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LA CITTA’ CHE NON TI ASPETTI Web magazine n°3 anno 2014
HIPPOLYTE, IL MIRACOLO CENTRAFRICANO La storia che ha fatto commuovere una città, Savona ora è più vicina all'Africa di ALESSANDRA ARPI e IRENE SALINAS
Hippoliyte, che ora è tornato a casa dalla sua famiglia, prima del viaggio in Italia
Una mano dopo l'altra, i palmi ben aperti sulla polvere e il terriccio del pavimento. Con un colpo di reni il corpo, dalla propria posizione eretta, si capovolge, il peso grava tutto sui polsi. Il busto va ad assestarsi lungo la parete, i lombi si appoggiano al muro. Il sangue, "confuso" dalla gravità, inizia ad accumularsi nei vasi della testa. Gli occhi, neri e profondi, guardano la stanza da un'altra prospettiva. Hippolyte rimane così, in verticale, per circa
un'ora. "Piéds à mur", in francese. Ma non sta eseguendo un esercizio di ginnastica, né è un militare in addestramento. Hippolyte ha dodici anni e il pavimento sul quale poggiano i suoi palmi è quello della scuola che frequenta. La verticale è la punizione del maestro per essersi distratto, durante la lezione, a guardare alcuni ragazzi giocare a pallone fuori dalla finestra. Per quei lunghi sessanta minuti Hippolyte resiste, stoico, guarda il mondo al contrario stremato
2 dalla fatica. Poi i polsi non reggono più, la vista si annebbia, il corpo si accascia per tornare in una posizione confortevole. Ma cade scomposto, con movimenti innaturali. Due vertebre si stirano e il giorno dopo, a scuola, Hippolyte si accorge di perdere la sensibilità alle gambe. E' così che inizia la sua odissea, quella che lo porterà a Savona. E' il 2010 e il villaggio dove Hippolyte ha ricevuto la propria condanna alla sedia a rotelle si chiama Bozoum, in Repubblica Centrafricana, a quattrocento km dalla capitale Bangui.
Hippolyte dorme per terra su una stuoia, nella sua capanna costruita un po' con i mattoni un po' con le frasche del cuore dell'Africa. Da quando non sente più le gambe si trascina ovunque, sulla schiena, sui glutei. Si muove come può, continua la sua vita seppur con un ostacolo in più. Non si rende conto, o forse per necessità non può permettersi di curarsene, che il movimento innaturale sta formando una profonda ferita all'altezza del coccige. La ferita si trasforma presto in una piaga, alimentata dal continuo sfregamento e dalle condizioni igienico-sanitarie molto scarse. La piccola schiena e i lombi di Hippolyte sono, dopo
poco, lacerati da una ferita lunga dieci centimetri e profonda cinque. Ed è qui che entrano in gioco i primi soccorsi, professionali seppur rudimentali a causa delle poche disponibilità di materiale medico del territorio. Le mani amorevoli che provano a medicare la ferita di Hippolyte sono quelle delle Suore Francescane del Verbo Incarnato, missionarie a Bozoum, nel dispensario medico del villaggio. Suor Graziana, suor Rosa, suor Sira e suor Chiara hanno prestato tutte le cure possibili, ma impedire alle gravi infezioni di diffondersi è impossibile. In fretta pus e batteri distruggono due vertebre lombari, parecchio tessuto muscolare dei glutei e gran parte dell'osso sacro. Anche Padre Aurelio Gazzera, missionario e parroco di Bozoum, prende a cuore la storia di Hippolyte, che inizia a spostarsi, di bocca in bocca, ognuno è disposto a fare il possibile per salvare la vita al ragazzo. Padre Davide Sollami, responsabile dei Carmelitani Scalzi di Arenzano e relativa Procura delle Missioni, inizia a mobilitarsi per fornire cure adeguate a Hippolyte. Intanto lui non può stare seduto più di pochi minuti, è costretto a passare gran parte del suo tempo a pancia in giù, le condizioni della piaga peggiorano. Orfano di padre, con sei fratelli, viene accompagnato dalla madre all'ospedale di Bimbo, a pochi passi dalla capitale, per lunghe e complicate medicazioni. Anche la dottoressa Ione Bertocchi, da più di trent'anni volontaria in Centrafrica, si prende cura di lui. Intanto Hippolyte sopporta, stoico e tenace, le ore in ambulatorio, i viaggi estenuanti, l'incertezza del futuro. Non perde il sorriso sereno, la voglia di giocare, di connettere cavi e costruire, le sue grandi passioni. Continua ad andare a scuola,
studia, comincia anche ad imparare l'italiano. Ma non c'è niente da fare, questi tipi di cure sono solo temporanei, per poter arrestare definitivamente l'infezione e dare una speranza a Hippolyte il viaggio della salvezza, in Italia, è necessario. DAL CUORE DELL'AFRICA ALLE MANI DELLE VOLONTARIE SAVONESI E' qui che, seppur da lontano, le strade di Hippolyte e Marta Ubaldi e Alessandra Tartari, savonesi, vengono prese in mano dal destino e incrociate saldamente. Alessandra studia psicologia, Marta giurisprudenza. Sorelle, più che cugine. Poco più che ventenni decidono
di dedicarsi agli altri, di dare più che di ricevere. Negli occhi un sogno, chiamato Centro Africa, e nessun dubbio. Sarebbero partite insieme, appoggiandosi ai missionari Carmelitani Scalzi. Per mano come nella vita, avrebbero raggiunto quel paese ricco solo di sorrisi e danze, per aiutare. Non importava come. È il 2012. Alessandra e Marta fanno i documenti, comprano i biglietti, aspettano l'agosto. Poi un pomeriggio, un po' per caso un po' perché ci sono destini scritti, vedono un servizio alla trasmissione "Mediterraneo". C'è un bambino al di là dello schermo, un piccolo scricciolo nero come la pece che non riesce a camminare. Hippolyte. Le due ragazze restano immobili
4 davanti a quel rettangolo che spara colori di savana e miseria, pensano che tra poco, nella Repubblica Centrafricana, ci saranno anche loro. Fissano le immagini, si dicono che di bambini così ne incontreranno tanti. Senza sapere che, invece, incontreranno proprio lui. DESTINO, CASO, MA MARTA E ALESSANDRA INCROCIANO LO SGUARDO DI HIPPOLYTE «Non appena arrivate, restammo una decina di giorni nel seminario di Bouar -spiega Alessandra- poi ci spostammo a Bozoum, dove avremmo prestato servizio al dispensario medico come "aiutanti" della Suora infermiera. Chi avrebbe mai potuto immaginare che quella era la cittadina di Hippolyte? Se ce lo avessero detto, non ci avremmo mai creduto. La Repubblica Centrafricana è immensa, ma noi finimmo proprio lì». Le parole di Alessandra tremano, gli occhi scuri esplodono. Porta addosso l'Africa, ce l'ha tatuata come a voler dire "è sotto la mia pelle per sempre". «Una mattina, inaspettatamente, tra i pazienti che venivano a farsi medicare è arrivato proprio lui, Hippolyte, accompagnato dalla sorella. Un tuffo al cuore, lo abbiamo riconosciuto subito. Io e Marta siamo rimaste stupite, incredule, felici, emozionate. Mille sensazioni in un solo sguardo». E restano, quelle emozioni, anche a migliaia di km di distanza, anche davanti a un caffè, di quelli che a Bozoum mica ci sono. «Sono bastate poche parole per avere la conferma dell'idea che ci eravamo fatte guardando quel servizio, mesi prima -aggiunge Marta- Hippolyte è timido ed intelligente, affronta con serenità e tenacia la propria situazione, senza mai lamentarsi.
Marta e Alessandra, con la dottoressa Ione Bertocchi, insieme ad un sorridente Hippolyte in ospedale
Incontrarlo è stato un regalo, forse più per noi che per lui». Non servono altre parole, non ce n'è bisogno. Le mani scure di Hippolyte si appoggiano a quelle bianche delle due ragazze. Non possono ancora saperlo, ma sono destinate a non lasciarsi più, a stringersi sempre più forte. «L'energia che è riuscito a trasmetterci ha fatto nascere in noi il desiderio di poter fare qualcosa di concreto per lui -racconta commossa Alessandra- così una volta rientrate in Italia abbiamo contattato Padre Aurelio, Padre Davide ed altri volontari e, insieme, si è deciso di dare inizio al progetto che avrebbe potuto migliorare la qualità della vita di Hippolyte». Un progetto che si chiama Italia. Che prevede cure adeguate, operazioni costose, una convalescenza lenta. Probabilmente Hyppolite non avrebbe ripreso a camminare, ma sarebbe sopravvissuto all'infezione che lo stava divorando, come una bestia nascosta. Ed ecco che, come per magia, gli anelli che mancano a quella catena di speranza arrivano. «Il dottor Maurizio Pianella e la moglie Concetta Nicotra, volontari presso l'ambulatorio
dentistico di Bozoum, ci hanno messi in contatto con il presidente della Fondazione Probone di Bologna, il dottor Alessandro Gasbarrini, chirurgo ortopedico. Lui accettò. Ci disse che avrebbe operato Hippolyte, ma fece di più. La fondazione si sarebbe fatta carico delle spese riguardanti l'operazione e la degenza post operatoria presso la Casa di cura Madre Fortunata Toniolo». Dopo quella conversazione, le ragazze possono finalmente liberare il fiato che a lungo avevano trattenuto. La gioia attraversa il mare, due continenti, e arriva nella scuola di Bozoum. Lì, tra quei banchi improvvisati, padre Aurelio dà la notizia a Hippolyte. "Andrai in Italia, Piccolo. Sarai operato, starai meglio". C'è un video in francese che racconta quel momento. Gli occhi neri di Hippolyte che si fanno lucidi quell'urlo contenuto, perché lui è un ragazzino estremamente educato. Ma questa, come tutte le storie che meritano di
essere raccontate, è fatta di fatica e difficoltà. In Italia Alessandra e Marta, preparano i documenti per Hippolyte. Ma è un calvario burocratico che solo la tenacia può vincere. Siamo a marzo del 2013 e nella Repubblica Centrafricana scoppia la guerra civile. Il passaporto arriverà solo nell'estate, il visto di 120 giorni a novembre. Le carte ci sono, ma Hyppolite non riesce a salire su quell'aereo. Le strade che collegano Bozoum alla capitale sono pericolose, i ribelli sparano proiettili di ferocia e pazzia. Che uccidono. Il viaggio viene rimandato 3 volte, lui arriverà l'8 febbraio del 2014. Insieme a quell'infezione che nel frattempo corre al posto suo. «Quattro giorni dopo l'arrivo in Italia, Hippolyte è entrato in sala operatoria -racconta commossa Marta- un'operazione che è durata tre ore, eseguita nella clinica Rizzoli di Bologna dal dottor Alessandro Gasbarrini, con il Dottor Riccardo Ghermandi, chirurgo ortopedico, e la Dottoressa Franca Montanari, chirurgo plastico. La situazione era più critica di quanto pensavamo. Quella maledetta piaga era grande, l'infezione aveva raggiunto il sangue, ma il nostro ragazzo era più forte». "Fosse stato un europeo, sarebbe morto" avevano detto i medici. Ma Hippolyte ha l'Africa nelle vene. Il 20 febbraio viene dimesso. Nessuna convalescenza in una struttura, serve una casa. Non ci sono dubbi. È quella di Alessandra, dove vive anche Marta, nel cuore di Savona. E così, da una manciata di giorni, Hippolyte è savonese. Fratello, forse un po' figlio, di due ragazze che gli hanno regalato la vita. E lo stringono forte, perché sanno che andrà via. Forse mai davvero. Negli occhi di Hippolyte c'è Hippolyte esplode in un sorriso di gioia appena sempre il nero della sua Africa. Appena starà arrivato all’aereoporto meglio tornerà nella sua Bozoum. Riabbraccerà
6 quella mamma che, al telefono con lui, piange di gioia e si fa raccontare l'Italia. Preoccupata per il suo piccolo come tutte le mamme del mondo. Ora si gode un pezzo "allargato" di famiglia, tutto nuovo, assaggia il prosciutto, adora la mortadella e guarda il mare, scopre Harry Potter, costruisce lampade con i cavi che gli compra Marta e impazzisce per i Lego. «Adora costruire, diventerà un ingegnere» sorridono le ragazze. Con la modestia di chi ha visto l'orrore del dolore e ha fatto di tutto per salvare una vita.
Hippolyte gioca con la sua passione, i Lego, mentre si riprende dall’operazione
Marta, Alessandra e Hippolyte insieme a tutta la “squadra” di persone che è riuscita a salvargli la vita
DAMONTE, MANI IN PASTA La storica bottega di pasta fresca racconta e si racconta nelle generazioni di ALESSANDRA ARPI
Il bancone dello storico negozio di gastronomia e pasta fresca savonese “Damonte”
Di tutti i sensi quello che viene colpito prepotentemente quando si abbassa la maniglia della bottega della Gastronomia Damonte è la vista. L'occhio è rapito da tutte le declinazioni del giallo intenso, a partire da quello acceso della pasta all'uovo. Tagliatelle, ravioli, pansoti, tortellini, gnocchi. Tutti in bella vista in entrata, che parlano di antiche ricette e di grembiuli della nonna. Gli altri prodotti sono sparsi negli scaffali e nei banchi frigo, come a ricordare i sapori di una volta serviti su tovaglie di cotone a scacchi
tramandate di madre in figlia. Formaggi, salse, sughi, ogni prodotto è un invito all'acquolina in bocca. E il vociare concitato dei clienti, insieme alla coda costante al di fuori del negozio, sottolineano l'affetto dei cittadini e non verso i sapori tradizionali, a cui si fa fatica a rinunciare anche durante la crisi. E' difficile trovare un savonese che non abbia mai assaggiato un primo fatto a mano nel laboratorio di Damonte, che impasta sin dal 1933. Anno in cui Angela Damonte, la "capostipite", ha preso in mano la gestione dell'attività, che non si è mai mossa da
8 quell'angolo di via Montenotte. Ma la storia della "Pasta Fresca" più famosa di Savona va ancora più indietro nel tempo: nel lontano 17 ottobre del 1908 Luigi Lamberti, partito da Ceva, rilevò l'attività da tale Olindo Anghinetti per farne una bottega di commestibili. «Sono centosei anni che questo posto vede impastare -sottolinea Paolo Siri, titolare odierno della gastronomia- e questo lo sappiamo con certezza, grazie agli atti della Camera di Commercio che siamo riusciti a scovare. Ci piacerebbe andare ancora più a fondo nella storia e scoprire che attività portasse avanti Olindo Anghinetti prima del 1908. Se anche lui fosse stato titolare di un negozio di commestibili in questa bottega, la storia di queste mura come gastronomia sarebbe ancora più leggendaria». Ma l'iter per ritrovare le proprie origini, si sa, è spesso lungo e macchinoso, e pare che si siano perse le tracce di quell'Olindo che aveva una bottega proprio in via Montenotte 8r. Anche se, ai tempi, come sottolinea Siri, non esistevano i numeri "rossi" e il negozio portava sullo stipite il numero 2. Proprio grazie a queste ricerche storiche Damonte si è aggiudicato il premio di Impresa Storica della Provincia di Savona nel 2011, nell'occasione dei 150 anni dell'Unità d'Italia. Da Angela Damonte, in quel maggio del 1933, le mani che si sono susseguite a impastare sono sempre state quelle della famiglia. La storica Maria, detta Marietta, che ha lavorato nel negozio sin da ragazzina, è rimasta un volto amico e un pilastro dell'attività sino al 2007, anno in cui ha cessato l'attività al nipote Paolo, oggi appunto titolare. «Mia zia è entrata in
Il
Il sacco di farina risalente agli anni del Piano Marshall che Damonte conserva ancora in bottega
negozio per badare ai figli di Angela, Stefano e Maria -si perde nei ricordi Paolo Siri- ma si mise presto a imparare l'arte di fare la pasta e non solo. Sin da ragazzina lavorava nel retrobottega, e nel periodo delle bombe si rifugiava alla sera a Santuario, per poi svegliarsi intorno alle quattro del mattino e tornare in bottega. C'era un ragazzo, lavorava al porto mi sembra, che scendeva giù dalle strade di Santuario molto
presto in bicicletta, e lei chiedeva, quando poteva, un passaggio. Arrivava nel centro della città così, seduta sul manubrio di una bici». La storia della famiglia Damonte si mescola con quella di una città intera, nei periodi bui in cui si stringevano i denti tra i sibili delle bombe. A testimoniare gli anni della guerra un sacco di farina di cotone del '45 è incorniciato e mostrato sopra gli scaffali della bottega. Le lettere stampate direttamente sul sacco parlano di Piano Marshall, di americani in Italia, di farina proveniente direttamente dall'Oklahoma e recuperata in fretta e furia negli anni in cui la fame mordeva più forte. Ma la tradizione, durante e dopo la guerra, ha avuto la meglio. Con tenacia e voglia di fare. Il tempo poi, è passato, ma il modo di produrre la pasta non è mai cambiato. Certo, alle ingombranti e sibilanti macchine a vapore sono succedute quelle più piccole e veloci elettriche, ma la qualità degli ingredienti e del tempo dedicato ad "assemblarli" non è cambiata. Il laboratorio di Damonte è direttamente nel retrobottega, i ravioli in vendita hanno appena una manciata di minuti da quando sono stati prodotti. E la qualità, si sa, costa. Ma paga anche. Lo dice una sorridente Tiziana, moglie di Paolo, mentre serve i clienti, lo dicono le altre persone che, insieme ai titolari, formano l'intera "squadra" Damonte. Sono ben 11, infatti, i lavoratori nel negozio di pasta fresca che può ben dirsi un'azienda a tutti gli effetti. Lo dicono i clienti, che anche se la crisi impone qualche taglio, riducono magari la quantità di ravioli ma non rinunciano alla genuinità della pasta fresca.
L’ingresso dello storico negozio in via Montenotte
«I clienti sono rimasti fedeli -spiega Siri- anche se la quantità di prodotti venduti è diminuita notevolmente. Alcuni passano dai ravioli, che sono più costosi, agli gnocchi o alle tagliatelle, che a peso rendono di più. Ognuno fa come può. La settimana scorsa, ad esempio, abbiamo battuto uno scontrino da 34 centesimi, per un etto e mezzo di tagliatelle. Non che per noi i clienti abbiano un peso diverso a seconda di quello che spendono, ma si vede che la crisi sta prendendo sempre più terreno».
10 Damonte, però, tiene duro. Continua a mandare avanti l'attività con il sorriso e la parola di cortesia a chi compra, perché anche acquistare dalla bottega di fiducia è un gesto di socializzazione. Tutti, oltretutto, hanno ancora ben impressi nella memoria i lineamenti di Marietta, le storie che raccontava, la gentilezza con cui si relazionava. E la tradizione così va avanti, in una Savona che rimane saldamente ancorata alle proprie radici.
La famosa pasta fresca tirata al momento
Lo staff della gastronomia Damonte nel laboratorio dove ogni giorno viene fatta a mano la pasta fresca
UNA TRADIZIONE CHE SI SCIOGLIE IN PROFUMI La storia degli Astengo. Tra amaretti e storia cittadina fuori dal tempo di ALESSANDRO FOFFI
Parte dellp staff della pasticceria Astengo. A destra il più giovane pasticcere Gianluce
L'accoglienza è riservata ai profumi. Sono loro a fare gli onori di casa, anzi di negozio. Un odore di mandorle rapisce i sensi, colpiti poi dai colori di pasticcini, veri e propri gioielli culinari disposti dietro una vetrina quasi come fossero opere d'arte. E non è profano parlare di arte, e soprattutto di tradizione, quando si tratta della pasticceria Astengo in via Montenotte a Savona. Un negozio che trasuda storia. Che è storia. Quella di una famiglia, di una città e di abitudini che non tramontano mai. Sono lontani i tempi in cui Giacomo Astengo fondava un'attività che trovava la propria fortuna in quello che può
essere considerato senza ombra di dubbio il prodotto dolciario ligure per eccellenza: l'amaretto. E il nome dell'insegna - Premiata Specialità Amaretti e Biscotti- installata in quel lontano 1878 sembra delineare un percorso che durerà addirittura 136 anni. Ed è proprio da qui che inizia una storia arrivata fino ai giorni nostri, fatta di passione per la pasticceria, di uomini che ne hanno colto l'essenza e della capacità di trovare sempre il giusto connubio tra tradizione e modernità. «Con mio nipote Gianluca sono sei le generazioni della mia famiglia che portano avanti l'attività -spiega Giovanni Battista Astengo, padre degli attuali padroni Elisabetta e
12 e Giorgio Astengo- questo non può che essere un vanto per tutti noi. Ma anche un riconoscimento del fatto che il nostro lavoro viene sempre apprezzato da generazioni di clienti». Giovanni Battista racconta quella che è stata la vita della pasticceria sfogliando un vecchio libro contabile, un vero e proprio libro di storia fatto di numeri, date e prezzi. Su quelle pagine ritrova ricordi, aneddoti ed episodi di un passato lontano di cui però si sente parte a tutti gli effetti. E come un bambino che si meraviglia per la prima volta, Giovanni non nasconde l'emozione nel leggere ed interpretare numeri e appunti che sembrano valere più di mille parole. Il dito scorre sulle quelle lettere tondeggianti e ben allineate -memoria di una scuola che teneva molto alla forma e all'estetica della scrittura- alla ricerca di un particolare che racconti ancor meglio al storia degli Astengo. «Nel 1940 gli amaretti costavano 24 lire al kg e nell'arco di un solo anno il prezzo aumentò a dismisura, segnale che la situazione stava andando peggiorando -continua Giovanni- tanto che mio padre Giorgio fu arruolato come pilota dell'Aeronautica Militare e l'attività di famiglia subì uno stop -l'unico nella storia della pasticceria Astengo- dal 1941 al 1946. Quello fu forse il periodo più nero». Ma proprio nel 1946 ricomincia la produzione di amaretti e biscotti e con essa ci si lascia definitivamente alle spalle la guerra. La famiglia Astengo riapre il negozio e via Montenotte, dopo 5 anni, si profuma nuovamente di mandorle. «Ricordo come il procedimento per arrivare
agli amaretti fosse lungo e laborioso – spiega ancora Giovanni Battista- soprattutto perché mia madre era una persona meticolosa e precisa per cui ogni lavoro doveva essere sempre perfetto. Ho ancora davanti la visione dell'impasto sul tavolo composto da mandorle dolci e amare, zucchero, e uovo e lei con un coltello ne tagliava le porzioni che noi arrotolavamo in modo che prendessero la forma rotonda. Una volta cotti si doveva fasciarli ad uno ad uno a mano. Provate ad immaginare durante le feste o a periodi di lavoro particolarmente intensi. Si sapeva a che
Giovanni Battista nella “divisa” da pasticcere
si entrava in laboratorio ma non si sapeva a che si sarebbe usciti». La tecnologia irrompe, come in ogni altro campo, anche in pasticceria. Sono gli anni Settanta e il volumi di lavoro sono aumentati e la necessità è ora diminuire i tempi di produzione. «La prima macchina che comprammo fu per tagliare gli amaretti e costò, se ricordo bene, circa trenta milioni -spiega Giovanni- e fu un colpo al cuore per mia madre che si sentì messa da parte. Quello di fare le porzioni e tagliarle era sempre stato il suo lavoro, per cui non vide affatto di buon occhio l'arrivo dell'apparecchio. Ma i tempi cambiano e non si poteva farne a meno».
Se Astengo ancora oggi è la pasticceria storica di Savona un motivo ci sarà. Forse proprio perché la tradizione è sempre rimasta in famiglia. «Sono passati di qui diversi pasticceri e alcuni di loro anche molto bravi -sottolinea Elisabetta Astengo- ma sia mio padre sia mio fratello sono molto gelosi delle loro ricette e del loro lavoro e non hanno mai svelato i segreti del loro mestiere ad "estranei", ma solo a membri della famiglia». E Gianluca, figlio di Giorgio, ora è solo un apprendista nel negozio di famiglia, ma il futuro per lui è già scritto. Continuare una vocazione centenaria a cui Savona e i savonesi difficilmente potrebbero rinunciare.
14 UNA PASSIONE DA INCORNICIARE Cornici e foto, l'attenzione al particolare di Roberto Malacrida di MARCO OLIVERI
La storica bottega di cornici di via Niella di Roberto Malacrida
L'interesse per i dettagli, questa può essere la costante della vita di Roberto Malacrida, artigiano di origini genovesi, ma savonese d'adozione, che ha messo insieme due passioni, la fotografia e il legno, trasformandole in un unico e creativo mestiere, quello del "corniciaio". Un nome che subito suona strano, antico e curioso. Fa venire in mente l'odore del legno e due mani che, pazientemente, trasformano la materia prima in una forma portatrice di un messaggio. Un'abilità manuale e un estro
Un'abilità manuale e un estro artistico che si notano immediatamente, non appena si entra nel suo negozio di via Niella, una delle vie più antiche di Savona, di quelle che portano al mare. Bisogna stare attenti a muoversi lì dentro, per non urtare le numerose cornici di tutte le forme e materiali che riempiono lo spazio. Una cornice, un particolare che difficilmente è considerato, ad esempio, quando si guarda un quadro. Si è completamente rapiti dall'immagine raffigurata e la consuetudine che un quadro deve essere attaccato ad un muro
non permette di porre attenzione a che cosa lo tiene effettivamente appeso alla parete. La cornice, infatti, può essere parte di un'opera d'arte, alla quale può concorrere con il suo silenzioso e modesto contributo. Malacrida ha capito ciò che sa raccontare una cornice, come può essere un valore aggiunto e come farla parlare, quando, quasi per scherzo, ha rilevato l'attività, già esistente a Savona,23 anni fa: "La cornice è un oggetto d'arredamento che però riflette una personalità, rivelando il lavoro che c'è dietro, dalla ditta che procura le aste all'artigiano che le taglia - spiega - in questa attività mi ha sempre aiutato la mia passione per l'arte, sia per la pittura sia per la fotografia, discipline che pratico entrambe da vent'anni". Infatti, il laboratorio di Malacrida sembra quasi un'esposizione, tra tele e riproduzioni fotografiche, che portano la stessa firma dell'insegna del negozio. Foto che il proprietario vende ed espone, stampate su carta fotografica, panellati o canvas, in occasione di mostre personali. Tecniche che insegna, inoltre, a chi vuole impararle, collaborando a corsi di fotografia, come quello tenuto all'Unisabazia di Vado Ligure. Paesaggi montani, marine, particolari di flora e fauna, animali immortalati nella loro quotidianità, frutto di ore di osservazione e attesa. La cura per il dettaglio che ritorna ancora: "Sono un amante della natura, caratteristica che esprimo nelle foto, ma anche nelle cornici - continua Malacrida - io lavoro essenzialmente con il legno, una volta era richiesto anche quello più pregiato, ma ora è molto in voga il pino lamellare".
E, parlando con lui, si scopre che proprio l'Italia, in passato, ha avuto un ruolo da protagonista, in termini di produzione di cornici: "Vendevamo anche all'estero, ma ultimamente abbiamo sofferto la concorrenza dei centri commerciali spiega - anche qui a Savona, nonostante siamo rimasti in pochi a realizzare cornici, le richieste di lavoro si sono dimezzate rispetto a qualche anno fa". Diversi gli stili delle cornici riprodotte a mano, antiche, moderne, ma anche etniche. Roberto Malacrida le assembla nella bottega all'interno del negozio, dove ci sono gli strumenti del mestiere: una taglierina, una troncatrice, un impianto ad aria compressa, il banco di lavoro e le aste di legno alte tre metri, da tagliare e unire con la colla. Alcune vengono decorate con motivi, altre semplicemente pitturate. In una settimana sono pronte: "La cornice è un complemento, è come un bel vestito - afferma l'artigiano - non deve rubare attenzione al quadro, deve essere sobria, ma avere gusto. C'è bisogno di occhio artistico e senso estetico, per la combinazione dei colori e la cura nella composizione". Sensibilità che Malacrida ha sviluppato con l'esperienza, dopo aver frequentato l'Istituto
16 artistico e aver lavorato come grafico-pubblicitario, ma anche dopo esser stato impiegato in una falegnameria. A dispetto del nome, "Malacrida cornici", però, non si occupa solo di realizzare cornici: ripara anche quelle rotte o danneggiate, sostituisce i vetri e produce anche oggetti come portafoto e specchi, dal taglio personalizzato, su misura. Non ultimo, tra gli aspetti da considerare nella professione di "corniciaio", la capacità di immedesimarsi nei gusti e nella psicologia dei vari tipi di clienti, per poterli seguire e consigliare: "Ci sono gli indecisi da convincere, ma anche i fiduciosi - conclude l'artista - però non mancano neanche quelli più pretenziosi, che vogliono la cornice in oro lavorato. Io cerco di guidarli nelle loro scelte, a seconda del mio gusto e di ciò che loro vogliono incorniciare". Una forma importante, entro cui racchiudere la foto in bianco e nero di un parente, un ricordo ora lontano oppure un momento indimenticabile che è stato catturato. Insieme al lavoro di un artigiano.
Il laboratorio di Roberto Malacrida
DALCISO, IL CIABATTINO CHE RICORDA LE FAVOLE Passo dopo passo, l'artigianato delle scarpe non conosce crisi di ALESSANDRA ARPI
Dalciso Odello nel proprio laboratorio di via dei Sormano
C'è un angolo di città che sembra - per dirla alla Sbarbaro - 'scantonato dallo spazio e dal tempo', sottovuoto, da tanto è incapace di farsi contagiare dal ritmo sincopato del suono dei clacson, dalla fretta e dal bombardamento incessante di chiacchiere, slogan e colori. E' una bottega incastrata a metà di via dei Sormano, dagli stipiti di legno scuro e la maniglia d'ottone, custode di un lavoro da formica silenziosa, a testa bassa e con umiltà. Nessuna insegna, la vetrina parla da sola. Solette, forme in legno, lacci in corda
e suole di gomma da modellare. Il ciabattino è un mestiere che trasporta la mente nella pancia delle favole, quel mestiere capace di dare forma a scarpe con cui camminare per una vita intera. I lineamenti dell'artigiano si sovrappongono a quelli del padre di Pinocchio mentre, ricurvo sul tavolo da lavoro, cuce il cuoio con lo sguardo concentrato e gli occhiali calati sul naso. La saggezza di chi sa usare le mani, la sicurezza di una vita passata a perfezionare l'arte di saper fasciare i passi del cliente. Dalciso Odello ha un nome armonioso che le labbra non sono
18 La sua bottega è un quadrato di storia. Nessuna tecnologia, solamente passione per il lavoro di una vita. Ogni centimetro di muro è ricoperto da scaffali che, come personalmente tiene a sottolineare, hanno più di cento anni. «Ho solo cambiato i vetri» ammette candidamente, mentre va ad indicare le ante di legno pesante, di quello poroso e vissuto che con il compensato non ha nulla da spartire. Un bancone massiccio ricoperto di scarpe, suole, lacci e tacchi è il suo piano di lavoro. Mentre chiacchiera non stacca gli occhi dagli eleganti mocassini neri da uomo a cui sta rifacendo le suole. Il movimento è preciso ma veloce, impresso nella mente. Dalciso non ha bisogno di stare molto a pensarci su, le scarpe che maneggia sono mappe che ormai conosce a memoria. «Ho rilevato il negozio 64 anni fa quando sono venuto qui dal Piemonte per cercare lavoro - spiega mentre taglia sapientemente la gomma della suola - vengo da una famiglia di contadini, abitavamo vicino a Ceva. Proprio lì dove nasce il Tanaro. Lavorare la terra era più faticoso di fare le scarpe». Tiene a specificarlo, nelle parole si legge un orgoglio per le proprie origini che va al di là del tempo e dello spazio. «Ho imparato a fare gli scarponi a mano -continua- di quelli spessi, pesanti, per passare l'inverno. Cucivo tutto io. Oggi quegli scarponi sono fatti in serie, come tutto. Io mi limito ad aggiustare quello che c'è di rotto, a rendere le scarpe più nuove». Alza le spalle, modesto. Come tutti gli artigiani di un tempo si rende conto che una società che ha tutto tende a buttare i beni consumati per comprarne di nuovi, non 'perde' più tempo ad aggiustarli. Ma la sua arte sembra
resistere a questa tendenza, la porta della piccola bottega si apre e si chiude in continuazione. 'Può cucirmi le babbucce del bimbo?' 'Mi rifarebbe i tacchi?' le frasi che si ripetono. E vanno a confermare la convinzione che un mestiere così antico non passi mai di moda. E Dalciso non sembra darsi pena per la crisi, o per la fatica di gestire la bottega da solo. «Fino ad una ventina d'anni fa avevo due collaboratori -racconta- ma poi mi hanno fatto girare le scatole. Adesso son solo. Prima lavoravo anche sino a mezzanotte, adesso con l'età alle sette chiudo. Ma alle sette del mattino sono già qui». Una concezione di lavoro che non rientra più negli schemi
La macchina da cucire con cui Dalciso da decenni sistema le scarpe dei clienti
rientra più negli schemi dell'artigiano moderno. E Dalciso continua a portarla avanti, lì, nel disordine apparente di stivaletti, tacchi a spillo, pantofole, mocassini. Tutti impilati sugli scaffali, ogni paio la propria storia. Ogni scarpa un fastidio, una minuzia, un difetto messi nelle mani di chi di strada, nelle proprie mani, ne ha vista passare tanta. Di chi ha viaggiato per tutto il mondo senza muoversi dalla propria bottega. Dalciso, con la propria manualità, è volato sino in Oriente. Quando un amico giapponese di un cliente è rimasto affascinato dalla bolla di sapone in cui è rinchiusa la bottega di via Sormano e, con dozzine di fotografie, ha documentato l'arte di perfezionare la strada alle persone.
«Ha fatto tante di quelle fotografie che la metà basta». Sorride il ciabattino, ad occhi bassi, conscio però del pezzo di storia che sta portando avanti ogni giorno.
Dalciso chiacchiera mentre aggiusta, nel suo scrigno fatto di legno e cuoio
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FETTE DI CITTA' Dalla farina “gialla” la panissa, quel gusto inconfondibile tutto savonese di IRENE SALINAS
La storica e famosissima “Casa Panissa” di vico Crema
C'è un luogo che più di ogni altro racconta Savona. Lo fa in silenzio, nascosto in un vicolo nel cuore della città. Lo fa sostituendo agli aggettivi il sapore di liste gialle, fritte. I savonesi le chiamano "le fette", non serve aggiungere che si tratta di panissa. Un impasto denso, di ceci e tradizione. DA PIU' DI 200 ANNI IL SAPORE DI SAVONA In quella parte di via Pia che sembra immobile e resiste al tempo, nel vico Crema, l'antico vicolo dei Giudei c'è "Casa Panissa".
Un angolo che profuma di tradizione e che, come un geloso gioielliere, custodisce lingotti. Ma di sapore e semplicità. Azzardare una stima di quante siano le persone che abbiano mangiato quelle mezzelune è impensabile. Così come è impossibile dire quanti anni abbia il negozio. A conti certi almeno duecento. Quel che è sicuro è che tra quelle mura è racchiuso il sapore di Savona. Intatto, sempre lo stesso. Tutto, all'interno di "Casa Panissa" è rimasto com'era. Come se il tempo, incontrandola, avesse deciso di cambiare strada.
22 La saliera, fatta a mano, ha più di cento anni. E il lavandino, ancora in marmo, assomiglia a uno di quei lavatoi dove le donne, chine e stanche, facevano il bucato. «Qui nulla è cambiato – racconta Rosanna Donato, titolare insieme alla cognata Marisa Nadia Poggi – il negozio era di mia zia, e ancora prima della mia bisnonna. Sono cresciuta qui dentro, con il profumo della panissa. E' stata mia zia ad insegnarmi, la ricetta è sempre la stessa. Tramandata, da generazione in generazione, senza mai cambiare. L'impasto è semplice, acqua, sale e ceci. Ma il segreto è la cottura, bisogna rispettare i tempi con pazienza, girare e mescolare fino ad ottenere una crema. Servono tre ore per ogni singola pentola. Io e mia cognata abbiamo studiato per sei mesi, seguite da quella zia che ci ha insegnato un mestiere. E ce lo ha lasciato». "CASA PANISSA", META DEL SAPORE L'impegno, la qualità, quella ricetta che non è mai cambiata, sono gli ingredienti vincenti. "Casa Panissa" compare sulle più prestigiose guide, come locale tipico. I turisti stranieri trovano recensioni su internet, nel famoso sito Trip Advisor, solo per citarne uno. Arrivano a Savona, vagano tra le vie per cercare il negozio di Rosanna e Marisa. Quando lo trovano ne restano estasiati. Dal profumo, ancora prima che dal sapore. Assaggiano le fette, lasciano che quel gusto deciso e caldo si sciolga per la prima volta nelle loro bocche. Intrappolano quel piccolo regno in fotografie, cartoline di eccellenza firmata Savona. E lo racconteranno, una volta tornati al loro paese. C'è chi parla italiano e
annota su un foglietto la ricetta, per cercare di riprodurla. Ma sorride, sa che non ce la farà. Si arrende alla forza della tradizione, di un sapore tramandato, di un mestiere che profuma di arte. Per i savonesi, invece, il negozio di Vico Crema è un monumento. Al gusto, alla tradizione. E' storia conosciuta, raccontata, fatta propria, incastonata tra muri e cuori. Perché le fette di panissa sono scritte nel codice genetico di Savona. Resistono al tempo, alle nuove mode, a quei cibi che parlano inglese. «Tanti giovani fanno ancora merenda con le fette – racconta entusiasta Marisa Poggi – Alcuni sono figli di quelli stessi ragazzi che vent'anni fa entravano nel negozio. Davanti a questo bancone sono passate generazioni intere. Che cerchiamo di coccolare». I più grandi le consumano all'ora dell'aperitivo. In una mano il bicchiere, nell'altra il sacchetto. O la focaccia con dentro le fette, specialità savonese. «Usiamo il pane bianco, che cuoce con un procedimento particolare. Non ha crosta ma solo morbidezza. Una focaccina tutta savonese, nella quale inseriamo le fette calde, che si sposano benissimo con quella pasta densa e soffice». Strato su strato, in un'alternanza che sembra non bastare mai. Sono tanti i savonesi che con quella
Gialla, morbidissima da cruda e dall’inconfondibile sapore tradizionale: la panissa
focaccina ripiena fanno pranzo, nella pausa dal lavoro. Un morso tra un passo e l'altro nelle vie. Altrettanti quelli che acquistano le liste di panissa per portarle a casa e gustarle in tranquillità. Tagliate a cubetti, condite anche solo con un ilo d'olio e qualche granello di pepe. Come un take away che parla al passato. UN PASSATO DA DIFENDERE, UN FUTURO DA SCRIVERE Cambiano i tempi e le abitudini, ma non il legame tra la città e quelle mezze lune gialle. E c'è chi la panissa l'ha difesa, per non perderlo quel legame. Per mantenere il piatto nella tradizione, nei giorni che passano. Nel 2009 nasce una mobilitazione spontanea
per proteggerla dal rischio dell'estinzione. Comune e Provincia, ma anche laFondazione Carisa, la Camera di Commercio, le associazioni di categoria, quelle culturali e lo Slow Food si impegnano per farla scoprire e riscoprire. Con una giornata dedicata alla tipicità savonese, con le parole del sindaco Federico Berruti, che l'ha definita una ricchezza, un valore pubblico da tutelare e diffondere. Un'eccellenza che ha attraversato gli anni e che, di quelli che verranno, sarà ancora protagonista. «Con il passare del tempo – aggiunge Marisa Nadia – ho avuto modo di accorgermi di come siano cambiate le abitudini. Fast food anche a merenda, cene nei bar con l'aperitivo. Fino a qualche anno fa, la maggior parte dei ragazzi faceva merenda con le fette. Ora ci sono altri generi alimentari,
Le famose “fette” di panissa, servite fritte nell’olio e salate al momento
22 dall'hamburger alle patatine. La panissa però resta un cibo alla portata di tutti, non solo per il basso prezzo. Fa parte della tradizione della città. Un bene prezioso, da non perdere. Perché racconta la storia di una città. Con semplicità e un sapore che al proprio interno ne nasconde mille». Panissa e non solo. Tra le specialità del negozio "Casa Panissa" ci sono bugie, tipico dolce di carnevale, frittelle di baccalà, borragini e fiori di zucca. Perle della cucina ligure, preparate da mani esperte che di un mestiere semplice hanno fatto un'arte. Rosanna e Marisa Nadia si svegliano alle 5 di mattina, da oltre 30 anni. Lavorano tutto il giorno. Alle 8, massimo 8.30, il negozio apre il portoncino. Quasi a voler svegliare la città. E ad accompagnarla durante la giornata. Ma quello di "Casa Panissa" è un futuro incerto, ancora da scrivere. Perché gli anni che passano e modificano le abitudini si aggiunge un interrogativo che preoccupa Rosanna Donato e Marisa Poggi, le due proprietarie. Cosa ne sarà del negozio quando loro non ci saranno più? Il punto di domanda pesa come un macigno, ma le due donne sono ottimiste. «I nostri figli svolgono lavori completamente diversi – dice Marisa – ma mai dire mai. Un giorno, forse, potrebbero prendere il nostro posto. Quel che è certo è che io e Rosanna resisteremo fino all'ultimo. Poi si vedrà. La vita è una grande sospresa. Se i nostri figli vorranno proseguire lungo la propria strada, ci sarà un altro destino per questo negozio. Forse lo comprerà qualche savonese al quale insegneremo tutto, come hanno fatto con noi. Di sicuro lasceremo
"Casa Panissa" nelle mani di persone che abbiano voglia di lavorare, che non siano spaventate dalla fatica». Immaginare Savona senza quel piccolo negozio è impossibile. Perché la panissa ha sempre indossato la corona del gusto savonese. E la indossa ancora. Non l'ha mai tolta, né passata. Come una regina che non cede il trono.
Le tipiche focaccine tagliate a metà, che “ospitano” le fette, in un panino del tutto tradizionale
Le due sorelle, titolari storiche di “Casa Panissa”
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Una pubblicazione a cura di:
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