cina, India e Sudafrica tengono una riunione a porte chiuse per rafforzare la solidarietà tra potenze emergenti. Mentre l’incontro volge al termine, Obama si arrischia in una visita improvvisata. Gli assistenti si precipitano a trovare sedie per il presidente degli Stati Uniti e il segretario di Stato Hillary Clinton. Questo incontro imprevisto determina un’accelerazione. Ma l’accordo non include alcun impegno vincolante alla riduzione delle emissioni, ciò che i paesi occidentali avevano sperato di poter raggiungere. Le potenze emergenti avevano dominato le trattative, mentre i partner europei degli Stati Uniti erano rimasti completamente fuori dai giochi. Riflettendo su questa successione di eventi, il Washington Post ha concluso: «Il secolo americano è finito».2 Il vertice di Copenaghen è solo uno dei molti sintomi di come il xxi secolo non segni il trionfo definitivo dell’Occidente, ma l’emersione di uno scenario globale che si muove non tanto verso un traguardo finale, quanto verso un punto di svolta. L’egemonia dell’Occidente non sta svanendo solo in campo materiale, con l’ascesa di nuove potenze, ma anche in quello ideologico. I regimi autoritari del mondo sono ben lontani dall’esalare l’ultimo respiro e si dimostrano piuttosto stabili. La Cina ha sperimentato tassi di crescita economica tre volte maggiori di quelli delle democrazie occidentali, e i suoi avanzi commerciali restano cruciali per garantire i delicati equilibri del debito americano. La recessione globale ha imposto un pesante pedaggio all’economia russa, ma il Cremlino ha mantenuto un fermo controllo sullo stato e conduce una politica estera aggressiva. Gli sceiccati che governano i paesi produttori di petrolio del Golfo Persico, pur essendo stati contagiati dai tumulti recentemente scoppiati in gran parte del mondo arabo, hanno conservato intatti i loro principi autoritari. D’altra parte, se nel Medio Oriente si diffondessero forme di governo democratiche, i nuovi regimi potrebbero rappresentare degli ossi molto
1. La svolta 15
più duri rispetto alle autocrazie che andrebbero a sostituire. Nemmeno le potenze emergenti in cui vige la democrazia, come India e Brasile, possono essere annoverate tra i più convinti sostenitori del campo occidentale. Al contrario, si schierano regolarmente contro Stati Uniti ed Europa su questioni geopolitiche, commerciali, ambientali e così via, preferendo prendere le parti dei paesi emergenti, che siano democratici o meno. Gli interessi contano più dei valori. Nel frattempo, le democrazie occidentali hanno compiuto diversi passi falsi. Il problema va ben al di là dell’attuale Grande recessione, un fenomeno nato e cresciuto negli Stati Uniti, paese artefice e leader dell’Occidente. Una governance debole e traballante pervade il mondo industrializzato. George W. Bush ha affrontato il suo secondo mandato all’insegna dell’incertezza, registrando un record negativo in termini di popolarità come presidente. Barack Obama è entrato in carica impegnandosi a ricreare un’atmosfera bipartisan e a rafforzare il sentimento di unità nazionale, ma democratici e repubblicani sono stati incapaci di trovare un terreno comune. Non può dunque stupire che nel 2010 la fiducia dell’opinione pubblica nel Congresso abbia raggiunto i valori più bassi di sempre. Gli Stati Uniti non sono i soli a confrontarsi con un diffuso senso d’insoddisfazione verso la democrazia: molti altri paesi industrializzati – per esempio Regno Unito, Francia, Germania, Italia e Giappone – sono stati recentemente debilitati da una polarizzazione dell’elettorato e da governi deboli. Lo scenario che sta emergendo è contraddistinto da una diffusione del potere e da una diversificazione dei sistemi politici, e non da una convergenza di tutti i paesi sulla via occidentale. Il mondo, questo è certo, è sulla soglia di una svolta globale. Tra il 1500 e il 1800, il baricentro del potere mondiale si è spostato dall’Asia e dal bacino del Mediterraneo prima verso l’Europa e poi, a partire dal tardo xix secolo, verso l’America del Nord. L’Occidente ha sfruttato il suo potere per diventare il cardine del mondo globalizzato, ed è stato l’attore di punta di questo periodo storico. Ma la sua ascesa fu dovuta a fattori temporali e geografici contingenti, e ora la storia sta cambiando il suo corso. L’Asia orientale si è consacrata come favorita a raccogliere lo scettro della leadership globale. Si può ragionevolmente dubitare, però, che qualunque paese, regione o modello possa controllare il mondo che verrà. Il xxi secolo non sarà americano, ci-
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nese o asiatico, né di chiunque altro; non apparterrà a nessuno. Il sistema internazionale che sta sorgendo sarà costituito da numerosi centri di potere indipendenti e da molteplici versioni della modernità.3 Per la prima volta nella storia, un mondo interconnesso e interdipendente sarà privo di un singolo centro di gravità o di un angelo custode globale. Se un ordine mondiale dovesse realizzarsi, sarebbe un amalgama tra differenti culture politiche e concezioni di ordine interno e internazionale. L’incapacità di prevedere questa svolta cruciale e modificare di conseguenza la strategia complessiva dell’Occidente sarebbe un errore dalle conseguenze drammatiche. Un errore che stiamo già compiendo. Il problema non è tanto il mancato riconoscimento dell’attuale redistribuzione del potere. Al contrario, chi definisce le strategie di Stati Uniti ed Europa comprende che nuove potenze si stanno affermando e che inevitabilmente il predominio occidentale svanirà. Proprio gli Stati Uniti e l’Europa hanno promosso la trasformazione del G8 – una sorta di comitato direttivo globale dominato dai paesi occidentali – nel cosiddetto G20, un gruppo di potenze di primo piano nel quale le democrazie occidentali rappresentano una minoranza. La maggior parte dei policy maker, tuttavia, fraintende la natura della sfida fondamentale posta dalla diffusione globale del potere. Secondo l’opinione prevalente, le potenze occidentali dovrebbero sfruttare la fase calante della loro egemonia per incanalare la spinta dei paesi emergenti nell’ordine internazionale liberale che loro stesse hanno costruito. Secondo G. John Ikenberry, l’Occidente dovrebbe «rendere le radici di quest’ordine il più salde possibile», assicurando in questo modo che «il sistema internazionale guidato dagli Stati Uniti possa rimanere l’ordine dominante del xxi secolo».4 Finché ha ancora il potere di farlo, l’Occidente dovrebbe dunque completare il processo attraverso il quale ha esteso i suoi valori e le sue istituzioni al resto del mondo. Anche Fareed Zakaria, che pure ha riconosciuto come un «mondo post-americano» sia ormai all’orizzonte, cade nella stessa trappola intellettuale. «Questo passaggio di potere […], se accostato in maniera opportuna, è un bene anche per l’America» scrive Zakaria. «Il mondo sta seguendo il modello statunitense. I Paesi si stanno aprendo con favore ai mercati, diventando democratici.»5 Definire in termini simili le grandi sfide strategiche di quest’epoca può essere rassicurante per gli americani e i loro alleati democratici, ma si trat-
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ta di una pia illusione. La corazzata cinese non getterà l’ancora nel porto dell’Occidente, occupando ubbidiente il posto al molo che le è stato assegnato. Invece di conformarsi alle regole dell’attuale sistema internazionale, le potenze emergenti cercheranno naturalmente di ridefinire tale sistema in modi che si accordino con i loro valori e interessi. Questo fenomeno si è ripetuto fin dalla notte dei tempi e non c’è ragione di pensare che il futuro sarà differente. Il compito a cui siamo chiamati, pertanto, non è guidare le potenze emergenti nel porto occidentale; si tratta piuttosto di creare un nuovo ordine, i cui principi fondamentali dovranno essere negoziati tanto dalle potenze occidentali quanto dai nuovi arrivati. Quando si troverà a plasmare un nuovo ordine internazionale che includa il resto del mondo, l’Occidente non potrà concedere meno di quanto otterrà. Il pianeta non si sta muovendo soltanto verso un sistema multipolare, ma anche in direzione di molteplici versioni della modernità: uno scenario politico diversificato, in cui il modello occidentale rappresenterà soltanto una delle molte concezioni di ordine internazionale e interno. Non solo i regimi autoritari ben governati resisteranno alle democrazie liberali, ma anche le potenze democratiche emergenti si troveranno spesso in disaccordo con l’Occidente. Forse la sfida decisiva per l’Occidente e i paesi in ascesa sarà proprio gestire questa svolta globale e concepire un approdo pacifico al mondo nuovo. L’alternativa è una situazione di anarchia competitiva, che si produrrà automaticamente mentre molteplici centri di potere, con le diverse idee di ordine che rappresentano, lotteranno per la supremazia.
La tesi di fondo Questo non è il primo libro a predire il declino dell’egemonia occidentale.6 È tuttavia il primo a guardare il mondo che verrà attraverso la lente della longue durée. La ricostruzione della traiettoria futura del mondo prende le mosse dall’attualità, ma si fonda sull’osservazione di dinamiche e tendenze storiche più profonde. Presenta una panoramica dei fattori alla base dell’ascesa dell’Occidente e delle conseguenze che l’ascesa del resto del mondo implica. Inoltre, mentre gli studi precedenti tendevano a concentrarsi sui riassetti dell’equilibrio di potenza a livello globale, questo saggio si focalizza perlopiù sul significato che tali cambia-
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menti avranno sui meccanismi che regolano il mondo; mette in luce come l’ascesa di nuove potenze muterà le idee e le regole che indirizzano la politica, l’arte di governare, la pace e la guerra e il commercio.7 Infine, il presente libro è il primo a sostenere che il mondo prossimo venturo non sarà dominato da un singolo paese o una singola regione. Alcuni osservatori prevedono che la comunità globale adotterà senza riserve i valori e la concezione di ordine internazionale dell’Occidente, mentre altri annunciano l’avvento di un «secolo asiatico». Questo saggio argomenta che il mondo del futuro non avrà un singolo centro di gravità. Nessuno controllerà il mondo. Per comprendere la natura dell’attuale transizione di potenza globale, e gli effetti che porterà con sé, è necessario analizzare il precedente punto di svolta: l’ascesa dell’Occidente. Di conseguenza, questo libro approfondirà prima di tutto l’affermazione dell’egemonia occidentale tra il 1500 e il 1800. Mostreremo come l’Occidente abbia percorso un cammino unico e irripetibile, segnato da fattori contingenti e, paradossalmente, determinato da una particolare condizione di debolezza politica. Il principale elemento che indirizzò l’Europa sulla strada dell’ascesa fu il fermento socioeconomico. Nel contesto del frammentario sistema politico dell’Europa medievale, una nascente classe media di mercanti, imprenditori e intellettuali sfidò il potere di monarchia, nobiltà e clero. La borghesia emergente fu l’avanguardia della Riforma protestante, che promosse la tolleranza religiosa e consentì la separazione fra stato e chiesa. A questa fase seguì la comparsa del governo rappresentativo, e la combinazione tra le idee di emancipazione prodotte dalla Riforma e i costi crescenti associati alla nascita dello stato moderno costrinse i sovrani a condividere il potere con i propri sudditi per avere accesso alle loro risorse materiali e capacità. La nascente classe media gettò altresì le basi economiche e intellettuali della Rivoluzione industriale, che consolidò l’economia di mercato e diede vita al moderno nazionalismo laico mediante l’urbanizzazione, l’istruzione pubblica, la leva militare di massa e altre trasformazioni sociali prodotte dallo sviluppo industriale. Il nazionalismo fu il fratello gemello della democratizzazione, creando un tessuto connettivo che avrebbe mantenuto coesa la società attraverso il consenso piuttosto che la coercizione. Questa dinamica di sviluppo socioeconomico emerse dapprima in Eu-
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ropa occidentale, per poi diffondersi in America del Nord tramite gli emigranti che si stabilirono nel Nuovo Mondo in cerca di opportunità economiche e libertà religiosa. A partire da quel momento, Europa e America del Nord forgiarono insieme il peculiare ordinamento politico occidentale, alla base del quale si distinguono tre principali attributi: democrazia liberale, capitalismo industriale e nazionalismo laico.8 «Occidente» iniziò così a indicare sia un’area geografica – le regioni che si affacciano sull’Atlantico del Nord –, sia una specifica comunità politica. Gli attributi che definivano la particolare identità dell’Occidente furono anche ciò che consentì a quest’ultimo di staccare i propri avversari nella lotta per la supremazia. Ordinamenti più rigidi e gerarchici come l’Impero ottomano, l’India, la Cina e il Giappone impedirono le trasformazioni che invece portarono all’ascesa di Europa e America del Nord, consentendo all’Occidente di diventare il baricentro del pianeta fin dal xix secolo. Per di più, la contemporanea ascesa delle democrazie atlantiche, che condividevano ordinamenti interni simili, ebbe come risultato un caratteristico approccio occidentale alla gestione degli affari globali. L’Occidente cercò di rendere universali i valori e le istituzioni che i paesi di cui si componeva avevano adottato; per ragioni d’interesse come di principio, Europa e America del Nord fecero grandi sforzi per esportare la democrazia, il nazionalismo laico e il capitalismo. Con la diffusione globale delle idee fondanti dell’Occidente, per la prima volta nella storia un’unica concezione di ordine si estese a gran parte del mondo. E la lunga fase di espansione di questo sistema dà argomenti a chi confida nel fatto che la via occidentale sia destinata a predominare ancora. Una tale fiducia nella stabilità dell’ordine globale che ha il suo cardine nell’Occidente è però malriposta. La diffusione di questo sistema è stata in massima parte il frutto della supremazia materiale occidentale, e non del richiamo universale delle sue idee. Con la caduta dell’Unione Sovietica, in particolare, il sistema occidentale si è ritrovato senza veri concorrenti. I paesi in via di sviluppo, spinti anche da occasionali dimostrazioni di forza, hanno dovuto adeguarsi e seguire le regole imposte dall’Occidente. Tuttavia, ora che la supremazia materiale dell’Occidente sta svanendo, anche la sua egemonia ideologica è messa in discussione. Ovviamente è possibile che gli altri paesi, nonostante la loro ascesa, continuino a giocare secondo le regole stabilite dall’Occidente. Ma probabil-
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mente ciò avverrà soltanto se i sistemi socioeconomici e i valori tipici di questi paesi si troveranno a convergere con quelli delle democrazie occidentali. In altre parole, la conservazione dell’ordine occidentale richiede che il processo di modernizzazione nei paesi emergenti produca una comunità omogenea di nazioni con caratteristiche simili a quelle occidentali. Il problema è che gli attributi fondamentali dell’Occidente – democrazia liberale, capitalismo industriale e nazionalismo laico – non vengono riprodotti tali e quali dalle regioni che si stanno modernizzando. Il sistema capitalista ha certamente dimostrato il suo fascino universale; la maggior parte delle potenze emergenti – tra cui Cina, India, Turchia, Brasile – non stanno però replicando il percorso di sviluppo seguito dall’Occidente. Le caratteristiche socioeconomiche di questi paesi sono differenti, il che rende ben distinti i loro ordinamenti interni e i loro orientamenti ideologici. Di conseguenza, le potenze emergenti cercheranno di riformare – e non di consolidare – l’ordine internazionale formatosi sotto la tutela dell’Occidente. Queste hanno punti di vista diversi su temi quali le basi della legittimità politica, la natura della sovranità, le regole del commercio internazionale e la relazione tra stato e società. All’aumentare del loro potere materiale, cercheranno di rimodellare la struttura del sistema internazionale in conformità ai propri interessi e alle proprie preferenze ideologiche. Il percorso di sviluppo dei paesi emergenti rappresenta un’alternativa netta alla via occidentale, e non una deviazione temporanea dalla strada che porta all’omologazione globale. Se l’ascesa dell’Occidente fosse stata il prodotto di una superiorità intrinseca e inevitabile, oggi il resto del mondo non potrebbe che adottare il suo paradigma, se non altro nella convinzione che rappresenti il modo più efficace per ottenere prosperità e sicurezza. Ma il successo dell’Occidente è stato determinato da situazioni contingenti, e non da una superiorità connaturata al suo modello.9 Il processo di modernizzazione si svolge oggi in un contesto globale profondamente diverso. Nel corso dell’ascesa dell’Occidente, la classe media fu il principale attore del cambiamento. Oggi, la classe media cinese è un baluardo dello status quo e non un fattore di innovazione politica. All’inizio dell’età moderna, il sistema internazionale era statico e inerte; il dinamismo poteva venire solo dal basso, e gli stati occidentali, più decentralizzati e pluralisti, erano più adatti a promuoverlo di quanto non lo fossero gli imperi gerarchici. Oggi, il sistema
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internazionale è interdipendente e permeabile; gli stati più centralizzati, per certi versi, sono meglio equipaggiati per le sfide della globalizzazione di quelli più pluralisti. Benché le economie in cui lo stato ha un ruolo predominante scontino una serie di fragilità nel campo dell’innovazione, la recente crisi economica ha dimostrato ampiamente come l’approccio occidentale alla gestione della finanza non sia privo di imperfezioni. Nell’attuale, multiforme sistema globale, a ciascun modello di stato si associano vantaggi e svantaggi differenti. È per questo motivo che il xxi secolo vedrà la proliferazione di numerose versioni della modernità e non una convergenza generalizzata sulla falsariga dell’Occidente. Anche in questo variegato panorama globale è certamente possibile – forse persino probabile – che la democrazia liberale continui a diffondersi. Questo è di certo ciò che è accaduto, anche se lentamente, nei due secoli passati, e la tensione verso l’autonomia e la dignità sembra essere un tratto umano universale, come la Primavera araba ha di recente dimostrato. Tuttavia, anche se la democrazia continuasse a espandersi, l’Occidente non potrà comunque dare per scontato che la prossima svolta globale coincida con l’universalizzazione del suo modello, e questo per due ragioni. La prima riguarda la tempistica. Lo spostamento del baricentro del globo sta accelerando; ci si attende che l’economia cinese supererà quella americana entro quindici anni e, come vedremo nel quarto capitolo, le gerarchie internazionali saranno completamente ridisegnate entro tre decenni. Al contrario, la diffusione della democrazia, se pure dovesse verificarsi, sarà molto più graduale. Ancora oggi, più di cento paesi sono governati da regimi autoritari, ed erigere le fondamenta sociali e istituzionali della democrazia rappresentativa richiede lungo tempo.10 Vale la pena di ricordare che l’Inghilterra divenne una monarchia costituzionale alla fine del xvii secolo, ma l’evoluzione verso la democrazia liberale non si compì prima di duecento anni. La Germania diventò una monarchia costituzionale dopo l’unità nazionale nel 1871, ma furono necessari ottant’anni e due guerre mondiali perché si radicasse un sistema democratico. Certo, oggi la transizione da un regime autoritario a uno democratico potrebbe compiersi più rapidamente rispetto a cento o duecento anni fa: il fronte della democrazia è molto più ampio di quanto non fosse un tempo. Ma possiamo prevedere senza tema di smentite che il mondo diverrà
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multipolare molto prima che democratico. Come nota Azar Gat, «anche se le grandi potenze capitaliste autoritarie non democratiche si dovessero democratizzare, questo processo potrebbe richiedere decenni o intere generazioni per esplicarsi».11 In secondo luogo, anche se la democrazia si diffonderà, i regimi che ne risulteranno non adotteranno automaticamente le regole del gioco occidentali solo perché sono democratici. In altre parole, democratizzazione non significa «occidentalizzazione». La diffusione della democrazia potrebbe anzi contribuire alla nascita di regimi risolutamente contrari a ogni prospettiva di adesione all’ordine internazionale creato dall’Occidente. In Medio Oriente, per esempio, più democrazia potrebbe tradursi in più islamismo politico; e i nuovi regimi arabi, proprio perché rappresentativi, potrebbero essere meno disposti a cooperare con l’Occidente dei loro predecessori autoritari. Nella maggior parte dei paesi in cui si sono tenute elezioni più o meno democratiche – Iran, Algeria, i territori palestinesi, Libano, Iraq – l’islamismo ha aumentato il proprio peso politico. Il processo di democratizzazione potrebbe alimentare anche altrove il medesimo fermento geopolitico: una Cina più democratica potrebbe essere un attore più imprevedibile e aggressivo sul palcoscenico globale. Inoltre, se anche le potenze emergenti dovessero condividere i valori occidentali, si troverebbero in contrasto con l’Occidente su questioni di status e prestigio: i paesi emergenti hanno accumulato rancori durante la lunga stagione dell’egemonia occidentale e reclamano più voce in capitolo nella gestione degli affari internazionali, quali che siano le questioni in gioco. E gli stati emergenti si schiereranno contro l’Occidente, se servirà a proteggere il proprio interesse nazionale. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna condividevano gli stessi valori democratici e il medesimo retaggio anglosassone quando, alla fine del xix secolo, i primi divennero una grande potenza. Questo non evitò che gli Stati Uniti agissero per estromettere gli inglesi dalla propria sfera di influenza, così da godere di una supremazia incontrastata nell’emisfero occidentale. Sicuramente, una volta aumentate le proprie risorse e ambizioni, la Cina e le altre potenze emergenti, democratiche o meno, mireranno allo stesso tipo di egemonia regionale, il che creerà potenziali conflitti con gli Stati Uniti e i loro alleati europei. L’idea che tutti i paesi democratici debbano condividere il punto di vista occidentale perché hanno governi democratici è un’illusio-
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ne, esattamente come l’ipotesi per cui presto il mondo sarà popolato soltanto da democrazie. Nella fase di svolta globale che è alle porte, l’Occidente e il resto del mondo in crescita si troveranno inevitabilmente in competizione su principi, status, interessi geopolitici. La sfida che attende entrambi è costruire un nuovo ordine pluralista, un ordine che preservi la stabilità e affermi un sistema internazionale fondato sulle regole in un mondo che sarà popolato da molteplici versioni della modernità.
Piano dell’opera Questo libro ha due obiettivi principali. Il primo è di tipo analitico: esplorare le cause e le conseguenze della prossima svolta globale. Il secondo e il terzo capitolo cercano di inquadrare il problema del mutamento globale in una prospettiva storica. Il secondo capitolo descrive la precedente svolta globale: l’ascesa dell’Europa e l’eclisse di Asia e Medio Oriente come principali centri di potere mondiali. Un passaggio epocale, che derivò in primo luogo dai cambiamenti socioeconomici e dall’emersione di una classe media dotata di potere e ricchezza sufficienti a permetterle di sfidare lo status quo. Il terzo capitolo completa la storia dell’ascesa dell’Occidente comparando i progressi realizzati in Europa nella prima età moderna con la stasi centralista che ebbe la meglio in Asia e Medio Oriente. Tali regioni non sperimentarono le trasformazioni storiche che stavano plasmando la modernità in Occidente, e così restarono indietro mentre questo accelerava il passo. Non solo l’Occidente superò tutti gli altri, ma sfruttò la propria supremazia per «farsi globale», esportando nel resto del mondo i suoi principi politici ed economici. Sotto la guida dell’Europa prima, e degli Stati Uniti poi, l’Occidente divenne il principale artefice delle regole che assicuravano l’ordine del sistema internazionale. Il quarto e il quinto capitolo sono dedicati alla prossima svolta globale: l’ascesa dei paesi non occidentali. Il quarto capitolo è un preludio alla seconda metà del libro. Descrive in sintesi come opera la diffusione del potere verso nuove aree e mostra come in molti campi – ricchezza, demografia, istruzione, industria, capacità militari – il resto del mondo stia
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rapidamente colmando il divario con l’Occidente. Anche se Stati Uniti ed Europa tornassero ad avere alti tassi di crescita economica, l’Occidente perderà inevitabilmente il predominio di cui ha goduto fin dal xix secolo. Il quinto capitolo passa in rassegna le prove a cui l’emergere delle nuove potenze sottoporrà la via occidentale. L’autocrazia in Cina, in Russia e nel Golfo Persico, le teocrazie in Medio Oriente, gli «uomini forti» (strongmen) in Africa, il populismo in America Latina: questi regimi rappresentano una sfida all’universalizzazione del modello occidentale, e non una semplice tappa intermedia lungo la strada che conduce alla democrazia liberale, al capitalismo industriale e al nazionalismo laico. La resistenza di questi approcci non occidentali alla governance creerà, con l’ascesa delle potenze emergenti, un sistema caratterizzato da un marcato pluralismo politico. Il secondo obiettivo di questo libro è di tipo normativo: tracciare i passi che l’Occidente dovrà compiere per adattarsi al mondo del xx secolo. Il sesto capitolo mostra come sia indispensabile che l’Occidente recuperi la propria vitalità economica e politica, se vorrà essere il perno della prossima svolta globale. Esamina in primo luogo gli sviluppi che hanno fiaccato la forza materiale e ideologica occidentale: la crisi economica che ha colpito entrambe le sponde dell’Atlantico, la rinascita dei nazionalismi nella vita politica dell’Unione Europea e la brusca polarizzazione di quella statunitense. Il capitolo cerca quindi di delineare quali azioni le democrazie atlantiche dovranno compiere per riavviare la crescita economica, ridare fiato alla politica democratica e riacquistare fiducia in se stesse. Il capitolo finale propone una visione politica che consentirebbe all’ordine internazionale di adattarsi alla svolta globale all’orizzonte. Gli Stati Uniti devono essere in prima linea nella costruzione di un nuovo consenso internazionale, senza per questo aspettarsi che le potenze emergenti aderiscano passivamente ai valori dell’Occidente e ne abbraccino le istituzioni. È probabile che siano questi i principi intorno a cui si affermerà un nuovo ordine: una legittimità politica che derivi dalla governance responsabile, piuttosto che dalla democrazia liberale; la tolleranza per il pluralismo ideologico e politico; l’equilibrio tra una governance globale e i maggiori poteri conferiti alle organizzazioni sovranazionali regionali; l’affinamento di un modello di capitalismo più regolato, con un ruolo centrale dello
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stato. Il rispetto da parte americana di un nuovo insieme di principi guida che restituiscano legittimità incoraggerebbe le potenze emergenti a fare altrettanto, creando le condizioni migliori per definire un ordine che preservi la stabilità dopo la fine del predominio occidentale. Come Henry Kissinger ha recentemente osservato, «gli Stati Uniti dovranno comprendere che l’ordine mondiale dipenderà dalla misura in cui tutti i partecipanti avranno contribuito a crearne la struttura».12