Un velo di sobrietà

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Pier Aldo Rovatti

Un velo di sobrietĂ Uno sguardo filosofico sulla vita pubblica e privata degli italiani


www.ilsaggiatore.com (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore Š il Saggiatore S.p.A., Milano 2012


Un velo di sobrietĂ



Sommario

Premessa Cosa si svela e cosa viene velato

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Prima pARTE

Il fantasma della libertà

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LA CATTIVA POLITICA E QUELLA BUONA

1. Amministrare il cambiamento è ancora possibile 2. La breccia di Pisapia 3. Il referendum, una pratica di libertà 4. La «gente», insomma noi 5. Il degrado del discorso pubblico

19 22 25 28 31 CAPITALE UMANO

1. Non c’è solo rassegnazione 2. Consumate, anzi no, non consumate 3. Valore di scambio contro valore d’uso 4. Il limbo dell’università riformata 5. La scuola della grattachecca 6. L’indignazione e l’alibi della violenza

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7. Inchiostro rosso 8. Il trionfo della valutazione

53 56 DENTRO LA VITA QUOTIDIANA

1. La piccola Elena, il piccolo Jacopo 2. La vita è indisponibile, per legge 3. Il paradiso perduto di Oslo 4. La società dei corpi senz’anima 5. Morire di istituzione

59 62 65 68 71 QUALE CULTURA

1. Una nuova idea di famiglia 2. Il nostro cavallo azzurro 3. Servitù volontaria 4. Niente paletti all’informazione 5. Il realismo che lava i cervelli 6. Una cultura del nulla 7. L’arte del ritardo

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seconda pARTE

Un’Italia equa?

97 LA CATTIVA POLITICA E QUELLA BUONA

1. La svolta emotiva 2. Il governo dei professori 3. La guerra del fisco 4. Un parresiasta 5. Perché non possiamo dirci ottimisti 6. Il buco nero della manutenzione 7. Psicologia dell’evasore

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8. Vita da Lusi 9. Trasparenza 10. Qualche riflessione sul nuovo populismo 11. Spending review 12. Furbi e ladri 13. Argent de poche

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CAPITALE UMANO

1. Siamo tutti soggetti indebitati 2. L’articolo 18 non è solo un simbolo 3. Consumatori responsabili 4. Una società che non sa più pensare 5. Scrivere per non essere letti 6. E ora cosa farai? 7. Quel pasticciaccio dei test 8. Il filosofo cuoco

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DENTRO LA VITA QUOTIDIANA

1. Quella nave così emblematica 2. Benvenuta semplificazione (ma internet non fa miracoli) 3. La nave del manicomio non è affondata 4. Telemaco e Ulisse 5. Quando la mancanza di riconoscimento diventa tragedia 6. Il «mostro» di Brindisi 7. Il fascino discreto del terremoto 8. Un’Olimpiade un po’ opaca 9. La lezione perturbante delle Paralimpiadi

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quale cultura

1. Sono davvero finite le telenovelas? 2. Curare le parole 3. Una falsa prossimità 4. Concorso esterno 5. La fabbrica delle illusioni 6. La Rai e il degrado culturale 7. Paura del contagio 8. Volgarità e maschilismo 9. Prigionieri dei mercati 10. Cittadini senza volontà 11. La pazienza che abbiamo perduto 12. Il silenzio, un’arte molto difficile 13. Il privato ha inghiottito il pubblico

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Indice dei nomi

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Premessa Cosa si svela e cosa viene velato

1. Il lettore trova qui sessantotto scene distribuite in due parti secondo quattro rubriche tematiche. Brevi narrazioni che riguardano la vita pubblica e la vita privata degli italiani lungo un periodo che va dal maggio 2011 all’ottobre 2012. O, piuttosto, incursioni in eventi significativi della cronaca sociale e politica, realizzate con l’arma – spero affilata – della critica filosofica. Queste incursioni, abbastanza scomode come deve essere lo sguardo della filosofia, registrano nel loro insieme una promettente discontinuità e una preoccupante continuità. La data pivot di quella che chiamo discontinuità è naturalmente il novembre del 2011, quando, in politica, Berlusconi deve fare un passo indietro e cedere la leadership al cosiddetto governo tecnico di Mario Monti. Da questo tornante prende titolo il libro, indicando nella sobrietà il carattere di un cambiamento che nessuno può negare, e aggiungendo la parola velo cui attribuisco diversi significati, innanzitutto quello di una essenziale fragilità. Così ho intitolato la prima parte «Il fantasma della libertà», una libertà intravista e fortemente desiderata, e ho dato alla seconda parte un titolo interrogativo, «Un’Italia equa?»: l’assonanza che quest’ultimo contiene fa già declinare la domanda nel dubbio che ciò che si cercava (e che veniva annunciato), cioè l’equità, abbia anch’esso rivelato nel giro di un anno una consistenza fantasmatica. Se il velo di sobrietà ha introdotto nella vita degli italiani un supplemento di civile distanza culturale, nel contempo non è riuscito a


12  Un velo di sobrietà contenere il declino delle condizioni materiali (si pensi solo a disoccupazione, precarietà, mancanza di futuro per i giovani), né a convincere davvero i cittadini della virtuosità dei sacrifici di volta in volta richiesti per arginare il disastro economico. Piuttosto, il fragile velo ha finito per svelare e mettere a nudo un’emergenza sociale che è diventata sempre più acuta nella misura stessa in cui veniva alla superficie una vastissima realtà di malcostume pubblico e privato, che ha ulteriormente minato la credibilità della politica. Il 2012 si è infatti chiuso con gli scandali della corruzione diffusi a macchia d’olio nel «pubblico» e con l’ascesa di un ormai incontestabile fenomeno di disaffezione alla politica, insomma con un’evidente crisi di governamentalità. Le quattro rubriche tematiche, che scorrono in tutto il libro senza soluzione di continuità, intendono appunto accentuare la permanenza di un disagio sociale che possiamo osservare da molti punti di vista: politico («La cattiva politica e quella buona»), generazionale, cioè relativo alla formazione e alla condizione lavorativa soprattutto dei giovani («Capitale umano»), esistenziale, cioè relativo alle condizioni di vita individuali («Dentro la vita quotidiana»), e infine complessivamente culturale («Quale cultura»). Altri punti di osservazione potrebbero essere qui rappresentati: questi sono solo alcuni degli indicatori utilizzabili, e inoltre – come il lettore può constatare – gli sconfinamenti e le sovrapposizioni risultano palesi. Ne esce uno scenario di inquietante continuità e talora si ha proprio l’impressione di trovarsi su un piano inclinato. Faccio solo l’esempio del registro culturale. Con il declino di Berlusconi e lo sfaldamento evidente del suo raggruppamento politico possiamo affermare che la cultura «berlusconiana» sia uscita di scena? La risposta è no. Il carattere «televisivo», che costituisce l’essenza di tale cultura (promossa e fatta diventare dominante da Berlusconi), non si è per nulla dissolto e forse si è incrementato attraverso pratiche di protagonismo e di populismo delle idee correnti, attraverso una mediatizzazione ancora più marcata della vita intellettuale, nonostante i tentativi di rilanciare la dimensione del cittadino e dei diritti. La cultura del mercato e delle sue necessità,


Premessa  13 cioè la cappa della stretta economica che ha annichilito i soggetti lasciandoli spesso senza parole, ha prodotto un’ideologia paralizzante (e un’etica di sostegno a tale paralisi della criticità) che si è sposata con quella che chiamo appunto «cultura televisiva»: uno spettacolo senza soggettività che qualcuno ha perfino legittimato con il nome di «realismo». La stessa sobrietà si è presto trasformata in una forma di spettacolo al quale saremmo invitati come figuranti o comparse, alla condizione di mettere da parte bisogni e desideri. La continuità culturale, che sto esemplificando, non deve essere valutata solo sulla base di comportamenti sessuali anomali e spettacolari: se forse abbiamo girato pagina rispetto al mercato «televisivo» dei corpi femminili, tuttavia lo spettacolo continua in altre forme meno eclatanti e il cliché del protagonismo resta un imperativo culturale nel quale tutti siamo ancora immersi. Anche i mercati internazionali (pensiamo solo alle oscillazioni dello spread) vengono vissuti come una rappresentazione spettacolare che viaggia ben al di sopra delle nostre teste e rispetto alla quale ci troviamo perlopiù, o quasi sempre, nella posizione dello spettatore passivo che si limita a osservare. E quando tentiamo di uscire da questo involucro o gabbia culturale mettendo in campo le nostre esigenze materiali, indignandoci o gridando che la situazione è insopportabile e perfino invivibile, tali indignazioni e grida, se vengono udite dalla cultura dominante, subito si trasformano in puntate della telenovela, eccipienti culturali da inserire nella trama, episodi di un’unica fiction in cui i soggetti quasi mai riescono a riconoscersi. Come se ci fossero una realtà di serie A, che fa cultura, e una realtà di serie B, noiosa e inconsistente, già scontata e stravista, riducibile a stereotipi («violenza», «manifestazione», «ordine pubblico», «populismo», «antipolitica») che come tali non hanno un effettivo rilievo nella cultura di massa. 2. Ma cosa c’entra in tutto ciò la filosofia? E che tipo di libro è questo che state cominciando a leggere? È chiaro che il significante «filosofia» viene qui usato in una maniera specifica e abbastanza inusuale. È un modo di guardare i fatti: innanzitutto di sceglierli, poi di


14  Un velo di sobrietà narrarli nella loro essenzialità, e in sostanza di fare in modo che parlino, per così dire, da soli, senza aggiungere riferimenti filosofici in senso stretto, o solo raramente e come in controluce. Insomma, una pratica di lettura e scrittura, che naturalmente non nasce per caso e possiede un retroterra. Dovrei almeno ricordare che le scene di Un velo di sobrietà sono precedute da quelle di Etica minima (2010) e di Noi, i barbari (2011; entrambi i volumi sono stati pubblicati dall’editore Cortina): lì è cominciata l’elaborazione di un uso non disciplinare della filosofia. L’espressione «etica minima» può descrivere bene questo uso: una pratica di basso profilo che trattiene la voglia di universalità così cara alla filosofia, che segna alcuni limiti di sopportabilità (etica significa per me una soglia sotto la quale non si può scendere), che vede con sospetto l’immissione di modelli intellettuali già codificati ed esterni, e che infine si affida soprattutto all’attenzione critica come a un’arma certo spuntata ma ancora efficace e in nostro possesso. Si intravvede così un tipo di intellettuale sempre più marginale nel contesto attuale e forse in via di estinzione, e perciò inusuale: il suo lavoro critico tenta un anacronistico rallentamento nella fretta di concludere e di additare subito nuovi orizzonti di trasformazione in uno scenario che invece è opaco, quasi impermeabile. Le mie scene non vogliono fare sistema, anzi si sottraggono programmaticamente a ogni spirito sistematico e ovviamente all’idea che la filosofia sia sempre una specie di cappello da mettere sulle cose: non ci vedrei alcun vantaggio, se pure fossimo in grado di farlo, anzi un grosso rischio ideologico. A mio parere, la filosofia (che oggi si apparenta volentieri alla presunzione di una verità scientifica) dovrebbe svuotare se stessa (o almeno cominciare a farlo) da quel suo delirio di onnipotenza con cui continua irrisoriamente a convivere, nonostante tutto. Chi la pratica dovrebbe scendere dall’albero sul quale si immagina di essersi appollaiato (anche con il benestare di molti politici di «sinistra») e riportarsi al livello del suolo, abbassare lo sguardo. Penso addirittura che oggi il compito principale della filosofia consista nel tentativo di azzerare i privilegi della élite dallo sguardo al-


Premessa  15 to, poiché ciascuno – ciascun cittadino – potrebbe diventare il filosofo di se stesso e intensificare il proprio occhio critico. Utopia? Forse, e magari anche suicidio di una categoria che dovrebbe allora impegnarsi alla propria estinzione in nome della filosofia stessa. Una «politica» paradossale, certamente, che non nasce però nel deserto. Basterebbe considerare quante volte il pensiero contemporaneo più avveduto (un esempio: Wittgenstein) ha indicato questa strada producendo molti assensi e citazioni ma quasi nessun ascolto. In tutto ciò, a me pare che la scrittura filosofica, o semplicemente la scrittura, giochi un ruolo determinante. E torno infine alle mie rapide scene, e all’importanza che ha per me il fatto che siano, appunto, scene (non sistemi di pensiero prêt-à-porter o batterie tascabili di valori) e mantengano un carattere frammentario. Il tempo rapido della lettura mi sembra più un antidoto che un rischio: vorrei che creassero delle pause di riflessione su eventi che la cronaca ha reso noti a tutti, delle fermate nel flusso delle informazioni che ogni giorno incameriamo e il giorno successivo già abbiamo dimenticato. Delle interruzioni, insomma, nella frenesia della società mediatica in cui viviamo, una società che ha nell’oblio e nell’amnesia alcuni dei suoi più devastanti strumenti di opacizzazione. Queste scene (ciascuna con la sua data di stesura) nascono come editoriali redatti per Il Piccolo e, dopo una riscrittura, vengono chiamate a comporre il libro per cui sono state pensate fin dall’inizio. La pratica giornalistica è stata essenziale per me al fine di realizzare, almeno un poco, quell’abbassamento del tono filosofico di cui ho appena parlato. Ecco il mio esercizio di scrittura. Osservo, in proposito, che nessun esercizio filosofico è davvero tale se si limita al ritiro nella meditazione. Peter Sloterdijk, che ha rilanciato recentemente la questione (già evidenziata da Foucault all’inizio degli anni ottanta), forse non sarebbe d’accordo. Il bagno nell’attualità – mi rendo conto – è una bella sfida per la filosofia (e le sfide si possono anche perdere). Una sfida soprattutto per la scrittura filosofica, troppo spesso gergale, circonvoluta e perfino noiosa, quasi fosse necessario frapporre un velo consistente tra chi scrive e chi legge. Non sto parlando della divulgazione di un


16  Un velo di sobrietà sapere alquanto esoterico e spero che non si confonda questo libro con i molti tentativi popolar-populistici oggi in atto. L’importanza, e direi la politicità, di un’operazione di scrittura come quella che qui propongo non ha niente a che fare con traduzioni o applicazioni del sapere filosofico agli eventi della realtà che attraversano le nostre esistenze. Nessun tesoro di saggezza da riversare nella concreta quotidianità, solo il tentativo di aiutare a «leggerla» aprendo qualche spazio di criticità. Se ho dei modelli? Certo, anche se faccio fatica a usare la parola «modello». Potrei dire che Nietzsche è stato per me un costante stimolo mentale – anche se ormai ci appare così remoto – e che sono quasi sempre d’accordo con le suggestioni di Foucault. Sono, d’altronde, due nomi che esplicito in alcune delle scene. Il nome che invece resta in sottofondo è quello di Pasolini, ma è dai suoi «scritti corsari» che ho tratto la maggiore sollecitazione verso il tipo di scrittura che vi accingete a leggere. Pier Aldo Rovatti dicembre 2012


Prima pARTE

Il fantasma della libertĂ



LA CATTIVA POLITICA E QUELLA BUONA

1. Amministrare il cambiamento è ancora possibile

Maggio 2011. Si vota per il nuovo governo di città e province, in un momento politico generale che eufemisticamente potremmo definire «agitato». Viene da chiedersi se abbiamo ancora un’idea di cosa possa essere una buona amministrazione, e subito siamo portati ad avvicinare l’amministrazione con il cambiamento e la trasformazione della società. Si può «amministrare» il cambiamento sociale? O le regole dell’amministrare oppongono di per sé, in quanto regole, un ostacolo alla vera trasformazione? Sono sempre dei freni e degli inciampi? Guardo gli spot che accompagnano le candidature. Ciascuno fa molte promesse di rinnovamento ed entra anche nello specifico delle diverse pratiche, come è doveroso. Promesse di una città «più»: più umana, più civile, più bella… Ma, se sarà eletto o eletta, come farà poi a mantenerle? Attraverso politiche che si tradurranno in atti amministrativi, ovviamente. Sappiamo, però, che è molto più facile mettersi al traino delle regole esistenti che tentare di modificarle. Come si fa a rimontare la corrente di una simile inerzia? Ci vogliono i giusti protagonisti, e magari ci sarebbero, ma non basta. Ci vorrebbe inoltre una cultura della trasformazione, che oggi dà scarsi segni di vita. A me sembra chiaro che il singolo candidato, pur bravissimo, non può farcela. E che i gruppi politici che lo appoggiano non garantiscono più di tanto quel virtuoso matrimonio tra amministrare e trasformare che i cittadini auspicano. Qualcuno pensa che questa idea dell’amministrare non appartie-


20  Un velo di sobrietà ne al gene italiano, e non vedo come sia possibile dargli torto: come se, appunto, amministrare fosse per la coscienza comune una «brutta parola» che indica qualcosa di secondario. È qui che occorrerebbe una piccola rivoluzione culturale che togliesse l’amministrazione dal suo grigiore di subalternità e la promuovesse a un agire importante, capace di invenzione, essenziale per la comunità e la vita dei cittadini, o almeno tale che i cittadini riscoprissero la loro fiducia nei propri amministratori. «Non si può» è il triste messaggio cui ormai siamo abituati, ben sapendo che non è un messaggio innocente (e allora la tristezza si volta in rassegnazione e magari in rabbia). «Si può» è invece il messaggio opposto che vorremmo riascoltare e che, per quanto delusi, dovremmo in ogni modo alimentare. Dico «riascoltare» perché negli anni settanta, per esempio a Trieste, l’incontro virtuoso tra volontà di trasformazione sociale e amministrazione, in mezzo a una selva di problemi che parevano tecnicamente insormontabili, con un pressing quotidiano e un dispendio di volontà che oggi facciamo molta fatica anche solo a immaginare, è pure avvenuto. Mi riferisco all’apertura del manicomio promossa da Basaglia e dalla sua équipe grazie a un felice corpo a corpo con l’amministrazione provinciale di allora: una ricerca d’archivio, ora in corso (che ha per titolo precisamente «Amministrare il cambiamento», condotta dalla Fondazione Franca e Franco Basaglia insieme alla Provincia di Trieste), mostra come il risultato positivo sia stato allora raggiunto attraverso la continua invenzione di strumenti amministrativi. Le regole vennero intese non come camicie di forza, ma come contenitori elastici da interpretare e da allargare in vista del miglioramento. Così, quel che pareva alla lettera «impossibile», perché le norme sembravano impedirlo, diventò «possibile» e addirittura sfociò in una legge nazionale. Certo, altri tempi, altri personaggi, una diversa spinta sociale, una cultura politica che si prendeva più sul serio e una cultura civile assai più incisiva, socializzata, o quanto meno desiderante. Oggi, viceversa, la cifra è quella del cinismo pubblico e privato: i politici sembrano massimamente indaffarati a promuovere interessi di bot-


1. Amministrare il cambiamento è ancora possibile   21 tega e soprattutto consenso di facciata, i cittadini sono increduli, più assenteisti che nutriti di ideali di trasformazione. Su tutti noi, dovunque operiamo, grava il peso dei microdispositivi, di una foresta di regole inutili e perfino perverse da cui districarsi e che non lasciano né tempo né fiato alla cosiddetta libertà. Ma non è detto che la partita non possa riaprirsi e che di nuovo il gioco delle «possibilità», del «si può», non sappia riprendere piede. Sarà molto arduo, come negarlo, aprire un passaggio nel tunnel della sottocultura trionfante e gettar via la coltre pesante della passività. Ma non è vero che sia spenta la circolazione sociale dei bisogni e dei desideri, basta parlare davvero con la gente, quasi che tutti attendessero un segnale, l’indicazione di un cambiamento possibile. Come sappiamo, simili dinamiche che covano sotto la cenere sfuggono in genere all’acume dei sociologi. Poi, di colpo, la scintilla attiva una reazione a catena. E non è detto che solo i giovani dell’Africa mediterranea possano sviluppare soprassalti di libertà. Qui e ora, si tratterebbe semplicemente di riaccendere un contatto tra amministrazione e cambiamento. Già, perché no? [maggio 2011]


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