Lauren Beukes The Shining Girls
Traduzione di Seba Pezzani
Questa è un’opera d’invenzione. Tutti i personaggi sono frutto della fantasia dell’autrice. Qualsiasi somiglianza con persone reali è da ritenersi casuale. Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreED Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore © Lauren Beukes, 2013 © il Saggiatore S.r.l., Milano 2013 Titolo originale: The Shining Girls
The Shining Girls
a Matthew
Harper 17 luglio 1974
L’uomo stringe il cavallino di plastica arancione nella tasca della giacca sportiva. È sudaticcio nella sua mano. Siamo in piena estate e fa troppo caldo per i vestiti che porta. Ma ha imparato a indossare un’uniforme per quello che deve fare. Jeans, nella fattispecie. Avanza a lunghe falcate: un uomo che cammina perché ha un posto in cui andare, malgrado un piede zoppo. Harper Curtis non è un vagabondo. E il tempo non attende nessuno. Tranne quando lo fa. La ragazzina è seduta in terra, a gambe incrociate, le ginocchia nude bianche e ossute come teschi di uccelli, sporche d’erba. Alza lo sguardo quando gli stivali dell’uomo fanno scricchiolare il ghiaietto, ma solo per il tempo necessario a consentirgli di vedere gli occhi scuri sotto il groviglio di riccioli sudici, prima che lei li distolga e torni alle sue faccende. Harper è deluso. Avvicinandosi, aveva immaginato che potessero essere azzurri, del colore del lago, al largo, dove il litorale sparisce e ti sembra di trovarti in mezzo al
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mare. La tinta bruna è quella della pesca ai gamberetti, quando il fango delle secche viene agitato e non si distingue un bel niente. «Che stai facendo?» le chiede, cercando di assumere un tono di voce vivace. Le si acquatta accanto, nell’erba logora. Non ha mai visto una bambina con capelli così in disordine. Come se fosse stata sballottata in un turbine di polvere, lo stesso che ha scagliato in aria l’assortimento di robaccia che si trova sparpagliata tutt’intorno a lei. Un ammasso di lattine arrugginite, la ruota rotta di una bicicletta rovesciata su un fianco, con i raggi che sporgono in fuori. L’attenzione della ragazzina è concentrata su una tazza da tè sbeccata, capovolta in maniera tale che i fiori d’argento che ne decorano il bordo superiore scompaiano nell’erba. Il manico si è spezzato, lasciandosi alle spalle due monconi tozzi. «Stai dando un ricevimento per il tè, tesoro?» prova di nuovo. «Non è un ricevimento per il tè» brontola nel colletto a forma di petalo della sua camicia a scacchi. I bambini con le lentiggini non dovrebbero essere tanto seri, pensa l’uomo. Non gli si addice. «Be’, okay» le dice. «Comunque, preferisco il caffè. Ne posso avere una tazza, per favore, signorina? Nero, con tre zollette di zucchero. D’accordo?» Fa per prendere la tazza di porcellana e la ragazzina lancia un grido e allontana la sua mano, colpendola. Da sotto la tazza capovolta si ode un ronzio profondo, rabbioso. «Cristo. Cos’hai lì dentro?» «Non è un ricevimento per il tè! È un circo!»
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«Ma davvero?» Attiva il suo sorriso, il sorriso sciocco che dice che lui non si prende troppo sul serio e che non dovresti farlo nemmeno tu. Però il dorso della mano gli brucia nel punto in cui lei l’ha colpito. La ragazzina gli rivolge un’occhiataccia sospettosa. Non per chi potrebbe essere, per quello che potrebbe farle. Ma perché è scocciata che lui non capisca. Lui si guarda intorno, con più attenzione, e ora lo vede: il suo circo sgangherato. Il grande anello superiore delimitato con un dito tracciato nel terriccio, una fune fatta con una cannuccia appiattita, tesa fra due lattine, la ruota panoramica di quella ammaccata della bicicletta, semipuntellata contro un cespuglio, con una pietra che la tiene ferma, e omini di carta realizzati con qualche rivista e infilati tra i raggi. Non gli sfugge il fatto che la pietra sia della misura perfetta per il suo pugno. E neppure la facilità con cui uno di quei raggi sottili trapasserebbe l’occhio della ragazzina, come se fosse di gelatina. Stringe con forza il cavallino di plastica che ha in tasca. Il ronzio furioso proveniente da sotto la tazza è una vibrazione che avverte fino alla base delle vertebre, che gli solletica l’inguine. La tazza sussulta e la ragazzina ci schiaccia le mani sopra. «Wow!» dice lei con una risata, rompendo l’incanto. «Wow, certo! Ci tieni un leone lì dentro?» Le dà una leggera spallata e dallo sguardo corrucciato della ragazzina affiora un sorriso, per quanto timido. «Sei una domatrice di animali? Lo farai saltare dentro un cerchio di fuoco?»
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Lei sorride e i pois delle lentiggini regalano alle sue guance un aspetto da torta di mele olandesi, rivelando denti bianchissimi. «No, Rachel dice che non posso giocare con i fiammiferi. Non dopo l’ultima volta.» La ragazzina ha un canino storto, leggermente sovrapposto agli incisivi. E il sorriso è più che sufficiente a compensare gli occhi castano-acqua torbida, perché ora lui riesce a coglierne la scintilla dietro. Ha una sensazione di mancamento al petto. E lui è dispiaciuto di aver mai dubitato della Casa. La ragazzina è quella giusta. Una di quelle giuste. Le sue ragazzine brillanti. «Piacere, Harper» le dice, a corto di fiato, tendendo la mano perché lei gliela stringa. Per farlo, la ragazzina deve tenere ferma la tazza con l’altra. «Sei un estraneo?» gli chiede. «Non più, non trovi?» «Piacere, Kirby. Kirby Mazrachi. Ma, appena sono abbastanza grande, cambierò nome e mi farò chiamare Lori Star.» «Quando andrai a Hollywood?» La ragazzina trascina la tazza sul terreno verso di sé, provocando nell’insetto al suo interno nuovi slanci di rabbia, e lui si rende conto di aver commesso uno sbaglio. «Sei sicuro di non essere un estraneo?» «Pensavo al… circo, giusto? Cosa farà Lori Star? La trapezista? La fantina di elefanti? Il clown?» Fa oscillare il dito indice sul labbro superiore. «La signora baffuta?» Con suo sollievo, lei ride. «Nooo.» «La domatrice di leoni! La lanciatrice di coltelli! La mangiafuoco!»
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«Farò la funambola. Mi sto esercitando. Vuoi vedere?» Fa per alzarsi in piedi. «No, aspetta» le dice, d’un tratto esasperato. «Mi fai vedere il tuo leone?» «Non è un leone, in realtà.» «È quello che dici tu» la incalza. «D’accordo, però devi fare molta attenzione. Non voglio che voli via.» Inclina la tazza di un niente. Lui posa la testa sul terreno, strizza gli occhi per vedere meglio. L’aroma di erba calpestata e terriccio nero è confortante. Sotto la tazza c’è qualcosa che si muove. Zampe pelose, un lampo di giallo e nero. Antenne che sondano l’apertura. Kirby ansima e sbatte nuovamente giù la tazza. «È un grosso bombo adulto» le dice, tornando a mettersi accovacciato. «Lo so» risponde lei, fiera di sé. «Lo hai fatto arrabbiare un bel po‘.» «Secondo me, non vuole far parte del circo.» «Posso mostrarti una cosa? Dovrai fidarti di me.» «Che cos’è?» «Hai bisogno di un funambolo?» «No, io…» Ma lui ha già sollevato la tazza e ha raccolto l’ape inquieta tra le mani. Staccare le ali produce lo stesso schiocco sordo che si ottiene strappando il peduncolo di un’amarena, come quelle che ha raccolto per una stagione intera a Rapid City. Aveva fatto su e giù per tutto lo stramaledetto paese, rincorrendo il lavoro come una cagna in calore. Finché non aveva trovato la Casa.
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«Cosa stai facendo?» gli grida. «Ora dobbiamo solo sistemare un po’ di carta moschicida sulla sommità di due lattine. Un insetto grande come questo dovrebbe essere in grado di liberare i piedi, ma sarà sufficientemente appiccicaticcio da non cadere. Hai della carta moschicida?» Posa il bombo sul bordo della tazza. Si aggrappa al margine. «Perché l’hai fatto?» Lo colpisce a un braccio, ripetutamente e in modo scomposto, a palmi aperti. È sconcertato dalla reazione della ragazzina. «Non dovevamo giocare al circo?» «L’hai rovinato! Vattene! Vattene, vattene, vattene, vattene.» Le sue parole si trasformano in una cantilena, scandita da ogni schiaffo. «Sta’ buona. Stattene buona» dice, ridendo, ma lei seguita a colpirlo. Le afferra una mano. «Dico sul serio. Porca puttana, signorina, falla finita!» «Non si dicono le parolacce!» gli grida e scoppia a piangere. Le cose non stanno andando come lui aveva programmato, per quanto si possano programmare quei primi incontri. È stanco dell’imprevedibilità dei bambini. Ecco perché non cerca ragazzine, ecco perché aspetta che crescano. Più avanti la faccenda sarà diversa. «D’accordo, scusa. Non piangere, okay? Ho qualcosa per te. Ti prego, non piangere. Guarda.» Esasperato, estrae il pony arancione, o cerca di farlo. La testa si impiglia nella tasca e per liberarla deve dare uno strattone. «Ecco» dice, spingendolo verso di lei, invitandola a prenderlo.
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Uno degli oggetti che mettono ogni cosa in collegamento. È per questo che l’ha portato, giusto? Avverte solo un momento di incertezza. «Che cos’è?» «Un pony. Non vedi? Un pony non è meglio di uno sciocco bombo?» «Non è vivo.» «Lo so. Dannazione. Prendilo e basta, intesi? È un regalo.» «Non lo voglio» dice, piagnucolando. «D’accordo, non è un regalo, è un deposito. Lo terrai al sicuro per me. Come quando si danno i soldi alla banca.» Il sole picchia. Fa troppo caldo per indossare una giacca. Lui fa persino fatica a concentrarsi. Vuole solo che tutto sia finito. Il bombo cade dalla tazza e giace sottosopra, sull’erba, con le zampe che si agitano nell’aria. «D’accordo.» È già più calmo. Le cose sono come dovrebbero essere. «Mi raccomando, tienilo al sicuro, chiaro? È molto importante. Verrò a prenderlo. Capito?» «Perché?» «Perché mi serve. Quanti anni hai?» «Sei e tre quarti. Quasi sette.» «Fantastico. Davvero fantastico. Ecco. Giriamo e giriamo come la tua ruota panoramica. Ci si vede quando sei grande. Cercami. Okay, tesoro? Tornerò a trovarti.» L’uomo si alza in piedi, pulendosi le mani su una gamba. Si volta e si allontana velocemente sul prato, senza voltarsi, zoppicando in modo impercettibile. Lei lo
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osserva attraversare la strada e incamminarsi verso la ferrovia, finché non scompare nella vegetazione. La ragazzina guarda il giocattolo di plastica, bagnato dal sudore della mano dell’uomo, e gli grida: «Ehi? Non voglio il tuo sciocco cavallo!». Lo sbatte a terra. Rimbalza una volta prima di atterrare accanto alla sua bicicletta-ruota panoramica. L’occhio verniciato del pony fissa, inespressivo, il bombo, che si è raddrizzato e si sta allontanando, trascinandosi sul terriccio. Ma in seguito se lo va a riprendere. Altroché.
Harper 20 novembre 1931
La sabbia cede sotto di lui. Non è affatto sabbia, ma putrido fango ghiacciato che gli inzacchera le scarpe e gli impregna le calze. Harper impreca a bassa voce, per non farsi sentire dagli uomini. Stanno gridando tra loro nel buio: «Lo vedete? L’avete preso?». Se l’acqua non fosse così maledettamente fredda, se la rischierebbe di fuggire a nuoto. Ma sta già tremando per il vento che si alza dal lago e che lo pizzica e tormenta sotto la camicia, da quando ha lasciato la giacca coperta dal sangue di quell’idiota dietro lo spaccio clandestino di alcol. Attraversa a fatica la spiaggia, destreggiandosi tra la spazzatura e i tronchi marci, sguazzando nel fango a ogni passo. Si accovaccia dietro una baracca ai margini dell’acqua, una baracca di scatoloni compattati con carta catramata. Una luce artificiale filtra dalle crepe e dalle rabberciature, facendola luccicare tutta. Non sa perché ci sia gente che costruisce a così poca distanza dal lago, come se pensasse che il peggio sia già avvenuto e che da qui in poi
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le cose non possano che migliorare. Come se la gente non cagasse nell’acqua bassa. Come se l’acqua non potesse gonfiarsi di pioggia e spazzar via la stramaledetta, maleodorante baraccopoli. La residenza di uomini dimenticati, pregni di sventura fino al midollo. Nessuno ne sentirebbe la mancanza. Così come nessuno sentirà la mancanza del fottuto Jimmy Grebe. Non si era aspettato che Grebe sanguinasse in quel modo. Non ce ne sarebbe stato bisogno se quel bastardo non avesse giocato sporco. Ma era grasso e ubriaco e disperato. Non sapeva nemmeno tirare un cazzotto e così si era gettato sulle palle di Harper, che si era sentito afferrare per i pantaloni dalle spesse dita di quel figlio di puttana. Se un uomo si batte in maniera sgradevole, rispondi in maniera ancor più sgradevole. Non era stato colpa di Harper se il margine frastagliato del bicchiere gli aveva reciso un’arteria. Lui aveva puntato alla faccia di Grebe. Non sarebbe successo nulla di tutto ciò se quel tubercolotico non avesse tossito sulle carte. Certo, Grebe aveva pulito con una manica lo scaracchio sanguinolento, però tutti avevano capito che soffriva di tubercolosi da come aveva tossito nel fazzoletto sporco di sangue. Malattie e disastri e i nervi a fior di pelle degli uomini. Ecco la fine dell’America. Provate a dirlo al «sindaco» Klayton e alla sua masnada di vigilantes ciucciacazzo, tutti impettiti come se questo posto gli appartenesse. Ma qui la legge manca. Così come mancano i soldi. Il rispetto per se stessi. I segni
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li ha visti e non solo i cartelli su cui sta scritto «pignorato». Ammettiamolo, pensa, l’America se l’è meritato. Una pallida scia di luce percorre la spiaggia, posandosi sulle cicatrici che si è lasciato alle spalle nel fango. Ma poi la torcia elettrica oscilla e si mette in caccia in un’altra direzione e la porta della baracca si apre, spandendo luce dappertutto. Ne esce una donna pelle e ossa che sembra un ratto. Ha il viso contratto e grigio nella luminescenza da kerosene – come il viso di chiunque altro che viva da queste parti – come se le tempeste di polvere abbattutesi sulle campagna avessero spazzato via ogni traccia dei caratteri delle persone insieme alle loro messi. Sulle sue spalle scheletriche poggia, a mo’ di scialle, una giacca sportiva scura di tre taglie troppo grande per lei. Lana pesante. Lui sa che gliela porterà via ancor prima di rendersi conto che la donna è cieca. I suoi occhi sono assenti. Il suo alito sa di cavolo e denti marci. Allunga una mano per toccarlo. «Cosa succede?» chiede. «Perché gridano?» «Un cane idrofobo» risponde Harper. «Gli stanno dando la caccia. Farebbe meglio a tornare dentro, signora.» Avrebbe potuto toglierle la giacca di dosso e sparire. Ma la donna avrebbe potuto urlare. Avrebbe potuto lottare con lui. La donna si stringe la camicia. «Aspetti» dice. «È lei? Bartek?» «No, signora.» Cerca di staccarsi le sue dita di dosso. La voce della donna sta crescendo di intensità. Rischia di attirare l’attenzione. «È lei. Deve esserlo. Ha detto che lei sarebbe venuto.» Rasenta l’isteria. «Ha detto che lui sarebbe…»
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«Shhh, va tutto bene» dice Harper. Sollevare l’avambraccio e raggiungere le gola della donna e spingerla indietro contro la baracca con tutto il suo peso non gli costa il minimo sforzo. Solo per placarla, dice a se stesso. Difficile gridare quando qualcuno ti schiaccia la trachea. Le labbra si sporgono e si gonfiano. Gli occhi le escono dalle orbite. Il gozzo si solleva per protesta. Contorce le mani sulla camicia di Harper come se stesse strizzando dei panni lavati e poi le sue dita fragili si staccano e lei si affloscia contro la parete. Lui si piega insieme a lei, posandola delicatamente, mentre le toglie la giacca dalle spalle. Un ragazzino lo sta fissando dall’interno della casupola con occhi grandi abbastanza da inghiottirti in un sol colpo. «Cosa guardi?» chiede Harper con un sibilo, infilando le braccia nelle maniche. È troppo grande per lui, ma non fa niente. Dalla tasca della giacca esce un suono metallico. Qualche moneta, se è fortunato. Ma si tratta di ben altro. «Va’ dentro. Va’ a prendere un po’ d’acqua per tua madre. Non sta bene.» Il ragazzino lo fissa e poi, senza cambiare espressione, apre la bocca e lancia un lamento stridulo, attirando su di sé le maledette torce elettriche. I fasci di luce puntano immediatamente sulla soglia e sulla donna in terra, ma Harper si è già dato alla fuga. Uno dei compari di Klayton – o, magari, è lo stesso sindaco che si è autonominato – grida «Laggiù!» e gli uomini corrono verso la spiaggia per inseguirlo. Harper sfreccia nel dedalo di baracche e tende erette senza una logica, una sull’altra, con lo spazio a malapena
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sufficiente per il passaggio di un carretto. Gli insetti ragionano meglio, pensa, mentre punta grosso modo verso Randolph Street. Non conta sul fatto che le persone si comportino come termiti. Posa il piede su un telone e vi cade dentro, finendo in una fossa grande come un pianoforte, ma decisamente più profonda, scavata nel terreno nel punto in cui qualcuno ha stabilito una parvenza di abitazione e ha semplicemente inchiodato una copertura sul terreno sovrastante. Atterra con violenza, sbattendo con il tallone sinistro sul fianco di un bancale di legno, producendo un suono metallico secco simile a quello di una corda di chitarra che si spezza. L’impatto lo proietta contro il bordo di una stufa di fortuna, che lo colpisce sotto la cassa toracica e lo fa restare senza respiro. È come se una pallottola gli avesse perforato la caviglia, ma non ha udito colpi d’arma da fuoco. Non ha il fiato per gridare e sta soffocando nel telone che gli è caduto sopra. Lo trovano lì, mentre si dimena per liberarsi del telo e impreca contro quel cretino di un rottame umano che non ha avuto i materiali o le capacità per costruirsi una baracca come si deve. Gli uomini si radunano sopra il nascondiglio, sagome malevole dietro i bagliori delle torce elettriche. «Non puoi venire qui a fare quel che ti pare come se niente fosse» dice Klayton, con la sua migliore voce da predicatore della domenica. Harper, finalmente, è di nuovo in grado di respirare. Ogni boccata d’aria brucia come un punto di sutura a un fianco. Si è certamente spez-
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zato una costola e si è procurato una lesione ancor più seria al piede. «Devi rispettare il tuo vicino e il tuo vicino deve rispettare te» continua Klayton. Harper lo ha sentito utilizzare quella frase nei raduni della comunità, lo ha sentito dire che era importante cercare di andare d’accordo con le attività commerciali del posto, le stesse che hanno chiesto alle autorità di affiggere avvisi su ogni tenda e bicocca, per comunicare alla gente che avrebbe avuto sette giorni per andarsene. «Difficile essere rispettosi quando si è morti» dice Harper, con una risata, anche se suona più come un respiro affannoso che gli procura un nodo di dolore allo stomaco. Pensa che quella gente possa avere in mano dei fucili da caccia, ma gli pare improbabile, ed è solo quando una delle torce elettriche si sposta dal suo viso che nota che sono armati di tubi e martelli. Gli si stringe nuovamente l’intestino. «Dovreste consegnarmi alla polizia» dice, speranzoso. «Nooo» risponde Klayton. «La polizia qui non ha la minima autorità.» Agita la torcia. «Trascinatelo via, ragazzi. Prima che Musogiallo Eng torni in questo buco e trovi questo rifiuto tossicomane qui dentro.» Ed ecco un altro segnale, chiaro come l’alba, che sta iniziando a farsi lentamente strada sull’orizzonte, al di là del ponte. Prima che i tirapiedi di Klayton possano compiere la discesa di tre metri necessaria per mettere le mani su di lui, inizia a piovere, gocce taglienti, fredde e aspre. E si sentono delle grida dall’altro lato del campo. «Polizia! È una retata!»
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Klayton si gira per parlare con i suoi uomini. Dalle cose insensate che farfugliano e dal modo in cui si sbracciano, sembrano scimmie e poi un getto di fiamme si apre la strada nella pioggia, illuminando il cielo e mettendo fine alla loro conversazione. «Ehi, lasciate quel…» Un grido fluttua fin lì da Randolph Street. Seguito da un altro. «Hanno del kerosene» urla qualcuno. «Cosa aspettate?» dice Harper, pacatamente, sotto la pioggia martellante e nel trambusto. «Resta dove sei» ribatte Klayton, agitandogli contro il pezzo di tubo che ha in mano, mentre le sagome si disperdono. «Con te non abbiamo ancora finito.» Ignorando il suono stridulo prodotto dalle sue costole, Harper si puntella faticosamente sui gomiti e si mette a sedere. Si sporge in avanti, afferra il telone tuttora appeso su un lato ai chiodi e gli dà uno strattone, temendo l’inevitabile. Invece, tiene. Distingue sopra di sé, nella confusione, il tono dittatoriale del bravo sindaco, strepita contro qualcuno che non vede. «Avete un mandato del tribunale? Pensate di potervene venire qui a bruciare le case della gente dopo che abbiamo perso tutto già una volta?» Harper agguanta un bel pezzo del telone con una mano e, utilizzando la stufa rovesciata per far leva con il piede sano, si tira su. La sua caviglia sbatte contro la parete di terriccio e un lampo fortissimo di dolore, chiaro come Dio, lo acceca. Vomita, sputando fuori solo un lungo amalgama filamentoso di saliva e catarro tinto di rosso.
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Si aggrappa al telone, strizzando gli occhi con forza di fronte ai buchi neri che esplodono nel suo campo visivo, finché non ritrova la vista. Le grida si stanno disperdendo sotto il tamburellio della pioggia. Non gli resta molto tempo. Si issa rapidamente sul telone unto e bagnato. Non ci sarebbe riuscito neppure un anno fa. Ma, dopo dodici settimane passate a sparare rivetti nel Triboro di New York, è forte come l’orangutan rognoso che ha visto tranciare i meloni in due a mani nude a una fiera di campagna. Il telo produce rumori di protesta sinistri, preoccupanti, minacciando di precipitarlo nuovamente in quel dannato buco. Invece regge e lui si tira su con facilità sul ciglio, incurante persino dei graffi al petto provocati dai chiodi che bloccano il telone. In seguito, esaminando le sue ferite con calma, noterà che quei solchi fanno pensare che una puttana entusiasta abbia impresso il proprio marchio su di lui. Giace lì, con la faccia nel fango e la pioggia che gli scroscia sopra. Le urla si sono allontanate, per quanto l’aria puzzi di fumo e la luce prodotta da mezza dozzina di fuochi si mescoli con il grigio dell’alba. Un frammento musicale giunge fin lì nella notte, forse dalla finestra di un appartamento a cui gli inquilini si sono affacciati per godersi lo spettacolo. Harper striscia sulla pancia nel fango, con il cranio inondato di luci per il dolore che sente, oppure, forse, sono reali. È una sorta di rinascita. Striscia, ma poi la situazione migliora e lui inizia a zoppicare quando trova un pesante pezzo di legno dell’altezza giusta per appoggiarvisi.
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Il suo piede sinistro è fuori uso e lui se lo trascina dietro. Ma seguita ad avanzare nella pioggia e nel buio, ad allontanarsi dalla bidonville in fiamme. Tutto avviene per un motivo. È perché è costretto ad andarsene che trova la Casa. È perché ha rubato la giacca che ha la chiave.
Kirby 18 luglio 1974
È l’ora della notte in cui il buio si fa pesante; dopo che i treni hanno smesso di viaggiare e il traffico si è esaurito, ma prima che gli uccelli inizino a cantare. È una notte davvero torrida. Un caldo appiccicaticcio che fa uscire allo scoperto tutti gli insetti. Falene e formiche volanti zampettano contro la luce della veranda con un tamburellio irregolare. Una zanzara ronza in un punto imprecisato, vicino al soffitto. Kirby è a letto, sveglia, e sta accarezzando la criniera di nylon del pony e ascoltando i suoni della casa vuota, grugnendo come uno stomaco vuoto. «È in aggiustamento» dice Rachel. Ma Rachel non c’è. Ed è tardi, o presto, e Kirby non mangia i cornflake stantii di una colazione consumata da parecchio e i rumori che si sentono non rientrano in quell’«aggiustamento». Kirby sussurra al pony: «È una casa vecchia. Probabilmente, si tratta solo del vento». Però la porta della veranda è chiusa con il chiavistello e non dovrebbe sbattere.
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Le assi del parquet non dovrebbero cigolare come sotto il peso di un ladro che avanza in punta di piedi verso la sua camera, trascinando con sé un sacco nero in cui infilarla, per poi portarla via. O, forse, è la bambola vivente del telefilm pauroso che non dovrebbe guardare a produrre un ticchettio con i suoi piedini di plastica. Kirby tira via il lenzuolo. «Vado a dare un’occhiata, d’accordo?» dice al pony, perché la prospettiva di lasciare che il mostro vada da lei è intollerabile. Si avvicina in punta di piedi alla porta su cui sua madre ha dipinto fiori esotici e rampicanti selvaggi, quando si sono stabilite lì, quattro mesi fa, pronta a sbatterla in faccia a chiunque (o qualunque cosa) salga le scale. Si ferma dietro la porta, come fosse uno scudo, sforzandosi di sentire, grattando la trama ruvida della vernice. Ha già graffiato via un giglio tigrino cinese, facendo affiorare il legno spoglio. Le formicolano i polpastrelli. Il silenzio le risuona in testa. «Rachel?» sussurra Kirby, a voce troppo bassa perché chiunque, a parte il pony, possa udirla. Si sente un tonfo, molto vicino, poi un botto e il rumore di qualcosa che si rompe. «Merda!» «Rachel?» ripete Kirby, a voce più alta. Le sferraglia il cuore come un treno del mattino. Segue una lunga pausa. Poi, sua madre dice: «Torna a letto, Kirby. Sto bene». Kirby sa che non è così. Ma, per lo meno, non si tratta di Talky Tina, la bambola assassina vivente. Smette di tormentare la vernice e attraversa l’atrio con
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passo felpato, dribblando i cocci di vetro simili a diamanti tra le rose morte, con le loro foglie raggrinzite e le loro teste morbide in una pozza di acqua da vaso maleodorante. La porta è stata lasciata socchiusa per lei. Ogni nuova casa è più vecchia e più malridotta della precedente, malgrado Rachel dipinga le porte e gli armadi e, qualche volta, persino le assi del pavimento per renderla più loro. Scelgono insieme le immagini dal grande libro d’arte grigio di Rachel: tigri o unicorni o santi o isolane abbronzate con fiori tra i capelli. Kirby utilizza i quadri come indizi per rammentare a se stessa in che posto sono. Questa casa ha gli orologi molli sull’armadio della cucina, il che significa che il frigorifero è a sinistra e il bagno sotto le scale. Ma, anche se la disposizione di ogni casa è diversa e, talvolta, hanno un cortile e, talvolta, la camera da letto di Kirby ha un armadio a muro e, talvolta, lei ha la fortuna di avere degli scaffali, la stanza di Rachel è l’unica cosa che resta uguale. Per lei è come il tesoro dei pirati. (Kirby se lo immagina come un’insenatura nascosta in cui puoi entrare in barca, se hai fortuna, se la tua mappa è giusta.) Indumenti e sciarpe sono sparpagliati nella stanza come se una principessa pirata avesse dato in escandescenze. Parecchi articoli di bigiotteria sono appesi agli svolazzi d’oro di uno specchio ovale, la prima cosa che Rachel sistema ogni volta che si trasferiscono in un posto nuovo, schiacciandosi immancabilmente un pollice con il martello. A volte, giocano alle modelle e Rachel mette ogni collana e braccialetto addosso a Kirby e la chiama la
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mia «bambina-albero di natale», nonostante siano ebree o mezze ebree. C’è una decorazione di vetro alla finestra che proietta una danza di arcobaleni in tutta la stanza con il sole del pomeriggio, sul tavolo da disegno inclinato e su qualsiasi illustrazione su cui Rachel stia lavorando al momento. Quando Kirby era molto piccola e vivevano ancora in città, Rachel sistemava il box intorno alla sua scrivania per consentire a Kirby di gattonare nella camera senza recarle disturbo. Un tempo, realizzava disegni per riviste femminili, ma ora «il mio stile è fuori moda, piccola: il mondo è volubile». A Kirby il suono di quella parola piace. Volubile-solubile-mutevole-cedevole. E le piace vedere il disegno di sua madre, quello della cameriera che fa l’occhiolino mentre tiene in equilibrio due pancake stillanti burro e che vedono quando passano accanto al Doris’s Pancake House per raggiungere il negozio all’angolo. Ma ormai la decorazione di vetro è fredda e senza vita e intorno alla lampada accanto al letto è stata praticamente avvolta una sciarpa gialla che dà un’aria malsana all’intera stanza. Rachel è a letto con un cuscino sulla faccia, ancora vestita, con le scarpe ai piedi e tutto il resto. Il suo petto sussulta sotto l’abito di pizzo nero, come se avesse il singhiozzo. Kirby staziona sulla soglia, sperando che sua madre la noti. Si sente la testa gonfia di parole che non sa come esprimere. «Sei a letto con le scarpe» è ciò che alla fine riesce a dire. Rachel solleva il cuscino dalla faccia e guarda la figlia
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con i suoi occhi gonfi. Il trucco ha lasciato uno sbaffo nero sul cuscino. «Scusa, tesoro» dice con la sua voce più allegra. «Devi toglierti le scarpe.» «Lo so, tesoro» risponde Rachel, con un sospiro. «Non gridare.» Si sfila con la punta del piede le scarpe scollate marrone-nere dai tacchi alti e le lascia cadere sul pavimento. Si gira sulla pancia. «Ti spiace grattarmi la schiena?» Kirby sale sul letto e le si siede accanto, a gambe incrociate. I capelli di sua madre sanno di fumo. Segue i disegni a spirale del pizzo con le unghie. «Perché piangi?» «Non sto piangendo.» «Invece sì.» Sua madre sospira. «È quel particolare momento del mese, nient’altro.» «Dici sempre così.» Kirby si acciglia e poi aggiunge, come se ci avesse pensato solo dopo: «Ho trovato un pony». «Non posso permettermi di comprarti un pony.» La voce di Rachel è irreale. «No, ne ho già uno» dice Kirby, esasperata. «Una femmina. È arancione. Ha le farfalle sul sedere e occhi castani e capelli dorati e… ehm… sembra inciucchita.» Sua madre gira la testa e la guarda, agitata all’idea. «Kirby! Hai rubato qualcosa?» «No! È un regalo. Non lo volevo nemmeno.» «In tal caso, non c’è problema.» Sua madre si stropiccia gli occhi con il dorso della mano, lasciandosi una scia di mascara sulle palpebre, come uno scassinatore. «Posso tenerlo, allora?»
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«Certo che puoi. Puoi fare praticamente tutto quello che vuoi. Soprattutto con i regali. Puoi addirittura romperli in un fantastiliardo di pezzi.» Come il vaso dell’atrio, pensa Kirby. «D’accordo» dice, seria. «Ti puzzano i capelli.» «Senti chi parla!» La risata di sua madre è come un arcobaleno che ondeggia in una stanza. «Quand’è stata l’ultima volta che te li sei lavati?»
Harper 22 novembre 1931
Il Mercy Hospital, l’ospedale della misericordia, non è all’altezza del suo nome. «Ha i soldi per pagare?» chiede la donna dall’aria stanca del gabbiotto del ricevimento attraverso il buco tondo nel vetro. «I pazienti in grado di pagare hanno la priorità nella fila.» «Quanto c’è da aspettare?» brontola Harper. La donna inclina la testa verso la zona d’attesa del triage. È una sala in cui non ci sono posti a sedere, separata dalle persone sedute o semi-abbandonate sul pavimento, troppo malate o stanche o solo maledettamente annoiate per restare in piedi. Qualche occhiata di speranza o sdegno o una miscela insostenibile delle due cose nei loro occhi. Gli altri hanno la stessa espressione rassegnata che ha visto in qualche cavallo da tiro stremato, le costole pronunciate come le crepe e i solchi della terra morta che faticano ad arare. I cavalli come quelli li ammazzi. Cerca nella tasca della giacca rubata la banconota sgualcita da cinque dollari che vi ha trovato, insieme a
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una spilla da balia, tre monete da dieci centesimi, due da un quarto di dollaro e una chiave consumata in modo ormai familiare. O, forse, si è abituato all’opacità. «Bastano per avere misericordia, dolcezza?» chiede, schiaffando la banconota al di là dello sportello di vetro. «Sì.» La donna sostiene il suo sguardo, come per dirgli che non si vergogna di chiedergli soldi, malgrado quel gesto faccia intendere diversamente. La donna suona una campanella e un’infermiera viene a prenderlo, sbattendo le scarpe comode sul linoleum. La targhetta di riconoscimento dice che si chiama E. Kappel. È bella, di una bellezza ordinaria. Con le guance arrossate e ricci di un colore castano-ruggine scrupolosamente raccolti, sotto il cappello bianco. A parte il naso, che è fin troppo all’insù, e lo fa assomigliare a un grugno. Maialina, pensa Harper. «Venga con me» gli dice, irritata dal semplice fatto che lui sia lì. Lo deve aver già catalogato come l’ennesimo rifiuto umano. Si volta e si allontana rapida e lui è costretto a rincorrerla. Ogni passo gli fa schizzare un dolore lancinante verso l’anca, come un razzo cinese, ma lui è determinato a non restare indietro. Ogni reparto che superano è al massimo della capacità e, addirittura, talvolta ci sono due persone in un letto solo, sistemate una da un lato e una dall’altro. Con tutte le malattie che debordano fuori. Non è brutto come negli ospedali da campo, pensa. Uomini straziati che vengono assiepati su barelle chiazzate di sangue nel fetore di ustioni e ferite infette e merda
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e vomito e sudori acidi da febbre. Nel lamento incessante, simile a uno spaventoso coro. Si ricorda di quel ragazzo del Missouri che aveva perso una gamba in un’esplosione. Non la voleva smettere di gridare, tenendoli tutti svegli, finché Harper gli si era avvicinato di soppiatto, come per consolarlo. In realtà, aveva fatto scivolare la sua baionetta nella coscia di quell’idiota, sopra quello sfacelo sanguinolento, per tranciare l’arteria con un colpetto preciso. Proprio come si era esercitato sui pupazzi di paglia durante l’addestramento. Affonda il pugnale e giralo. Una ferita alla pancia ferma un uomo, sempre. Harper l’aveva sempre trovato più personale delle pallottole, infilarsi dentro qualcuno. Aveva reso la guerra tollerabile. Qui non ce n’è la minima possibilità, ipotizza. Ma ci sono altri modi per sbarazzarsi di pazienti molesti. «Dovreste mettere fine alle loro sofferenze» dice Harper, tanto per provocare l’infermiera cicciottella. «Vi ringrazierebbero.» La donna emette una specie di grugnito di stizza mentre lo accompagna oltre le porte dei reparti privati, linde camere singole, per lo più vuote. «Non mi tenti. In questo momento, un quarto dell’ospedale serve da lazzaretto. Febbre tifoidea, infezioni. Il veleno sarebbe una benedizione. Ma non si faccia sentire dai medici a parlare di mettere fine alle sofferenze dei pazienti.» Da una porta aperta, vede una ragazza su un letto circondato di fiori. Ha un’aria da star del cinema, per quanto sia passato oltre un decennio da quando Charlie Chaplin
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se n’è andato da Chicago alla volta della California e si sia portato dietro l’intera industria cinematografica. I suoi capelli sono sudaticci al punto che boccoli biondi umidi le cingono fermamente il volto, reso ancor più pallido dalla luce esangue del sole invernale che fatica a entrare dalle finestre. Ma, mentre lui barcolla fuori, gli occhi della ragazza si aprono. Si mette praticamente a sedere e gli rivolge un sorriso radioso, come se lo stesse aspettando e volesse invitarlo a sedersi per parlare un po’ con lei. L’infermiera Kappel non ne vuole sapere. Lo afferra per un gomito e lo porta via. «Basta guardare. L’ultima cosa di cui quella sfacciata ha bisogno è l’ennesimo ammiratore.» «Chi è?» Si volta a guardare. «Nessuno. Una ballerina, di quelle che si spogliano. Quella piccola idiota si è avvelenata con il radio. Fa parte del suo spettacolo: si copre di una vernice che la fa luccicare nel buio. Non si preoccupi, presto verrà dimessa e, allora, di lei potrà vedere tutto quel che le pare. Proprio, tutto, a quanto si dice.» Lo conduce nello studio del dottore, bianchissimo, dal forte odore di disinfettante. «Ora si sieda qui e vediamo cosa si è fatto.» Lui sale con qualche difficoltà sul tavolo delle visite. Lei fa una smorfia di concentrazione mentre taglia gli stracci sudici che lui si è legato in maniera quanto più stretta fosse in grado di sopportare, a mo’ di staffa, sotto il tallone. «Lo sa che lei è stupido?» Quel sorrisino sulla bocca
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dell’infermiera dice che sa di potersi permettere di parlargli in quel modo. «Per aver aspettato a venire qui. Pensava che la situazione sarebbe migliorata da sola?» Ha ragione. Non aiuta il fatto che abbia dormito male nelle ultime due notti, accampato in un androne con uno scatolone di cartone come giaciglio e una giacca rubata come coperta perché non può tornarsene nella sua tenda, nel caso Klayton e i suoi scagnozzi lo attendano con i loro tubi e i loro martelli. Le belle lame argentate delle forbici fanno snic-snic sulla fasciatura di stracci che ha scavato righe bianche nel suo piede gonfio, al punto da farlo sembrare un insaccato legato per bene. E adesso chi è il maialino? La cosa stupida, è la sua amara riflessione, è che ha superato la guerra senza danni permanenti e ora resterà zoppo per essere caduto nel rifugio di un vagabondo. Il dottore, un uomo di una certa età con una discreta imbottitura intorno alla pancia e capelli grigi fitti intorno alle orecchie, a mo’ di criniera leonina, fa irruzione nella stanza. «E quale sarebbe il suo disturbo oggi, signore?» Il sorriso che l’accompagna non rende la domanda meno condiscendente. «Be’, non ho ballato cosparso di vernice fluorescente...» «E non ne avrà nemmeno l’opportunità, a quel che vedo» ribatte il dottore, senza smettere di sorridere, mentre prende tra le mani il piede gonfio e lo flette. Si scosta in modo abile, persino professionale, quando Harper urla per il dolore e cerca di colpirlo.
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«Continui a comportarsi così, amico, se vuole essere messo alla porta seduta stante» dice il dottore con un ghigno. «Che abbia pagato o meno.» Stavolta, quando gli flette il piede su e giù, su e giù, Harper digrigna i denti e stringe i pugni per non colpirlo. «Ce la fa a tirare su le dita dei piedi da solo?» chiede, osservandolo attentamente. «Bene. Buon segno. Meglio di quanto pensassi. Eccellente. Vede?» dice all’infermiera, stringendo la tacca poco profonda sopra il tallone. Harper emette un gemito. «È lì che dovrebbe trovarsi l’attaccatura del tendine.» «Oh, sì» risponde l’infermiera, pizzicando la pelle. «Lo sento.» «Che significa?» domanda Harper. «Significa che dovrebbe passare i prossimi mesi supino, in ospedale, amico, anche se suppongo che per lei non sia un’opzione praticabile.» «No, a meno che non sia gratis.» «O a meno che lei non abbia qualche protettore interessato che sponsorizzi la sua convalescenza, come la nostra ragazza del radio.» Il dottore fa l’occhiolino. «Possiamo farle un gesso, dimetterla con la stampella. Ma un tendine strappato non guarisce da solo. Non è il caso che lei poggi i piedi per almeno sei settimane. Posso raccomandarle un calzolaio specializzato in scarpe mediche da cui farsi rialzare il tacco. In qualche modo le sarà d’aiuto.» «E come faccio? Devo lavorare.» Harper è incazzato per il tono lamentoso che si insinua nella sua voce.
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«Tutti noi dobbiamo affrontare difficoltà finanziarie, signor Harper. Chieda agli amministratori dell’ospedale. Le consiglio di fare ciò che può.» Aggiunge, malinconicamente: «Immagino che lei non sia malato di sifilide, vero?». «No.» «Peccato. In Alabama sta per prendere il via una ricerca che, se ne avesse sofferto, avrebbe pagato le sue cure mediche. Solo che sarebbe dovuto essere nero.» «Non sono neanche quello.» «Un vero peccato.» Il dottore fa spallucce. «Sarò in grado di camminare?» «Oh, sì» dice il dottore. «Solo che non conterei sul fatto di poter fare un’audizione davanti al signor Gershwin.» Harper lascia l’ospedale zoppicando, con le costole fasciate, il piede ingessato, il sangue saturo di morfina. Si infila una mano in tasca per tastare quanti soldi gli restino. Due dollari e qualche monetina. Ma poi le sue dita sfiorano la dentellatura frastagliata della chiave e qualcosa nella sua mente si attiva come un apparecchio radio. Forse sono i farmaci. O forse è qualcosa che lo attendeva da sempre. Non ha mai notato prima che i lampioni ronzano, una frequenza bassa che gli si insinua sotto i bulbi oculari. E, malgrado sia pomeriggio e i lampioni siano spenti, sembrano accendersi quando gli passa sotto. Il ronzio si sposta al lampione successivo, come per indicargli la via. Da questa parte. E sarebbe pronto a giurare di aver udito una musica gracchiante, una voce lontana che giunge a lui come una radio da sintonizzare. Segue il sentiero del ronzio dei lam-
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pioni, procedendo più velocemente possibile, ma la gruccia lo impaccia. Imbocca la State, che lo porta dal West Loop ai canyon di Madison Street, con i quaranta piani dei suoi grattacieli che incombono da entrambi i lati. Attraversa i bassifondi, in cui due dollari forse possono procurargli un letto per qualche tempo, ma il ronzio e le luci lo spingono a proseguire fino al Black Belt, dove le bettole del jazz e i caffè cedono il posto a case popolari affastellate le une sulle altre, con bambini vestiti di stracci che giocano in strada e vecchi con sigarette fatte a mano che gli lanciano occhiate torve, seduti sui gradini. La strada si restringe e gli edifici si fanno sempre più vicini, proiettando ombre da brividi sul marciapiedi. Una donna ride da uno degli appartamenti ai piani alti: una risata brusca e agghiacciante. Ci sono cartelli dovunque lui guardi. Finestre rotte nei caseggiati, insegne scritte a mano nelle vetrine vuote più in basso: «Chiuso per cessata attività», «Chiuso fino a ulteriore comunicazione» e, in un caso, semplicemente «Spiacenti». Il vento che fende lo squallido pomeriggio, penetrandogli nella giacca, porta con sé un’umidità salmastra proveniente dal lago. Man mano che avanza in quel quartiere di magazzini, le persone si fanno più rade e poi spariscono del tutto e, in loro assenza, la musica cresce, dolce e malinconica. E ora riconosce il brano. Somebody from Somewhere. E la voce sussurra, con insistenza: Va’ avanti, va’ avanti, Harper Curtis. La musica gli fa superare i binari della ferrovia, por-
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tandolo nel cuore del West Side e sulle scale di una pensione per operai, indistinguibile dal resto delle case popolari in successione, addossate tra loro, con la vernice staccata e i bovindi sbarrati dalle assi e un cartello affisso alle assi inchiodate a X sull’ingresso che recita, «Dichiarata inagibile dalla Città di Chicago». Lasciate qui il vostro voto per il presidente Hoover, uomini speranzosi. La musica giunge da dietro la porta del 1818. Un richiamo. Allunga una mano sotto le assi incrociate e prova ad aprire la porta, che però è chiusa a chiave. Harper staziona sui gradini, in preda alla forte sensazione di una terribile ineluttabilità. La strada è completamente abbandonata. Le altre case hanno le porte sbarrate o le tende tirate. Sente il rumore del traffico a un isolato di distanza, un ambulante che vende arachidi. «Mangiatele calde! Mangiatele in movimento!» dice, ma la sua voce è smorzata, come se avesse la testa avvolta nelle coperte. Invece, la musica è una scheggia acuta che gli penetra nel cranio: La chiave. Si infila una mano nella tasca della giacca, improvvisamente terrorizzato all’idea di averla persa. È un sollievo scoprire che c’è ancora. Bronzo su cui è impresso il marchio Yale & Towne. La serratura della porta corrisponde. Con mano tremante, infila la chiave nella toppa. Scatta. La porta si apre sul buio e, per un lungo e terribile istante, lui è paralizzato dalle possibili scelte. E poi passa sotto le assi, facendo entrare con qualche difficoltà la stampella nel varco e, da lì, nella Casa.
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