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L’UOMO DIETRO LA FIRMA: CREED TAYLOR (1954–1961)

Gli storici potrebbero ricordare gli anni cinquanta come gli anni di Eisenhower e Nixon. Ma nel jazz lo scenario era diverso. Miles, Coltrane, Mingus, Sonny Rollins e Ornette stavano aprendo nuove strade… giganti come Lester Young e Coleman Hawkins erano ancora tra noi. Burt Korall, Dom Cerulli e Mort L. Nasatir, The Jazz Word

Ama il jazz, i film stranieri, gli abiti firmati, il gin tonic e le ragazze carine: lo stesso genere di cose che piacciono ai lettori di Playboy. Hugh Hefner, 1957, descrizione dell’uomo alla moda

Al di là della portata del nome e di tutte le energie spontanee che avrebbe finito per generare, la Impulse Records non fu qualcosa che capitò per caso. Né la sua uscita fu immediata. L’etichetta ebbe il suo processo di gestazione, un processo fatto di pazienza, di pianificazione e di un convergere di circostanze. Fu il prodotto di un’era in cui il jazz raggiunse un pubblico consistente e in crescita, in cui l’industria musicale vedeva di buon occhio la produzione e la pubblicizzazione della musica jazz, e capiva quanto fosse importante mantenere nel proprio catalogo quel genere musicale. Nel caso della ABC-Paramount, l’idea di creare una sezione jazz separata e indipendente si concretizzò quando un trombettista originario del Sud e sufficientemente determinato si trasformò in un produttore sensibile alla qualità delle registrazioni e attento all’eleganza delle confezioni. Quell’uomo si chiamava Creed Taylor. 13


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Futuro produttore con tromba: Creed Taylor (alla tromba) con i Five Dukes, Virginia Beach, 1949.

Taylor era nato nel 1929 in Virginia. Come molti altri della sua generazione, era cresciuto attratto in egual misura dal miraggio di una brillante carriera e dal sound dello swing. Musica o medicina? Il dilemma avrebbe guidato i suoi passi fino all’età di venticinque anni. Per esempio, scelse la Duke University non soltanto per il suo programma di studi di medicina, ma anche per la sua orchestra jazz, i Duke Ambassadors, dove si erano fatti le ossa i musicisti delle migliori big band. Quando non era a lezione o a suonare con il gruppo, Taylor si chiudeva nella sua stanza al dormitorio per ascoltare i dischi del momento, approfondendo uno studio della musica che aveva iniziato fin da ragazzino. «Credo che il seme sia stato piantato quando andavo alle medie» dice Taylor, ricordando che comprava «dischi jazz che non venivano – tra virgolette – “prodotti”». Ai tempi della Duke, invece, acquistava tutti i 78 giri della serie Jazz at the Philarmonic del produttore Norman Granz. «Ascoltavo quei dischi che sembravano continuare all’infinito – le sfide tra i sax tenori e tra i batteristi, e da-dada-da. Amavo il jazz, ma mi chiedevo: “A chi serve questa roba?”. E così pensai che mi sarebbe piaciuto interessarmi a quel genere di cose e cominciai a pianificare alcune sessioni bene organizzate, dando spazio al free blowing ma evitando gli assoli interminabili.» Negli anni dell’università, Taylor frequentò spesso l’attivo scenario jazz newyorkese, alimentando nel corso di queste visite la sua passione per la musica e aggiornandosi sulle ultime novità, compreso uno stile chiamato bebop, adatto a piccoli gruppi incentrati prevalentemente sui solisti. Dopo la laurea e il servizio nei Marines durante la guerra di Corea si trasferì a New York, affannandosi per riuscire a entrare nel già affollato mondo dell’imprenditoria musicale. Nel 1954, sul punto di abbandonare il campo per


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dedicarsi alla psicologia, venne assunto dalla Bethlehem Records, anch’essa in lotta per riuscire a emergere. La piccola etichetta indipendente esisteva più o meno da un anno, e in quel periodo aveva cercato invano di sfondare producendo singoli di facile ascolto. Il suo fondatore, Gus Wildi, era pronto a sperimentare qualcosa di nuovo, e a Taylor venne un’idea. Il nuovo stile rilassato della West Coast, genericamente chiamato “cool” – il sussurrante sax tenore di Stan Getz, l’arioso alto di Paul Desmond (nel quartetto di Dave Brubeck), la languida tromba (e la voce) di Chet Baker –, si stava dimostrando estremamente popolare. Pensando a un pubblico amante del jazz e aperto al cool, il produttore in erba mise insieme una cantante sconosciuta e dalla voce evanescente, una serie di brani languidi e il pianista del terzetto di Ellis Larkins. Il risultato fu Sings Lullabys of Birdland di Chris Connor, che vendette inaspettatamente 20 mila copie – un successo salutare e remunerativo per i parametri del ’54 – salvando l’etichetta e rilanciando le carriere della cantante e del produttore. Taylor rimase con la Bethlehem, producendo in due anni altre incisioni della Connor e di talenti eclettici del calibro del pianista Bobby Scott, del flautista Herbie Mann, dei bassisti Oscar Pettiford e Charles Mingus e, soprattutto, del quintetto co-diretto dai trombonisti J.J. Johnson e Kai Winding. Per Taylor fu un periodo fertile, che gli offrì tra l’altro una prima opportunità di collaborare con il tecnico del suono Rudy Van Gelder, di cui aveva apprezzato il lavoro svolto con la Blue Note e con la Prestige. Ma Taylor era infaticabile. Nel 1955, inseguendo grandi sfide e maggiori guadagni, s’imbatté in un articoletto su un settimanale di finanza che lo indusse a compiere la mossa successiva. Leggevo Billboard tutte le settimane, e scoprii che la ABC-Paramount stava aprendo una casa discografica. Scrissi una lettera a Sam Clark [il presidente] e ottenni un colloquio. Dissi: «È la cosa che so fare meglio», e così fu. Fondata nel 1955, la ABC-Paramount Records fu l’ultimo anello di una catena di eventi generati dalle decisioni dell’antitrust federale che rivoluzionarono l’industria dell’intrattenimento nei primi anni cinquanta. I grandi studi come la Paramount Pictures furono separati dalle sale cinematografiche che costituivano i loro principali canali di distribuzione, mentre il gigante della televisione, la National Broadcasting Company, venne diviso dalla rete gemella, la Blue Network. La Blue fu acquistata dall’American Broadcasting Company,

Un esordio brillante: l’album del 1955 che contribuì a lanciare la carriera di Creed Taylor.


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che in seguito si fuse con la catena dei Paramount Theaters, appena divenuti indipendenti, e trasferì il proprio quartier generale al 1501 di Broadway, sopra il leggendario Paramount Theater di New York, in Times Square. Guidata dall’ex direttore esecutivo della Paramount Pictures, Leonard Goldenson, la nuova ABC-Paramount ambiva ad affermarsi come una forza multimediale che coinvolgesse la televisione, le sale cinematografiche e la produzione discografica. Qualche anno più tardi la ABC-Paramount si ritrovò nella medesima complessa situazione quando, spinta dal successo dello show The Mickey Mouse Club, iniziativa imprenditoriale avviata insieme alla Disney Corporation, Goldenson prese la decisione di lanciare un dipartimento musicale che producesse la colonna sonora originale del programma. Nacquero così la AmPar Record Corporation e la sua etichetta discografica, la ABC-Paramount Records. Goldenson diede a Sam Clark, un distributore discografico di Boston, l’incarico di primo presidente dell’etichetta, e affidò la produzione a Harry Levine, impresario capo per gli spettacoli dal vivo della catena dei Paramount Theaters. A sua volta, Clark nominò suo vice Larry Newton, che aveva diretto a Boston l’etichetta rhythm’n’blues Derby Records. «All’inizio c’erano tre persone alla guida dell’azienda» osserva Phil Kurnit, consulente legale interno dell’etichetta a metà anni sessanta. «Sam, che svolgeva gran parte del lavoro concettuale cercando di imprimere all’azienda la direzione che lui desiderava. Larry Newton, che era incaricato delle vendite ed esclusivamente delle vendite, e Harry [Levine], a cui rispondeva quasi tutta l’azienda. Tutto qui.» Newton ricorda lo scenario dell’epoca. «Negli anni cinquanta esistevano prevalentemente due tipi di case discografiche. C’erano le grandi, come la Capitol, la Columbia di Mitch Miller e la RCA Victor, e il resto erano tutte etichette indipendenti. Funzionava così. La Decca era ancora forte ma stava perdendo colpi perché il fondatore dell’etichetta, Jack Kapp, era morto. Noi entrammo nel mercato per diventare una major. Chiaramente, avevamo grosse coperture economiche alle spalle. Leonard Goldenson, il mio capo, voleva andare fino in fondo.» La ABC-Paramount fu determinata sin dall’inizio ad affermarsi con il peso e l’impatto di una major, con un catalogo ricco di singoli e di album e qualche apparizione nelle classifiche. Clark e Newton elaborarono un piano diviso in due parti: assumere produttori interni per sviluppare progetti di registrazione e trovare nuovi talenti, e individuare piccole case discografiche da acquisire o con cui stipulare accordi. Creed Taylor rientrò nella prima parte del piano, insieme a Sid Feller, arrangiatore e produttore più ferrato sulla musica commerciale. «Iniziai il 14 luglio del 1955, e fui il primo stipendiato dell’azienda» ricorda Feller, divenuto in seguito famoso come arrangiatore dei successi di Ray Char-


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les degli anni sessanta e presidente a lungo termine della Recording Industry Association of America. «Lavorammo più di cinque mesi prima di pubblicare il nostro primo disco. Era la fine del novembre del 1955.» Dai documenti della ABC risulta che il primo singolo fu Siboney, del pianista gallese Alec Templeton, uscito il 6 settembre del 1955. «Per quel che ricordo, il nostro primo vero artista fu Eydie Gormé» afferma Feller. Di fatto, negli anni dell’esordio, gli album pubblicati dalla ABC-Paramount ebbero scarso successo e nessuno finì tra i primi cento di qualsiasi classifica nazionale, a eccezione di alcuni dischi di Gormé. «Non sarebbero state molte le case discografiche capaci di sopravvivere con quei dati di vendita» si legge sul sito internet ABC-Paramount Album Discography «ma evidentemente la ABC-Paramount aveva le tasche profonde.» Più o meno nel periodo in cui Feller arrivò alla ABC, Don Costa venne assunto come secondo produttore pop dell’etichetta. Di lì a poco Creed Taylor avrebbe preso il posto di Clark, insediandosi nel suo nuovo incarico. Taylor produsse quasi immediatamente la sua prima registrazione per la ABC, Blues and Other Shades of Green, del trombonista Urbie Green [ABC 101], e si tuffò in un fitto programma di incisioni. Dei primi cento LP pubblicati dalla ABC-Paramount tra il 1955 e il 1957, Taylor ne produsse almeno un terzo, utilizzando molti degli stessi jazzisti che aveva chiamato alla Bethlehem, inclusi i pianisti Dave McKenna, Billy Taylor e Bobby Scott, il trombettista Ruby Braff, i sassofonisti Zoot Sims e Lucky Thompson, il bassista Oscar Pettiford, il polistrumentista Don Elliott, e l’arrangiatore Quincy Jones. E per un album didattico intitolato Know Your Jazz [ABC-115] si servì di una big band di fuoriclasse. Seguendo la stessa formula che aveva funzionato alla Bethlehem e che adattava gli album ai gusti del pubblico, il produttore condusse una singolare indagine di mercato e andò a frugare personalmente tra gli scaffali di un negozietto di dischi di fronte al palazzo della Paramount. «Vendevano di tutto: dalla musica per la danza del ventre a chissà che altro. E per me fu il sistema più efficace per capire quali categorie musicali non erano rappresentate. Per esempio, non avevano musica orientale, e così produssi Hi-Fi in an Oriental Garden, un disco che vendette piuttosto bene.» In ogni caso, nei primi anni di vita furono sempre i singoli commerciali a tenere in piedi la ABC-Paramount. Feller ricorda che, avendo esordito come una quasi-major, la casa discografica ebbe la possibilità di realizzare una prima manciata di successi rivolti a un pubblico di adolescenti. «Paul Anka arrivò da noi nel 1956, il nostro secondo anno di attività, con qualche disco da un milione di copie. Poi ci furono altre buone annate, con Lloyd Price, Steve Lawrence e Eydie Gormé, che ci consentirono di conservare il nostro posto tra le major.» Altri autori di successo degli anni cinquanta


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Un giovane Creed Taylor in studio, fine anni cinquanta.

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furono Danny and the Juniors, George Hamilton IV e, per un breve periodo, Simon and Garfunkel, che all’epoca pubblicavano i loro dischi con il nome di Tom and Jerry. La crescita, tuttavia, non fu indolore. «Spendevamo un sacco di soldi e vendevamo troppo poco» osserva Feller. «Non eravamo la Columbia, per dirla in altri termini. In quello stesso periodo la Columbia aveva decine di artisti da classifica, e lo stesso valeva per la RCA e la Capitol. Noi avevamo soltanto uno o due artisti che vendevano bene, ma pubblicavamo altre centinaia di dischi assolutamente irrilevanti. Era una battaglia persa? Sì, anche se da noi c’era sempre qualcuno che vendeva.» Nel frattempo, Newton cominciò a intraprendere efficaci trattative per la condivisione di diritti o l’acquisizione di altre etichette, come lui stesso ricorda: Era un po’ come nel mondo del cinema: feci un accordo in base al quale la ABC avrebbe ricavato il venti per cento: noi pagavamo tutte le spese e alla fine dividevamo i profitti al 75/25. E se loro avessero chiuso bottega, avremmo avuto la prima opzione per rilevare l’azienda. Prima di allora avevo concluso un accordo con la Philadelphia’s Chancellor Records, che fu determinante perché avevano in catalogo questi due ragazzi, Frankie Avalon e Fabian, con cui realizzammo qualche ottimo disco. Un altro dei fattori che permise alla ABC-Paramount di ottenere buoni guadagni fu in realtà un primo esempio di sinergia mediatica. Non appena alcuni cantanti o gruppi conquistavano l’attenzione del pubblico televisivo in programmi della ABC come American Bandstand di Dick Clark o The Mickey Mouse Club, la loro musica veniva immediatamente passata alla ABC-Paramount, o alla Apt, un ramo dell’azienda che ebbe poca vita. A beneficiare della formula fu tutta una serie di band per adolescenti come gli Sparkletones (“Black Slacks”), i Royal Teens (“Short Shorts”) e i Poni-Tails (“Just My Luck to Be Fifteen”). Nel frattempo, Taylor, che non riusciva a raggiungere simili successi, continuava comunque a produrre album che vendevano abbastanza da giustificare gli investimenti della ABC in questa fase di ricerca concettuale. Decise quindi di aumentare i propri sforzi. Realizzai una serie di album di canzoni. Canti della Prima guerra mondiale, canti della Seconda guerra mondiale, eseguiti semplicemente da un quartetto a cappella [e] solisti melodici. Andai a Yale e, con un piccolo registratore nascosto, incisi canti goliardici e da taverna. Mi piaceva la musica latino-americana, e così produssi una serie con pezzi di flamenco – Montoya e Sabicas – tutta ro-


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ba terribilmente drammatica. Portai persino Kai Winding a Nashville e feci un album country con lui, [usando] il trombone come una voce, una cosa che in genere non capita di sentire nel repertorio della musica country. Malgrado quei progetti generalisti, Taylor afferma che «il jazz era la mia missione, in ogni momento. [Ma] non l’ho mai considerato una priorità. Cominciai a occuparmene quasi di nascosto, perché come chiunque nell’industria musicale sa bene, la percentuale delle vendite del jazz è relativamente bassa rispetto a quelle del pop. Con il jazz non si fanno soldi». E in effetti Taylor sfruttò al massimo le incisioni che riuscì a produrre per la ABC-Paramount e, coerentemente con la sua visione globale e organizzata, le pensò e le diresse tutte con grande creatività: The Voices of Don Elliott di Don Elliott, My Fair Lady Loves Jazz di Billy Taylor e Kenny Dorham and the Jazz Prophets di Kenny Dorham, che «vendette piuttosto bene per l’epoca: circa 10 mila copie».

UN LOOK PIÙ ELEGANTE In quel periodo, gli album della ABC – pop, jazz e altri generi – iniziarono a uscire con copertine appariscenti, lucide e colorate: una spesa insolita (e relativamente costosa) per la metà degli anni cinquanta. A occuparsi della grafica era una grande appassionata di jazz, Fran Attaway, all’epoca conosciuta come Fran Scott e moglie del clarinettista Tony Scott, che era stata segnalata all’etichetta da Taylor. «Avevo iniziato a lavorare alla Decca, disegnando anche illustrazioni in bianco e nero per qualche musicista. Volantini e poster» ricorda la Attaway. «A Creed era piaciuto quello che avevo fatto per il Modern Jazz Quartet. Ma non avevo capito che mi aveva chiamato per occuparmi del materiale di Dick Clark: Fabian, Paul Anka e tutta quell’altra gente. Fu una sorpresa!» La Attaway beneficiava del generoso budget che la ABC era disposta a spendere per il design. Per i dischi di Dick Clark potevo spendere qualsiasi cifra. Potevo ingaggiare un fotografo famoso, andare a Philadelphia, prenotare una stanza in un buon albergo e passare due giorni facendo foto. Ma quando si trattava di musicisti jazz era difficile persino convincerli a fare le copertine in quadricromia. La Attaway dovette superare parecchie difficoltà quando i suoi superiori misero in discussione una costosa seduta fotografica a Central Park per un


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album di Art Farmer su cui appariva una coppia che ballava. Le sopracciglia dei dirigenti si aggrottarono ulteriormente quando lei insistette nel voler usare una coppia mista. Ma Fran tenne duro, sostenuta dalle proprie convinzioni e, in sede di riunione, da Taylor. In quelle riunioni c’erano Sam, il capo delle vendite, il capo della promozione, e persino il nostro maggiore distributore, tutti seduti intorno a un tavolo e tutti in giacca e cravatta. Creed sapeva perfettamente come comportarsi con quei tizi delle vendite, sempre così esigenti. Di solito si sedeva un po’ scostato dal tavolo – era un trucchetto per costringerli a voltarsi verso di lui quando parlava e a prestargli maggiore attenzione. Circa a tre quarti [della riunione], diceva con calma: «Ho qualcosa che mi piacerebbe spiegarvi». E se si trattava, per esempio, dell’album di Art Farmer, Creed diceva: «Sto coinvolgendo un nuovo arrangiatore, si chiama Quincy Jones, e chiameremo anche la sua orchestra. Fran, perché non ci spieghi che cosa ti piacerebbe fare?». A quel punto io descrivevo una scena romantica sulla copertina in quadricromia. E loro se ne stavano tutti seduti ad ascoltare educatamente. Poi Sam diceva: «Creed, sei sicuro che sia una buona idea? Come si chiama questo tizio? Canta?». «Si chiama Art Farmer. No, suona la tromba.» «Tromba, mmmh, non so se…» Non avevano la minima idea di che cosa fosse il jazz. Nel senso che al massimo avevano sentito parlare di Glenn Miller, Benny Goodman e Satchmo. Però si fidavano di Creed. Lui era l’esperto. Molto pacato, molto controllato, molto chiaro. Non prometteva niente che poi non fosse in grado di concretizzare. La fiducia che Taylor riuscì a conquistare presso la ABC-Paramount si estese ben presto a tutta la comunità jazz, e il produttore cominciò a lavorare con un’élite crescente di musicisti stimati – Gerry Mulligan, Bob Brookmeyer, Tony Scott – contattando nello stesso tempo anche molti talenti emergenti, come avrebbe testimoniato uno dei futuri artisti della Impulse. Il trombonista Grachan Moncur III fu assunto nel reparto vendite della ABCParamount mentre frequentava la scuola di musica a Manhattan. «Era più o meno il 1956, e non avevano una grossa sezione per il jazz, ma stavano crescendo» riferisce. «Era divertente. Ricordo che un giorno vennero in ufficio Cannonball e Nat [Adderley]. Si erano appena trasferiti in città e Creed li stava accompagnando a fare un giro negli uffici della ABC. Si affacciarono nella mia stanza e mi trovarono seduto alla scrivania. Restarono a bocca aperta nel vedere un nero seduto a una scrivania, non so se mi spiego. Cannonball ne fu molto impressionato. Disse: “È un piacere vederti, amico”.» Taylor dovette accorgersi presto che il suo approccio morbido alla produ-


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zione musicale non era esattamente in sintonia con il modo diretto e spregiudicato di fare affari del mondo che lo circondava. Anche altri lo notarono, per esempio Alan Bergman, consulente legale della ABC per l’editoria discografica a metà anni sessanta. «Sam Clark, Harry Levine e Larry Newton – che malgrado i modi bruschi e schietti era un produttore valido – formavano una specie di mucchio selvaggio, niente abiti firmati o roba del genere. Gente venuta dal niente, se paragonati agli atteggiamenti formali di Goddard Lieberson e Frank Stanton della CBS, o all’atmosfera che regnava alla RCA o alla Capitol. Specialmente alla CBS avevano tutti il tipico aspetto aziendale. Al contrario, la ABC era gestita come se fosse un negozio di dolciumi.» «Sam era un tipo di classe, però veniva dalla strada» concorda Kurnit. «Era molto, molto in gamba e ben vestito, e con un’aria sicura di sé. Quando parlo di strada, intendo dire che stava tutto il tempo in giro a trattare con i negozianti e roba del genere.» L’uomo ai vertici che sembrava capirne di più in fatto di musica era Levine. A detta di Kurnit: «Harry valeva tanto oro quanto pesava. Era un eterno scapolo e una persona assolutamente brillante. Era stato lui a trattare con i manager – prevalentemente agenti – per la catena delle sale Paramount. Era lo Zio Harry, generoso con tutti». Taylor era una delle persone che riusciva a rapportarsi meglio con Levine. E tra il brillante veterano di Broadway e il tranquillo produttore del Sud ci volle poco a nascere un’amicizia professionale. «Io e Harry andavamo a cena insieme e lui mi raccontava tutte quelle storie su quanto fosse stupido Harry James, o di quando era arrivato Frank Sinatra e bla, bla, bla…» ride Taylor. «Conosceva gli artisti e le loro dinamiche. Sam era un tipo tosto, che voleva arrivare in fondo alle cose. Non ho mai capito che cosa gli piacesse musicalmente.»

IL SUCCESSO DEI VOCALISTI Il contributo di Levine si rivelò inestimabile per molti progetti di Taylor, compreso quello che concepì alla fine del 1957, quando fu contattato dall’autore e cantante Jon Hendricks con una proposta rivoluzionaria: ricreare gli arrangiamenti delle big band, per esempio l’orchestra di Count Basie, con un coro che cantasse i passaggi dei fiati e cantanti solisti che eseguissero gli assoli, aggiungendo al tutto una sezione ritmica. Abile paroliere, Hendricks avrebbe scritto i testi, e a quel punto sarebbe bastato avere vocalisti con sufficiente esperienza jazz e in grado di cantare swingando. Un amico di Hendricks, Dave Lambert, era la persona che cercavano.


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Erano convinti che io fossi il miglior tizio in città con cui realizzare un’assurdità del genere. Inizialmente provammo i pezzi più famosi di Basie, tutti con cantanti da studio. Ma il risultato era innaturale, perché quella gente era troppo tecnica e non riusciva a calarsi nella parte.

La soluzione? Grazie al multitracking, una tecnica di studio nuova per l’epoca che consisteva nell’incidere diverse esecuzioni sullo stesso nastro, l’album venne realizzato con un trio composto da Lambert, Hendricks e una cantante dallo stile bop che si chiamava Annie Ross. Ci venne quest’idea della sovraincisione. Non mi preoccupavo troppo della pulizia tecnica perché mi interessavano di più l’atmosfera e il sound generale, e me ne fregavo del rumore di fondo. Come facevamo? Abbassavamo un po’ gli acuti [filtrando il fruscio del nastro], e registravamo in mono, con le parti delle quattro trombe eseguite dalla voce di Annie Ross, mentre Dave Lambert cantava la parte del trombone e Jon Hendricks la sezione dei sax.

Fortunatamente, ricorda Taylor, ad autorizzare le costosissime sei ore di registrazione in studio doveva essere Levine. Mi disse: «Creed – aveva un gran senso dell’umorismo – credo che questa volta tu abbia raggiunto il limite. Non so che cosa succederà con questa roba di Basie che stai facendo con tutti quei cantanti». Gli risposi: «Harry, non ti preoccupare. Sarà una cosa unica». «Be’, okay.» E così le cose procedevano senza intoppi, purché riuscissi a ottenere buoni risultati con le vendite.

Larry Newton ammette che la reputazione di Taylor gli consentì di usufruire di un budget fuori dal comune: «Creed aveva un grande talento, [ma] da lui non ho mai cavato un centesimo. Mi diceva che [un progetto di registrazione] sarebbe costato quarantamila dollari, ma poi finiva per costarne novanta. Presentava il conto spese soltanto alla fine, e non mi andava di litigarci». Una strategia di cui fece ampio uso anche il successore di Taylor alla Impulse. Sing a Song of Basie ottenne buoni risultati di vendita, e la sua uscita in versione mono e stereo, alla metà del ’58, fece scalpore da un punto di vista tecnologico (la ABC-Paramount, una delle prime major discografiche ad avventurarsi nella stereofonia, aveva appena iniziato a produrre album in quel formato). «Fu una cosa improvvisa» ricorda Taylor. «E decretò il successo di Lambert, Hendricks e della Ross.» Inoltre, rappresentò sia l’ascesa del produttore nell’esigente scenario jazz sia un successo commerciale e di vendite. Ma Taylor non era ancora soddisfatto. «Alla fine tutti gli artisti veniva-


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Uno dei primi dischi incisi con la tecnica della sovraincisione: il grande successo di Taylor alla ABC-Paramount preparò la strada alla Impulse.

no pubblicati dalla stessa etichetta che aveva [pop star come] Paul Anka o Danny and the Juniors, oppure – prendetene uno a caso – i vari gruppi rock’n’roll dell’epoca.» Nel tentativo di distinguere la propria produzione da proposte commerciali come TV’s Wyatt Earp Sings o Eydie in Love, il produttore non soltanto fece l’audace mossa di citare se stesso sulla copertina di ogni album, ma pretese persino che vi comparisse la propria firma. «La feci riprodurre in caratteri tipografici» spiega la Attaway. «Può darsi che quella di aggiungere la firma di Taylor sia stata una mia idea. Mi sembrava sensato, perché in tutta sincerità non credevo [che] la ABC sarebbe andata lontano così com’era, con tutta quella musica per ragazzini.» Anche Taylor aveva le sue buone ragioni. «Perché un pittore firma i suoi quadri? Capisco che il paragone non regge, ma per quanto mi riguardava stavo producendo dischi e volevo che la gente, i fan o chiunque altro, lo sapesse. Volevo essere sicuro che se non fossero piaciuti il pubblico potesse prendersela con me, oppure, se gli piacevano… be’, cercavo di assumermi la responsabilità della realizzazione di un prodotto con un sound fantastico e con una confezione altrettanto straordinaria.» Fu proprio l’idea della firma sugli album a far sì che Taylor incontrasse un


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fotografo alle prime armi, il cui talento avrebbe presto impreziosito molte copertine. «Quando ero agli esordi [con la fotografia], le copertine dei dischi mi sembravano una cosa divertente da fare, perché in pratica potevi utilizzare qualunque soggetto» dice Pete Turner, che in seguito divenne celebre a livello internazionale per il suo uso audace del colore. «E i dischi che mi piacevano di più avevano tutti la stessa firma. Quella di Creed Taylor. Stavo ancora facendo il servizio militare quando decisi di prendere un appuntamento con lui.» Turner ricorda la prima copertina che gli venne affidata. Dal punto di vista dell’apertura mentale, Creed era straordinario. La prima volta che lavorammo insieme, mi disse: «Sto realizzando un album che si intitola The Sound of New York, può interessarti?». Io avevo già scattato qualche foto, senza che nessuno me le avesse commissionate. Con un’inquadratura dal basso, avevo ripreso un semaforo, raddoppiando l’esposizione del rosso e del verde, e poi dell’azzurro del crepuscolo e dell’Empire State Building sullo sfondo. Una splendida immagine di una New York malinconica. A Taylor piacque moltissimo. Fu l’inizio di una collaborazione lunga e proficua. Pubblicato nel 1958, The Sound of New York [ABCS-2269] conteneva brani del compositore Kenyon Hopkins (conosciuto per le sue colonne sonore) eseguiti dalla “Creed Taylor Orchestra”, il cui componente più conosciuto era il sax alto Phil Woods. L’album interpretava musicalmente la Grande Mela nel suo va-


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Una convention della ABCParamount, 1958 circa. L’uomo al centro in giacca nera è Sam Clark, immediatamente alla sua sinistra c’è Larry Newton, mentre il secondo da destra è Sid Feller.

riegato splendore sonoro: “Taxi Ride”, per esempio, utilizzava effetti acustici e un corposo arrangiamento di ottoni per catturare il ritmo frenetico suggerito dal titolo. La custodia del disco si apriva come un libro, e all’interno c’era un vero e proprio opuscolo – pagine rilegate con le note di copertina – che descriveva in modo dettagliato e arguto il tema dell’album. Naturalmente, The Sound of New York esibiva la firma di Taylor, e fu il prototipo di quella che sarebbe diventata una formula: valide idee di base, grande qualità e budget di spesa tutt’altro che basso. Incidentalmente, quasi nascosta nella copertina interna, appariva una piccola immagine in bianco e nero dell’insegna di un cinematografo di Times Square con il titolo di un film per adulti stampato a grandi caratteri: IMPULSE. Erano passati appena cinque anni da quando Taylor aveva cominciato a lavorare nell’industria musicale. Da allora era arrivato lontano, condividendo l’ufficio e ritrovandosi allo stesso livello di produttori e arrangiatori veterani – Feller, Costa e altri – che bazzicavano l’ambiente da molto più tempo di lui. Eppure, Taylor aspirava a qualcosa di più di un semplice ruolo all’interno di uno staff. E di lì a poco le circostanze gli avrebbero offerto l’opportunità di creare un’etichetta capace di produrre regolarmente quei dischi di qualità che aveva sognato fin dai tempi del liceo.


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LA ABC ESPANDE IL PROPRIO RAGGIO Nel 1959 l’industria musicale utilizzava comunemente dischi di diverso formato. I 33 giri, immessi sul mercato dalla Columbia Records, erano in circolazione ormai da dieci anni. «Al giorno d’oggi i Long Playing rappresentano il 61% dell’intero volume dell’industria discografica» riferiva la rivista Billboard. «Le vendite degli album ammontano di fatto a due terzi di tutto il venduto della musica pop.» Tuttavia, furono i singoli – i piccoli 45 giri, perfetti per essere trasmessi via radio – a far crescere in modo significativo le vendite degli album. Gli LP, quando non si limitavano a presentare raccolte dei singoli da classifica di qualche artista pop, erano considerati un formato idoneo a gusti più maturi, e di conseguenza meno commerciali. L’easy listening, i brani con testi recitati, la musica classica e il jazz erano ritenuti materiale adatto solo agli album. Nel 1959, il Kingston Trio, Mantovani, Henry Mancini e Johnny Mathis si contendevano il titolo di LP più venduto. Sebbene anche la musica strumentale riuscisse talvolta a salire ai vertici delle classifiche (due dei primi quindici singoli dell’anno – The Happy Organ di Dave Cortez e Sleep Walk di Santo and Johnny – erano privi di testo), sarebbe stato eccessivo considerare il jazz commercialmente significativo nel mercato dei singoli. Quell’anno, come rivelano le classifiche di Billboard, fu ufficialmente l’anno della ABC-Paramount. Tra Paul Anka, Frankie Avalon e Lloyd Price, l’etichetta conquistò i primi posti in classifica per quattordici settimane. Fu l’unica casa discografica ad avere quattro numeri uno – il doppio di quelli della RCA o della Columbia. La rivista Music Reporter celebrò i primi cinque anni della ABC-Paramount con un articolo che citava i suoi sette successi “da un milione di dollari”, rispettivamente: “A Rose and a Baby Ruth” di George Hamilton IV; “Diana” e “Lonely Boy” di Paul Anka; “At the Hop” di Danny and the Juniors; “Stagger Lee” e “Personality” di Lloyd Price; e “Venus” di Frankie Avalon. Con le casse piene, la ABC-Paramount estese la propria sfera d’interesse oltre il mercato dei singoli. Nell’ottobre del 1959 rilevò le etichette Command e Grand Award – fondate dal direttore d’orchestra Enoch Light e orientate verso una produzione in stereofonia e prevalentemente di LP – etichette che, cosa abbastanza interessante, si erano fatte un nome per l’alta qualità del packaging delle custodie a libro. Gli acquirenti della ABC lasciarono a Light l’incarico di responsabile delle etichette che avevano sede nel New Jersey, e aumentarono il proprio pubblico di amanti della musica leggera. Nel tentativo di conquistare il mercato del rhythm’n’blues – anche se Lloyd Price è nero, la sua musica era in sintonia con la strategia commerciale della ABC –


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la casa discografica iniziò a cercare una star in grado di appassionare il pubblico di colore. L’artista che riuscirono a trovare ottenne un trionfo commerciale senza precedenti.

SCOMMETTERE SU UN GENIO

Un titolo di giornale del 7 dicembre 1959.

È ormai parte della leggenda di Ray Charles il fatto che il pioniere del rhythm’n’blues, il cui successo del 1959 “What’d I Say” fu il coronamento di sette anni di grandi composizioni realizzate con la Atlantic Records, decise quello stesso anno di lasciare la sua amata etichetta indipendente per passare alla ABC-Paramount. Una scelta di cui ancora oggi vengono ricercate le motivazioni, per esempio chiamando in causa ragioni personali (com’è possibile che Charles abbia tradito l’impegno con la Atlantic?), oppure spiegando la cosa in nome dell’indipendenza artistica (Charles si ribellò all’idea che qualcuno si ritenesse proprietario della sua musica?). I dettagli del contratto sono conservati alla ABC in un libro con la copertina rilegata su cui fu impressa la parola “Tangerine”, nome scelto da Charles per l’etichetta discografica che fondò quell’estate come parte dell’accordo con la ABC-Paramount. Le clausole più importanti sono note a tutti: un lauto anticipo e il diritto per Charles di mantenere la proprietà di tutte le sue registrazioni. L’uomo più informato in proposito era il primo consulente legale della ABC, Bill Kaplan. Sono certo che l’idea si dovette in parte alla sua agenzia, la Shaw Agency, e in parte alle menti ingegnose del nostro staff. Raggiunsero un accordo straordinario: una sorta di partnership in cui la casa discografica pagava le spese di registrazione e di fabbricazione, la promozione e la pubblicità del disco, le royalty. L’accordo con Ray Charles fu concluso prima che Kaplan arrivasse alla ma fu lui a sovrintenderne l’attuazione. Una volta calcolato l’introito complessivo di ogni vendita di Ray Charles, la ABC tratteneva una quota per la distribuzione e il rimborso di tutte le spese extra, e ciò che restava veniva diviso a metà con Charles. Di fatto era un contratto di concessione – la casa discografica pagava una tassa per realizzare brani di proprietà di un produttore indipendente, e alla fine divideva con lui i profitti – una politica che la ABC aveva già adottato con altri produttori ed etichette. Un rischio che fu più che premiato. ABC,


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«Dopo l’arrivo di Ray Charles, nel 1959» riferisce Sid Feller, che curò l’arrangiamento di molti trionfi di Charles negli anni sessanta, «tutto cominciò ad andare a gonfie vele.» Charles fece recuperare ampiamente alla ABC il denaro investito, eclissando i precedenti successi dei brani pop per adolescenti dell’etichetta con una lunga serie di singoli da classifica e album classici, di cui uno in particolare consentì il lancio di un nuovo progetto: un’etichetta jazz.

LA NASCITA DI UN MARCHIO JAZZ Taylor non è in grado di indicare con esattezza il momento in cui, tra la fine del 1959 e l’inizio del 1960, gli balenò per la prima volta in mente quell’idea. Ricorda solo che tutto cominciò con un nome. Avevo pensato a questo nome, “Pulse”, battito, e lo stavo studiando perché consentiva diverse possibilità interessanti. In particolare pensavo a slogan tipo “Senti il battito”, oppure “La pulsazione del mondo della musica”, o cose del genere. Con quel nome già in mente, Taylor aspettò che l’idea si consolidasse e nel frattempo continuò a occuparsi del suo lavoro alla ABC. Nel 1960 supervisionò l’uscita di diversi progetti che aveva nel cassetto: raccolte di brani per chitarra flamenco, album a tema della Creed Taylor Orchestra (colonne sonore di film dell’orrore, melodie malinconiche) e un altro LP di canti da taverna. Dietro le quinte, tuttavia, pensava a un genere musicale completamente diverso per la nuova etichetta, musica che non richiedesse operazioni di marketing e che bastasse a se stessa. «Musica seria, eseguita ai massimi livelli.» Le sue frequenti visite ai nightclub cominciarono a nascondere uno scopo più profondo. I suoi musicisti preferiti erano gli stessi di molti altri appassionati – Miles Davis, J.J. Johnson, Stan Getz, John Coltrane – ma poiché aveva un debole per gli arrangiatori e i compositori, cercava anche di non perdere le esibizioni straordinarie di gente come Gil Evans e Quincy Jones. «Mi resi conto che di notte Creed doveva girare un sacco di club, e ascoltare musica per davvero» ricorda la Attaway. «Sembrava che sapesse sempre quello che voleva, quello che cercava. Ero impressionata.» Una delle cose che Taylor voleva trovare a tutti i costi era un look per la sua nuova etichetta, e ricorda tuttora la sua idea per le copertine degli LP. «Avevo sempre pensato che ci fossero due modi di guardare un album. Il primo è quando è posato su un tavolino, l’altro quando è su uno scaffale. In entrambi i casi dovrebbe essere facile riconoscere di quale etichetta si tratti.» È questo il concetto che spiegò alla Attaway.


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«Dividevamo l’ufficio» riferisce la Attaway. «O meglio, io stavo nel suo ufficio, perché quando ero arrivata alla ABC volevano mettermi in una stanza piena di scatoloni. “Qui non entrerà mai un tavolo da disegno!” dissi. Allora Creed mi fece un piccolo cenno. Andammo nel suo ufficio, che era molto grande. Lui chiuse la porta e mi indicò un angolo.» La convivenza diede origine a un dialogo creativo da cui scaturì il look della Impulse. Ricorda Taylor: «Credo che i colori – l’arancione e il nero – e il punto esclamativo siano state idee di Fran. Non sono farina del mio sacco. Io invece creai lo slogan “The New Wave of Jazz is on Impulse”». L’arancione e il nero (una combinazione di colori associata da molti alla squadra di baseball dei New York Giants, che aveva appena abbandonato la città) vennero scelti per la loro luminosità, ma soprattutto perché non li aveva ancora usati nessun’altra casa discografica. Taylor attribuisce alla Attaway il merito di aver consolidato la tradizione di utilizzare fotografi all’avanguardia, i cui ritratti e immagini venivano riprodotti su carta lucida e si estendevano fino alla costa della copertina. «Aveva un gusto fantastico. Portava fotografi famosi [e] prossimi alla fama come Roy DeCarava, e lavorava con altri che già collaboravano con noi, come Pete Turner.» Quando Tony Scott accettò di fare una tournée in Asia sponsorizzata dal Dipartimento di Stato, la Attaway partì con il marito, lasciando casa e lavoro per un viaggio che sarebbe durato diversi anni. Quasi immediatamente, la ABC assunse Margo Guryan, una studentessa di musica di Boston, perché facesse da segretaria a Taylor. Margo si trasferì nel suo ufficio, e ricorda che Taylor diceva che il jazz era tornato di moda e che intendeva lanciare una nuova etichetta. «Mi ricordo che cercava di creare un logo. All’inizio era “Pulse!”, con un punto esclamativo. Poi saltò fuori che c’era già un’altra etichetta con quel nome. Ci restammo tutti male, perché avevamo realizzato una grafica fantastica.» La Guryan ricorda anche la soluzione escogitata da Taylor. Creed andò a casa con quel logo e inventò un’idea che a me parve assolutamente geniale. Prese la parola Pulse, ci mise davanti I-M e disegnò il puntino sulla I in modo che apparisse capovolto ma identico nel design rispetto al punto esclamativo finale. Con un logo incisivo, un design accattivante e un ottimo slogan nel cassetto, a fine primavera del 1960 Taylor pensò di affiancare un packaging di qualità a una lista di artisti di serie A. Soltanto allora i tempi sarebbero stati maturi per presentare l’intero progetto all’uomo che poteva aiutarlo a realizzarlo. E che l’avrebbe apprezzato meglio di chiunque altro.


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Tutto iniziò a concretizzarsi. Avevo già in mente i primi quattro album e ne parlai con Harry: «Ascoltami, credo che una custodia a libro con la copertina laminata sia la scelta migliore per una presentazione aggressiva della serie Impulse».

Levine si convinse, e riuscì quasi a ottenere carta bianca da Clark e Newton. Mentre lui fungeva letteralmente da cuscinetto, Taylor procedeva deciso nel progetto, migliorando il design, programmando le sedute di incisione e preparando il lancio dell’etichetta per l’inizio del 1961. Harry tenne una linea di condotta perfetta. Sapeva come prendere Larry e Sam, in modo che io non fossi costretto a trattare direttamente con loro. Sapeva che mi stavano a cuore anche i dati di vendita, e non soltanto la qualità della musica. Ma senza dubbio se la musica non fosse stata giusta non l’avrei cambiata soltanto per aumentare le vendite.

IL JAZZ ALLA FINE DEGLI ANNI CINQUANTA Effettivamente il jazz era la musica perfetta per quei tempi. La fine degli anni cinquanta si stava rivelando un’era di transizione, e la letteratura beat, i quadri degli espressionisti astratti, gli attori dalla recitazione passionale come James Dean e Marlon Brando divennero segni di una cultura pronta a lasciarsi alle spalle un trascorso puritano e convenzionale per rilassarsi e abbracciare tutto ciò che era avventuroso, giovane e alla moda. Il jazz, una musica maturata da un passato funzionale e incentrato attorno al ballo e divenuta una forma d’arte seria e con una sensibilità tutta propria, si presentava come la colonna sonora ideale per quel momento storico. Billboard descrisse il fenomeno con un articolo pubblicato all’inizio del 1959, dal titolo “Gli ultimi anni cinquanta sono pronti a passare alla storia”: «Gli ultimi anni cinquanta – più che gli anni venti – potranno entrare negli annali della musica come la vera “epoca del jazz”. Il jazz si sta affermando in ogni settore del mercato – dischi, tv, radio, spot pubblicitari ecc. – e lunedì prossimo sbarcherà persino alla Casa Bianca, grazie al concerto Jazz Jubilee, sponsorizzato dalla moglie di Dwight D. Eisenhower». «Il jazz è l’affare del momento, e tra i suoi nuovi amici ci sono alcune delle maggiori personalità viventi» scrisse lo stesso anno sul periodico Down Beat un produttore della Columbia Records. Playboy, la nuova rivista maschile, descrisse il proprio lettore ideale come un appassionato di jazz. Hollywood aveva iniziato a produrre film di successo come L’uomo dal braccio d’oro e Piombo rovente, nonché show televi-


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sivi come Peter Gunn, con colonne sonore jazz – o quanto meno “jazzeggianti”. Personaggi come Dave Brubeck ed Erroll Garner stavano guidando una nuova ondata di musicisti jazz attraverso i campus universitari di mezza America. La Blue Note, la Prestige, la Verve ed etichette indipendenti più recenti come la Riverside e la World Pacific facevano ottimi affari, vendendo al di là di un mercato di nicchia fatto solo di collezionisti jazz e raggiungendo un pubblico più ampio. Nel frattempo, major come la RCA, la Columbia, la Decca e la Capitol cercavano in tutti i modi di produrre dischi di artisti jazz (o “jazzeggianti”). Che si considerasse il jazz in senso stretto o in senso lato, ce n’era a sufficienza per creare nel business discografico la convinzione che si trattasse di un genere abbastanza popolare da giustificare gli investimenti che Taylor stava chiedendo ai vertici della ABC. E la richiesta coincideva con la strategia della casa discografica di coprire l’intero mercato, come ammette lo stesso Newton. La nostra era una grande azienda, e io ero convinto che la diversificazione fosse il modo giusto per crescere ulteriormente. La Command Records non aveva niente a che spartire con il jazz – produceva solo easy listening. C’era un pubblico preciso che amava il jazz [e] il jazz costituiva circa il sette o l’otto per cento [del mercato]. Mi erano state offerte diverse etichette jazz, e anche Bobby Weinstock [della Prestige Records] cercò di vendermi la sua. Ma a me non interessava comprare semplicemente un’etichetta jazz. Un altro fattore che contribuì a convincere i vertici della ABC viene sintetizzato da Bill Kaplan in una sola parola: «Catalogo. Una delle cose di cui discutevamo sempre era il fatto che il jazz fosse un genere da catalogo. È come la [musica] classica. Con il jazz non farai mai molti soldi, ma è qualcosa che resterà per sempre». Quello che i suoi capi decidevano in base a precise strategie e discussioni, Taylor lo capiva per istinto. Sapeva che doveva scendere in campo con un’intera gamma di stili musicali, con album che fossero ognuno diverso dall’altro, e ognuno con un proprio tempismo, presentando artisti o progetti nuovi e insoliti ma contemporaneamente senza tempo e con un peso storico che garantisse vendite a lungo termine. In brevissimo tempo videro la luce i dischi della prima rivoluzionaria ondata Impulse – quattro album identificati da numeri di catalogo compresi tra A-1 e A-4 (con l’aggiunta di una “S” per le versioni stereo): The Great Kai & J.J. di J.J. Johnson e Kai Winding, Genius + Soul = Jazz di Ray Charles, The Incredible Kai Winding Trombones e Out of the Cool di Gil Evans.


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LA PRIMA ONDATA Taylor convinse J.J. Johnson e Kai Winding, suoi amici dei tempi della Bethlehem, a rimettere in piedi il quintetto con due tromboni della metà degli anni cinquanta, con l’aggiunta di un’adeguata sezione ritmica che desse risalto ai delicati aspetti melodici: il pianista Bill Evans, il bassista Paul Chambers (o Billy Williams) e il batterista Roy Haynes (o Art Taylor). Il titolo dell’album, com’era abitudine di Taylor, venne deciso prima che il disco venisse registrato: The Great Kai & J.J. [A(S)-1]. La Guryan ricorda che, malgrado Taylor avesse già lavorato con Johnson e lo rispettasse molto, all’inizio non tutto andò liscio. In particolare riferisce di un episodio in cui J.J. Johnson non voleva registrare nello studio di Rudy Van Gelder. «Creed aveva una grande stima di Rudy come tecnico del suono e incideva sempre nel suo studio. Ma secondo J.J. il sound era troppo live. [Il soffitto] era in legno di sequoia e gli sembrava che i suoni rimbalzassero contro le pareti. Un giorno uscì infuriato dall’ufficio di Creed. Istintivamente corsi fuori e inseguii J.J. lungo la Settima [Avenue]. Alla fine lo raggiunsi e quando riuscii a riportarlo nell’ufficio di Creed per discutere mi sentii davvero in gamba. Creed accettò di fare ciò che voleva J.J., che consisteva nel disporre pannelli acustici attorno allo studio, un sacco di pannelli. La situazione si appianò, e alla fine J.J. registrò il disco da Rudy.» Il nome della persona che propose per prima l’idea di usare un brano di Ray Charles per l’esordio della Impulse si è probabilmente perso nel tempo, ma Taylor ricorda chiaramente che, dal momento che la ABC stava investendo molto in artisti rhythm’n’blues e si era convinta della necessità di avere un’etichetta jazz, unire le due cose fu logico e inevitabile, anche in funzione delle vendite. «A quel punto venne coinvolto Larry Newton. Fu lui a trattare l’accordo con Ray Charles, e insieme a Ray tirai dentro anche Quincy [che arrangiò metà dell’album], perché era un caro amico di Ray dai tempi dell’infanzia. Ralph Burns arrangiò l’altra metà, e potemmo utilizzare la band di Basie.» Il titolo memorabile scelto da Taylor per l’album faceva riferimento al soprannome attribuito comunemente a Charles: Genius + Soul = Jazz. Senza dubbio tutto lo staff coinvolto era al corrente dell’ultimo grande progetto realizzato da Charles per la Atlantic Records, l’album del 1959 The Genius of Ray Charles. Nella prima metà del disco Charles era accompagnato da una big band costituita da celebri musicisti delle orchestre di Basie ed Ellington, e le partiture erano di Quincy Jones. Nell’altra metà era sostenuto da una sezione d’archi e gli arrangiamenti erano di Ralph Burns, che era stato segnalato a Charles da una cantante prodotta da Taylor. «La Atlantic mi mandava materiale di altri artisti che incidevano per lo-


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