Governare confusioni urbane

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Annuario 2010

Governare confusioni urbane a cura di Marzia Ravazzini e Benedetto Saraceno


www.saggiatore.it

Š il Saggiatore s.p.a., Milano 2010


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Sommario

Introduzione di don Virginio Colmegna e Silvia Landra La cittadinanza è terapeutica

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di Carlo Maria Martini

Il paradigma della sofferenza urbana

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di Benedetto Saraceno

Outside-In e Inside-Out: un approccio alla sofferenza in Sudafrica

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di Melvyn Freeman

La salute mentale dei senzatetto e degli immigrati in Cile

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di Alberto Minoletti, Irma Rojas, Felipe Gross

Iniziative per la salute mentale in India di R. Srinivasa Murthy

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Si accettano scommesse sulla sopravvivenza della psichiatria nel prossimo futuro

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di Angelo Barbato

La confusione da governare

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di Benedetto Saraceno

Bibliografia internazionale annotata

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di Benedetto Saraceno

Note sugli autori

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Introduzione di don Virginio Colmegna e Silvia Landra

Souq, ovvero Centro Studi Sofferenza Urbana, nasce a Milano tre anni fa. È un progetto ancora giovane che tuttavia poggia su due pilastri robusti: da un lato l’esperienza di don Virginio Colmegna, che nella diocesi ambrosiana è stato collaboratore del cardinale Carlo Maria Martini dirigendo la Caritas per undici anni e poi fondando la Casa della carità, dall’altro l’esperienza del dottor Benedetto Saraceno, psichiatra, per quindici anni responsabile a Ginevra del dipartimento Salute mentale e dipendenze dell’Organizzazione mondiale della sanità. Casa della carità a Milano, sede simbolica e operativa di Souq, è un contesto vitale con centoventi posti letto, un gran numero di attività culturali e artistiche che l’attraversano, alcuni spazi diurni per la cura delle persone e molti percorsi di inclusione sociale che da essa partono e diventano azione territoriale, spesso in collaborazione con istituzioni della società civile. Non è un caso che proprio in una metropoli e proprio in una realtà sociale nata con l’intento di incontrare e curare nei


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mondi del «confine» sorga anche l’esigenza di un centro studi come Souq. La nostra prima ipotesi, infatti, è che ogni azione verso i cosiddetti poveri delle periferie urbane possa diventare, in un tempo più o meno breve, pericoloso assistenzialismo se non sostenuta da idee forti che continuamente rinfreschino l’azione, connotandola di significato, impregnandola di tensione etica e politica, inquadrandola in un contesto che deve essere letto come complesso, perché tale è. La stessa esperienza dice che per contenere i fallimenti del curare, la bontà facile e la routine dell’aiuto (quella che nelle istituzioni totali si è silenziosamente trasformata in ferocia verso gli assistiti) occorre studiare molto, esplorare i fenomeni, accedere con curiosità alle domande più impegnative, interrogare il presente e la storia con volontà di apprendere. Studiare la complessità e non temerla è dunque imperativo etico e politico per i promotori del Souq. La persona «sulla strada» è portatrice di numerose problematiche e questioni irrisolte, i bisogni (espressi o non espressi) sono compositi: cosa accade quando nella città si offrono risposte a senso unico, semplificatorie e frammentanti, che inevitabilmente lasciano nel soggetto già fragile e povero di diritti la sensazione dolorosa di essere guardato, misurato, percepito solo come un pezzo della propria interezza e integrità? Un provvedimento di polizia è una risposta troppo ingiusta e semplice alla domanda di inclusione sociale. Uno sgombero è una risposta troppo semplice alle problematiche di un insediamento urbano che vive nel degrado e dove alcuni praticano la criminalità, ma nel quale si sono assestate famiglie, figli hanno intrapreso la scuola, si curano malattie, si conduce intensamente una vita.


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L’elenco di possibili risposte «troppo semplici» a questioni complesse sarebbe lungo e improduttivo, rendendo rancorosi i cittadini che non vedono risolti i problemi e burocrati gli operatori quando nella semplificazione e nella frammentazione trovano la loro nicchia difensiva e talvolta si paralizzano. Ben più efficace è invece l’esplicitazione di domande buone e l’offerta di contesti per formulare nuove ipotesi coraggiose e suscitare pratiche intelligenti. Studiare serve a questo, e Souq si propone di farlo avendo identificato alcuni strumenti per proteggersi dalla semplificazione di cui si è detto, rischio dal quale non si sente affatto immune: 1. Souq ha scelto un primo oggetto di studio ampio e inclusivo, la sofferenza urbana appunto, dichiarando fin da subito di voler scandagliare temi che riguardano la metropoli nel suo svilupparsi come luogo attrattivo e plurale ma anche la città come metafora efficace della società civile intesa nel suo complesso. La parola «sofferenza» è grave e non pochi ci hanno fatto notare quanto sia un azzardo collocarla addirittura nella definizione del Centro e anche abbreviarla nel suo nome «Souq». Tuttavia «benessere urbano» non suonerebbe altrettanto efficace se prima non si cercasse di conoscere le forme del soffrire sul confine, stando nel mezzo dei contesti di periferia, ascoltando la gente che abita la strada. «Sofferenza» è poi parola che più di tutte esprime il dolore umano che può essere lenito, senza trasformare questa grande questione antropologica in una dinamica prevalentemente organizzativo-sanitaria.


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Quasi per trattenere gravità, contraddizioni e antitesi racchiuse nel paradigma della sofferenza urbana e per liberarle in un concetto leggero e promettente, il nostro tentativo di realizzare un acronimo pronunciabile ha spontaneamente prodotto «Souq», nome arabo del mercato, fantasia di suoni, aromi, colori, profumi, opportunità. La caotica armonia del bazar è luogo di ricerca e di scoperta continua; nelle pieghe della sofferenza urbana riflettuta e vissuta scopriamo interessanti sfaccettature dell’umano, avvertiamo il lato bello della complessità, ovvero la diversità trasformante e generativa. 2. Souq non si occupa solo di psichiatria, anche se contiene un’anima appassionata ai temi che riguardano la salute mentale e le sue vicissitudini nella comunità umana di tutti i tempi. Salute mentale e follia contribuiscono a benessere e malessere in un modo speciale, evocando sia percorsi individuali che processi sociali, richiamando la storia delle istituzioni totali per la cura che si sono trasformate in sistemi patogeni. Cogliamo una sorprendente analogia tra i vincoli del manicomio e quelli della strada: dalla condizione degradata e mortifera di «senzatetto» non si esce facilmente, ma solo con molti aiuti, con l’identificazione di problemi nascosti, con una grande costanza, con politiche intelligenti e includenti, con un recupero, passo dopo passo, dei diritti di cittadinanza che la strada annulla in modo spietato. Strada come nuova istituzione totale e strada come luogo di attribuzione di monoidentità tra le più pericolose: nomade, clandestino, vagabondo, delinquente.


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Anche se, come detto, la psichiatria rappresenta solo una porzione degli interessi di Souq, e nemmeno la principale, siamo tuttavia profondamente convinti che, se la malattia mentale è drammatica esperienza di alcuni, che può condurre un soggetto nel circuito della cura psichiatrica, la salute mentale è invece una ricerca esistenziale, di tutti, ogni giorno. La salute mentale non è una questione squisitamente sanitaria ma innanzitutto umana. 3. Souq non ama gli estremi e le antitesi improduttive. Si ritiene oggi che alcuni dibattiti intorno alla cura, alle politiche sociali e alla comprensione dei nuovi fenomeni urbani siano assai impoveriti dall’arroccamento sul sociale come fosse contrapposto al sanitario e viceversa, sul pubblico ritenuto migliore o peggiore rispetto al privato, sul fisico che prevale sul mentale o sullo psichico che oggi prende il sopravvento, sull’approccio informale e volontario da privilegiare a quello tecnico o al contrario sul professionale che basterebbe a se stesso... occorrono piuttosto abili interpreti del quadro d’insieme, raffinati osservatori del contesto, sapienti compositori di «risposte-reti», come teorizza Benedetto Saraceno in un suo saggio riportato nel presente Annuario. Fra tutte le contrapposizioni, Souq ne teme una in modo particolare: la separatezza tra teoria e pratica ovvero la scissione tra il pensare e l’agire come fossero momenti distinti. Non a caso la rivista on line di Souq presenta ogni semestre due rubriche dal titolo significativo: «Teoria in attesa di pratica» e «Pratica in attesa di teoria». Nel primo caso, saggi ed esperti si cimentano in un esercizio di lungimiranza, senza la


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preoccupazione di avere già conferme in altri autori o prove epidemiologiche di ciò che dicono e sognano; nel secondo caso, operatori validi raccontano fatti innovativi e interroganti che emergono dall’esperienza e che ancora non sono stati consegnati a una riflessione sistematica, a un modello teorico di riferimento. Per entrambi è importante vivere il felice senso di incompiutezza, «in attesa di» comporre il pensare e l’agire in una dinamica virtuosa. Riteniamo che «agire ben consapevoli che c’è da pensare» e «riflettere nella certezza che c’è da agire per dare sviluppo al pensiero» siano atteggiamenti oggi troppo spesso disattesi. Lo cogliamo nella scissura talvolta profonda tra mondi accademici e certi contesti di povertà e grave emarginazione sociale sia nazionali che internazionali; lo vediamo anche nell’assenza di riflessione dentro le pratiche di salute e assistenza, che perciò diventano automatiche, piene di buon cuore ma ipocritiche. 4. Souq guarda alle sorprendenti analogie delle metropoli e megalopoli del mondo che, pur nelle profonde diversità locali, presentano forme di disagio identiche e risorse simili per il superamento dell’esclusione. Ci riferiamo alla somiglianza delle periferie, dei ghetti, delle baraccopoli, delle solitudini sulla strada, dell’entità polimorfa del disagio che porta all’isolamento e all’incapacità di chiedere aiuto. Ne deriva che i paesi del mondo hanno molti temi comuni da affrontare e molte idee da scambiarsi per costruire processi di trasformazione verso il benessere dei singoli e delle comunità umane. Benedetto Saraceno ne è testimone speciale, aven-


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do lavorato con le istituzioni dei diversi paesi e avendo visitato la realtà delle maggiori città del mondo. Di esse non ha conosciuto solo i manicomi, da orientare verso la riflessione e la chiusura, ma una miriade di modi, creativi e intelligenti, per rispondere nella metropoli ai problemi dell’emarginazione grave. Per l’Italia e per Milano guardare al mondo in merito alla sofferenza urbana significa innanzitutto imparare, contro il luogo comune del Nord che insegna e del Sud che apprende. Paesi più esperti nel vivere immigrazione o povertà hanno teorie e pratiche convincenti e raffinate su come potrebbe essere ripensato anche nel nostro paese il mix pubblicoprivato e sociale-sanitario verso una rilettura dei problemi e una riformulazione di risposte sociali e istituzionali adatte. A tal proposito è illuminante il contributo del sudafricano Melvyn Freeman a questo Annuario. Il centro studi Souq raccoglie la densità di contenuti e l’entusiasmo di una occasione profondamente riflessiva che nel 2002 a Milano prese la forma di un convegno molto partecipato. Alla presenza di centinaia di rappresentanti del servizio pubblico per la salute mentale, dell’associazionismo di familiari e del privato sociale, il cardinal Martini introdusse tre giorni di studio e scambio culturale nei quali si diede parola a 12 diversi paesi del mondo per condividere progetti, pratiche, problematiche e interrogativi posti dalla cura in contesti sociali e sanitari molto diversi tra loro. Riportiamo qui il suo intervento che rappresenta un punto d’inizio molto significativo del percorso di Souq. Con l’apporto singolare di Franco Rotelli, psichiatra allie-


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vo di Franco Basaglia e teorico raffinato, le parole di Martini e quelle dei diversi relatori internazionali contribuirono a trasformare le riflessioni che hanno rappresentato la fase preparatoria del convegno e il suo titolo particolarmente evocativo, «La cittadinanza è terapeutica», in una Carta di intenti per la salute mentale rivolta al dipartimento di Salute mentale e abuso di sostanze di Ginevra (oms), che non abbiamo dimenticato. In essa si ribadiva il valore impagabile di una città nella quale ogni persona abbia nome e volto unici. Si diceva poi con forza che favorire percorsi di salute mentale e benessere per ogni cittadino coincide con l’estensione dei diritti di cittadinanza. Diritti e democrazia hanno una forza dirompente perché consentono di superare radicalmente la retorica dell’elargizione di benefici, della gratuita e compassionevole concessione, della carità pelosa di chi dà al povero per differenziarsi da lui, a favore di un atteggiamento maturo e consapevole di cittadini che si animano affinché ogni altro cittadino goda delle possibilità che devono essere patrimonio di tutti. Come cuore della cittadinanza responsabile si è riconosciuta l’importanza cruciale della negoziazione e l’obbligo morale di attivare tutti gli strumenti possibili perché si realizzi la pace, nei rapporti tra gli individui, nelle relazioni tra gli stati. In virtù di intenti come questi, ci si deve impegnare nella pratica, con operosità intelligente. Oggi Souq studia, raccoglie pensieri da un network internazionale di esperti con i quali mantiene un contatto cordiale e costante, organizza conferenze scientifiche con grandi esperti di sofferenza urbana non solo italiani, promuove piccole reti di scambio culturale tra operatori di salute in Lombardia e in Italia, pubblica ogni semestre una rivista on line dal titolo


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SouQuaderni, offre opportunità formative a operatori che lavorano nella città per l’inclusione sociale, organizza il CineSouq per esprimere con il linguaggio cinematografico – dai lungometraggi noti fino ai video amatoriali di pochi minuti – pensieri e azioni sui fenomeni urbani, sulla cura, sulla paura metropolitana, sulla restituzione dei diritti negati, che documentino la forza e la vivacità dei diversi paesi del mondo. Non nascondiamo che per noi Souq rappresenta una sfida alta, uno stile eclettico e dialogico per affrontare domande e risposte, un modo di ragionare, di confrontarsi e di operare prima ancora che un paniere di iniziative culturali e pratiche sulla sofferenza urbana. Vorremmo aggregare chi condivide gli stessi intenti, chi si emoziona nel riconoscere che «la saggezza sta ai margini», per dirla con la felice espressione dell’antropologo Arthur Kleinman. Oggi Souq pubblica con orgoglio il suo primo Annuario e ringrazia vivamente l’Editore anche per la profondità con la quale ne ha colto lo spirito di fondo e ne accompagna l’impresa.



La cittadinanza è terapeutica di Carlo Maria Martini

Si intende mettere a tema la salute mentale e suscitare un confronto sulle buone pratiche della psichiatria con un respiro mondiale e dunque attenti alle ricchezze e alle peculiarità dei diversi paesi, guardando alla vita delle nostre città che nella metropoli milanese possono riconoscersi, valorizzando l’esperienza di realtà che si inseriscono nella rete della collaborazione sulla psichiatria con un’attenzione specifica ai più poveri. Scorrendo il programma di queste giornate, sono colpito dall’intreccio di numerose tematiche, di differenti culture e stili comunicativi, di varie competenze che esso esprime e rappresenta. Contenuti prettamente clinici – i diversi metodi della cura, le riflessioni su cosa può dirsi terapeuticamente efficace, i contesti e le persone che devono interagire per affrontare al meglio la malattia – si intersecano con temi che più diffusamente riguardano il benessere dei singoli e l’armonia di una collettività. Intendete parlare infatti di cittadinanza, di diritti che vanno riconosciuti a ciascuno, di «buone pratiche», utilizzando


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un’espressione che sottolinea non solo l’efficacia terapeutica, ma anche la bontà di un agire carico di tensione etica, con l’intento di favorire uno stato di bene per la persona che non si compone solo dell’assenza di malattia mentale. Risuonano poi nei titoli dei vari interventi i richiami alle situazioni sociopolitiche segnate dal conflitto, alla multiculturalità, al rispetto dell’infanzia e dell’adolescenza, alla produzione di buone leggi per la salute mentale, al superamento di schemi rigidi che chiudono la malattia nei grandi istituti o in catene e costrizioni piuttosto che consentire ai malati di abitare la loro città. Confluiscono poi le potenzialità incalcolabili della cultura, della tradizione di cura, della riflessione di almeno dodici paesi del mondo, rappresentati da diverse figure professionali e non professionali giunte a questo convegno per raccontare come ci si fa custodi della salute mentale nel proprio territorio. Traspare l’intenzione di valorizzare il racconto competente e la capacità di ascoltare con calma, superando la fatica della lingua, cogliendo gli elementi di novità e le sfumature del pensiero che sottende l’agire, cogliendo i rimandi all’operare quotidiano sia di chi racconta che di chi ascolta. C’è infine l’intreccio di ruoli e funzioni che compongono la rete territoriale per la salute mentale, qui rappresentati da una platea numerosa e motivata: operatori del sociale, clinici, familiari, volontari, cittadini. Si dispiega, insomma, ai miei occhi un’enorme complessità e colgo con piacere questo come uno dei messaggi centrali che state comunicando. L’ottica della complessità permette di avvertire il fascino delle tematiche che si riferiscono alla salute


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della mente, e quindi di continuare a cercare per capire, per fare, per cambiare. Tale ottica permette anche di non cedere alla tentazione del semplicismo di fronte al dramma della sofferenza mentale, talvolta così lacerante per la persona, per la famiglia, per il contesto comunitario. Se non ci disponiamo a essere realmente ricercatori del senso di ciò che la follia suscita in noi, rischiamo di enucleare solo problemi superficiali, di separare ed espellere, di semplificare una materia per sua natura ricca di contraddizioni.

Un episodio evangelico Volendo offrire una qualche riflessione introduttiva a partire da ciò che mi è più familiare, cioè la Bibbia, vorrei richiamare un episodio narrato nel Vangelo di Marco (Mc 5, 1-20). Un uomo della città di Gerasa dai comportamenti bizzarri, indubbiamente inquietanti e autoaggressivi (percuoteva se stesso con delle pietre) era stato relegato dalla sua comunità in un luogo di morte. Non poteva che vagare tra le tombe, lontano da esseri vivi, quasi a rappresentare quel potenziale di rabbia e di stranezza che tutti vivevano come mortifero e che per questo poteva, se pure illusoriamente, essere collocato lontano dalla vita ordinaria. Gesù si lascia avvicinare da questo strano personaggio angosciato e impetuoso, e gli chiede il nome, potremmo dire che comincia dal tentativo di riconoscimento della sua identità personale, non fuggendo dalla tensione che si genera nell’incontro con la sofferenza dell’altro.


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«Il mio nome è Legione perché siamo molti» risponde l’uomo rivelando una scissione che non gli permette di esprimersi in modo chiaro e accettato da tutti, che non gli consente il gusto della relazione. Gesù sta con lui e fa qualcosa per lui: questo trasforma la sua vita. Viene in mente l’utilizzo corretto e competente dello strumento del colloquio, ovvero di quello specifico momento clinico nel quale lo psicoterapeuta, lo psichiatra, lo psicologo, l’educatore, l’infermiere, l’assistente sociale, il terapista della riabilitazione instaurano una relazione personale con la persona sofferente e sanno partire dal suo nome per costruire con lui un progetto di cura che tenga conto della sua singolarità, non principalmente dei modelli teorici, delle linee guida, delle scuole di pensiero. Nel colloquio avviene l’incontro tra almeno due persone che si svelano reciprocamente, l’una con il bisogno di stare bene, l’altra con il bisogno di capire e aiutare. È il luogo dove colui che si prende cura affina la capacità di «prescrivere se stesso come farmaco», mettendosi in gioco con i suoi pensieri e i suoi sentimenti. Ci si pone accanto alla persona sofferente come possibili «custodi del segreto», nell’ascolto del mondo intimo dell’altro, lacerato da blocchi e contraddizioni, ma anche incredibilmente provocatorio nei confronti del curante. Nel colloquio, ciascuna delle persone coinvolte è come portata a entrare nel mistero dell’altro perché anche il malato mentale comprende molte cose intime dell’operatore che si avvicina a lui e non può abdicare alla questione del senso. Le domande più autentiche di un malato psichico, anche se spesso inespresse o negate, non sono diverse da quelle di cia-


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scuno: una casa, degli amici, affetti esclusivi, un lavoro, il denaro per vivere, il divertimento, il diritto di abitare una città, la possibilità di professare un credo religioso, la libertà di parlare ed esprimersi. Le sue fatiche sono invece molto più grandi rispetto a quelle di chi non soffre: le idee possono essere bizzarre e non comprese, le risposte affettive inadeguate, le reazioni inaspettate, la voce per chiedere e rivendicare i propri diritti molto debole. L’uomo di Gerasa desidera andare verso Gesù, ma le sue parole risuonano come una minaccia e non come una richiesta di aiuto. Tante persone affette da disagio psichico riescono a formulare così impulsivamente il loro bisogno di cura e di vicinanza da risultare aggressivi agli occhi degli altri. Eppure c’è in questa aggressività una domanda e un’espressione di disagio profondo, che un grande conoscitore del cuore umano esprime così: «Un laccio interno, prodottosi dalla parte sensitiva dell’animo, avvolge tutto ciò che altrimenti scatta in libertà, e si muove e opera senza impacci… L’uomo non padroneggia più la sua vita» (Guardini). E un altro grande scrutatore del disagio intimo della persona qualificava questa situazione così: «Situazione tremenda, quella di una coscienza che abbia subìto, fin dall’infanzia, una compressione tale che tutta l’elasticità dell’anima e tutta l’energia della libertà non riescano più a scrollarla» (Kierkegaard). Nessuno di noi sarebbe disposto a perdere l’energia della libertà, perché è la connotazione più alta del nostro essere uomini. Eppure nella follia esiste una forza che può «avvolgere tutto ciò che altrimenti scatta in libertà»? Ci chiediamo se possa esprimere libertà una persona che abbia la mente, il cuore, le relazioni sociali, le azioni quotidiane


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pervase dalla malattia. L’esperienza della vita insegna che il rapporto quotidiano, accogliente, affettuoso con chi soffre di disturbo psichico può aiutare gradualmente ad affrontare questa domanda, ad averne meno paura, fino a scoprire che nelle forme della sofferenza psichica – l’ansia, la depressione, l’eccitazione, l’ossessività, il delirio – è contenuto un ampliamento di noi stessi. Il sofferente psichico è costretto dalla sua malattia a fare i conti con la fragilità che tutti portiamo dentro: egli in un certo senso ci insegna a dare peso alla tristezza e alla gioia, alla noia e all’attivismo esagerato, all’eccesso di lavoro e al desiderio di averne almeno uno, alla famiglia vissuta come assillante e al senso di abbandono. Egli conosce le tinte forti del vivere, sperimenta le amplificazioni di una fatica esistenziale che è anche la nostra. La questione della libertà si pone in modo bruciante per una città, per un territorio, quando essa diventa teatro di un fatto sconcertante, drammatico, dove una persona innocente viene uccisa per un gesto che sembra compiuto da una persona psichicamente malata, ma in un contesto che tutti continuano a definire «normale», nel quale non si riescono a delineare, almeno in una prima e sommaria rappresentazione mentale, quali siano i limiti tra mancanza di controllo del pensiero o degli impulsi e libertà di compiere il male. Si genera tra la gente un comprensibile sconcerto, si preferisce fare diagnosi di pazzia piuttosto di dover ammettere che un grande potenziale di conflittualità esasperata, di violenza, di cultura della morte è collocato proprio in mezzo a noi, nelle pieghe della quotidianità.


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La guarigione dalla cittadinanza L’uomo di Gerasa viene guarito non solo attraverso la relazione personale, ma anche grazie a un’azione sociale, che l’evangelista racconta con tratti pittoreschi: Gesù ordina agli spiriti immondi di uscire da quell’uomo e gli spiriti stessi lo supplicano di non scacciarli dal paese, così che vengono fatti entrare in una mandria di duemila porci e immediatamente l’intera mandria si precipita nel mare. La guarigione profonda dell’uomo chiede un prezzo – duemila animali sono una ricchezza non indifferente – a quella stessa società civile che non ha saputo accoglierlo, perché il benessere di una persona nella collettività è un fatto che investe tutti, che chiede tempo, energie, risorse, attenzione per il suo reinserimento sociale. Se da un lato si attesta una crescente vulnerabilità psichica dell’uomo contemporaneo, come rivelano le percentuali in aumento delle persone con malattie psicosomatiche che si rivolgono al medico di base, dall’altra oggi più di ieri è difficile «socializzare» una malattia, particolarmente una malattia mentale. Il contesto sociale, che può molto per contribuire alla cura, diventa spesso luogo ostile, dove si annidano pregiudizi, paure, disinformazione. Siamo chiamati a immaginare e quindi a realizzare nella concretezza il profilo di una città abitabile, dove non ci si senta indotti a vivere la paura dell’altro ma se mai la gioia dell’incontro e il desiderio di sperimentare relazioni positive. Un’attenta educazione al senso del bene comune e al valore della partecipazione sociale può contribuire in modo decisi-


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vo alla costruzione di una metropoli da abitare, dove la cittadinanza, intesa come appartenenza attiva alla città, sia terapeutica perché fonte di benessere per tutti. Una città vivibile è anche una città coraggiosa, che affronta le sfide della presenza multietnica e multireligiosa, che riflette sulle vite clandestine, sulle vite senza dimora, sulle vite condotte per la strada e segnate dall’abuso di alcol e sostanze, sulle vite spezzate da una solitudine molto profonda, sulle vite che sfuggono da paesi di orribile guerra come a vite che invocano istanze di giustizia, di intelligente solidarietà, di speranza in un futuro possibile.


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