Taci infame

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Walter Molino

TACI INFAME Vite di cronisti dal fronte del Sud


1. Siete voi Capezzuto?

Napoli, 27 maggio 2005, aula 114 del Tribunale, Corte d’Assise. «Siete voi Capezzuto? Vorrei sapere come dobbiamo fare con voi.» Si chiama Luigi, come suo cugino. Quello che prima di farsi pentito era ’o Rre di Forcella. Lovigino, il padrino che negli anni ottanta fece la guerra alla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo. Mille morti ammazzati in sei anni. Me lo vedo venire incontro alla fine dell’udienza. Luigi Giuliano. Suo figlio Salvatore, detto ’o Russo, è imputato per l’omicidio della quattordicenne Annalisa Durante. «Siete voi Capezzuto?» Se comandi a Forcella, sei qualcuno. Non il capo assoluto, ma conti e puoi battere il pugno. Al tavolo delle trattative se hai Forcella e la Sanità, il cuore del centro storico di Napoli, pesi più degli altri. Alla fine degli anni settanta Raffaele Cutolo e la Nuova camorra organizzata si sentono i padroni della città e stringono alleanze con clan criminali di mezzo mondo. Traffico di droga, contrabbando di armi e sigarette, gioco d’azzardo, lotto e scommesse clandestine, estorsioni, usura, prostituzione. Tutto liscio fino a quando Cutolo, detto ’o Professore, vuole prendersi anche Forcella. Scoppia la guerra. E i cutoliani ne usciranno a pezzi, massacrati dalla spropositata ferocia del clan Giuliano, di Carmine


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Alfieri, di Pasquale Galasso. Loro sì, i padroni di Napoli. Impastati con le viscere della città. Passeggio con Arnaldo Capezzuto per i vicoli di Forcella in una mattina di dicembre. O meglio, io passeggio. Giusto un po’ circospetto, attento ad annusare, assorbire, fissare nella memoria. Lui invece tiene il bavero alzato, la microcamera nascosta non so dove e una specie di passo felino, controllato e nervoso. Si guarda intorno e mi spiega, racconta, mi indica con un’alzata di sopracciglia, un’occhiata di sbieco mentre si ferma a fissarsi le punte delle scarpe consunte. «Guarda, quella è la villa della figlia di Luigi Giuliano, non guardare, non ti girare. Qui è stato il fatto di Annalisa, proprio sotto al portone di casa. Non fermarti, continuiamo a camminare, vieni entriamo in quella chiesa, qui ci stava don Luigi Merola, il parroco minacciato dai Giuliano. Devi prendere appunti? No, il taccuino tienilo in tasca, vai a memoria, poi ti dico tutto io. Di qua le vedi quelle scale? E quei tipi là che ci tengono d’occhio? Vedette. Però non ti preoccupare è tutto tranquillo.» Se lo ripete. Era un pezzo che non tornava a Forcella Arnaldo Capezzuto, trentanovenne cronista di nera napoletano. Da quando i Giuliano gliel’hanno promessa e lui, per tutta risposta, li ha denunciati e fatti condannare con tanto di risarcimento danni. Prima della nostra passeggiata ha dovuto avvisare la Questura, qui per lui è terra bruciata. Fino a mezzogiorno è tutto tranquillo, i fetentoni del quartiere si alzano con comodo, il pascolo tra i vicoli comincia più tardi, al mattino ci sono in giro muschilli e mezze tacche. Ci fermiamo a fare due chiacchiere con una vecchia conoscenza. Per qualcuno Arnaldo è ancora il benvenuto. Mi dice che a Forcella ci ha cominciato a lavorare intorno al 2000, con un’associazione di volontariato. «Stavamo sulla strada a stretto contatto con la gente, a domandare, ragionare, spronare. Sollecitavamo l’amministrazione comunale a intervenire con progetti di riqualificazione urbana. In quegli anni proponemmo al Comune di Napoli di coinvolgere Forcella nell’iniziativa del “Maggio dei monumenti” da cui il quartiere era escluso. Il messaggio che arrivava era devastante: dove ci stanno i camorristi non si fanno iniziative. E perché? Se la sfida è la normalità allora si devono aprire le porte


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del centro storico. Fu in quell’occasione che conobbi don Luigi Merola, il parroco di San Giovanni ai Mannesi, la chiesa di Forcella. Con lui e altri volontari intensificammo il lavoro di ascolto sul territorio riuscendo a coglierne gli aspetti più profondi. Mi creai in quegli anni una rete di conoscenze e di relazioni preziose. Dentro il quartiere captavo ogni piccolo mutamento, soppesavo gli equilibri, misuravo le tensioni. «Seguivo l’associazione parallelamente alla mia attività giornalistica. Questo mestiere l’ho scelto definitivamente nel 2003, con l’avventura di Napolipiù. Avevo cominciato alla fine del 1997, quando il giornale si chiamava La Verità. Nel mio primo articolo pubblicato descrivevo con invettive e forzature letterarie l’abbandono dell’Albergo dei poveri. Il direttore mi convocò in redazione per parlarmi. Venne il grande giorno. Io piccolo piccolo ripiegato e sprofondato in una poltrona. Lui mi guarda e rompe il ghiaccio: “Vuagliò ti vuoi imparare a fare il giornalista? Allora cammina sempre con il taccuino in tasca e fai sempre domande, anche se non ti rispondono, scassa sempre il cazzo. Chiunque ti trovi davanti butta fuori e fai la faccia tosta”. Da allora è stato un crescendo: litigi, accesi contraddittori, mazzate della polizia, mazzate degli spacciatori, mazzate dei manifestanti, incontro-scontro con il cardinale Giordano, minacce e intimidazioni dalla camorra, un quasi arresto della polizia.» Non ci vuole un fisico bestiale a giudicare da questa figura esile. E poi forse ho capito male: un giornalista anticamorra che le busca dalla polizia? «Sì, di brutto e per una strunzata.» La storia me la racconta davanti al caffè. «Allora è una mattina, sto andando in redazione, m’imbatto nell’arresto di un barbone. Polizia, carabinieri e il barbone a terra, ammanettato, tiro fuori la macchinetta fotografica e scatto. Mi vede un poliziotto e mi urla che cazzo fai! Sono un giornalista, salve. Ecco il tesserino, stavo facendo una foto. Niente foto! Come niente foto, siamo sul suolo pubblico, il diritto di cronaca… Niente foto! E vabbuò ormai l’ho fatta, che ho commesso un reato, contestatemelo. Lui si gira e bam! uno schiaffo esagerato e mi sbatte con la faccia sul parabrezza dell’auto. Dico siamo impazziti! Mi strapazza un poco, mi toglie documenti e fotocamera,


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mi sbatte nella volante, sedile posteriore. La gente intorno vede la scena e si immagina un arresto. Mi portano dai carabinieri, perché erano loro che stavano facendo l’operazione. Il piantone che aspettava i colleghi con l’uomo fermato sulla strada apre la porta della caserma e si trova la mia faccia. “Ah, è lei il barbone?” “No, un sò barbone, sò giornalista!” “E perché state qua?” “E che ne so, ho fatto solo una fotografia!” Il barbone mi passa accanto e sfiorandomi mi sputa in faccia. Insomma sto là, tutto contuso, gonfio, senza uno straccio di spiegazione, due, tre ore. Finalmente esce un colonnello con tremila medaglie: “Comunque io non per qualcosa però lei non può fare le foto”. “Scusate colonnello, io stavo là all’esterno, sul suolo pubblico, faccio una foto, dov’è il reato? Sto seguendo la faida di Scampia, fotografo pure le scene dei delitti.” “Ma i morti sono un corpo inanimato, il barbone è un corpo animato!” “Ma scusate, a un morto si può fare la fotografia e a uno che viene arrestato no? Allora tutti i fotografi che vanno fuori la caserma Pastrengo quando ci sono le operazioni anticamorra che fotografano, cadaveri?” “Non faccia lo spiritoso!” Alla fine vengo miracolosamente rilasciato. Passo il resto della giornata in ospedale, contusioni, lividi, lastre, mi danno cinque giorni di prognosi salvo complicazioni. La notizia esce sui giornali, scoppia il caso, si interessa l’Ordine dei giornalisti, comunicati, polemiche, fin quando mi convoca il questore: è stato un fraintendimento, manteniamo un sano rapporto di collaborazione. Insomma mi fanno le scuse e decido di non presentare denuncia. Dopo venti giorni vengono i carabinieri a casa, mi notificano l’oltraggio a pubblico ufficiale! In quel periodo il reato è derubricato, così nella mia casella ci sta una serie di archiviazioni per non luogo a procedere. Oltre al danno la beffa: ho preso le mazzate, mi risulta questa cosa e ogni volta che viene a Napoli un ministro o un’autorità e devo fare l’accredito scattano verifiche e controlli, e per fortuna che in Questura c’è gente che mi conosce da vent’anni e garantisce che è tutto a posto, sennò per le procedure antiterrorismo io mi dovrei tenere a distanza! E non ti dico quando mi fermano con lo scooter: vedono i documenti, controllano sul terminale e prendono a guardarmi come un mascalzone!»


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«Col giornale, all’inizio, facevo il collaboratore. Mandavo gli articoli per fax, poi ho iniziato a frequentare la redazione. La Verità usciva tutti i giorni, pure il Primo maggio. Era un modo per radicarci e per fare sentire la nostra presenza. Fino al 2001 mi sono occupato della faida della periferia est di Napoli, facevo cronaca nera e cercavo di mettere in collegamento i fatti, cominciavo a addentrarmi nei quartieri, nel tessuto criminale dei clan. E mi sono pure fatto le ossa con qualche incontro ravvicinato del terzo tipo. L’ultima cosa che ho seguito è stata la vicenda del cardinale Giordano, inquisito in una vicenda di usura prima e per una lottizzazione in miniappartamenti di un immobile di proprietà della Curia. Per una serie di cose mi sono evitato un querelone esagerato. Poi mi sono allontanato quando il giornale iniziò a perdere mordente, si trasformò in un foglio di sport e tempo libero, gli obiettivi erano cambiati, non mi ci ritrovavo più. «Chiusa la collaborazione con il giornale mi laureai in Sociologia con una tesi sui quartieri popolari di Napoli e poi cambiai completamente strada iscrivendomi a un master in tecnologie. Da lì mi trovai a fare uno stage in un’azienda di Pomigliano d’Arco che lavorava per la Fiat e sempre per sbarcare il lunario me ne andai in un’altra azienda di Caserta che si occupava di logistica. Un lavoro anche interessante, con un contratto a tempo determinato. Pensavo che la mia parentesi da giornalista si fosse conclusa così, invece nel 2003 mi chiama Giorgio Gradogna, il mio ultimo direttore. Mi dice che si riparte con un nuovo progetto, un quotidiano che si chiamerà Napolipiù. Ha bisogno di trovare le notizie sulla strada, mi promette un contratto e il praticantato. Non ci ho pensato due volte, ho lasciato il lavoro e ho ricominciato a vivere. «Noi ce ne fregavamo delle agenzie, facevamo un po’ il cavallo pazzo. Il direttore voleva sempre una pagina su Forcella, sapevamo che quello era il cuore della camorra nel centro storico. Mi incaricò di trovare ogni giorno una notizia da prima pagina sul quartiere. Per me era un invito a nozze. Lavoravo a fianco dell’associazione sul territorio, sapevo tutto quello che succedeva, non solo in ambito criminale. Grazie al giornale ero in grado di avviare e


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alimentare campagne che costringevano il Comune a intervenire. Come in questo caso.» Arnaldo si ferma dopo aver salito una breve scalinata piena di munnezza. Siamo di fronte a Sant’Agostino alla Zecca, una delle chiese più grandi di Napoli. Da fuori, lo spettacolo è straordinario e tragico. Edificata su commissione dei D’Angiò e completata nel 1287, riedificata in stile rinascimentale dopo il terremoto del 1456 e rifatta ancora tra il xvii e il xviii secolo, questo capolavoro dell’arte è stato chiuso dal 1980 per i danni subiti durante il terremoto. Da allora caterve di soldi, finanziamenti, appalti e ristrutturazioni mai completate. Le porte si aprono una volta l’anno per il «Maggio dei monumenti», poi di nuovo promesse, impalcature e crolli. Dai locali del pianterreno, occupati abusivamente da anni per abitazioni e magazzini, sbucano cavi di antenne televisive e accrocchi per rubare luce e gas. Arnaldo racconta di come perfino quell’unico giorno all’anno di apertura sia frutto di una fatica immane. «Su tutto però c’era la camorra, la narrazione quotidiana di un luogo simbolo della condanna di Napoli. Con Forcella non è che scoprivamo l’acqua calda, però stando a contatto col territorio, parlando con le persone, annusavamo una forte tensione nell’aria. C’era una guerra di camorra a bassa intensità. Stavano cambiando gli equilibri, il clan Giuliano era ormai stato quasi del tutto travolto dal marchio dell’infamia e dalla potenza militare dei nuovi padroni, i Mazzarella. Annalisa Durante non c’entrava niente. Era solo una ragazzina di quattordici anni che si trovò per disgrazia nel posto sbagliato nel momento sbagliato. «La storia la conosci: il 27 marzo 2004 in via della Vicaria vecchia c’è un agguato di camorra, una ragazza innocente che viene sparata. Colpita all’occipitale sinistro resta due giorni in fin di vita, poi muore. Vengono espiantati gli organi che salvano sette persone. La tragedia ha una risonanza mondiale. Annalisa diventa l’angelo di Forcella, la famiglia dà un esempio straordinario annunciando pubblicamente che non cercherà vendetta e vuole giustizia dallo Stato. Ora, in un qualunque altro posto la presa di posizione della famiglia sarebbe una cosa normale. E invece a Forcella, nel ventre molle della camorra napoletana, dove lo Stato è sbirro e poco altro,


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la scelta pubblica di Giovanni Durante, il padre di Annalisa, non è affatto una cosa normale. Ma per capire cosa stava succedendo veramente, anch’io – come i camorristi, pensa! – avevo bisogno che si spegnessero i riflettori. Tu hai presente cosa accadde a livello mediatico con quell’omicidio. Giornalisti e televisioni di tutto il mondo, lettere e poesie dall’Argentina, dal Brasile, dal Canada, aiuti economici per la famiglia. Il territorio è presidiato a ogni angolo a qualunque ora del giorno e della notte. Prima la cronaca del fatto, poi le quarantott’ore di coma, l’espianto degli organi, il funerale, i cortei, la rappresentazione pubblica del dolore, lo sdegno popolare a uso e consumo dei media. Dietro le quinte, in realtà, si muoveva ben altro. Io a quel punto ero impregnato dell’aria del quartiere, ero un volto abituale con una mia rete di contatti, di informatori e confidenti in un quartiere dove mai niente si è saputo. Acquisivo informazioni, piccoli pezzetti per volta, ma aspettavo che tornasse la calma, che la camorra riprendesse a svolgere i suoi traffici come al solito. Sapevo che sarebbe accaduto, al di là delle dichiarazioni e delle promesse profuse nei giorni del lutto da politici e amministratori. Tanto è vero che dopo un mese se ne sono andati tutti via e noi siamo rimasti là. Da quel momento è iniziato il nostro racconto della verità.» Napoli, 27 maggio 2005, aula 114 del Tribunale, Corte d’Assise. «Siete voi Capezzuto?» Faccio sì con la testa. «Com’amma fa’ cu voi...» Si guarda intorno, occupa lo spazio. «Io vorrei sapere come dobbiamo fare con voi.» Me lo ripete in italiano. Piagnucoloso e paterno. Dentro la testa che ciondola da vittima, occhi di ghiaccio. «Scrivete sempre contro la mia famiglia. Dite che siamo della camorra.» «Eh vabbe’ signor Giuliano voi c’avete un nome, una parentela…» «E se tenimmo ’o nome significa che siamo camorristi?» «Ma insomma un poco di galera ve la siete fatta…» «Non dite strunzate! Adesso scrivete che i Giuliano stanno


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minacciando i testimoni… che li vogliamo fare ritrattare… non è vero…» Una stretta allo stomaco, mi guardo in giro, siamo in un’aula di tribunale e non vedo una divisa. Riduce lo spazio gesticolandomi incontro. «Quando scrivete gli articoli mettete delle parole per fare capire altre cose.» «Faccio il giornalista, scrivo i fatti.» Senza prendere fiato gli dico che non sono il solo, che scriviamo tutti le stesse cose, non ce le possiamo inventare. Respiro, mi accorgo di non guardarlo in faccia, alzo lo sguardo, me lo vedo davanti e mi sembra enorme, sporco e unto. Cerco di guardare questo teatrino da fuori, adesso si fa sotto, adesso mi mette le mani addosso. Le fitte allo stomaco mi fanno come strisciare all’indietro.

Sulla strada La camorra predilige il federalismo: ha adottato una struttura verticistica solo per interesse e in alcuni momenti. Finché c’è un nemico pericoloso ci alleiamo, quando il nemico non c’è più ci facciamo la guerra pure tra di noi. L’alleanza di Secondigliano, per esempio, era una costola della nuova famiglia. E da quella costola nasce il clan Di Lauro, che è il primo a investire pesantemente nel traffico internazionale costituendo una rete di emissari in mezza Europa, con la Spagna come centro nevralgico del business. I famigerati scissionisti erano a loro volta una fazione del clan Di Lauro, guidati da Raffaele Amato, il gestore dei traffici internazionali. Amato a un certo punto si fa i suoi calcoli e si mette in proprio, facendosi il suo gruppo di fuoco comprandosi gli uomini di Di Lauro. Così sono sempre iniziate le faide di camorra. Reclutamento a suon di soldi e potere, rispetto, scorte armate, vestiti di alta moda e soprattutto la promessa di una crescita di prestigio sociale per chi ha sempre puzzato di fame. È questa la molla che scatta a Napoli tra le giovani leve della camorra. Io prima spaccio, poi controllo un gruppetto, poi finalmente sparo, ammazzo. Un rischio continuo,


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adrenalina pura. Tutto questo non si fa solo per i soldi, il denaro è lo strumento per crescere nella considerazione della gente del quartiere, per incutere rispetto e timore. Sentirsi qualcuno è un desiderio irresistibile per chi è sempre stato nessuno. A Forcella i Giuliano avevano tutto in mano dagli anni ottanta, un carisma e un potere enorme. Comandavano a Napoli, in tutti i comuni della provincia, nei paesi vesuviani, nell’avellinese. Il boss dei boss era Luigino Giuliano, detto Lovigino, figlio del patriarca Pio Vittorio, grande contrabbandiere sin dall’immediato dopoguerra, faceva vanto di non aver mai usato le armi anche se scontò una lunga pena proprio per aver nascosto alcune pistole nascoste di fronte alla sua casa. Lovigino è un predestinato. Da piccolo aveva un amico per la pelle, Giuseppe Misso, detto ’o Nasone, poi diventato boss del rione Sanità. Andavano a giocare insieme a piazza Duomo, montavano sopra i leoni della cattedrale e proclamavano che avrebbero conquistato Napoli e liberato dall’oppressione la povera gente. Da grande Misso rivelerà simpatie per l’estrema destra e finirà anche sotto processo (poi assolto) per una sua presunta partecipazione alla strage del Rapido 904 nella notte del 23 dicembre 1984. Il suo nome, negli anni attanta, diventerà famoso in tutto il mondo per la rapina miliardaria messa a segno dal suo clan ai danni del Monte dei pegni. Lovigino, invece, punta subito sulla droga, i grandi traffici internazionali, e tra gli anni ottanta e il Duemila costruisce un impero criminale fondato su un potere ramificato e garantito da un ferreo sistema di collusioni con la politica e le forze dell’ordine. Forcella diventa una palude di illegalità, con decine di poliziotti, tra commissariato e Questura centrale, nel libro paga dei boss. Cinquecentomila lire al mese più i premi produzione per i servizi speciali. Come quel poliziotto che si guadagnò venti milioni di lire per ritardare la consegna di un provvedimento di libertà vigilata a un boss che voleva andare in vacanza. O quegli agenti che ai Giuliano facevano la scorta in città e nelle vacanze a Ischia. Capisci che, con tutti i distinguo tra le organizzazioni criminali, quando Lovigino si pente è come se si fosse pentito Totò Riina. Un terremoto. Non è il primo della famiglia Giuliano a saltare il fosso. Prima di lui lo hanno fatto i fratelli Carmine e Raffaele.


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Stiamo parlando di gente dall’enorme spessore criminale. Pensa a Raffaele, detto ’o Zuì, forse il simbolo più estremo della violenza belluina di questi camorristi. Quando lo arrestarono nel suo bunker di vico della Pace, protetto da otto porte blindate e decine di telecamere, le forze dell’ordine trovarono un solarium, una palestra e un poster gigante di Sylvester Stallone, il suo mito, coi guanti da boxe. Una volta la moglie lo beccò in casa con un’altra, osò avere qualcosa da ridire e lui la scaraventò giù dal balcone. E a Forcella tutti ricordano una notte d’inferno, quando sfondò la porta di casa di un tizio che aveva fatto la cresta su un’estorsione. Dopo averlo pestato e imbavagliato, lo legò al paraurti posteriore della macchina e iniziò a correre come un forsennato per le strade del quartiere, trascinandosi dietro quel corpo come fosse un manichino. Poi scese dall’auto, slegò quel che restava del cadavere e se ne tornò a casa. Ora, finché si pente una carogna del genere, che è pur sempre un capo militare, i danni per l’organizzazione sono rilevanti ma non esiziali. Quando ad arrendersi allo Stato è ’o Rre di Forcella, le conseguenze possono essere catastrofiche. «Voglio cambiare vita, per questo ho deciso di pentirmi.» Le parole di Lovigino, pronunciate in un’aula di tribunale il 17 settembre 2002, furono accolte con grande sorpresa dalla stampa, ma non a Forcella. I Giuliano erano ormai bollati col marchio dell’infamia e i clan avversari si davano un gran daffare per arginare i danni delle rivelazioni del numero uno. Non lo poteva sapere nessuno, ma Annalisa Durante inizia a morire quel giorno. Il re di Forcella racconta intrecci, storie e segreti. E fa nomi di camorristi, fiancheggiatori, poliziotti e giudici. Svela ai magistrati le radici della camorra della sua generazione, dalle sue confessioni derivano inchieste, arresti, processi. E mentre per tanti suoi ex fedelissimi si aprono le porte del carcere, per lui si schiude una nuova vita, con un’altra identità e in una località segreta. Già infiacchiti sul piano militare, i Giuliano perdono definitivamente il potere reale sul territorio a scapito dei Mazzarella, alleati con il clan di Giuseppe Misso, l’antico compagno d’infanzia di Lovigino. I nuovi padroni vantano quarti di nobiltà camorristica, parenti stretti di don Michele ’o Pazzo, al secolo Michele Zaza, partito piccolo contrabbandiere di sigarette e diventato boss di prima


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grandezza, affiliato pure a Cosa Nostra e padrone di un impero valutato 700 miliardi di lire, con ville esagerate a Posillipo, in Costa Azzurra e a Hollywood. A Zaza piaceva dipingersi come un boss vecchio stampo: sosteneva di schifare la droga e si vantava che le sigarette lui le aveva sempre pagate, lasciando intendere che a tutti i suoi affiliati, dagli scafisti alle scorte, dai magazzinieri ai venditori sui banchetti, aveva assicurato lavoro e sostentamento. La cosiddetta economia di vicolo. Quando don Michele muore di infarto nel 1994, i nipoti Mazzarella, già capi incontrastati a San Giovanni a Teduccio e Poggioreale, ereditano il giro d’affari. Ciro ’o Scellone, Gennaro ’o Schizzo e Vincenzo Mazzarella (che eredita anche il soprannome ’o Pazzo) vogliono rinnovare la ditta e il vecchio stampo finisce ai pesci. Il contrabbando di sigarette, da sempre una forma di assistenzialismo illegale e tollerato, ha costi elevati e produce utili contenuti, ma serve ad alimentare il consenso sociale. Così decidono di delegarne la gestione ai clan più fedeli, limitandosi a intascare una parte dei profitti, e si lanciano nel business del traffico internazionale di droga. Un giro molto più grosso, più ricco e che necessita di un’organizzazione complessa. L’indotto richiede armi per fronteggiare la concorrenza delle altre mafie e dei clan rivali, uomini per assicurarsi il controllo del territorio, denaro contante per blandire i controlli delle forze dell’ordine e una rete di distribuzione diffusa per vendere il prodotto finale. I Mazzarella sono assetati di denaro e potere, criminali spietati e moderni. All’alba del nuovo secolo vogliono prendersi Napoli. Gli alleati giusti ce li hanno nel clan di Giuseppe Misso. Ma per aprire la nuova era bisogna prima fare i conti con il passato. E allora c’è poco da fare, devono prendersi Forcella. E Forcella significa Giuliano. I boss più boss di tutti, caduti in disgrazia ma ancora forti e con buone entrature. Un attacco frontale è impensabile, finirebbe per ridare forza proprio ai Giuliano, già capaci una volta di mettersi in testa alla santa alleanza contro le ambizioni egemoniche di Raffaele Cutolo. La guerra c’è ma non è dichiarata, procede a bassa intensità. I Mazzarella-Misso testano la resistenza del nemico, che regge i colpi e quando è il caso risponde a dovere. La tensione sale, gli attriti sono sempre più frequenti, e si risolvono col piombo.


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I clan fanno campagna acquisti, c’è chi tradisce i Giuliano per i Mazzarella, chi finge di tradire, chi si infiltra e fa la spia. La situazione sembra poter esplodere da un momento all’altro, epperò una faida non conviene a nessuno: più che i morti ammazzati si teme per la forte pressione delle forze dell’ordine che non sono più controllabili come prima. È così che si arriva a un armistizio, suggellato da un accordo di sangue: Marianna, figlia di Luigi Giuliano, viene data in sposa a Michele, figlio di Vincenzo Mazzarella, l’uomo forte della famiglia in ascesa. L’accordo prevede che i Mazzarella possano espandere a Forcella i loro affari, passando una quota ai Giuliano che rimangono ufficialmente i padroni del quartiere. In città però stanno cambiando molte cose. La magistratura comincia ad assestare colpi pesanti all’organizzazione, in Questura si respira aria nuova e alla Direzione distrettuale antimafia c’è un pubblico ministero che sta mettendo il naso negli affari dei clan: è Giuseppe Narducci, lo stesso che indagherà su Calciopoli e sul sottosegretario Nicola Cosentino. La guerra che i clan hanno rinunciato a farsi tra loro adesso l’ha dichiarata lo Stato. Non c’è giorno che a Forcella e nei quartieri più caldi di Napoli manchi un’irruzione e una retata. Decine di arresti e nuovi collaboratori che svelano intrecci e retroscena. È in questo contesto che matura la decisione di Lovigino Giuliano di pentirsi: è in galera, lo aspettano decine di ergastoli e di fronte alla prospettiva di marcire in prigione con il marchio dello sconfitto preferisce saltare il fosso. Saranno anche decaduti come famiglia, ma la notizia del pentimento di Lovigino ha un effetto devastante. I grandi capi diventano infami, bastardi e soprattutto pericolosi. Cos’avrà in mente Lovigino? Quali nomi farà, chi deciderà di risparmiare, chi intende tenere sotto ricatto? La paura fa crescere la tensione, i destini di troppe persone sono in sospeso e con loro traffici e interessi di enorme portata. La camorra non fa prigionieri, il clan di un infame deve essere sterminato. In questo caso però i Mazzarella-Misso mordono il freno: il matrimonio tra Vincenzo e Marianna Giuliano impedisce la mattanza. Meglio prendere definitivamente in mano Forcella e calmierare il quartiere sistemando gli affari. I Mazzarella dettano a tutti le nuove regole: la prima


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è che il sottobanco di droga a Forcella non si può fare. Ne fa le spese, a colpi di pistola, Giovanni D’Alpino, un ex affiliato dei Giuliano che aveva mantenuto una sua autonoma piazza di spaccio nonostante gli avvertimenti di Edoardo Bove, luogotenente di Vincenzo Mazzarella e ras del quartiere. L’unico autorizzato è Ciro Giuliano o’ Barone. Cugino di Lovigino, è il più carismatico della famiglia, specializzato nel ramo delle scommesse clandestine. Fu arrestato alla fine degli anni ottanta come presunto mandante dell’omicidio del giornalista Giancarlo Siani, il giovane cronista del Mattino ucciso il 23 settembre 1985. Accusa dalla quale fu poi scagionato dal giudice istruttore. È anche l’unico a non rassegnarsi alla perdita di Forcella, fautore dello scontro aperto con i Mazzarella, che infatti lo temono e ne decretano la condanna a morte. A eseguirla dovrà essere il giovane boss Edoardo Bove, ventisettenne ansioso di accreditarsi come reggente del quartiere. Ma alla vigilia dell’esecuzione Vincenzo Mazzarella convoca Ciro Giuliano nella sua residenza blindata del rione Luzzatti a Poggioreale e gli offre una possibilità di salvezza. Puoi farti il tuo gruppetto, ti concedo pure una deroga per farti il sottobanco, ma in cambio devi convincere i tuoi parenti pentiti a ritrattare tutte le accuse che ci stanno mettendo nei guai. Naturalmente è un accordo fasullo in cui nessuno dice la verità. Per Mazzarella l’esecuzione è solo rinviata a dopo l’auspicata ritrattazione. Ciro Giuliano dal canto suo pensa di poter sfruttare la situazione. Anche se è consapevole di non avere alcuna possibilità di far tornare sui suoi passi Lovigino, approfitta dell’insperato salvacondotto per ricostruire il suo clan. Anche perché, se sul piano militare le forze in campo sono ormai sbilanciate, sul territorio c’è anche la mente economica dei Giuliano, Salvatore detto ’o Montone, un genio del male che negli anni ha fatto girare le risorse illecite reinvestendole, tramite prestanomi, in iniziative legali come bar, ristoranti e negozi, non solo a Napoli ma anche a Gaeta, Cassino e su tutto il litorale laziale, fino a Roma. Salvatore ’o Montone è il fratello di Lovigino e gode di enorme prestigio. Non è mai stato un camorrista qualunque, un capo militare, ma i soldi, in mano sua, si sono sempre moltiplicati alla velocità della luce. Uno che se non fosse stato un criminale sarebbe


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probabilmente diventato un manager o un imprenditore di successo. O magari un attore: a causa di un obbligo di dimora a Cassino, andava a Forcella per seguire i suoi affari e visitare l’amante travestito nei modi più disparati. Perfino da prete. Una volta, vestito da medico con tanto di borsa e stetoscopio, fu fermato dalla polizia per soccorrere un passante che aveva avuto un malore. Salvatore odia Giuseppe Misso e considera una iattura l’ingresso dei Mazzarella a Forcella. A suo tempo si era anche opposto al matrimonio tra Vincenzo e Marianna. Così inizia a tessere la tela per un colpo di reni in grande stile. Rivelerà il suo piano nel corso del processo per l’omicidio di Annalisa Durante, dipingendosi in aula più come un rivoluzionario che un criminale: «Volevamo riscattare la gente di Forcella. C’era troppa frustrazione, povertà e miseria. Il rione era assediato e abbandonato. Il popolo si era arruolato con i nuovi padroni: Vincenzo Mazzarella e Giuseppe Misso. Giunse il momento del riscatto. Il progetto era quello di ammazzare Misso e di estromettere i Mazzarella, rimandarli da dove erano venuti. Avevamo uomini e mezzi». In questo progetto di colpo di Stato nel cuore di Napoli non può mancare la spia, il doppiogiochista che trama su entrambe le sponde. L’insospettabile è Edoardo Bove, reggente di Forcella al soldo dei MazzarellaMisso ma sentimentalmente legato ad Anna Giuliano detta ’a Pallona, sorella di Lovigino e Salvatore. Alleanze, parentele e tradimenti, una specie di Beautiful della camorra in versione pulp. Bove vorrebbe un mandato più ampio sul territorio, e lamenta che i Mazzarella lo tengano a stecchetto. Non gli bastano i diecimila euro al mese, non tollera che a lui spetti solo il gioco sporco: organizzare e controllare le piazze di spaccio, ritirare l’estorsione, taglieggiare i negozi, gestire l’usura e tenere a bada l’esuberanza degli altri clan. Lui vuole i soldi veri. Vuole comandare. E poi c’è anche una questione di orgoglio. Bove ce l’ha con Marianna Giuliano, la figlia di Lovigino data in sposa a Michele Mazzarella. La signora non solo dev’essere stipendiata ogni mese, ma a lei spetta sempre l’ultima parola nel quartiere. È una vecchia tradizione per la mala di Forcella quella di tenere le donne in prima fila. Quando imperava Lovigino erano le sorelle le consigliere più ascoltate. E c’è anche Anna ’a Pallona, la sua


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convivente, a istigare Bove alla ribellione, a fargli pesare il ruolo di luogotenente commissariato e dunque poco credibile anche agli occhi dei suoi sottoposti. È per questo che quando ’o Montone e altri esponenti dell’ex clan Giuliano, come Gennaro Lauro e Biagio Saltalamacchia, prospettano il golpe, Bove ci fa un pensierino. Iniziano gli appostamenti per far fuori Misso, sfruttando la sua abitudine di farsi portare il caffè dal garzone del bar sotto casa. L’idea è quella di sostituire il ragazzo con un killer. Il piano però va in fumo. Bove è titubante, i Mazzarella sono forti, armati e cazzuti. Decide di aspettare un’altra occasione, scarica i Giuliano e si avvicina al clan di Giuseppe Misso. Fra trame e inganni il quartiere è una polveriera. Ciro Giuliano non si accontenta del sottobanco, organizza estorsioni, porta scompiglio riscuotendo il pizzo dai commercianti che già pagano i Mazzarella. Per non sbagliare, pagano tutti due volte. ’O Barone si circonda di un esercito di una trentina di uomini, tra cui alcuni ex fedelissimi di Lovigino che ufficialmente sono passati con i Mazzarella ma fanno il doppio gioco. Tra i suoi pretoriani c’è un parente, tanto stretto quanto inaffidabile: aria spavalda e grilletto facile. Salvatore Giuliano junior, detto ’o Russo, è figlio di un altro Luigi Giuliano, il cugino di Lovigino. Ha solo diciannove anni, si atteggia a boss ma è a detta di tutti semplicemente un cazzone. A questo punto i Giuliano, decimati dai pentimenti e isolati dai clan vincenti, puntano tutto sulla nuova triade: Ciro Giuliano ’o Barone è il capo militare, Salvatore Giuliano ’o Montone è la mente economica, quello che con i suoi affari e le sue relazioni può ancora offrire molto ai potenziali alleati; e poi c’è Salvatore Giuliano junior, ’o Russo, con funzioni semplici da guardaspalle ma «antenna» molto utile nel quartiere, perché è quello dei tre con maggiore libertà di movimento. Siamo all’inizio di via Forcella. Nel punto in cui la macchina nera di Google Street View è stata costretta a una deviazione forzata. Si tratta di una di quelle auto, con videocamera installata sul tetto, che il motore di ricerca più famoso del pianeta ha mandato in giro per le strade del mondo. Così, dal computer di casa, possiamo esplorare le strade di una città attraverso fotografie panoramiche scattate al livello della strada. Tra quelle


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città Napoli c’è, ed è una delle più cliccate dagli utenti di tutto il mondo. Via Forcella no, però. Nel cuore nero della camorra non c’è trasparenza della rete che tenga. Qui, tra il 2003 e il 2004, si capiva piuttosto che c’era qualcosa di grosso che bolliva in pentola. Agguati, ferimenti, incendi di auto e negozi. I Mazzarella sono al limite della sopportazione, la tensione è alle stelle, il tempo di Ciro Giuliano è scaduto, non ha ottenuto niente di quello per cui si era impegnato. La sentenza stavolta è definitiva: deve morire. Il boss però vive blindato nella sua fortezza di piazza Mercato, non sbaglia una mossa, non si fa vedere in giro, sa di essere nel mirino e non rischia. Vincenzo Mazzarella decide allora di colpire Salvatore Giuliano junior. È il più giovane del gruppo, è violento e arrogante, è il rampollo in ascesa con ambizioni da leader e in più è violento e arrogante. Un episodio raccontato dai pentiti ai magistrati della Dda la dice lunga sul personaggio. Intorno alla metà di marzo del 2004 Carmine Giuliano detto ’o Lione, reso celebre sul finire degli anni ottanta per la foto nella vasca a forma di conchiglia con Diego Maradona, è ricoverato all’ospedale San Gennaro al rione Sanità. Ha un tumore, è inchiodato sulla sedia a rotelle, morirà pochi mesi dopo. È in camera e non è sorvegliato, riceve la visita della sorella Anna Giuliano ’a Pallona e di Eduardo Bove. Si parla della situazione di Forcella, il boss malato è perentorio: il rione deve rimanere dei Giuliano. Nel pieno della discussione arriva in ospedale Salvatore Giuliano. Entra nella stanza, si dirige dallo zio e in maniera sfacciata ignora il luogotenente dei Mazzarella. Un affronto insopportabile nel codice malato dell’onore camorrista. Scoppia una lite, Anna Giuliano caccia il nipote fuori dalla stanza. È questa la miccia che fa esplodere la rappresaglia. Proprio la grande visibilità di Salvatore a Forcella, però, rappresenta un rischio. Va bene assestare un colpo pesante ai Giuliano ma i Mazzarella sanno che quell’omicidio rischia di compromettere il loro consenso sociale sul territorio. L’idea, allora, è di risparmiargli la pelle e gambizzarlo. Qualche mese d’ospedale, poi sulla sedia a rotelle. Che tutti sappiano e vedano, valutino la forza ma anche la magnanimità dei nuovi padroni. Per un’operazione così delicata, è chiaro, servono dei professio-


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nisti. Non si tratta di svuotare un caricatore in testa alla vittima affiancandolo con uno scooter, ci vuole un lavoro di precisione. Vincenzo Mazzarella ha già in mente i killer ma Edoardo Bove, che ha messo da parte i propositi di tradimento, per ribadire il suo ruolo si assume il compito dell’organizzazione del raid armato contro ’o Russo. Tra i suoi guardaspalle c’è Gennaro Albino, più che altro un usciere del rione che perquisisce i forestieri e qualche cronista impiccione. Albino tiene il figlio Antonio disoccupato e agli arresti domiciliari. Sfondato di cocaina, ha il sistema nervoso a pezzi. L’altro sicario designato è il suo degno compare Giovanni Della Torre. Un commando di disperati, non professionisti e inaffidabili. Questa scelta Bove la pagherà cara. In alcune intercettazioni, successive alla morte di Annalisa, Vincenzo Mazzarella ne parlerà ricoprendolo di insulti e accusandolo di essere un incapace. Un rapporto che precipiterà definitivamente quando Bove smette di consegnare le mesate a Marianna Giuliano. Che riferisce subito al marito decretando la condanna a morte del reggente dimezzato.

L’agguato Formata la squadra della morte, iniziano gli appostamenti. Salvatore Giuliano junior immagina di essere braccato, minacciato e senza la copertura di un clan potente organizzato. Così gira sempre armato, pronto a sparare. Gli occhi del commando però si sono posati su di lui e non lo perdono di vista un istante. La sera del 27 marzo è un sabato, è il giorno giusto. I sicari sanno che ’o Russo si concederà una serata in discoteca e si preparano. Alle 23.15 la vittima designata è in via della Vicaria Vecchia, chiacchiera con un gruppetto di amiche, tra cui c’è anche Annalisa, volto pulito, capelli lunghi biondi. Giovanni Della Torre e Antonio Albino passano a bordo di uno scooter, parcheggiano, si dividono per accerchiare il bersaglio. Uno va avanti, l’altro rimane indietro. «Sasà, Sasà fuje!» L’urlo spezza improvviso la quiete della sera. Poi è l’inferno.


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Una selva di colpi che non vanno a segno, ’o Russo risponde al fuoco sparando alla cieca, trova riparo dietro una Suzuki Aton parcheggiata sotto il portone. Le amiche di Annalisa scappano via, lei resta come paralizzata, non sa dove fuggire. All’inizio, secondo alcuni testimoni, pare che addirittura Giuliano la afferri per farsi scudo di lei. L’ipotesi sarà poi smentita dalle ricostruzioni dell’Unità analisi crimine violento della polizia di Stato. I sicari sparano un po’ a caso. La reazione di Giuliano, che si copre e risponde al fuoco, li mette in fuga. Uno dei suoi proiettili rimbalza sul tetto dell’auto e colpisce Annalisa alla nuca, la ragazza cade a terra in una pozza di sangue. Suo padre, Giovanni Durante, si precipita al balcone sentendo i colpi di pistola e le grida delle amiche. Vede la figlia riversa sul selciato, ridotta in fin di vita. La soccorre, cerca di rianimarla, poi ha un mancamento. La corsa all’ospedale più vicino, il trasferimento al Loreto Mare. Annalisa è in coma, forse c’è una speranza. Poi, la fine.

Dietro le quinte La sera stessa dell’omicidio di Annalisa, mentre Salvatore Giuliano trova rifugio da alcuni parenti a Pomigliano d’Arco, i suoi più stretti familiari lasciano Forcella e qualcuno gli devasta la casa. Ancora prima delle indagini delle forze dell’ordine l’assassino ha un nome. A Forcella tutti sanno. Molti sapevano anche prima di quel sabato che ’o Russo aveva le ore contate. Due giorni dopo Giuliano è arrestato e il 30 marzo, al funerale di Annalisa, succede qualcosa di esagerato. La chiesa di San Giorgio ai Mannesi è stracolma di gente. Una presenza di massa che versa lacrime disperate ascoltando l’orazione funebre di don Luigi Merola. Il corteo funebre gira per i vicoli tra applausi e scene strazianti. La madre di Annalisa non ha trovato la forza di andare in chiesa. Al passaggio della bara sotto il balcone di casa tenta di lanciarsi di sotto. Su un’impalcatura tra due palazzi pericolanti svetta uno striscione: «Annalisa. L’angelo più bello del Paradiso». Il popolo urla contro i camorristi assassini e applaude polizia e carabinieri. Il questore Franco Malvano stenta a credere a


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ciò che vede e sente: «È la prima volta, è davvero la prima volta che i cittadini di Forcella ci hanno accolto con entusiasmo». Ma è davvero così sorprendente tutto questo? Fino a un certo punto. Stiamo parlando di una tragedia che colpisce una ragazzina di quattordici anni e una famiglia radicata da sempre nel quartiere. La storia ha un’eco mondiale, la tv non parla d’altro. La vera notizia è un’altra. Giovanni Durante, il padre di Annalisa, chiede giustizia, non cerca vendetta. Lo dice pubblicamente, poche ore dopo aver seppellito sua figlia. Perché? La risposta e i fatti successivi non sono semplici da comprendere se non conosci la storia di un luogo, se non ne hai assorbito i meccanismi che regolano le relazioni sociali in un contesto delicato e complesso come quello di Forcella. La scelta della famiglia di Annalisa non si spiega solo con il dolore insanabile per la perdita di una giovane figlia che nessuna vendetta potrebbe lenire. Giovanni Durante, come tutti a Forcella, conosceva i Giuliano. Li conosceva bene. Salvatore ’o Russo, l’assassino, l’aveva visto crescere, era uno di casa. Durante non è mai stato un affiliato al clan, ma li frequentava da sempre, da generazioni si può dire. Sua madre, per esempio, c’aveva il suo banchetto di sigarette di contrabbando a vico dei Carbonari, come Sophia Loren nel film di De Sica Ieri, oggi e domani. Lui stesso da ragazzino vendeva le sigarette, poi è passato ai cd pirata. La famiglia Durante a Forcella, tra parenti, zii, cugini, è una comunità di centinaia di persone, nuclei familiari con sette, otto figli ciascuno. Perciò quando c’è stato l’omicidio di Annalisa, se solo qualcuno della famiglia avesse voluto vendicarsi col sangue, avrebbe facilmente trovato armi e volontari. Per comprendere meglio, bisogna allontanarsi da Forcella. Quattro chilometri in direzione sud che sembrano una macchina del tempo. Corso Umberto, via Medina, Galleria Vittoria e poi di nuovo su verso piazza dei Martiri. Il bar Moccia Piccolo è di fronte al liceo Umberto, il più prestigioso della città. È qui che all’inizio di maggio del 2004, poco più di un mese dopo la tragedia di Forcella, un cronista della Repubblica nota un biglietto. La denuncia e la ribellione dei cittadini di Forcella contro il clan e i boss non rappresenta solo un gesto di coraggio ma un atto


28   Taci infame d’amore verso la vita, se stessi, gli altri, i propri figli, la propria famiglia, la libertà, il benessere e verso Dio. Si pensa che i clan e i boss siano soltanto l’effetto dannoso che la disoccupazione e la povertà creano in questi rioni. In realtà è vero l’opposto. La presenza dei clan e dei boss creano disoccupazione, povertà, miseria, degrado, sottosviluppo, devianza, umiliazione, emarginazione e perdita della dignità e dei diritti civili. Quello che è successo ci deve far riflettere. Per troppo tempo si è creduto nella menzogna e nell’inganno. nunzio giuliano

Potrebbe essere uno dei tanti proclami di principio contro la camorra in un quartiere bene di Napoli. Se non fosse per quella firma in calce. Nunzio Giuliano. Ovvero uno dei nove figli del vecchio patriarca Pio Vittorio, fratello di Lovigino. Cinquantasei anni, è considerato l’intellettuale di famiglia anche se non è mai andato a scuola. Nel rione lo chiamano la Mente. Parla un italiano forbito, legge Paulo Coelho e ai neomelodici preferisce i tanghi argentini. Della famiglia è soprattutto la pecora nera. All’inizio del 1988 si dissociò dai suoi parenti e dal loro mondo. Aveva appena perso un figlio di diciassette anni, morto per overdose. Si intestò allora un’incredibile campagna contro la droga. Disegnò e scrisse manifesti e proclami contro la camorra. Li fece appendere per le vie di Forcella, anche sui muri delle case di suo padre e dei suoi fratelli. Non ne fu strappato neppure uno. Le mafie in questi casi non perdonano, scatta prima l’isolamento, poi la punizione esemplare. Ma Nunzio Giuliano godeva di prestigio e carisma ineguagliabili. Non fu tecnicamente un pentito perché, nonostante i precedenti penali e il carcere, sostenne di non essere mai stato camorrista. Cambiò vita, intraprese un percorso di ravvedimento umano e spirituale. Con lo status di sorvegliato speciale fu per anni un testimonial richiestissimo in città, da parrocchie e associazioni, per raccontare come fosse inevitabile nascere condannato se ti chiami Giuliano a Forcella. E quanto fosse urgente alzare la testa e svoltare. Le regole del vicolo e della camorra, la solitudine e la paura. Dove non c’è tempo di essere bambini: padri a sedici anni, nonni a quaranta e in mezzo furti, scippi, rapine, il riformatorio e


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la galera. E la camorra che cambia pelle con Cutolo, Bardellino, Nuvoletta. Il mondo dei contrabbandieri è finito. Gli cambiano il soprannome, adesso per tutti è ’o Filosofo. E lui magnifica un’età aurea della camorra come malacultura cittadina, deprecabile, inevitabile, ma confinata nei limiti topografici dei quartieri. Obietto che è un po’ la stessa storiella della mafia siciliana del primo Novecento, quella che risolveva i conflitti. E che la buona parola la metteva sempre con la lupara in spalla. Neanche la camorra epica vagheggiata da Nunzio Giuliano è mai esistita, perché sempre marchiata dalla violenza. Che in ballo ci fosse il predominio sul contrabbando di sigarette o il traffico internazionale di droga. Epperò questa figura mistica regala a Nunzio Giuliano una lunga immunità dagli affari di famiglia. I pentimenti in serie dei suoi fratelli e la perdita del potere criminale, a più di quindici anni dalla dissociazione, riportano in auge un leader dimenticato. A differenza dei suoi nipoti Ciro e Salvatore senior però, ’o Filosofo non nutre alcuna ambizione di rivalsa. Pensa piuttosto che il momento, ancorché tragico, sia propizio per far giungere alla comunità di Forcella un messaggio forte, di rottura. Il biglietto del bar è solo l’inizio. In un’intervista ad Assunta Berardinelli dell’associazione Partenia, poche settimane dopo, specifica meglio il suo pensiero.1 La presenza dei clan e dei boss in queste zone significa vivere in uno stato antidemocratico e senza libertà. Accettare i clan e i boss vuol dire comunque perdere la libertà, non vivere in uno Stato democratico, non farsi tutelare dalle istituzioni oltre che subire un degrado umano, economico. I clan e i boss non hanno proprio ragione di esistere. È inaccettabile vivere in queste condizioni con la minaccia della morte che ogni giorno come la spada di Damocle sta sulla testa di ogni persona che vive in queste zone. E tutto questo non bisogna più accettarlo. Da piccolo mi è stato inculcato il dovere di essere camorrista, e io non ho voluto accettare il destino che mi era stato imposto. Ma quando si vive nei quartieri dove c’è degrado, non si è sempre in condizione di scegliere. Esprimere quello che penso è così forte, e così bello che non ho paura di una vendetta: tra le due ho scelto la libera espressione e non la schiavitù.


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Nell’estate del 2004 magistratura e forze dell’ordine pongono il quartiere sotto assedio, presidiano il territorio ventiquattr’ore al giorno. I vicoletti, i palazzi a «spuntatore» rifugio de’ mariuole a ghiuorno e nnotte, i passaggi e le botole segrete non offrono più vie di fuga agli uomini dei clan. Capannelli di persone agli angoli delle strade commentano a mezza bocca i blitz di polizia e carabinieri. La tensione in via Vicaria Vecchia, via Forcella, vico delle Zite è palpabile. I muschilli sfrecciano in scooter in avanscoperta, persino il tradizionale giro di tossici si dirada. Ricostruire la verità sulla genesi della morte accidentale di Annalisa può avere un effetto dirompente sui fragili equilibri tra le cosche. È in mezzo a questi equilibri che si inserisce la variabile imprevista, che assume plasticamente le sembianze di un uomo, una persona del popolo che di fronte alla tragedia chiede solo giustizia. Allo Stato. È da questo momento che Giovanni Durante inizia a esporsi seriamente. E dopo i primi momenti di scoramento afferma pubblicamente che da Forcella non se ne andrà mai, lui e la sua famiglia resteranno qui e sarà il quartiere a cambiare. Saranno «quelli», semmai, a doversene andare. Puntuali, all’inizio di agosto arrivano le minacce. Durante lavora ad Arzano per un’impresa di pulizie, qualcuno lo tiene d’occhio mentre ramazza le strade. Due uomini a bordo di un’auto avvicinano i suoi colleghi: quello lì non lo vogliamo vedere più. L’azienda obbedisce e lui perde il posto. Intorno al padre di Annalisa si crea una barriera sociale protettiva, con in primo piano don Luigi Merola, che ne parla come il simbolo di una nuova Forcella. Il parroco, dopo l’orazione funebre di Annalisa, insiste con le sue omelie anticamorra. Lavora sulle coscienze più fuori che dentro le mura della chiesa. Per questo, quando in aprile viene minacciato di morte c’è poco da sorprendersi. Lascia di stucco semmai la reazione del cardinale Michele Giordano: «Don Luigi è un ragazzo splendido che a Forcella ha dovuto fare le veci del sindaco, del questore e del prefetto, ma è meglio adesso che si faccia da parte, perché un prete deve educare i giovani e le famiglie, non fare il poliziotto». Un modo curioso, per un cardinale, di far sentire la propria solidarietà a un prete di frontiera. Lovigino Giuliano, dal carcere, manda segnali opposti


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con una lettera aperta alla gente del quartiere: «Battetevi contro i clan che seminano paura, denunciate a voce alta chi fa ancora del male e chiunque è responsabile della morte di Annalisa». Il cardinale frena, il boss pentito incita alla rivolta civile. È il mondo alla rovescia. Il segnale più chiaro che fuori scena qualcosa sta accadendo. Però ormai la stampa locale e nazionale ha rivolto lo sguardo altrove. Solo Napolipiù non smette di raccontare. A ottobre centinaia di persone partecipano all’inaugurazione della scuola intitolata ad Annalisa, eletta a simbolo e riscatto dell’intero rione. Giovanni Durante e sua moglie Carmela ribadiscono il loro impegno a restare e a lavorare nel quartiere. «Forcella tornerà a essere un posto normale.» Pia illusione. Le forze dell’ordine allentano la presa, tornano in strada i banchetti con le sigarette e i cd pirata, gli scippatori tornano a vendere per strada il bottino ancora fresco. Chiare evidenze di una ritrovata normalità sì, ma quella di sempre. Come i boss che nottetempo ordinano ai guaglioni di riposizionare i cassonetti della monnezza. La puzza sale fino dentro casa, si è lamentato qualche pezzo da novanta. E una mattina i cassonetti sono tutti ammassati davanti alla chiesa abbandonata di Santa Maria, con tanto di rifiuti spalmati per la via. I clan hanno paura di affogare e rialzano la testa. A novembre il clima si fa pesante: la madre di Salvatore Giuliano, ’o Russo, aggredisce e minaccia Angela, la sorella di Giovanni Durante, una delle poche testimoni della tragedia. Carmela De Rosa, detta Lina, capelli tinti di biondo, pantaloni leopardati e andatura da dura, si presenta davanti alla piccola rivendita di pizzette che Angela gestisce con alcuni parenti in vico Carbonari. «Ancora dovete vedere quello che passerete! Cominciando dalle creature!» Un avvertimento, un’intimidazione, una minaccia di morte, così scrivo sul giornale. Napoli, 27 maggio 2005, aula 114 del Tribunale, Corte d’Assise. «Siete voi Capezzuto?» Mi sovrasta, sudo e sento sul viso minuscoli schizzi di saliva appuntiti come spilli.


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«Voi in persona siete stato sempre contro di noi.» Provo a guardarlo, è fermo come un blocco di granito, mi fissa dall’alto e mi sento piccolissimo, vorrei piantargli gli occhi negli occhi ma lo stomaco brucia, ho i battiti accelerati. Questa deve essere paura. «Il vostro giornale mette sempre in prima pagina i Giuliano. Vi dico solo che dovete stare attento perché le disgrazie succedono all’improvviso.» Una fitta mi attraversa la gola e mi esplode nel petto. Sono in cima alle montagne russe e precipito e accelero e improvvisamente risalgo non so da dove. Alzo il tono e riesco a far uscire una specie di pigolìo. «Signor Giuliano mi state minacciando?» «No, vi sto dando un consiglio, così evitiamo problemi.»

’O Spione Tiriamo il fiato. Risaliti fino a via dei Tribunali, ricominciamo ad attraversare il rione. Giù per vico Scassacocchi, su per via delle Zite e di nuovo giù per vico Carbonari. Una fulminea ammiccata mi indica che siamo nei pressi della pizzetteria dei Durante. Ma siamo soprattutto a un passaggio cruciale per capire la storia di Arnaldo Capezzuto. Penso che in fondo, nel nostro Sud dimenticato, l’aggressione alla zia di Annalisa poteva essere una lite qualunque, due donne dei bassi che si appiccicano e urlano in dialetto stretto, un mondo a parte, ancestrale e violento. Affaracci loro. E invece questo mondo violato finisce ogni giorno in prima pagina. Con tutti i retroscena e i suoi tratti sguaiati. Un lavoro di documentazione costante. Giorno dopo giorno il lavoro di Arnaldo comincia a insinuarsi nel sottobosco purulento del rione. «Succede che, con una campagna stampa martellante, eravamo riusciti a far abbattere un muro che finiva proprio qui dove stiamo adesso, in mezzo a vico Carbonari. L’avevano tirato su nel dopo terremoto per consolidare un palazzo pericolante che fu poi sistemato. E quindi il muro non avrebbe avuto più ragione di esistere. E invece era ancora lì, da anni. Perché garantiva


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agli scippatori del quartiere una perfetta via di fuga: i motorini riuscivano a infilarsi nella strettoia creata nel vicolo, le auto della polizia no. Mi segnalano questa cosa, riesco a fare le fotografie e inizio a denunciare sul giornale: ma scusate, è stato tolto il pericolo, mica cade il palazzo, allora perché ’sto muro è ancora qua? Rompo le scatole, nel vero senso della parola. Investo della questione l’assessore all’Edilizia, gli uffici tecnici. Alla fine, solo perché messi alle strette, dal Comune decidono di abbatterlo. Così una mattina vanno gli operai, manco iniziano a lavorare che nel vicolo spuntano quattro avanzi di galera, pistola alla mano. E gli operai vengono cacciati a pistolettate. Li sparano, capisci? Cioè lo Stato va a ripristinare la legalità e i criminali lo umiliano così! Noi abbiamo fatto scoppiare il casino e non ci fermiamo, continuiamo a denunciare. «È una prova di forza. Chi controlla il territorio? Forcella è Italia o c’è una giurisdizione extraterritoriale in cui comanda la camorra? Una settimana dopo tornano gli operai del Comune. Questa volta scortati dalla polizia. E il muro finalmente cade giù. Una bella soddisfazione. Questo è stato un segnale per i camorristi: il nostro giornale tiene la schiena dritta. E a furia di denunce costringiamo lo Stato a fare la sua parte. «Il culmine lo tocchiamo nell’estate 2004. In piena onda di indignazione per la morte di Annalisa, la politica e le istituzioni facevano a gara per mostrare di voler recuperare il tempo perduto. Il Comune se ne era sempre fregato del quartiere, adesso arrivano Bassolino e Iervolino, fanno una conferenza stampa di espiazione dentro la chiesa di don Merola. Varie gradazioni di mea culpa, è il momento dei segnali forti. Strade, marciapiedi, i divieti di sosta e la scuola di Forcella, chiusa e in stato d’abbandono da oltre dieci anni. L’impegno è di ristrutturarla e riaprirla in sei mesi. Un asilo e scuola elementare intitolati ad Annalisa. Iniziano i lavori e mi contatta un tizio, un conoscente del quartiere, che mi dice solo: “Guardati bene la scuola”. Ma perché? “Guardati bene la scuola.” E io la guardo. La fisso. Giuro, passo ore intere a guardare, sembravo un pensionato che sta fermo a guardare lavorare gli operai. La guardo e non capisco. La guardo e la riguardo, trovo ogni scusa per fermarmi lì davanti. So che la mia fonte è affidabile


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e che quel messaggio deve significare per forza qualcosa. O forse mi sta solo prendendo per il culo, a un certo punto mi viene pure il dubbio... Ma non smetto di guardare, a destra e a sinistra, sopra e sotto, sotto e sopra. Sopra. Alla fine finalmente lo vedo. E capisco che ho per le mani una notiziona esagerata. Luigi Giuliano e Carmela De Rosa, i genitori di Salvatore Giuliano ’o Russo, abitano a vico Carbonari, al terzo piano di una palazzina attigua alla scuola. Una finestra di casa loro si affacciava sulla terrazza dell’edificio scolastico. Approfittando del decennale abbandono della struttura pubblica, i Giuliano avevano smantellato la finestra, allargato l’apertura e costruito un muretto a tre lati, alto meno di un metro, dentro il quale era stato ricavato un ampio e soleggiato balcone. Un terrazzino con tanto di scaldabagno, lavatrice, una bella antenna parabolica e i fili per il bucato. «Qualche vicino ricorda che negli anni d’oro, in estate, c’era anche una piscina di gomma, di quelle colorate da bambini, per stare in ammollo nei giorni di canicola. E di sera poi, karaoke a tutto spiano. Sul tetto della scuola. Cioè i genitori dell’assassino di Annalisa godevano di un balcone abusivo sul tetto della scuola che avrebbe portato il nome della ragazza uccisa! Una proprietà dello Stato requisita dalla camorra nell’indifferenza generale. Prima ancora di pensare che cose così possono succedere solo a Napoli, inizio a chiedermi come fare a fotografare questo clamoroso esempio di rovesciamento dello stato di diritto. Citofonare a un vicino di casa dei Giuliano e chiedere se per favore posso fare una fotografia è escluso... Mi arrovello, poi arrivo alla soluzione.» E quella che mi racconta Arnaldo è una soluzione davvero brillante, degna del principe De Curtis. E fatico qui, per prudenza, a non riportarla nei dettagli. «Sì, è meglio non esporre chi mi aiutò. Posso dire però che dopo qualche giorno di preparazione riuscii a intrufolarmi con una scusa in un’abitazione vicina. Un palazzo che da fuori sembra stare in piedi per scommessa, e dentro non te lo immagini proprio, roba che via Posillipo non è niente. Parquet a terra, sculture, terrazzo esagerato che si vedeva tutta Napoli. Riesco con uno stratagemma ad affacciarmi di soppiatto e a fare le fotografie che l’indomani, il 21 luglio 2004, spariamo in prima pagina. Oltre allo scandalo dell’abuso edilizio, spiego che


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quel balcone era anche una via di fuga, un’uscita di sicurezza in caso di visite sgradite, che dava direttamente su vico delle Zite. Non passa neanche una settimana che il Nucleo antiabusivismo dei vigili urbani fa il primo sopralluogo. La giunta comunale e gli uffici tecnici si mobilitano. Noi martelliamo per due mesi, tutti i giorni interviste ai tecnici, agli amministratori, le foto da tutte le angolazioni. «La mattina del 22 settembre il quartiere è scosso dal ritmo incessante del martello pneumatico degli operai comunali. Il balcone abusivo finisce in un piccolo cumulo di macerie. Così come la tracotanza dei boss di fronte, per una volta, all’intransigenza dello Stato. Noi tutta questa campagna la facevamo sempre in totale isolamento. Solo noi, non se ne fregava nessuno. La notte prima dell’abbattimento del balcone l’assessore mi telefonò perché, anche se avevamo scassato tanto pure a lui, eravamo gli unici che ci interessavamo di Forcella. E anche nel quartiere a questo punto non passavo più tanto inosservato. Si comincia a dire Però chisto quanto rompe ’o cazzo, ormai mi conoscevano, chisto bastardo... perché ovviamente con tutto questo casino il giornale vendeva tantissimo, e io rappresentavo il giornale. Nessuna minaccia esplicita, però era chiaro che davo fastidio, andavo là a spiare, a curiosare... E vabbe’ pure a me mi appiopparono il soprannome: ’o Spione.»

Il gioco grande «Quando si viene a sapere del biglietto di Nunzio Giuliano al bar Moccia Piccolo, succede qualcosa di strano. Alcuni affiliati storici del clan, che nel tempo erano passati coi Mazzarella, si pentono. Altri importanti latitanti si consegnano, gente di peso. Sono quelli che gestiscono i traffici sulla piazza, che conoscono più nomi e più segreti perfino dei capi clan. Sembrano tutti rispondere a un ordine preciso: vengono arrestati o si consegnano, e subito si pentono. Noi al giornale siamo gli unici a documentare con puntualità questi fatti, spesso senza renderci neppure conto della bomba che maneggiamo.


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«Tutto diventa chiaro quando viene fuori che tra i nuovi pentiti c’è perfino Salvatore Giuliano ’o Montone, insieme ai fedelissimi Biagio Saltalamacchia e Gennaro Lauro, detto Gennarino 17. Il fatto viene tenuto nascosto per guadagnare tempo, all’esterno non arriva nessun segnale. Quando un criminale comincia a collaborare, la prima cosa che fa è cambiare l’avvocato. Loro no. Il segreto però non può reggere a lungo e una notte del novembre 2004, all’improvviso, la notizia deflagra. Il rione Forcella e la Maddalena sono attraversati in lungo e in largo da una macchina ad alta velocità che lancia centinaia di volantini. Io stavo al giornale, squilla il cellulare. Corri, sta succedendo qualcosa. Ma corri dove? Corri, corri e basta. La telefonata finisce così. Accadeva sempre più spesso di ricevere chiamate da numeri invisibili, voci sconosciute ma confidenziali. Vai qui, guardati quello, lo sai cosa è successo ieri sera... Non c’è tempo da perdere, salto sullo scooter, mi precipito a Forcella. C’è qualche sparuto capannello agli angoli delle strade, qualcuno mi mette in mano un volantino. È un capolavoro della comunicazione di vicolo. forcella mixer by giuliano saga: neomelodici titolo: guaju’ cantam dirige il cantautore salvatore giuliano gennaro lauro con

17 brani inediti. accompagnato dall’orchestra saltalamacchia. si acquistano le copie nelle migliori cartolibrerie dei tribunali.

«È il segnale che i Mazzarella sanno. Salvatore Giuliano senior, Gennaro Lauro e Biagio Saltalamacchia sono i nuovi infami. Radiomala lo sussurrava da giorni, adesso è ufficiale. La tensione cresce, dopo le minacce a Giovanni Durante e don Luigi Merola, adesso nel mirino ci sono i collaboratori di giustizia. La preoccupazione è forte soprattutto tra gli imboscati del clan Giuliano. Se i «guaju’» cantano possono raccontare nuovi segreti provocando un terremoto. Informazioni fresche che scottano, sconosciute ai collaboratori di vecchia data come Lovigino. C’ho già il pezzo in testa mentre mi ritrovo solo, di notte, in mezzo a via Forcel-


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la. Improvvisamente mi sembra ancora più buia e deserta. Mi rigiro per le mani il volantino, provo a immaginare cosa stesse accadendo davvero nei meandri di quei vicoli silenziosi. Mi ci sento immerso fino al collo. Un gioco grande, tanto che non ne vedo chiaramente i contorni. L’attimo di smarrimento è travolto dall’adrenalina di essere fottutamente sul pezzo. La notizia, il codice, lo stile e la modalità di diffusione, una versione moderna del pubblico banditore che gira i quartieri su quattro ruote e lancia manifestini con messaggi criptati. E a raccontarlo ci siamo solo noi, gli unici forse in grado di interpretarne il senso. Il giornale è già chiuso, devo correre in redazione, forzare le pagine e pubblicare la notizia. «Riguardo i miei appunti, una selva di nomi, soprannomi e frecce. Ma quanto ha a che fare tutto questo con le indagini sull’omicidio di Annalisa? Moltissimo. Sull’onda emotiva del delitto – i messaggi di Nunzio e Lovigino Giuliano, le omelie di don Merola, il martellamento mediatico – qualcuno comincia a parlare. Giovanni Durante è un trattore. Avvicina le persone: “Ho sentito dire che tu forse quel giorno eri nei paraggi, magari hai visto qualcosa, prova a ricordare”. Le prime ammissioni: “Ma non posso parlare, come faccio, mettiti nei miei panni”. Il richiamo della coscienza: “No, mettiti tu nei miei. Hanno ammazzato mia figlia, un angelo innocente di quattordici anni. Me l’hanno ammazzata davanti agli occhi miei, sua madre non ha più smesso di piangere”. Durante ha coraggio, argomenti e sa essere convincente. E questa forza se la porta dentro ancora adesso, è diventato un punto di riferimento nel rione. Imprevedibilmente parenti, amici, semplici testimoni si presentano in Questura a rilasciare dichiarazioni. “Quella sera ero lì, ho visto Salvatore Giuliano impugnare un’arma, dopo la sparatoria è corso a nascondersi dentro a un portone, si riparava dietro Annalisa e sparava.” Nei quartieri più che istruttorio il segreto è di Pulcinella. In breve tutti sanno chi sono i testimoni, e dopo l’opera di pacifica persuasione del padre di Annalisa, scatta l’intimidazione porta a porta. Imbasciate, pacche sulle spalle, consigli amichevoli. Il pressing comincia silenzioso e prosegue sotterraneo durante il processo a Salvatore Giuliano ’o Russo. E con l’avvicinarsi del dibattimento cresce la consapevolezza delle


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potenziali ricadute sull’intero sistema dei clan del centro storico. I Mazzarella-Misso in particolare, man mano che le indagini mettono insieme prove e testimonianze, si rendono conto che il processo non riguarderà solo gli esecutori materiali del delitto, ma risalirà certamente ai mandanti. E allora le dichiarazioni dei «guaju’», gente abituata a stare sulla strada, che fino a poco prima ha gestito traffici e commesso reati, possono metterli nei guai. I meccanismi che avevano portato alla morte di Annalisa dovevano restare segreti. È per questo che, in ossequio ai più ancestrali caratteri della camorra, i Mazzarella e i superstiti del clan Giuliano trovano una nuova ragione di convergenza, un interesse comune. Per scannarci c’è sempre tempo e non mancherà occasione, adesso c’è bisogno di una strategia e di un’azione condivisa: pentiti, dichiaranti, traditori e collaboratori devono tacere. Più che una coalizione è una specie di desistenza tematica: siamo in guerra, abbiamo una serie di conti aperti che si possono chiudere solo col sangue, però sappiamo che riguardo alle parole dei pentiti siamo tutti nello stesso guaio.» Torniamo in vico Croce di Sant’Agostino alla Zecca, un budello soffocato da tubi arrugginiti e impalcature pericolanti. Qui ci stava Edoardo Bove. Il boss era originario di San Giovanni a Teduccio, poi prese casa a Forcella. Se la prese non è un modo di dire: un’intera palazzina requisita dai Mazzarella ai legittimi proprietari, cacciati via senza troppi complimenti. Qui intorno le case di quaranta famiglie non vedono il sole da trent’anni, intrappolate dai puntelli montati dopo il terremoto del 1980. Palazzi diroccati che cadono a pezzi, voragini nell’asfalto nascoste con sassi e vecchi tappeti per ostacolare l’invasione dei topi. E la vecchia cappella della Madonna, fatta costruire da Lovigino, quando era ’o Rre. È qui che Bove viene ammazzato il 5 gennaio 2005, ed era già il quarto omicidio dell’anno in città. «Quel giorno mi chiamano al telefono da un numero sconosciuto. Tanto per cambiare mi dicono solo “Corri, corri, corri”. Io non sapevo manco dove correre, stavo in redazione. Capisco solo che devo andare a Forcella, acchiappo lo scooter e praticamente arrivo nel momento in cui Bove viene ammazzato. Prima della polizia. Vedo solo una motocicletta che fugge. Tu capisci che è


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una cosa pazzesca. Cioè io sto là, col cadavere ancora caldo, se la polizia mi trova come minimo mi chiede qualche spiegazione. Ormai che ci sono però, voglio vedermela tutta. Mi infilo in un panificio, per non stare troppo nel mezzo. Io so che quando succede l’omicidio si abbassano i freni inibitori. I parenti, soprattutto le donne, gridano come i pazzi, nella disperazione vuotano il sacco e quelli sono i momenti più propizi per afferrare verità senza filtri. “Chilli bastardi, i compagni tuoi ti hanno ammazzato!” Questa frase mi colpisce. La dice Anna Giuliano, ’a Pallona, la convivente di Bove. Arrivano i parenti, la prendono, cercano di zittirla, lei insiste, “Voglio dicere a verità!”. La buttano dentro una macchina che riparte sgommando. «Don Luigi Merola denuncia: “Ci hanno lasciati soli, si sono spenti i riflettori sul quartiere da quando è scoppiata la guerra di camorra a Scampia. Siamo stati dimenticati”. Dell’inaffidabilità di Bove, invece, i fedelissimi di Mazzarella non si sono affatto dimenticati. E quando Vincenzo ’o Pazzo, meno di un mese prima, viene arrestato a Parigi dentro il parco di Eurodisney, scatta l’ordine di esecuzione. Bove ormai era ingestibile, ricalcava le orme di Ciro Giuliano che andava in giro a raccogliere il pizzo dai commercianti che pagavano già ai Mazzarella. Per i nuovi padroni è una situazione intollerabile. Il bunker di Bove è inespugnabile, protetto da sette telecamere e due porte blindate. Ma è lui che apre la porta ai suoi assassini, mentre si trova in compagnia della convivente Anna Giuliano. Probabilmente discutono, la situazione si accende e lo fanno fuori. Poi chiudono la donna in uno stanzino e si dileguano. “Ti hanno ammazzato i compagni tuoi.” Io esco l’indomani con tutte le ipotesi investigative e praticamente pubblico già quello che si scoprirà giudiziariamente dopo due anni. E anche in quella occasione mi guadagno dei nuovi fan: adesso stavo sul cazzo sia ai Giuliano che ai Mazzarella.» La resa dei conti culmina però il 21 marzo 2005. Nel giorno della memoria, ricorrenza voluta da don Luigi Ciotti per ricordare tutte le vittime delle mafie. Quattro colpi sparati di spalle, come agli infami. Nunzio Giuliano, l’uomo che credeva di essere fuggito al suo destino, crolla a terra nei pressi di casa. Colpito mentre era a bordo dello scooter con la sua compagna, in via Tasso, lontano


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da Forcella. Era ormai un bersaglio troppo facile: l’unico e l’ultimo di una grande famiglia criminale che non aveva scorta, sentinelle né conti personali da pagare. «Quella sera mi chiama una collaboratrice del giornale che lavora da quelle parti. “C’è stato un incidente, gente a terra, se vuoi ti faccio qualche foto.” La ascolto quasi distrattamente, poi aggiunge che è successo in via Tasso. Capisco al volo, salgo sullo scooter e mi fiondo lì. La vittima è in braccio a un dottore che tenta inutilmente di rianimarlo. A terra nel giro di qualche metro il casco, la busta della spesa squarciata, latte, yogurt e i biscotti come apparecchiati sull’asfalto. Un omicidio firmato Giuseppe Misso, dirà in tribunale Salvatore Giuliano ’o Montone, ormai pentito. Parlerà di un’alleanza tra Misso, Mazzarella, Sarno e Di Lauro, un mostro a quattro teste che si spartisce il territorio ed emette le sue sentenze di morte. “A Napoli, non solo a Forcella, comandano loro. L’omicidio di via Tasso era la vendetta contro i collaboratori. Ci volevano zittire. Volevano costringere Lovigino a ritrattare, e fecero pressioni anche su di me quando ero libero. E poi sapevano che fingevo di stare con loro ma in realtà stavo cercando di rimettere in piedi i Giuliano.”»

Alta tensione I clan non fanno prigionieri, si sentono minacciati dai pentiti e dalle inchieste della magistratura, sono disposti a tutto per arginare la piena che li sta investendo. È in questo clima che si prepara il processo a Salvatore Giuliano ’o Russo per l’omicidio di Annalisa Durante. Le testimonianze vengono messe a verbale, ma l’aria rispetto a qualche mese prima è decisamente cambiata. L’omicidio di Nunzio Giuliano ha raffreddato qualche entusiasmo ma l’eliminazione di Edoardo Bove ha segnato una svolta, nel rione regna il terrore. La sera del 13 aprile 2005 Forcella è chiusa a riccio. Silenzio e tensione. Vico Zuroli e vico Carbonari sono deserti. Negozi e ambulanti hanno sbaraccato fin dal pomeriggio. Piccole processioni si recano in visita a casa di Luigi Giuliano, il padre dell’im-


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putato. L’indomani mattina, alle 10.53, inizia il processo davanti alla quarta sezione della Corte d’Assise del Tribunale di Napoli. Salvatore Giuliano junior è l’unico imputato, accusato di omicidio volontario aggravato dal metodo mafioso e detenzione di arma. Un ventunenne dall’aria spavalda, sguardo strafottente. Lo osservo a lungo dietro le sbarre. Fisico longilineo, rasato di fresco, i capelli corti rossi, più che vestito è fasciato di nero: maglietta, felpa, giubbino. Sui jeans è ricamato un serpente. Al collo un ciondolo con la lettera S tempestata di brillantini. Da dentro il gabbiotto lancia sguardi in codice e sorrisi ostentati ai suoi familiari che seguono il processo dall’alto. I flash dei fotografi non lo disturbano affatto. Nella tribunetta ci sono suo padre Luigi, sua madre Carmela e due fratelli. E poi c’è Anna Giuliano ’a Pallona. Lei è una specie di buco nero in cui convergono tutte le più terrificanti contraddizioni di questa specie di traginovela napoletana. È sorella di Lovigino. Ma è stata anche la convivente del defunto boss Edoardo Bove, reggente di Forcella per conto dei Mazzarella. Che prima trescò con i Giuliano per fare il «colpo di Stato» e cacciare i nuovi padroni, poi ci ripensò e si prese in carico l’organizzazione dell’agguato mortale a Salvatore Giuliano ’o Russo, che si salva ma uccide Annalisa. Lei oggi sta coi vivi, con l’assassino, sangue del suo sangue, che il suo compagno voleva far fuori. A pochi passi dal gabbiotto sembra scottare, invece, la panca in cui siedono Giovanni Durante e la moglie Carmela. «Vogliamo solo giustizia e verità. Crediamo nello Stato. Non abbiamo più lacrime per piangere nostra figlia.» Lo ha visto crescere nei vicoli, gli chiedo cosa prova a vedere lì accanto Salvatore Giuliano. «Non mi interessa niente, so solo che non ho più mia figlia. Voglio giustizia.» Quando parla uno dei difensori dell’imputato però, ha un cedimento. «Facciamo il processo a un soggetto vittima di un agguato almeno quanto Annalisa.» Le parole schioccano nell’aria come una frustata. Il medico legale descrive i particolari dell’autopsia: la testa rasata, le parti del cranio colpite dal proiettile, le due barriere ossee spezzate. I genitori e i parenti rivivono la tragedia. Salvatore dal suo gabbiotto ascolta impassibile. Sul suo volto non traspare emozione. A fine udienza suo padre, giubbino di pelle e occhiali cromati, offre il caffè ad avvocati e parenti.


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«Per raccontare il processo scelgo un tratto dettagliato e sferzante. Chi vuole tenersi informato può leggere uno degli ottimi, soliti quotidiani. Chi vuole seguire la cronaca del processo legge Napolipiù. Il riscontro ce lo danno gli ottimi risultati di vendita del giornale. E purtroppo anche i diretti interessati. Il 27 maggio scrivo della campagna d’intimidazione dei testimoni porta a porta. Un lavorio costante, minacce terrificanti, senza giri di parole. “Ritratta o ammazziamo tuo figlio.” A un bambino puntano pure la pistola alla tempia. L’aggressione alla zia di Annalisa è uno dei pochissimi casi che viene alla luce, tutto il resto rimane nascosto nell’ombra dei vicoli. Le cosche non vogliono la condanna di Giuliano. Hanno paura di un effetto domino giudiziario. Con l’inizio del dibattimento la strategia si è intensificata. Quello stesso giorno, a fine udienza, mi blocca Luigi Giuliano, il padre dell’imputato. “Siete voi Capezzuto? Le disgrazie succedono all’improvviso…” L’escalation è innescata. «Sul momento, la prima cosa che penso è che mi sto cagando sotto. Mi ricordo che si avvicinò pure un carabiniere alla fine, a chiedermi se stavo bene. Dovevo avere una faccia cadaverica. Insomma, questi alla fine se ne vanno, io dovevo andare al giornale a scrivere, ci andavo sempre verso le due e mezza del pomeriggio. I crampi allo stomaco mi consigliano di passare da casa. Credo di essere rimasto in bagno fino alle cinque! Alla fine mi riprendo, vado al giornale e inizio a pensare. Rifletto se andare subito a denunciare il fatto. È una decisione importante, un momento delicato. Il processo è appena iniziato, ho estremo bisogno di potermi muovere per il rione, con cautela ma liberamente. Se vado a denunciarli la prima conseguenza è che a Forcella non mi ci fanno mettere più piede: i Giuliano perché vorrebbero farmi la pelle, la polizia perché me la vorrebbe salvare e il mio direttore che non aspettava altro, che mi avrebbe tolto dal processo. Era da un po’ che mi stava addosso, mi richiamava perché a suo dire ci mettevo un po’ troppa enfasi, mi avvicinavo troppo alle cose. In qualche modo temeva che potesse succedere quello che poi è accaduto. Forse è vero, non lesinavo aggettivi, mi prendevo qualche licenza lessicale, gli andavo proprio contro a ’sti camorristi. Ero coinvolto. E adesso lo ero ancora di più. Insomma decido di tacere, per il


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momento. Non è facile lavorare con questo peso. Rimugino, con la testa non ci sono proprio. Da una parte mi consolo, penso che stiamo facendo centro. Stiamo toccando nervi scoperti. Dall’altro mi dico che in questa storia ci sono entrato con le mie gambe e con le mie gambe ne voglio uscire. «Ci metto un po’ a ritrovare freddezza. Ma con la consapevolezza cresce anche la rabbia. Io sto facendo il mio lavoro. Me lo ripeto come un mantra. Sto solo facendo il mio lavoro. Con la schiena dritta, giornalista-giornalista, non giornalista-impiegato, come quel celebre dialogo tra Giancarlo Siani e il suo direttore. Se io sto in un piccolo giornale che non se lo caca nessuno, e poi arrivano i camorristi e mi minacciano significa che sto facendo il mio dovere. Se la mia coscienza è a posto non devo avere paura di niente. Continuo a rivivere quella scena. C’è qualcosa che non mi dà pace. Il camorrista violento, ignorante e arrogante mi guardava dritto in faccia. Io no. Tenevo gli occhi bassi. E più non riuscivo a guardarlo in faccia, più lui prendeva il sopravvento. All’inizio della discussione avevo cercato di tenere testa, ma poi la paura si era impadronita di me. Adesso dovevo ritrovare la forza. Almeno nella testa. Perché con lo stomaco non ci stavo proprio: il resto del processo l’ho seguito facendo le scale tra il piano alto, dove c’è l’aula, e il piano terra, dove c’è il bagno. «Cerco di concentrarmi sul dibattimento, che intanto comincia a produrre i primi frutti avvelenati. Una mattina di giugno, uno dei testimoni dell’accusa, Marcus Hilton Brown, non si presenta in aula. A dispetto del nome è napoletano verace, fa il pizzaiolo a Forcella e a pochi giorni dall’udienza si è reso irreperibile. Secondo Radiomala, caldamente consigliato da qualcuno, si è preso una vacanza. Scrivo sul giornale che il nome Giuliano a Forcella pesa ancora tantissimo. I Mazzarella-Misso comandano, ma i vecchi boss mantengono indirettamente attività illegali radicate sul territorio come bar, sale scommesse, alberghi e spazi per gli ambulanti, e sono sempre nella droga, nel racket, nell’usura. Brown viene in aula due settimane dopo. È uno dei teste chiave dell’accusa: a verbale c’è una sua dichiarazione in cui ricorda di aver visto Salvatore Giuliano, la sera del delitto, nascondersi nell’androne di casa sua in vico Carbonari, armato


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di una pistola e con indosso un giubbotto macchiato di sangue. Di fronte ai giudici, però, il pizzaiolo nega tutto. “Fu il padre di Annalisa Durante a convincermi ad andare in Questura, ma io bevo, mi drogo, prendo cocaina, l’avevo presa anche il giorno in cui andai alla polizia, non ricordo perché dissi quelle cose. E non sono stato intimidito dai Giuliano.” Come no. La minaccia del pubblico ministero di denunciarlo per falsa testimonianza gli appare invece del tutto innocua. Don Luigi Merola, il parroco di San Giorgio Maggiore, più volte affrontato a muso duro dai camorristi, e ormai da un anno sotto scorta, usa parole forti: “La morte di Annalisa non è servita a niente. L’onda emotiva è passata, i malavitosi sono tornati nei vicoli e Forcella è ripiombata nelle tenebre”. Eppure il rione si riversa in piazza Crocella ai Mannesi una sera di fine giugno. È proprio don Merola a organizzare un concerto in memoria di Annalisa che richiama migliaia di persone, nonostante le minacce e il passaparola dei guappi di cartone, che ordinano pure ai commercianti di chiudere le saracinesche: “Quel prete se vuole la festa se la fa da solo”.» L’ingannevole patchwork di panni e lenzuola stesi ad asciugare al sole ci farebbe indugiare, ma l’ora è tarda, le ombre sono in agguato. Lo sguardo di Arnaldo indica lo scooter senza targa al terzo giro, il rione si sta svegliando, questi vicoli cominciano a scottare. «Guappi di cartone, ominicchi e quaquaraquà. Mi scappava di chiamarli così sul giornale.» Lui racconta, e io rifletto che a mafiosi e camorristi essere irrisi o svergognati è sempre piaciuto poco. Torna in mente l’Onda pazza radiofonica di Peppino Impastato, che sbeffeggiava don Tano Badalamenti chiamandolo Tano Seduto. E anche le parole di uno dei killer di Giancarlo Siani. Ai giudici raccontò che il boss Lorenzo Nuvoletta decise la condanna a morte del giornalista perché, in un articolo, aveva ipotizzato che, per un accordo segreto con i suoi nemici Carmine Alfieri e Antonio Bardellino, potesse consegnare alle forze dell’ordine un affiliato del suo stesso clan, Valentino Gionta. «E che siamo infami noi? Noi mica facciamo arrestare le persone!» Un affronto da lavare col sangue di un cronista di ventisei anni. «Dopo quell’incontro ravvicinato di maggio ho tanta rabbia dentro, seguo le udienze facendo la spola tra l’aula e il bagno, ma ho un piglio più deciso. C’era un giudice molto efficiente, teneva


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tre udienze a settimana e io scrivevo ogni giorno. E tutte le mattine la progenie dei Giuliano, ormai i miei lettori più affezionati, si presentava lì col mio giornale, un vero onore! Dalla loro tribunetta mi guardavano da sopra, mi additavano, mi facevano segni. C’era questo nipote, Guglielmo Giuliano, che non si perdeva un’udienza. Ma sembrava non facesse altro che fissarmi. Appena incrociavo lo sguardo mi muoveva contro le due dita a pistola: ti sparo, ti sparo. Io cercavo di non farmi condizionare.» Minacciato apertamente, a voce e a gesti. Mi chiedo se davvero non avevi paura. La paura è un sentimento umano, bisogna rispettarla. Però se ti costringe a chiudere il taccuino e a inciampare nelle omissioni è meglio cambiare mestiere. «Non dico che ero incosciente, però mi sembrava che questo atteggiamento così spavaldo e arrogante nascondesse una certa debolezza. Mi intimidiscono perché non possono farmi niente. O almeno così mi andavo convincendo.» napoli,

2 lug – Il parroco di Forcella, Don Luigi Merola ed un giornalista hanno ricevuto una lettera anonima contenente minacce di morte. La notizia è stata resa nota dal quotidiano Napolipiù, per il quale lavora il giornalista, Arnaldo Capezzuto. Nella lettera recapitata al parroco del rione Forcella un disegno mostra due teste mozzate ed è accompagnata dalla minaccia al giornalista: «Gli faremo fare la fine di Siani, ed anche a te, stronzo». (ansa) 02-lug-05 22:48

«La lettera anonima arriva a don Luigi la mattina del 2 luglio 2005. Questa volta a denunciare non ci penso due volte, e riassumo alla polizia anche l’episodio precedente. Parte subito il coro di indignazione e di solidarietà, che fa piacere ma non risolve. Con questo messaggio l’intimidazione sale di livello. Fanno sul serio. Fino a quando la cosa succede in tribunale, guardandosi in faccia, tu puoi pensare pure che la minaccia sia una conseguenza della discussione, del nervosismo, del carattere violento. Pensi che, siccome non ti possono mettere le mani addosso, ti insultano e te le promettono. La lettera, invece. È anonima, quindi vigliacca: ti minaccio di morte, ma non ti svelo il mio volto. È indirizzata


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a me e a don Luigi. Siamo stati individuati come due ingranaggi dello stesso sistema. Tu e il prete, uno fa le prediche e l’altro scrive sul giornale, pensate che non vi abbiamo capito, bella coppia di cacacazzi, siamo sopra di voi. Le istituzioni, almeno a parole, fanno quadrato. Ma chi sta sul territorio ogni giorno non può che registrare il clima pesante. Don Luigi, con fierezza, dice pubblicamente che non ha paura e che questi segnali indicano l’urgenza di fare qualcosa di concreto sul territorio a partire dai giovani, per sottrarli a un destino altrimenti ineludibile. Giovanni Durante si fa prendere dallo scoramento e dopo le tante prove di coraggio si sente sconfitto. “Il cambiamento si è interrotto, tornano le solite facce. Le forze dell’ordine arrivano solo quando succede qualcosa di brutto. Manca il rispetto per le divise, gli agenti vengono derisi. Il pessimismo è forte. Voglio andare via da Forcella.”» Passa una settimana e i fatti prendono il sopravvento sulle parole. Dopo la ritrattazione di Marcus Brown la Procura aveva secretato la lista dei testimoni, per evitare possibili ritorsioni. Troppo tardi. Un venerdì sera cinque energumeni circondano un uomo in via della Giudecca Vecchia. Era stato uno dei primi a tentare di soccorrere Annalisa. Lo sbattono sulla saracinesca di un negozio di frutta e lo massacrano di botte. Calci, pugni, cassette di ortaggi spaccate sulle ossa. La mazziata è più di un avvertimento. La strategia del terrore non risparmia neppure la famiglia Durante. La sera del 15 luglio due uomini a bordo di uno scooter sfrecciano per via Sant’Arcangelo a Baiano e giungono a via Vicaria Vecchia. Si fermano davanti a casa Durante, al civico 22, dove trovò la morte Annalisa. L’azione è fulminea. Uno scende dalla moto, dentro il giubbotto nasconde una bottiglia di vetro con liquido infiammabile. È una bomba molotov, un ordigno rudimentale facile da costruire. L’uomo varca la soglia, dà fuoco alla miccia e lancia la bottiglia contro una parete interna. Un boato, le fiamme avvolgono le pareti, gli attentatori si danno alla fuga e spariscono nel nulla. L’aria è ormai irrespirabile, ma l’attentato provoca l’ennesima reazione d’orgoglio di Giovanni Durante, che abbandona i propositi di resa: «Dico ai camorristi: fujetevenne dal rione, io non me ne andrò mai. Noi siamo la parte sana di questo quartiere, qui ci sono le nostre radici, se lo Stato ci sta vicino non gliela daremo vinta mai».


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Ormai è guerra aperta. Una pattuglia di irriducibili cittadini onesti si mette alla testa di una battaglia per il diritto e la legalità. Da piazza Crocelle ai Mannesi a via Vicaria Vecchia fino a piazza Calenda, il 20 luglio trecento persone sfilano silenziosamente per le strade del rione a testimoniare la loro determinazione a resistere. Tutto intorno la casbah sembra assistere indifferente allo svolgersi della manifestazione. Il grosso del quartiere sta bene attento a non mischiarsi. Le finestre delle case della famiglia Giuliano sono sbarrate, le vedette controllano e memorizzano presenze e assenze. Quando don Luigi Merola parla davanti alla scuola «Annalisa Durante», qualcuno dai vicoli fa risuonare a palla una sfrontata hit neomelodica. In autunno, con la ripresa del processo, la musica non cambia. Ritrattano le testimonianze Riccardo Marchitiello, detenuto per spaccio nel carcere di Secondigliano, e un’amica di Annalisa. Il copione è identico: «Sono analfabeta, nessuno mi ha letto il verbale, ho firmato senza sapere». Contraddizioni palesi, come la ragazza che prima dichiara di non saper leggere né scrivere, poi ammette di scambiarsi regolarmente sms dal cellulare con le amiche. Negare sempre, negare tutto. Meglio un’incriminazione per falsa testimonianza e calunnia che rischiare la vendetta dei clan. Anche Alessia, cugina minorenne di Annalisa, all’uscita da scuola, viene fatta oggetto delle attenzioni della madre di Salvatore Giuliano ’o Russo, Carmela De Rosa: «Puozz’avere nu tumore. Devi vedere ancora quello che ti devo fare…». I Durante vanno subito in Questura e poche settimane dopo la ragazza, lucida e glaciale, racconterà tutto in aula, parola per parola. Napoli, 4 novembre 2005, aula 114 del Tribunale, Corte d’Assise. «Il furgone cellulare della polizia penitenziaria in arrivo da Poggioreale è in ritardo. La Corte sospende la seduta. Riguardo gli appunti, la Direzione distrettuale antimafia ha aperto un’inchiesta sugli episodi di ritrattazione dei testimoni. La Procura vuole vederci chiaro, troppo sospetti quei “non l’ho mai detto” e “non ricordo”. La collega di Un giorno in Pretura mi saluta da lontano, le faccio ciao con la mano, insiste, mi fa un cenno, indica in alto. Alzo lo sguardo verso la tribunetta dei parenti. Non fanno


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i soliti gesti, mi chiamano, mi invitano a raggiungerli. Mi guardo intorno, l’aula è quasi deserta, non so bene che fare, questi che cazzo vogliono adesso, lo penso e sono già per le scale, arrivo in cima ed è un attimo. Ci sono Anna Giuliano ’a Pallona, Luigi Giuliano e sua moglie Carmela De Rosa e Amalia Stolder, vedova di Carmine Giuliano. Gli sguardi sono trucidi assai, ho già capito, sta iniziando il girotondo. Si mettono a cerchio intorno a me e parte la sceneggiata. L’ouverture naturalmente è della mamma, i figli so’ piezze e core. «“Tu t’ si’ fissato, ce l’hai con noi. Scrivi sempre delle minacce e delle ritrattazioni, noi non c’entriamo niente. Queste persone, i testimoni che hanno ritrattato, ci hanno fatto solo un danno. Tu stai contro Salvatore! Ti piace sbattere il mostro in prima pagina. Scrivi i particolari come è vestito, che cosa fa, come si muove. Sei un giornalista che fa di cognome Durante. Stai sempre a fare le foto a Forcella e a parlare con la gente. Tu a mio figlio lo vuoi vedere con il pigiama a strisce e il numero in petto, come si faceva una volta. Ma ti devi fare i cazzi tuoi, ci stai dando fastidio! «Gli occhi fuori dalle orbite, sputazzate e gestualità incontrollate. E insulti, minacce, promesse. Non ho mai avuto fan tanto appassionati. Recitano a memoria articoli interi, anche i più vecchi. C’è qualcosa però che questa gentaglia non ha considerato. Io questa volta gli tengo gli occhi piantati addosso. Dentro è un subbuglio, nello stomaco un concerto heavy metal, ma fuori sono caricato a molla, ascolto freddo e distaccato. Placata la sfuriata iniziale, alla prima occasione parto al contrattacco. Gli rispondo, alzo pure la voce. «“Ma che vulite voi! Io faccio il mio lavoro, lo faccio onestamente! E voi non solo siete camorristi, perché siete camorristi, ma pure vi incazzate! Ma come vi permettete! Ma che c’avete nella testa? Vostro figlio è imputato di omicidio, io faccio il mio lavoro e racconto i fatti!” «Sono colti di sorpresa ma si ritrovano pure nel clima loro. E Luigi Giuliano irrompe di peso, avanza qualche passo, mi viene vicino. Mi abbaia che ho rotto il cazzo. «“Mi scrivi sempre come pregiudicato, tutta Napoli lo sa che sono pregiudicato che bisogno c’è di scriverlo sempre? Tu lo scrivi


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perché devi farci la guerra ma la guerra te la facciamo noi. Io ho tutti i giornali conservati, le cose non le dimentico… stai tranquillo.” «Pure lui passa il test per l’iscrizione al mio personale fan club: “Ti sei permesso di scrivere che gestisco la zecchinetta al biliardi di fronte la chiesa”. Portentoso. Si riferisce a uno dei primi articoli che scrissi nei giorni seguenti alla morte di Annalisa, quando descrivevo palmo a palmo il quartiere. Più mi grida addosso e più lo guardo fisso. Come ho fatto l’altra volta ad abbassare lo sguardo di fronte a questa prepotenza? Quella scena che mi sono rivisto mille volte, il mal di pancia, le notti insonni. Adesso non ho paura, ne avrò quando questa sceneggiata sarà finita. Ma sono loro a doverne avere di più. Loro sono destinati a soccombere. «“Volete che scrivo di voi come persone perbene? E allora mettetevi sulla strada della legalità e scriverò che siete delle personcine a modo!” «“E allora tu a Forcella non ci metti più piede!” «“Vi sbagliate, io ci continuo a venire e a scrivere tutto quello che vedo.” «“Allora ti vuoi fare male. Guarda che noi sappiamo tutto di te. A Mater Dei ti veniamo a prendere, dove stai tu e la tua famiglia!” «Stiamo superando il livello di guardia, loro vomitano bile con gli occhi iniettati di sangue. So che quello che sta accadendo non rimarrà senza conseguenze. Con le minacce mi chiariscono le loro intenzioni. La mia reazione riduce le loro opzioni. Adesso sanno che non arretrerò di un centimetro. E alla fine di quest’ora e dieci minuti quello che abbassa gli occhi non sono io.» «Fuori dall’aula mi rendo conto che questo è stato solo il primo tempo. Perché adesso il secondo mi aspetta in redazione e paradossalmente è quello che mi brucia di più. Ero furente, mi ripetevo che dovevo andare avanti a testa bassa, ma con il direttore c’era tensione. Mi ripeteva di non andarmele a cercare, di scrivere solo quello che vedevo, senza sbizzarrirmi troppo in collegamenti, relazioni, amicizie, parentele. Fermo e distaccato. “O aspetti che ti vengono a sparare fin dentro la redazione? Può essere pure che


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tu non ci tieni alla tua vita, ma qua ci sono persone che lavorano e tengono famiglia.” Mi sento braccato da una parte da chi vuole proteggermi e dall’altra da chi vuole tagliarmi le unghie. Il fatto è che io tenevo dentro una rabbia esagerata, non vedevo l’ora che finisse il processo. Sapevo che queste storie non sono destinate a finire a tarallucci e vino, e diversamente da quello che sosteneva il mio direttore, alla mia pellaccia ci tengo eccome. Non ce la facevo più, troppa tensione, la tentazione di mandare tutto a fanculo, ma ormai che c’ero così dentro come potevo mollare? «Con l’anno nuovo il processo giunge al momento cruciale. Il 18 gennaio Salvatore Giuliano è chiamato per la prima volta a rispondere alle domande dei giudici. Chioma ramata, la divisa come sempre è da guappo alla moda, camicia scura stampata, scarpe griffate. Un abito troppo lontano dal monaco che vorrebbe apparire. Vittima di un agguato solo per il cognome che porta, stava pensando di emigrare al Nord perché trovava tutte le porte chiuse. La “disgrazia” la racconta così: La conoscevo Annalisa. Scherzavamo, ridevamo ogni volta che ci incrociavamo per strada. Quella sera? Mi ricordo pure di che cosa stavamo parlando, con lei e le amiche mentre stavamo fermi vicino a un marciapiedi: del fatto che volevo fare una dieta. Loro dicevano no, che ero magro, e io dicevo sì. E alla fine mi sono alzato la camicia bianca e ho fatto vedere la pancia. Poi sono arrivati quelli sui motorini e hanno cominciato a sparare. Io sono stato un miracolato, quella sera. Mi volevano uccidere. Colpa del cognome che porto: una vendetta trasversale dopo il pentimento dei miei parenti. E non so come ho fatto a salvarmi. Non ero armato, i testimoni che raccontano di avermi visto sparare e uccidere dicono una bugia, e non capisco come possono essere creduti qui dentro. In via Vicaria Vecchia mi nascosi dietro un’auto, e in due mi sparavano addosso. Annalisa? Le sue compagne Emanuela e Serena si rifugiarono in un portone, lei veramente non so dove, non ci feci caso. Mi ricordo la scena finale, in una frazione di secondo mentre scappavo dai proiettili alle mie spalle: il volto di Annalisa era a terra, lo sguardo rivolto verso via Duomo. È vero che mi sono subito cambiato i vestiti e ho buttato via il giubbotto,


1. Siete voi Capezzuto?   51 una vampata di calore, signor giudice. Mettetevi nei panni di uno che è appena sfuggito a un agguato. Quella sera ne uscii illeso. Ma ho avuto tanti danni interiori… La conoscevo quella ragazza. Frequentavo anche la sua famiglia, più di una volta ho offerto il caffè a suo padre Giovanni.

«Giuliano ricostruisce nel dettaglio la mappa della sparatoria e riconosce che per tentare la fuga corse proprio incontro ai suoi assalitori, pur avendo sempre dichiarato di essere disarmato. Poi esita ancora sulle modalità di fuga dai parenti a Pomigliano d’Arco e su uno strano giro di schede telefoniche. Il pm gli chiede perché non si recò dalla polizia se era solo una vittima innocente di un agguato fallito, se non aveva sparato e non possedeva un’arma. Lui risponde che a diciannove anni uno vede la morte con gli occhi e pensa solo a scappare. Sul giornale racconto tutto nei minimi dettagli, sottolineando i suoi modi arroganti, le contraddizioni e virgolettando nu poco di strunzate. Siamo nella fase finale del dibattimento, il momento è topico e questo articolo evidentemente è la goccia che fa traboccare il vaso.» Napoli, 19 gennaio 2006, redazione di Napolipiù, ore 11.54. «Centralino Napolipiù, buongiorno!» «Capezzuto…» «Scusi chi parla?» «S’adda fa e’ cazzi suoi Capezzuto.» «Ma… chi parla, chi è?» «S’adda fa e’ cazzi suoi Capezzuto.» «…» «O si no ’o sparammo!» «Non esiste proprio. Già mi aveva raffreddato la penna, dopo la telefonata al giornale il direttore mi sega proprio le gambe. A questo punto non c’entra più il coraggio o la determinazione di volere fare il mio lavoro a tutti i costi. Qui c’è in gioco la mia libertà. Praticamente sparisco dal giornale. “Qua stai mettendo in gioco la tua vita” mi dice “e io non posso permetterlo.” La cronaca delle fasi conclusive del processo viene affidata a un collega.


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I miei articoli, praticamente in stile anglosassone, li comincio a firmare con uno pseudonimo, Pierpaolo Milanese. Circostanza che in seguito, nel processo contro i Giuliano per le minacce, sarà considerata un’aggravante, la prova della limitazione della mia libertà di svolgere il mio lavoro. Insomma questa cosa mi è scoppiata nelle mani, avevo sperato di poterla gestire senza danni e continuare a informare i lettori, ma a questo punto la mia vita era cambiata, così come il mio modo di lavorare. Questi erano veramente incazzati, e io più di loro. Però dovevo stare calmo. I Giuliano erano sconfitti su tutti i fronti e immaginavano che stava per arrivare una pesante condanna per l’omicidio di Annalisa. Nelle loro menti contorte, però, i veri responsabili della prossima condanna del figlio Salvatore erano il padre della vittima, nu prete e nu giornalista. «Il verdetto della Corte d’Assise arriva il 31 marzo 2006: Salvatore Giuliano ’o Russo è giudicato colpevole per l’omicidio di Annalisa Durante e condannato a 24 anni di carcere. La pena, ridotta in appello a 18 anni, diventerà definitiva con la sentenza della Cassazione che, nell’aprile 2008, la fisserà in 20 anni. Successivamente Riccardo Marchitiello, Marcus Hilton Brown e un minorenne saranno condannati per falsa testimonianza. E le condanne arriveranno negli anni successivi anche per Vincenzo Mazzarella (18 anni), il mandante dell’agguato a Salvatore Giuliano junior, e per organizzatori ed esecutori: 14 anni a Giovanni Della Torre, 12 anni ad Antonio Albino, 6 anni e 8 mesi a Gennaro Albino (il padre di Antonio) e a Vincenzo Pacifico, questi ultimi due collaboratori di giustizia. «La verità giudiziaria è venuta fuori a successive ondate, grazie alle rivelazioni dei pentiti. In particolare quelle di Gennaro Lauro detto Gennarino 17, Gennaro Albino e Vincenzo Pacifico. Sono loro a raccontare che Giovanni Durante, oltre a essere inviso ai Giuliano, era finito nel mirino di Vincenzo Mazzarella. Il boss si era scassato ’o cazzo di questo qua che si dava da fare, parlava, faceva le fiaccolate, le marce della legalità, portava a Forcella don Ciotti, cercava di tenere i riflettori sempre accesi. In un summit, dopo qualche mese dalla morte di Annalisa, Mazzarella si sfogò con i suoi: non si lavora più, la droga non si vende, il quartiere è


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sempre presidiato dalla polizia, ogni giorno retate e perquisizioni. L’ordine era preciso: andate da ’sto Giovanni Durante e riempitelo di mazzate, anzi sparategli proprio alle gambe, così si calma. Ma l’ennesimo blitz delle forze dell’ordine fece saltare il piano. Quelli che dovevano fare tacere Durante finirono in gabbia e non se ne fece più niente. «L’epilogo di questa storia però non si svolge in tribunale ma un chilometro a nord di Forcella, all’Arenaccia, il 14 marzo 2007. È trascorso quasi un anno dalla sentenza del processo Durante. Il cerchio si chiude intorno a chi per primo, nell’efferata logica criminale, avrebbe dovuto pagare. Il conto arriva sotto forma di due proiettili in faccia a Ciro Giuliano ’o Barone, quello che sognava di ricostruire il clan e fottere i Mazzarella. Che per punirlo pianificarono l’agguato contro Salvatore Giuliano junior che gli faceva da guardaspalle. I titoli di coda scorrono sull’immagine del grosso scooter che ha fermato la sua corsa impazzita sul marciapiedi, riverso su un lato, il faretto posteriore ancora acceso. In questa foto la morte non dona a ’o Barone una posa aristocratica. Il corpo è un manichino disarticolato, schiacciato dal peso della moto, la testa coi radi capelli sembra impastata con l’asfalto in una pozza di sangue.» È ormai sera, Arnaldo deve scrivere un paio di pezzi di cronaca. Siamo nello studio della sua nuova casa in affitto, ha cambiato anche quartiere, la famiglia sta per allargarsi. Napolipiù ha chiuso nel 2008, quella avventura è alle spalle. Adesso Arnaldo lavora al Napoli, un free press del gruppo E Polis distribuito in molte città italiane. «Ma la cronaca nera come piace a me, sulla strada, la faccio ben poco. Qui non è richiesta, è molto lavoro di desk. Però la notizia la acchiappo sempre, mi tengo in contatto con i colleghi, cerco di stare sul pezzo.» Continua a colpirmi la straordinaria umiltà di quest’uomo minuto, giovane e dal volto segnato. Un giornalista-giornalista che con le spalle scoperte ha affrontato a viso aperto una delle più feroci cosche camorristiche di Napoli. Senza scorta, senza protezione alcuna se non le sue parole. «Veramente, non credo di essere stato coraggioso, non credo di esserlo. Penso semplicemente che chi ostacola il lavoro di un cronista con avvertimenti,


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minacce e intimidazioni va denunciato senza pensarci tanto su. Io sono giornalista, ma prima di tutto un cittadino. Pur mettendo in conto le possibili conseguenze, occorre agire. C’è il rischio, con l’indugiare, di scivolare nella zona grigia. Questa vicenda qualcosa mi ha insegnato.» Le prime minacce ad Arnaldo sono quelle del 27 maggio 2005, lui le denuncia, insieme alla lettera anonima, il 2 luglio. Poco più di un mese per elaborare, per mettere a punto la migliore strategia, per non rischiare di perdere la presa sulla storia. Eppure proprio su questa frazione di tempo i difensori dei Giuliano insisteranno durante il processo: non aver denunciato subito è la prova che non si trattava di minacce ma solo di un’animata discussione. È stato un rischio, ma il giudice ha analizzato i fatti e ha capito perfettamente quanto fossero complicate le cose. Quanto fosse importante, e difficile, difendere il proprio lavoro. «Dopo la condanna di Salvatore Giuliano tornai a Forcella per una manifestazione in memoria di Annalisa. Erano lì che mi aspettavano, mi urlarono di tutto... Ma io ho capito che è importante affrontarli. Fargli capire che non ti fermi, che è il tuo lavoro. E non vale solo per i camorristi, attenzione. Il tema dell’incolumità del giornalista è troppo sottovalutato, io sono portatore sano di un’esperienza. Il giornalista deve avere la possibilità di spiegare le cose. Si deve rapportare con gli altri, deve tenere la giusta distanza, ma deve essere tutelato. Nel mio caso non ho problemi a fare autocritica: a un certo punto mi controllavo poco, mi sono lasciato un po’ andare, ci mettevo rabbia. E invece un professionista deve rimanere freddo. Senza mancare di rispetto a nessuno, avendo sempre cura del lato umano delle vicende, io devo fare il giornalista. Devo andare, devo vedere, devo chiacchierare. Mi acchiappo le mazzate? Va bene, però sono dentro le cose. Tu reagisci con violenza? Io ti denuncio e voglio essere tutelato. Purtroppo questa mentalità qua a Napoli non è proprio radicata nel giornalista. Io ho visto colleghi, anche fotoreporter, prendere mazzate veramente pesanti, poi il giorno dopo ti informi come stanno, chiedi se hanno denunciato e loro sempre lì a minimizzare “Ma quale aggressione, sono cose che succedono”. Un atteggiamento che per sdrammatizzare rischia dei pericolosi fraintendimenti. A Napoli c’è un’ampia zona grigia


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costruita su omissioni e sguardi lontani che consolida quella che lo scrittore Diego De Silva definisce la “camorra sostenibile”. L’omissione praticata nel tempo diventa connivenza, collusione, tacita alleanza. Io ho scelto un’altra strada. E se per molti questa scelta è difficile, credo sia anche colpa di alcuni organismi di categoria ampiamente delegittimati e in vita solo per contrattare e negoziare poltroncine e nomi in grassetto sulle locandine. «È vero, sono cose che possono succedere, io di mazzate ne ho prese tante, e pure brutte. Qualche anno fa c’era questa polemica tra Pomicino e Bassolino, ’o ministro nella sua nuova carriera politica se ne viene fuori con la storia che Napoli ormai è un casino, che c’è lo spaccio a cielo aperto al rione Sanità, in un vicolo chiamato ’o Presepe. Io voglio vedere, ci vado, mi informo sul posto e mi ritrovo in un vicolo pazzesco. Vedette, muschilli, spacciatori professionisti, oì fratè che ti serve, vuoi a cocaina, eroina, pastiglie, tutto quello che vuoi dammi i sord’. Io già mi vedevo la pagina del giornale, una sequenza di foto con il pusher che consegna la droga, le didascalie con gli orari e la cronistoria delle varie fasi: l’attesa, l’approccio, la trattativa, la staffetta, lo scambio, ti saluto, arrivederci e grazie. Il problema adesso è di fare le foto: facile. Passo davanti allo spacciatore con lo scooter, macchinetta accesa, faccio due scatti volanti e vai, già ne tengo due. Torno sopra al vicolo, giro le ruote e riscendo. Penso di fare altri due-tre scatti e poi me ne fujo. Mentre mi avvicino noto una macchina in mezzo alla via con due a bordo che si stanno rifornendo di dosi, di fronte ce n’è un’altra parcheggiata e io in mezzo col motorino non ci passo, mi devo fermare. Manco poggio i piedi a terra che mi vedo arrivare incontro un colosso, un animale. Realizzo la trappola quando già mi prende di peso, mi solleva e mi sbatte per terra. Non so quanti metri mi fa volare. Lo scooter se ne va per i fatti suoi, io spiaccicato a terra con il casco in testa. Comincio a pensare a come uscire da ’sta situazione ’e merda che l’animale mi acchiappa di nuovo. Mi chiede gentilmente chi cazzo sono, cosa cazzo voglio, cosa cazzo ci faccio qua. Io mi sento già tutto scassato, farfuglio che mi sono perso e a lui ci piace la battuta, e adesso te facimm’ truvare! Botte da orbi, calci in faccia, nello stomaco, dappertutto. Riesco a rimettermi in piedi e gli animali sono diventati due. Il secondo


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s’incazza subito Ancora ’o casco tieni! lievate ’sto casco! Me lo sfilo e così può partire con una testata in faccia che mi spacca il naso. “Non voglio sapere chi sei, se sei una guardia o che, te ne devi andare. Sennò muori, te ne vai coi piedi avanti!” Mi mettono sopra allo scooter, in mezzo alla folla che si è formata, altri due mi scortano fuori, uno davanti e uno dietro, me ne vado col mio motorino, senza casco, tutto spaccato, pieno di sangue.»

Il processo «Il processo contro Luigi Giuliano e Carmela De Rosa inizia nel 2008. Gli imputati sono assenti in tutte le udienze. Lui era latitante, poi viene arrestato a Treviso e io becco la notizia. Stava lì nascosto ed era finito a fare rapine ai supermercati. Con un compare tagliavano le gomme alle auto in sosta, poi si avvicinavano per offrire aiuto e si rubavano la spesa. Avevano fatto otto, nove colpi. Una fine ingloriosa. Il processo si sarebbe dovuto concludere a fine maggio, ma i loro avvocati chiedono che Luigi Giuliano possa presenziare al dibattimento. Vuole fare dichiarazioni in aula. Vorrebbero forse intimidirmi, ma è troppo tardi. Il 10 luglio 2009 in aula c’è un clima sospeso. Non siamo certi che ci sarà il verdetto. Aspettiamo la traduzione dell’imputato. Arriva a Napoli, il giudice lo convoca e lui si rifiuta di venire in aula. Non mi ha voluto affrontare. Per me questa è stata la soddisfazione più grande, la vittoria finale. Il camorrista ha capito che il giornalista non si sarebbe mai tirato indietro.» Quel giorno la xi sezione penale del Tribunale di Napoli condanna Luigi Giuliano a 2 anni e 4 mesi e Carmela De Rosa a 1 anno e 9 mesi per minacce e violenza privata, disponendo anche un risarcimento di diecimila euro ad Arnaldo Capezzuto e di venticinquemila all’Ordine dei giornalisti della Campania. Un anno e 6 mesi di carcere anche per Guglielmo Giuliano per le minacce a don Luigi Merola. «È stato un giorno importante in cui la legge ha coinciso con la giustizia. Il giudice ha sancito che chi tenta di fermare la stampa commette reato. Nessuna sentenza potrà risarcire i tanti giorna-


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listi vittime delle mafie, però il 10 luglio 2009 abbiamo rivolto un pensiero particolare a Giancarlo Siani. Con me in aula c’era il presidente dell’Ordine dei giornalisti della Campania Ottavio Lucarelli. Un sostegno importante, concreto, in tutta la vicenda. «Non era mai accaduto che dei camorristi fossero condannati per avere intimidito un giornalista. Eppure la sentenza non fa rumore. “Ci sono notizie che hanno gli aculei eppure non sfondano. Non ce la fanno, trovano sempre la gomma” ha scritto Claudia Fusani sull’Unità.2 Una timida copertura regionale, il Tg3 Campania, una tv locale e qualche quotidiano. Poi Alberto Spampinato ha scritto un articolo per l’osservatorio Ossigeno,3 e mi ha invitato a consegnare il Rapporto annuale sui giornalisti minacciati al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano durante la cerimonia del Ventaglio. Alberto, che lavora all’Ansa, per anni ha cercato la verità sull’omicidio di suo fratello Giovanni Spampinato, giovane collaboratore del giornale L’Ora da Ragusa, assassinato dalla mafia nel 1972. «Mò devo anche iniziare l’altra battaglia per recuperare i soldi. Sia io che l’Ordine abbiamo deciso di devolverli in beneficenza all’associazione Annalisa Durante. I Giuliano ovviamente dicono di non possedere niente. Sarebbe una sommetta importante per l’associazione, che è collegata alla ludoteca donata al quartiere da Fabio Cannavaro e Ciro Ferrara, che però ha sempre difficoltà finanziarie perché dalla Regione non arriva niente. Bastano diecimila euro l’anno e la Regione Campania non li trova. Mentre i suoi consulenti per la monnezza e la comunicazione ingrassano, non si fa niente in un quartiere di camorra così a rischio che è stata la vergogna d’Italia, con una storia criminale che continua coi figli e i nipoti dei camorristi, che non vedono altra scelta se non quella di continuare le gesta dei padri. Anche adesso, l’hai capito, la situazione è tesa. Mi risulta che se ne vanno in giro armati fino ai denti, ragazzini senza controllo, pronti a sparare per farsi un nome, sognando di diventare un boss. Vabbuò va’, non ricominciamo.»


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