Voi non siete qui anteprima

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Guglielmo Pispisa

Voi non siete qui


Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreEd Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore Copyright © 2014 Guglielmo Pispisa Edizione pubblicata in accordo con Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency­ (PNLA). © il Saggiatore S.r.l., Milano 2014


Voi non siete qui



Voi ridete? Mi fa tanto piacere, proprio tanto. I miei scherzi, signori, sono ovviamente di cattivo gusto, irregolari, sconnessi, pieni di sfiducia in se stessi. Ma ciò dipende appunto dal fatto che io stesso non ho alcun rispetto di me. E forse che una persona consapevole può avere un benché minimo rispetto di sé? Fëdor Michajlovič Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo



Non ho il coraggio di essere l’uomo che vorrei, ma mi manca l’umiltà di accettare l’uomo che sono. Questo è il problema della mia esistenza, il motivo primo della mia insoddisfazione. Non sono adatto. Quello che è successo, che mi è successo oggi, può significare rinascita o distruzione. Conoscendomi, propendo per la seconda eventualità. Potrei scaricare la responsabilità sulla mia generazione, mettermi in coda alle migliaia di coetanei che fanno lastime, tutti a dare la colpa al momento storico, alla società, alla crisi. Mai nessuno che faccia un passo avanti, che dica sono stato io, c’ero anch’io. Certo, faccio parte della funesta generazione, ho ascoltato Tainted Love cantata dai Soft Cell e non dagli altri dodicimila che ne hanno fatto la cover nei trent’anni successivi. Ho fatto sesso per la prima volta che era in piedi il muro di Berlino. Prima di noi c’erano quelli di vivi in fretta, muori giovane, lascia un bel cadavere, poi quelli del boom, poi quelli di pace amore e acidi, poi quelli del personale è politico. Poi c’è stata l’eroina, e infine noi. I bellimbusti coi ciuffi scolpiti dal gel Tenax e le spalline da marziano nelle giacche. La new wave che sostituisce il progressive, l’individuale che fotte il collettivo, la moda delle passerelle contro la moda dei cortei (e l’abitudine irritan9


te di liquidare ogni fenomeno del passato con gli occhi del presente, come fosse una moda; quello che ho appena fatto). Ecco che ci cado subito, una tirata di luoghi comuni sulla mia generazione, su quanto faceva schifo, come fosse una scusa. Non faceva schifo, non quanto me. Quando avevo otto anni e la mia vita si esauriva nell’andare a scuola o a spasso coi miei genitori, come ogni bambino di otto anni con una vita felice, mi vedevo da adulto con una barca di soldi fatti senza sforzo, avrei guidato una Ferrari e la mia ragazza avrebbe avuto gambe lunghe e occhi azzurri e un’inguaribile propensione a credermi dio in terra e, infine, avrei fatto un lavoro fantastico, un lavoro che mi piacesse, anzi di più, che fosse tagliato su misura per me. In principio mi ero figurato opzioni infantili. Ero convinto che sarei diventato l’Uomo Ragno. Col tempo maturai progetti meno fantasiosi ma ugualmente irrealizzabili: calciatore di serie A, giocatore di basket Nba e altrettanto folgoranti professioni sportive per le quali in realtà non avevo talento. Attorno ai quindici anni vidi Wall Street, il film di Oliver Stone. Il pippone moralista del finale restaurativo, col giovane analista che denuncia se stesso e l’avido finanziere, non scalfì nemmeno un poco la meraviglia per lo stile estremo di quelle lucenti, volitive persone, e cominciai a sognare un ruolo di rilievo nell’alta finanza, agente di borsa, broker, magari consulente aziendale o manager. Ero passato dai fumetti al Sole 24 Ore in troppo poco tempo. Erano aspirazioni prosaiche per un picciriddazzo di quindici anni, ma erano gli anni ottanta, appunto, si ragionava così. E il fatto che i sogni fossero gretti e materialistici non toglie che fossero comunque sogni, megalomaniaci e improbabili. Era una questione di immaginario. I ragazzini romantici dell’Ottocento leggevano I dolori del giovane Werther e si tiravano un colpo in testa per amore, a noi era toccato Wall Street e volevamo andare a letto con Daryl Hannah in un loft di Manhattan dopo aver trascorso la giornata a fare milioni con l’insider trading alle spalle della classe 10


operaia. Non c’era molta differenza, a parte il fatto che cinismo e disincanto erano diventati valori. Ci ricasco; proietto sui tempi la mia carenza di virtù morali. Al liceo la professoressa di italiano mi adorava, i miei temi d’attualità vibravano di impegno civile fasullo e aggettivi ricercati, e l’ultimo anno, per la maturità, avevo scoperto il mondo incantato della letteratura inglese, mai toccata prima. Quando pensavo al mio futuro professionale, però, nemmeno per un istante mi vedevo iscritto a Lettere. Avevo trascorso l’infanzia a osservare mia madre in un soggiorno stretto che correggeva accanto alla stufa a gas compiti di italiano scritti con malavoglia dai suoi alunni, o che compilava un noioso registro di classe fino a tarda notte, il tutto per uno stipendio deprimente e nessuna considerazione della società. Mio padre aveva sbattuto la testa per anni contro i sotterfugi e le convenienze della politica universitaria, e quando infine era giunto alla discreta posizione di professore associato di Filologia, mi aveva diffidato dal provare la sua stessa strada. È una porcheria di ambiente, mi ripeteva con aria nauseata. Mio padre era un uomo mite e onesto, oltre che timido, e penso valutasse con orrore la prospettiva di rivivere attraverso me le trafile, i leccaculismi, i veleni e le mute umiliazioni che costituivano il pane quotidiano dei giovani accademici senza protezioni. Con ancor più orrore e vergogna avrebbe del resto accettato di impormi facendo leva sul poco potere di cui era riuscito a disporre. Qualora glielo avessi chiesto non si sarebbe negato, ma avrebbe sofferto. Non glielo chiesi e sono certo che per lui fu un sollievo. A determinarmi nella scelta non fu però l’onestà o l’interesse verso altre discipline. La letteratura faceva per me, è vero; quel che non faceva per me era passare quattro anni a studiare materie inutili. Belle, sì, ma cosa ci potevo fare dopo la laurea? Non un lavoro vero. Ingegneria, medicina e altre discipline scientifiche non erano pane per i miei denti. Rimanevano economia e giurisprudenza. Per sfondare a Wall Street avrei dovuto scegliere la prima, ma 11


nella mia città la facoltà di Giurisprudenza aveva una tradizione importante. Per frequentare un corso di economia con un blasone paragonabile sarei dovuto andare a Milano. Non che la prospettiva mi facesse schifo, a Milano c’erano le modelle, c’era l’alta finanza, c’era tutto quello che un ragazzo di sani appetiti come me potesse desiderare, ma per andarci e godere di quel ben di dio ci volevano i soldi, e noi non ne avevamo tanti. Eravamo buona borghesia, ma buona borghesia strozzata dal mutuo. Dunque Giurisprudenza e quattro anni, poi sei col fuori corso, di studio a memoria. Se vuoi diventare bravo in legge, quello devi fare: studiare a memoria. Prima di tutto per assimilare il linguaggio giuridico, che è un mondo a sé, e poi per imparare gli istituti, la natura giuridica e mille altre cose che sono l’abc del diritto, ma prima di studiare legge manco sai che esistono. La lingua però è fondamentale, tale e quale come andare in un paese straniero. Se dico «l’alienazione realizzatasi in seguito all’incanto», non sto parlando di un’alterazione dello stato mentale dovuta a un incantesimo, ma di una vendita all’asta. Ricordo ancora le prime righe del primo libro di diritto che ho studiato: «È indubbio che la condizione influisce sull’effetto giuridico, costituendo in tal senso una causa d’efficacia. Ma è egualmente indubbio che non ogni causa d’efficacia costituisce una condizione». Uno che attacca un libro con queste parole deve essere un sadico. Se però quel libro te lo fanno studiare come corso introduttivo quando sei una matricola e il titolo è Prolegomeni a una dottrina del diritto e tu non li mandi a quel paese subito, loro saranno pure sadici, ma tu sei masochista. Quel che ti aspettava era chiaro fin dal principio, sono stati onesti, e tu te la sei voluta. Dunque ora studi, a memoria. Ho buttato sei anni della mia vita – della parte migliore della mia vita, avevo vent’anni. Li ho passati immerso in un limbo di semicoscienza, come se vivessi a marce ridotte, senza provare sapori né vedere colori, perché tutto era subordinato a quell’onnipresente studio che mi fotteva l’esistenza. 12


C’era una ragazza, che frequentava i corsi del secondo anno con me. A lezione l’avevo notata appena. Ci incontrammo per caso una sera in un ex stabilimento balneare degli anni sessanta adibito a locale notturno. Mi ci avevano trascinato un paio di amici contro la mia volontà (dovevo studiare). La musica rimbombava sotto la volta a forma di guscio d’aragosta producendo un ritorno metallico. Dopo settimane chiuso nella mia stanza a compitare voluminosi volumi come un monaco medievale chino sul codice da miniare, il rumore e l’affollamento mi davano le vertigini. Era giugno, caldo ma non troppo, la vita scorreva, io andavo incurante in direzione opposta. Mi puntò da lontano, sorridendo mentre si avvicinava. Vestito nero leggero con gonna a balze corta al ginocchio ed espadrillas crema con la zeppa e le fettucce di stoffa che si allacciavano incrociate alla caviglia. Mi salutò con trasporto, io ricambiai con un ingessato «Carissima!». Non ricordavo il suo nome. Mi chiese se il posto mi piaceva e io partii con un insulso pistolotto scacciafighe sul fatto che era un miscuglio strano di architettura da boom economico e Kurt Cobain pompato a volumi. Le note di Smells Like Teen Spirit ci aggredivano. Un velo di sudore le riluceva fra il naso e le labbra rosse. Mi balenò il pensiero che l’interno delle sue cosce doveva essere sudato e scivoloso. Dalla sua espressione era evidente che non aveva idea di cosa stessi parlando, e non le importava. Mi chiese se stavo sotto con diritto privato. Ovvio che stavo sotto con diritto privato, chi non stava sotto con diritto privato nel mio mondo? «Anch’io» disse, sempre guardandomi fisso. «Ripetiamo insieme? La sera, magari.» Le cosce sudate, scivolose. Il petto ansante, caldo contro il mio. Lo sguardo privo di estro, voglioso ma non curioso. Questa, di diritto privato, sicuro non capiva niente. La ringraziai, ma preferivo ripetere da solo: «Sai, sono abituato così». Questo ero io. Non starò ad annoiare con i piccoli fallimenti e successi di una vita qualunque. Basta dire che nel giro di quindici anni mi sono lau13


reato, ho cominciato a lavorare in uno studio legale per un compenso mensile (fatturato) che non si è mai schiodato dal punto di partenza (e devo pure ringraziare perché i giovani avvocati qui neanche li pagano) e ho sposato una brava ragazza che ritenevo sufficientemente portata per la conduzione di una pacata vita familiare medioborghese, tal quale i nostri padri e i padri dei nostri padri prima ancora. L’istinto per la sopravvivenza della specie nel quale mai ho brillato. Un’esistenza che poteva srotolarsi senza scosse fino all’inevitabile consunzione fisica, se non fosse che la vita, prima o poi, vuoi per caso o per disegno, un cambio di programma lo riserva. Il che conduce dritti al vero principio della storia.


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Tornato allo studio dopo un paio di settimane di vacanza al mare. Agosto si perde nelle scaglie di sole sparpagliate sul pavimento dalla serranda ancora abbassata della mia stanza. La tiro su e calo la tenda gialla a pacchetto che rende la luce più pastosa e sopportabile, come in una vecchia polaroid. Due fascicoli rosso lacca ben nutriti mi aspettano sulla scrivania, intonsi da che sono partito. Un impercettibile velo di polvere li ricopre, lo so anche senza guardarli, anche senza passarci sopra le dita. Ora come due settimane fa non ho voglia, li ignoro. Ieri notte c’è stato un terremoto. Breve e leggero come un’onda di nausea. Era l’una, stavo sul balcone a fumare una sigaretta mentre Letizia ed Emanuele dormivano. Io soffro d’insonnia. Si è alzato un vento improvviso, dal nulla, e nel nulla si è spento nel giro di un secondo. La vibrazione l’ho sentita solo alla bocca dello stomaco. Mi sono voltato a guardare il lampadario ma era immobile. Ho pensato di essermi immaginato tutto. Stamattina la conferma me l’ha data internet, con tutti gli sfaccendati che su Facebook chiedevano come va, tutto a posto?, pur sapendo che quella scossa non avrebbe tirato giù nemmeno la torre di Lego di un bambino. Se quel terremoto fosse stato più forte e il balcone si fosse staccato 15


ammazzandomi, sarebbe cambiato qualcosa, qui? Quei fascicoli sulla scrivania chi li avrebbe trattati? Avrei fatto bene, allora, a rimandarli a dopo le vacanze. Sempre rimandare le cose seccanti, finché si può. Purtroppo non sono morto, e tocca sempre a me. Come se non bastasse piove. Gocce grasse e rosse di sabbia. Da due giorni lo scirocco sporca il cielo e ora la polvere viene giù col temporale. Ho fatto bene a non lavare la macchina; lavare la macchina è tempo perso come rifare il letto. In un attimo sei punto e a capo. Il cicalino del telefono suona due volte in rapida successione. Dalla spia lampeggiante so già chi è. Interno 1 chiama interno 4. «Ciao Vittorio» rispondo con tutta la buona volontà che riesco a fingere, ma la voce mi viene fuori crepata. La mia voce è un vaso di coccio venuto male, un vaso modellato da un ceramista dilettante. Maledetto lui, maledetto me. «Bentornato Uolter.» Ogni tanto pronuncia il mio nome all’inglese, non ho ancora capito se è una bonaria presa in giro per rinsaldare con paternalismo la nostra amicizia virile e professionale o una presa in giro e basta. Sempre meglio di quelli che, quando sentono che mi chiamo Walter Chiari, mi chiedono se sono parente e appena dico che no, non lo sono, fanno: «E infatti mi pareva, non gli assomigli proprio, ma allora perché ti chiami Walter Chiari?». Che domanda è? Mi chiamo Walter Chiari perché di cognome faccio Chiari e mio nonno si chiamava Walter, qual è il problema? Oppure quelli che dicono: «Però gli assomigli un sacco, pazzesco, ma sicuro che nemmeno alla lontana?». Non solo non sono un individuo memorabile, non sono nemmeno un individuo, solo la copia scarsa di un altro. «Appena puoi ci vediamo un attimo per fare il punto?» mi chiede Vittorio, sempre al telefono. «Tre minuti e sono da te.» Stavolta il tono volitivo da professionista vincente mi viene come dio comanda. 16


Tre minuti che impiego constatando di non avere messaggi in posta elettronica, mentre su Facebook ho una richiesta d’amicizia da una che si chiama Deirdre. Mi dondolo altri venti secondi sulla poltrona reclinabile in finta pelle e mi decido a scendere al primo piano. Non è un grosso studio, sei avvocati in tutto, distribuiti su due piani, e due segretarie. Ci occupiamo di diritto commerciale e societario, perlopiù, ma in un piccolo centro la specializzazione vale fino a un certo punto: fai quello che ti capita o muori. Busso allo stipite della porta aperta ed entro. La stanza prende luce da una vetrata ampia orientata a levante; ha smesso di piovere e il cielo si apre quel tanto da far sembrare più vivide le cose: la scrivania in palissandro intarsiato è di un marrone più marrone, scintillano le cromature delle targhette sullo schedario d’epoca restaurato, la tintura dei capelli di Vittorio è di un nero che vira quasi al blu. Come faccia un uomo a non provare imbarazzo nel tingersi i capelli va oltre la mia capacità di comprensione. Mi accomodo davanti a lui, che mi chiama ancora Uolter caro e giocherella con un fermacarte di Sheffield a forma di molletta applicandoselo sulle dita e tirandolo via subito dopo, senza tregua. Le mani di quest’uomo rivelano di lui più di quanto non facciano i suoi modi gioviali e costruiti. Mani grandi rispetto al resto del corpo, che è di complessione media. Appaiono forti e un po’ goffe, curate – non sono mani di contadino – ma rozze nel compiere i minimi gesti quotidiani. Quando maneggia denaro contante, per esempio. Vittorio tiene le banconote in tasca senza portafoglio, trattenute da una molla fermasoldi d’oro sormontata da una placca di onice nera degna di un gangster. L’ho visto tirarla fuori e sfilare tagli sproporzionati rispetto alla spesa da compiere, pezzi da 200 per pagare tre caffè. Li stropiccia con quelle manone come se non fosse abituato e non sapesse bene come si fa. Senza ostentazione però e pure senza il riguardo che i più metterebbero nella stessa operazione. Questo mi piace, tratta il denaro per quella cosa vile che è, con un distacco ruvido che sconfina nel suo opposto, un eccesso 17


di confidenza. Lo usa e non gliene frega niente perché lo ha sempre avuto e sempre ne avrà. Le sue mani sono arroganti e schiette. La voce al contrario è sorvegliata. Anni di pratica in questo mestiere ipocrita lo hanno abituato a dissimulare emozioni e intenti. Doveva essere diverso, da ragazzo, più noncurante, più piacevole. Ora si tinge i capelli. Mi chiede delle vacanze al mare, della mia famiglia, della casetta sulla riviera di ponente di Milazzo – in realtà un buco di appartamento, però vicino alla spiaggia. Ogni anno, puntualmente, Vittorio confessa di invidiarmi. Mente, è ovvio, se volesse potrebbe comprarsene dieci, di casette a Milazzo, ma trova più confortevole il casale in Toscana che ha acquistato tre anni fa, completo di piscina (non ne parla e io fingo di non saperlo, ma una copia del rogito me l’ha mostrata la segretaria indispettita perché le ha negato un aumentino parlando di crisi e congiuntura, «Sai, Liliana, vorrei tanto ma è un momento difficile…», facendola incazzare: «Hai capito la congiuntura? Quattro milioni di euro per il casale però li ha trovati!»). Gli parlo del mare, sempre caldo lì a Milazzo, e di ristoranti a buon mercato, poi della settimana trascorsa a Londra e di Emanuele che a soli tre anni ha già imparato i giorni della settimana in inglese. «Ottimo, ottimo» fa lui. «Dove vuoi andare oggi se non sai l’inglese, quel ragazzino farà strada, te lo dico io.» Poi corruccia il viso in un’espressione intenta e mi chiede da quanto tempo ci conosciamo. Sono più di dieci anni, ormai, quasi dodici. Annuisce: «E la costanza e la qualità del tuo lavoro non sono mai venute meno. Meriteresti di più, se non fosse che il mondo va alla rovescia». Il ritmo con cui si tormenta le dita pinzandole col fermacarte aumenta. Qui qualcosa non torna. Parte l’aneddoto professionale sul suo vecchio maestro, un importante avvocato ancora in attività, ormai mummificato nel suo studio – i vecchi avvocati, ho scoperto, non vanno in pensione e forse nemmeno muoiono, solo diradano l’attività di udienza –, molto noto per 18


la sua mole d’affari e ancor di più per il pessimo carattere (ciò che per le altre persone è un difetto, nel nostro mestiere viene spesso giudicato una risorsa). Fisicamente assomiglia a Jabba the Hutt con gli occhiali da sole, e anche solo per questo non gli affiderei nemmeno l’amministrazione di un condominio, però va ancora a gonfie vele. L’aneddoto l’ho già sentito una ventina di volte, ma mi guardo bene dal farglielo notare. In un’imprecisata Età dell’oro dell’avvocatura, nella quale i liberi professionisti avevano status e potere ed erano temuti e riveriti dai clienti, che, oltre a ricoprirli di doni e strenne a ogni festa comandata, pagavano le loro parcelle senza battere mai ciglio e con assoluta puntualità, un ricchissimo assistito dell’avvocato Marrazzo – così si chiama il maestro di Vittorio – gli si presentò con un problema ereditario. Prima di scendere nei particolari e senza che l’avvocato avesse chiesto nulla, il cliente firmò un assegno di cinquanta milioni a titolo di acconto e glielo consegnò. Poi espose la questione: una vecchia zia ricca sfondata nel testamento gli aveva preferito un altro nipote, ordinaria amministrazione. Esaurito l’incontro, i due si stavano quasi per salutare quando il cliente, incauto, gli raccomandò: «Avvocato, però questa la deve fare lei, eh? No che la mette in mano a qualche ragazzino di studio. Le mie cose solo lei le deve fare». L’uso insistito del verbo dovere, per giunta all’imperativo, non fece piacere all’avvocato Marrazzo. Il che egli rappresentò al cliente strappandogli l’assegno in faccia e cacciandolo a calci nel sedere dallo studio (e a quanto sostiene Vittorio l’espressione «a calci nel sedere» non è un semplice modo di dire). «Hai capito?» insiste. «Cinquanta milioni gli ha strappato, e per quei tempi erano soldi. Tutto per una questione di principio, un puntiglio.» E poi pensieroso aggiunge: «Oggi non si può più». «No, non si può più» confermo io. Dopo l’aneddoto parte la tirata, anche quella ben nota. Oggi comanda il cliente, decide lui se, quanto e quando pagare. Siamo politicamente deboli e poco importa che sia avvocato un parlamentare su 19


due, perché la nostra categoria è affollata di piccoli sciacalli senza deontologia né senso corporativo. I clienti piccoli non hanno una lira, quelli grossi ci impongono parcelle al 10 o al 20 per cento. Così non si può più andare avanti. «No, in effetti no» faccio io, grave nel tono e nell’espressione (non sarebbe necessario, ma mi sono accorto che a Vittorio piace il coro). La sua bocca si aggriccia in una smorfia di dolore, come avesse una botta secca di gastrite, e sibila il gran finale sulla perdita di qualità. La qualità nel nostro lavoro non esiste più, perché non importa a nessuno. Per i clienti veri, quelli seriali, quelli che fanno gli studi legali – le banche, le assicurazioni, gli enti pubblici – rappresentiamo solo una voce di bilancio da far quadrare con le altre: spese legali. Vincere o perdere le cause non frega niente. Le banche, i crediti problematici li cedono, non li mandano più a contenzioso, preferiscono realizzare subito un decimo del valore che aspettare dieci anni di causa, per cui non hanno bisogno di avvocati bravi, gli bastano scribacchini a buon mercato. È uno schifo. «Tutto uno schifo» faccio eco ancora. E lui mi brucia: «Ma veniamo a noi». Stringe gli occhi, mi scruta l’anima, che deve avere individuato in un punto preciso all’altezza del mio sterno. Si alza, fa il giro della scrivania e si siede sulla poltrona vicino alla mia. «Dio solo sa quanto mi costa dirti queste parole.» Mente, sta mentendo, maledetto bugiardo, lo capisco quando mente. «Ma non posso più rimandare, ho aspettato settembre per non rovinarti l’estate ma ora devo dirtelo per forza.» Il vuoto mi si apre sotto la sedia, come una botola sul palcoscenico di un prestigiatore di provincia. Mi inghiotte. Ci tiene a precisare che la stima è invariata. Il mio lavoro è ottimo, anzi il problema è proprio questo: sono troppo bravo e non può pagarmi di meno, solo che la bravura non serve più. Quello che serve adesso può farlo anche un praticante a 300 euro al mese. A me bastano 300 euro? No che non mi bastano, e dunque il finale della recita 20


si scrive da sé. Credo mi stringa il braccio con forza, ma a questo punto ogni mia percezione sensoriale è alterata e non ne sono sicuro. È come se fossi entrato nel corpo di un altro e lo vestissi come uno scafandro. Anche la mia mente sembra appartenere a un altro, non la controllo più, o meglio la controllo con una sfasatura di qualche decimo, come con il telecomando della tv satellitare. Vittorio mi elargisce un’ultima perla esperienziale. «Nella nostra professione» dice «ci sono tre fasi. La prima in cui lavori per gli altri, la mediana in cui lavori per te stesso e l’ultima quando sono gli altri a lavorare per te.» Mi invita a considerare questo come un momento di crescita, il passaggio alla maturità. Adesso devo lavorare per me, contare su di me e godere interamente dei frutti del mio lavoro: sono io il mio capo. Ma io chi? Mentre esco il mio ormai ex boss si premura di precisare che non c’è nessuna fretta, mica gli serve la scrivania, posso prendermi tutto il tempo, organizzarmi il lavoro da qua, tanto almeno fino a gennaio non prende nessuno. Chi, del resto, potrebbe sostituire la mia costanza e la mia qualità? Non sarà una vera sostituzione – anche questo ci tiene a dire quando ormai gli volto le spalle –, ma un rimpiazzo. E si fotta chi non coglie la differenza. Non so nemmeno come sono arrivato nella mia stanza, non ricordo di avere percorso corridoi o visto segretarie, non ricordo il tragitto o le scale. So che un secondo fa ero davanti a Vittorio e avevo un lavoro e dunque una dignità, un’esistenza, mentre ora, solo un secondo dopo, sono seduto a una scrivania che già esito a definire mia (per quanto ancora, una settimana, un mese?), guardo nel vuoto dello schermo del computer e misuro ciò che rimane di me, come chi si tocca il corpo dopo essere stato investito per sincerarsi di cosa è rotto e cosa no, dov’è contuso e dove escoriato. Passo una mano sul volto. È uguale a prima, eppure diverso, è la faccia di un altro. Respiro e chiudo gli occhi cercando di ritrovare il battito del cuore. Non lo sento. Li riapro nel rosso lacca dei fascicoli 21


in attesa sulla scrivania. Li spingo oltre il bordo con un gesto lento della mano, il tonfo è meno drammatico di quanto vorrei, l’elastico regge e nemmeno un documento si sparpaglia sul pavimento. Il gesto ha influito solo sul mouse del computer che ha interrotto il loop del salvaschermo. L’orologio in basso a destra dice 10.41. Sono seduto qui da un’ora e mi sembravano pochi minuti. Devo reagire e razionalizzare. Posso farlo. Devo farlo per forza. Allora. C’è il mutuo della casa, innanzitutto, 1143 euro al mese. Poi la rata della Golf che ancora non ho finito di pagare, e sono altri 350, contratto del telefonino 50 euro, televisione via cavo 36 euro, metti una media di bollette bimestrali acqua luce gas telefono fisso di 400-500 euro, che fanno altri 200-250 al mese. Siamo a settembre, c’è il contributo minimo trimestrale della cassa previdenza avvocati: 850 euro. Siamo a 2679 euro. Più l’asilo di Emanuele 300 e il cibo e le spese impreviste e le scemenze come ristoranti e cinema. Ce ne vogliono almeno altri 1000. Fanno 3700, e solo per non affogare. I miei clienti personali sono pochi e tutti piccoli, non ho flussi, solo incassi saltuari. Metti che riesco a fare anche 500, 600 al mese (e non ci riesco), dove devo andare? Soprattutto ora che avrò nuove spese per pagare l’affitto di uno studio mio. Anche a dividerlo con altri, meno di 500 non pagherò, quindi quello che forse posso guadagnare se ne va dritto in spese vive. Letizia contribuisce, chiaro, ma la supplenza quest’anno, con la contrazione delle classi e dei posti per il sostegno, tarda ad arrivare, sempre ammesso che la prenda, e perciò siamo daccapo a dodici. In banca ho meno di 6000 euro e ancora deve arrivare l’addebito della Visa che con le vacanze e tutto sarà una botta. Il mio limite di scoperto su conto è 10 000. Diciamo che ho quattro mesi di tempo prima di finire a gambe all’aria. E così come sto, senza la collaborazione con Vittorio, a gambe all’aria ci finisco sicuro. Non ho mai fatto politica, non sono massone, non ho parenti vescovi e nemmeno preti. Metà dei miei amici fa il mio stesso lavoro e 22


pure due miei cugini. Dove li trovo i clienti? Non fra i parenti, non fra gli amici, non con lo scambio di favori perché non ho nulla da scambiare. Ho quasi quarant’anni e nessuno che mi debba un favore. Cosa ho sbagliato? Dove ho buttato gli anni migliori della mia vita, quelli in cui, come diceva mia nonna, dovevo farmi avanti? Torno a fissare il video. La pagina di Facebook è ancora aperta e adesso ci sono tre notifiche e un messaggio. Clicco sull’icona del mondo e il menu a tendina viene giù. C’è un invito del mio amico Pino a cliccare «Mi piace» sulla pagina no muos – una roba di attivisti contro una base militare americana, a quanto capisco –, lo accontento (per quanto me ne frega) e passo avanti. Poi c’è un nuovo post di un gruppo di grafomani appassionati di cinema che se sapevo che erano così grafomani non mi ci iscrivevo. Segnala una vecchia intervista di Antonioni, «I film che non ho girato». Già non mi interessano quelli che ha girato, figurarsi gli altri. La terza notifica è mia moglie che ha commentato una frase che io ho condiviso ieri dallo status di Pino, che a sua volta l’ha presa da Beckett. In questo momento possono bruciare all’inferno la frase, Pino, Beckett e i nostri commenti. Il messaggio invece è di Deirdre, la sconosciuta che mi ha chiesto l’amicizia. Eddaiiiiii che non te ne penti… Questa è una zoccola, lo si capisce dai puntini di sospensione. Mi soffermo a biasimare i miei preconcetti maschilisti, poi ripenso: zoccola. Apro la sua pagina e trovo in primo piano uno scatto di David LaChapelle: Drew Barrymore che scopre un seno con il capezzolo rosso sangue distesa in mezzo a decine di mezzi pompelmi sormontati da ciliegie rosse. Il che conferma ancora una volta la prima impressione: zoccola. Per sicurezza controllo gli album di foto. Ce ne sono tre. Il primo si intitola Io me e Deirdre; il secondo Visioni, il terzo Cani. Io me e Deirdre contiene novecento e passa foto. Sembrano quasi tutti autoscatti, la maggior parte presa dalla fotocamera integrata del computer. Deirdre passa molto tempo a casa e si annoia, pare. Un volto scavato e attraente, 23


non giovanissimo, grandi occhi azzurri scintillano alla luce artificiale dello schermo. In molte foto ha addosso soltanto lingerie nera, in un gioco di ombre e luci che mette in risalto il décolleté. Seni grandi, un po’ pesanti e, si intuisce, ben disegnati. Anche in quelle più spinte, Deirdre non appare mai meno che coperta, ma in quasi tutte è provocante. Suggerisce senza dire. Tiene le braccia dietro la schiena, come se fosse legata, oppure incrociate sul seno, quasi non avesse niente sotto e dovesse coprirsi. Ammicca, stuzzica i commenti adoranti del suo piccolo pubblico di amici onanisti, quasi tutti maschi. Si diverte così. La immagino vivere da sola in un appartamento disordinato; fa un lavoro che la tiene molto a casa, come la traduttrice o la sarta. La immagino che si trucca con cura davanti allo specchio del bagno, ombretto scuro agli occhi, e poi indossa biancheria intima pulita e si piazza davanti al computer a immortalare pose nuove, quasi tutte simili ma diverse nei dettagli. Dev’essere una che fa caso ai dettagli, dev’essere un’intellettuale. L’album Visioni è pieno di nudi d’autore in foto o su dipinti. Opere classiche e arte concettuale, impressionisti mischiati al Bauhaus mischiato a Helmut Newton e in mezzo qualche altro scatto personale di Deirdre: porzioni ravvicinatissime di pelle e parti del corpo inquadrate in modo da suggerire all’osservatore di trovarsi davanti a soggetti osceni, che sono in realtà tutt’altro. Palmi uniti che sembrano culi, dita intrecciate che sembrano pubi depilati e via così. L’album Cani contiene foto di cani. Con Deirdre ho sei amici in comune, quattro colleghi e due che manco mi ricordo chi sono. Accetto la sua amicizia e mi scollego, ritornando di colpo alla realtà. Oggi la realtà è un cane idrofobo e tormentato, mi azzanna la gamba, straccia i pantaloni, affonda i canini nella carne. Non molla. Cosa vuoi, cane, che vuoi da me? Guarda che ti chiudo nell’album di Deirdre… Ma che accidenti dico, di che parlo mentre la mia vita ha già cominciato a decomporsi? Che poi è naturale, più sei nei guai, più ti vuoi distrarre, perché sai già che non ti salverà nemmeno un atto di estrema concentrazio24


ne. Come i fumatori ai quali viene mostrato un polmone malato e annerito dal fumo. La visione è talmente brutta da comunicare irreparabilità e dunque chi la vede non smette di fumare, tanto sarebbe inutile. Se invece sui pacchetti di sigarette scrivi che il fumo provoca una minchiata come il precoce invecchiamento della pelle, la gente si dice «A questo posso rimediare» e si impegna di più. Chi lo diceva, poi, che il suicidio è un atto di estrema concentrazione, Woody Allen? O forse parlava della masturbazione? Le 11.15, adesso, e non ho ancora concluso niente; non che importi, ormai, perché qui non ho più nulla da concludere; ci ha già pensato qualcun altro a chiudere con me. E io non so che fare, non solo in senso generale, esistenziale, proprio non so che fare nei prossimi minuti, nelle prossime ore. Non voglio nemmeno pensare ai giorni. Il pensiero di chiamare Letizia mi sfiora e subito lo accantono. Ho bisogno di muovermi. Avverto la segretaria che vado in tribunale, casomai dovesse cercarmi qualcuno, cosa che non accadrà. Al portone mi accorgo che piove ancora, ma non mi va di tornar su a prendere l’ombrello e allora aspetto sotto la pensilina in vetro e ferro battuto art nouveau, tanto il cielo si sta aprendo. Al civico successivo c’è un negozio di tatuaggi. La tatuatrice fuma una sigaretta, anche lei sulla soglia, mi guarda a lungo, senza un filo di imbarazzo. Mi guarda spesso questa signorina tatuatrice, bella e prevedibile. Ha anelli e pallette d’acciaio appesi in vari punti del viso e del corpo e un taglio di capelli sghembo, la frangia le scende obliqua sulla fronte, l’orecchio sinistro a vista e quello destro coperto da un mezzo caschetto color mirtillo. Veste sempre jeans neri a fasciare le gambe troppo magre e canottiere o magliette dei Motörhead con le maniche tagliate sulle braccia dipinte. Ha tatuaggi di colori vivaci ben battuti, fitti dai polsi alle spalle e fino al collo minacciato da un disegno di lame o artigli o punte aguzze di una cancellata, non so bene, ma evito di osservarla con troppa intensità perché mi mette a disagio. Lei invece non si sente a disagio per niente e mi punta 25


addosso gli occhi scuri. Mi guarda passarle davanti mentre vado e vengo, due volte su tre è fuori che guarda e si capisce che lo fa come se stesse al rettilario di uno zoo e la visitatrice fosse lei e io l’iguana, il che immagino è l’esatto contrario di quello che dovrebbe accadere. Mi butto in strada prima che spiova e le gocce pesanti, sempre più rade, mi picchiettano sulla testa e bagnano le spalle. Dallo studio all’ingresso principale del palazzo di giustizia ci sono cinquecento metri. Li percorro a testa bassa, riparandomi sotto i platani che punteggiano il marciapiede. Un manifesto rosso e nero di X-Factor occhieggia dall’altra parte della strada, la grossa X mi ipnotizza mentre attraverso, ma vengo riscosso da uno stridio di freni sull’asfalto. Il cofano squadrato nero di una Dodge si ferma a un metro da me, la testa d’ariete del marchio sul radiatore mi punta. L’automobilista impreca e io bestemmio di rimando. Ci mancava solo di essere investito da ’sto carro funebre. L’adrenalina del pericolo accelera il battito, aumenta la frenesia di movimento. Percorro quasi di corsa il piazzale e faccio a tre a tre i gradini della scalinata su cui aggetta la quadriga di Minerva, rampante dal terrazzo dell’edificio. Non si sa bene se solcherà i cieli o rovinerà giù schiacciando l’autopattuglia di servizio all’entrata. Mi infilo dall’ingresso avvocati e striscio la tessera magnetica, ma il tornello non si abbassa. Riprovo. Niente. Di nuovo. Zero. L’agente di servizio alla porta mi scruta come fossi un calabrone che picchia contro una lampadina. Al quarto tentativo si accende la lucina verde. Attraverso l’atrio e imbocco il corridoio di sinistra, in apparenza diretto verso aule e cancellerie civili, ma in realtà non ho una meta né uno scopo; oggi il consueto ha lasciato posto a una macchia entropica di grigio. Però cammino svelto come se sapessi dove andare, giro ancora a sinistra verso la sezione fallimentare salvo poi tornare sui miei passi e infilarmi nell’aula delle esecuzioni immobiliari. Fingo di consultare il ruolo delle procedure, un mazzo di fogli appeso alla porta, poi aggiro il lungo tavolo di faggio chiaro antistante lo scranno del giudice e mi avvio alle scale 26


dietro la camera di consiglio. Al primo piano attraverso la seconda sezione civile, in fondo al corridoio un manipolo di avvocati con i loro clienti torvi, equamente suddivisi per sesso, attende di comparire davanti al presidente del tribunale per la separazione. Ex mariti ed ex mogli col loro bagaglio di rancori, violenza e depressione tutto scritto in faccia, tradimento per tradimento, umiliazione per umiliazione, sputo per sputo. Esco sul terrazzo che collega il tribunale alla corte d’appello. Avvocati che fumano guardano altri avvocati passare. Quelli che fumano sono maschi sopra i cinquanta con giacche a quadri stretti o pied de poule e giovani donne, penaliste e carine. I penalisti fumano più dei civilisti, sia donne che uomini, sia tristi figuri con giacche antiquate, sia giovani fighe azzimate in completi Chanel. Sarà lo stress per l’attesa delle camere di consiglio, non so. Le penaliste sono più carine delle civiliste, anche qui non so dire perché, forse si curano di più perché il processo penale è più formale, toghe e tutto il resto, va’ a sapere. Ritorno al coperto e svolto nel corridoio della corte d’appello dove incrocio Sante Recupero, che mi stringe il braccio e mi chiama collega, Possodirtiunaparolacollega? Detesto essere chiamato collega, questo modo ipocrita di rivolgersi. Collega. Ma collega di che, come si permettono? Collega di uno che magari si è laureato l’altroieri, si atteggia come se lavorasse quattordici ore al giorno in uno studio d’affari di Milano (e poi lo becchi a ciondolare al bar già a metà mattina) e mi chiama così per legittimare se stesso, offuscato dall’arroganza dei giovani che gli impedisce di accorgersi quanto quella parola mi offenda, in bocca a lui? Oppure collega di un vecchio squalo che con la moneta falsa della sua confidenza cerca solo di mettermelo in quel posto? Sante Recupero non è più vecchio né più giovane di me, abbiamo sostenuto insieme l’esame di abilitazione dodici anni fa. Ha copiato i compiti, tutti e tre, ma non è questo a infastidirmi quando mi dice «collega». Sante è quello che io ho sempre cercato di non diventare nell’esercizio della professione. O 27


forse quello che non ho la stoffa per diventare. Ha cominciato nello studio di un avvocato che è morto dopo pochi anni; lui gli è subentrato, si dice, falsificando l’atto di costituzione di associazione professionale. Alla vedova e ai figli non è rimasto nemmeno l’immobile in cui aveva sede lo studio. Poi ha fatto rapidamente carriera come difensore di vari enti pubblici i cui incarichi gli vengono assegnati perché è molto intimo di sindaci, presidenti della provincia e vari membri dell’assemblea regionale; intimità, stando ancora ai si dice, che cela incroci ricattatori di varia matrice, dal sesso alle mazzette (secondo alcuni la madre di Recupero era tenutaria di un bordello d’élite frequentato dal gotha politico della città, per altri suo padre era a capo di una sezione del Sismi). Mi trattiene ancora per la manica, anzi mi prende proprio a braccetto, accompagnando il mio movimento con la sua camminata molle. Ha gambe lunghe da cestista, prive di grazia, che usa piegando molto le ginocchia a ogni passo. Per camminarmi accanto e parlarmi all’orecchio, a me che sono venti centimetri più basso, mi si accoccola sulla spalla. Mi avvolge, mi sfiora, e intanto sussurra e sorride mellifluo. Mi chiede, caro collega, se c’è ancora spazio per una transazione sulla vicenda del consorzio autostrade. La faccia di bronzo di quest’uomo non conosce confini. È un giudizio nel quale difendo un subappaltatore di lavori svolti sull’autostrada Messina-Palermo. Solita storia, il subappaltatore svolge i lavori ma l’ente che gli ha dato l’appalto non paga secondo gli stati d’avanzamento. Il subappaltatore chiede i soldi alla consortile che gestisce l’appalto, che non li ha, poi li chiede all’ente appaltante, che dice di averli pagati alla società capogruppo fra quelle che costituiscono la consortile, infine si scopre che tutte queste società sono scatole vuote dentro cui i fondi spariscono come per magia. Dopo anni sono riuscito a ottenere la condanna del consorzio autostrade a risarcire il mio cliente per aver pagato senza curarsi di dove finivano i soldi. Sante Recupero difende il consorzio e, dopo essersi fatto negare più volte al telefono quando ero io a 28


chiedergli un accordo, vorrebbe transigere adesso, con un provvedimento esecutivo del giudice sul groppone. Ovvio che per me può morire. Il suo sorriso da barracuda scopre denti gialli e aguzzi, la chiostra intramata di fili di saliva densi come ragnatele. Mi rivela, solo perché sono io eh, che il consorzio ha già deciso di impugnare il provvedimento – io sorrido e penso massone raccomandato devi morire –, dice che il consorzio è sull’orlo del commissariamento, mi raccomanda massima riservatezza – io sorrido e penso leccapiedi politicante da due soldi devi morire –, e conclude che è meglio per tutti chiuderla subito con un accordo a saldo e stralcio, magari al 50 per cento che sennò il mio cliente i soldi rischia di vederli forse fra dieci anni – io sorrido e penso corruttore infame arrivista ricattatore devi morire. Al termine della sua perorazione, gli dico di formalizzare un’offerta che sottoporrò al cliente, ma non posso promettere nulla perché è molto determinato e arrabbiato. Mi stringe ancora il braccio e dice che confida in me – bugiardo millantatore porco devi morire – e infine mi ricorda che si presenterà alle elezioni del nuovo consiglio dell’ordine e, neanche a dirlo quasi si vergogna, conta sul mio voto. Alzo le sopracciglia, gli stringo la mano e continuo il mio pensoso girovagare. Devi morire devi morire devi morire.

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