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numero 171 anno 18 maggio 2013

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300€

il mensile della strada ventuno Rinnovabili e sviluppo

de’tenis www.scarpdetenis.it

Omaggio a Jannacci, l’“artista fantasista” che battezzò il nostro giornale

Ciao Enzo cantore degli ultimi Milano Identità pandillas Como Non accompagnati Torino Rifugiati olimpici Genova Anziani di strada Vicenza Creativo e guidato Modena Market Portobello Rimini Povertà, una gabbia Firenze Obbligati al bene Napoli Maestro di armonie Salerno Fallimento trasporti Catania Cibo condiviso

la nostra canzone

El purtava i scarp del tennis Enzo Jannacci 1964 Che scusee, ma mi voeuri contà d’un mè amis che l’era andà a fà el bagn sul stradon per andare all’Idroscalo: l’era lì e l’amore lo colpì.

El purtava i scarp del tennis, el parlava de per lù rincorreva già da tempo un bel sogno d’amore.

El purtava i scarp de tennis, el gh’aveva du occ de bun l’era il primm a mena via, perché l’era un barbon.

On bel dì che l’era adrè a parlà de per lù, l’avea vista passà, bianca e rossa che pareva il tricolore; ma poeu lù l’è stà bon pù de parlà.

El purtava i scarp del tennis, el parlava de per lù rincorreva già da tempo un bel sogno d’amore.

El purtava i scarp de tennis, el gh’aveva du occ de bun l’era il primm a mena via, perché l’era un barbon.

SERGIO GERASI

(parlato) Un bel di a che’l pover diavul chi riva na machina, sì, arriva una machina ven giù vun e domanda: «Ohé!». «A mi?». «Sì, a lu, savaria, savaria no per piaseé la strada per andare all'aeroporto Forlanini?».

«Non conosco l’aeroporto Forlanini». «L’Idroscalo lo conosce?». «Si, l’Idroscalo lo conosco, al so in dua l’è l’Idroscalo, l’accompagno io all’Idroscalo, però mi fa salir sulla macchina, è forte questa, bella questa macchina, è sua?».

«Sì, lasa sta la machina barbon... (…) Allora la strada per l’Idroscalo?» «Vengo sulla macchina e ce lo dico... vengo anch’io sulla macchina, non sono mai stato su una macchina, specie di dietro... Poteva farmi salire anche davanti, tanto non sporcavo mica... Sta macchina c’ha tutto, freni, frecce, anche la marcia indietro? Bene, così siamo a posto...

Anche mio cugino Aristide aveva la macchina, ferma però, gh’è durmiva denter... Aristide... dopo è morto, lui e la macchina, l’è s’cioppà tutti e du... ostia Aristide... e rideva semper...

Ferma signore, che sono arrivato». «Come arrivato?». «Sono arrivato chi». (cantato) Un piaseé, ch’el me lasa giò chi che anca mi mi go avu il mio grande amore roba minima, s’intend, s’intend roba da barbon.

El purtava i scarp del tennis, el parlava de per lù rincorreva già da tempo un bel sogno d’amore.

El purtava i scarp de tennis, el gh’aveva du occ de bun l’era il prim a mena via, perché l’era un barbon.

L’han truvà sota a un muc de carton l’han guardà che ’l pareva nisun l’han tuca che ’l pareva che’l dormiva lasa sta che l’è roba de barbon.

El purtava i scarp de tennis, el parlava de per lu el purtava i scarp de tennis, perché l'era un barbun, el purtava i scarp de tennis, el parlava de per lu el purtava i scarp de tennis, perché l’era un barbun...

WILL

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Il tutto sapientemente diretto da papĂ Mario.

Tutta la fa famiglia ed il personale saranno costantemente impegnati perchĂŠ vi sentiate a vostro agio, protetti, in un clima caloroso e sereno.

sommario L’omaggio

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Ciao Enzo, cantore degli ultimi p.6

Fotoreportage

Cos’è È un giornale di strada non profit. È un’impresa sociale che vuole dar voce e opportunità di reinserimento a persone senza dimora o emarginate. È un’occasione di lavoro e un progetto di comunicazione. È il primo passo per recuperare la dignità. In vendita agli inizi del mese.

Scarp de’ tenis è una tribuna per i pensieri e i racconti di chi vive sulla strada. È uno strumento di analisi delle questioni sociali e dei fenomeni di povertà.

Nella prima parte, articoli e storie di portata nazionale.

Nella sezione Scarp città, spazio alle redazioni locali.

Ventuno si occupa di economia solidale, stili di vita e globalizzazione. Infine, Caleidoscopio: vetrina di appuntamenti, recensioni e rubriche... di strada!

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Scarp Italia L’inchiesta Goodbye Italia (chi torna, chi emigra) p.18

L’inchiesta

Come leggerci

Per contattarci e chiedere di vendere

Non c’è più lavoro per lei... p.14

Terremoto: la speranza ha ritrovato casa p.24

Il reportage Diritto al bello, diritto a una casa p.28

Scarp città Milano Pandillas, identità condivisa e criminale p.34 Dottor Dari, la laurea strappata alla strada p.38 Le notti di Magda, che dispensa sorrisi p.41

Como Minori non accompagnati, il capoluogo dell’accoglienza p.44

Torino Ieri gli atleti, oggi i rifugiati p.48

Genova Anziani, ombre sulla strada p.48

Vicenza La bottega del lavoro guidato p.50

Modena La comunità dietro l’emporio p.52

Rimini Chiusi in gabbia dalla povertà p.54

Firenze Obbligati a fare del bene p.56

Napoli Contadino Nino, maestro di armonie p.58

Salerno Trasporti pubblici, siamo al fallimento p.60

Catania Condividere cibo, scelta intelligente p.62

Scarp ventuno Dossier Le rinnovabili, fonte di sviluppo p.66

Economia Così ti accelero l’impresa “ristretta” p.72

Caleidoscopio Rubriche e notizie in breve p.77

scarp de’ tenis

Il mensile della strada Da un’idea di Pietro Greppi e da un paio di scarpe - anno 18 n. 171 maggio 2013 - costo di una copia: 3 euro

Per abbonarsi a un anno di Scarp: versamento di 30 € c/c postale 37696200 (causale AbbonAmento SCArP de’ tenIS) Redazione di strada e giornalistica via degli Olivetani 3, 20123 Milano (lunedì-giovedì 8-12.30 e 14-16.30, venerdì 8-12.30), tel. 02.67.47.90.17, fax 02.67.38.91.12 Direttore responsabile Paolo Brivio Redazione Stefano Lampertico, Ettore Sutti, Francesco Chiavarini Segretaria di redazione Sabrina Montanarella Responsabile commerciale Max Montecorboli Redazione di strada Antonio Mininni, Lorenzo De Angelis, Tiziana Boniforti, Roberto Guaglianone, Alessandro Pezzoni Sito web Roberto Monevi Disegno di copertina Silvio Gerasi Foto Archivio Scarp Disegni Luigi Zetti, Claudia Ferraris, Silva Nesi Progetto grafico Francesco Camagna e Simona Corvaia Editore Oltre Società Cooperativa, via S. Bernardino 4, 20122 Milano Presidente Luciano Gualzetti Registrazione Tribunale di Milano n. 177 del 16 marzo 1996 Stampa Tiber, via della Volta 179, 24124 Brescia. Consentita la riproduzione di testi, foto e grafici citando la fonte e inviandoci copia. Questo numero è in vendita dal 12 maggio al 15 giugno 2013.

“Medico fantasista”: un uomo, due carriere Sulla carta d’identità aveva fatto scrivere “Medico fantasista”: sintesi perfetta.

Enzo Jannacci nasce a Milano nel 1935 da una famiglia di origine pugliese.

Nella seconda metà degli anni Cinquanta organizza spettacoli con il compagno di studi Giorgio Gaberscik (Gaber) e inizia a esibirsi in alcuni locali della città. Musicista di talento ed estroso intrattenitore, suona jazz, rock e accompagna numerosi colleghi (artisti noti e di valore) prima di iniziare un’incredibile carriera solista.

Allievo di Dario Fo, scrive canzoni, tra gli altri per Giorgio Gaber, Luigi Tenco, Bruno Lauzi, Milva, Mina e Nanni Svampa, e collabora, oltre che con il giornalista Beppe Viola, con tanti amici cabarettisti (altri nomi notissimi).

Poeta della canzone, Enzo Jannacci incide più di trenta album in sette decenni diversi. Cantando la dignità degli ultimi con uno stile personale e paradossale, arriva alla tv e al cinema (attore, ma anche una nomination all’Oscar per la colonna sonora di Pasqualino Settebellezze) e tiene concerti in tutta Italia.

Ma non smette mai di lavorare come medico.

Laureatosi nel 1967, si specializza in chirurgia e terapia intensiva, poi entra nell’équipe di Christian Barnard, l’uomo del primo trapianto di cuore. Diventa medico di base ed esercita come tale fino al 1° gennaio 2003. Il primo giorno di pensione perde l’amico fraterno Giorgio Gaber.

Muore il 29 marzo 2013, lasciando la moglie Giuliana “Pupa” Orefice e il figlio Paolo, musicista sopraffino.

6. scarp de’ tenis maggio 2013

MARILENA NARDI

l’inchiesta

Addio a Enzo Jannacci, padre “battezzatore” di Scarp. Artista poliedrico: musica, cabaret, tv, cinema. Ma anche medico appassionato.

E generoso amico dei periferici e dei perdenti

Ciao Enzo L’antieroe sullo stradone del nostro smarrimento Cinquant’anni dopo, esegesi (sommaria) della canzone da cui abbiamo preso il nome di Paolo Brivio È stato il nostro “padre battezzatore”. Perché le scarpe da tennis che compaiono sin dal primo numero (era il 1994) nella nostra testata, erano quelle indossate dal barbon avviato sullo stradone per l’Idroscalo, che lui aveva cantato in una Milano ormai consegnata ai ricordi, una città in tumultuosa trasformazione, tanto ottimista da saper guardare con tolleranza e con (relativa) simpatia anche ai marginali e agli originali che la popolavano, senza avvertire l’istintiva, impaurita inclinazione allo sgombero, alla rimozione, alla criminalizzazione, che si sarebbe fatta largo nei decenni successivi.

Enzo Jannacci aveva scritto El purspostati o diseredati di quartiere, nientava i scarp del tennis (unanimemente te più strambi folcloristici e innocui, riconosciuta come uno dei suoi capoma una schiera sempre più ampia di lavori) nel 1964, insieme a Dario Fo. Ed esclusi dai processi economici, di sogesattamente tre decenni dopo Pietro getti segnati da pesanti forme di dipenGreppi, pubblicitario milanese, aveva denza e di disagio psichiatrico, di imavuto l’idea di utilizzare l’immagine migrati in attesa di un inserimento stadelle scarpe da ginnastica per dare nobile nella società italiana. me al giornale di strada, scritto e venduto da persone senza dimora, che aveva fondato a Milano. Il riferimento La città che non si curva al “barbone” jannacciano era quasi obMentre Greppi (era il 1996) trasferiva bligato, anche se nel frattempo il popola testata a Caritas Ambrosiana, che in lo della strada, all’ombra del Duomo, 17 anni ne avrebbe fatto un progetto aveva cominciato a cambiare connosociale e di comunicazione oggi pretati: niente più personaggi in fuga dalle sente in 13 città d’Italia, capace di daconvenzioni sociali e in cerca di un’are lavoro, reddito e supporto sociale narchica, romantica libertà, niente più (nel 2012) a 150 persone gravemente

emarginate, Jannacci aveva accettato che le scarpe da tennis continuassero a camminare attraverso l’esperienza dello street magazine, al quale – nel corso degli anni – avrebbe concesso tre interviste, e che avrebbe continuato ad acquistare dallo storico venditore che stazionava nei pressi della sua casa milanese, in zona Città Studi, cui non lesinava qualche chiacchiera e generose mance.

Ma il suo contributo alla linea editoriale e all’esperienza sociale del giornale, Jannacci l’aveva dato proprio con la canzone del 1964. Anche limitandosi a una sommaria esegesi, e fatta la tara ai mutamenti sociali succedutisi in mezzo secolo, la canzone mostra che il suo autore conosceva bene gli uomini e le donne della strada. Ne percepiva le sofferenze, ne compativa (nel senso etimologico: patire con) le solitudini e le stranezze, ne apprezzava la stralunata ironia e la non infrequente autoironia.

Il suo antieroe rintracciato dopo essere andato a fare il bagno sullo stradone maggio 2013 scarp de’ tenis

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Ciao Enzo verso l’Idroscalo, lo squadratissimo e zanzaratissimo “mare di Milano” (altre spiagge, difficilmente se le sarebbe potute permettere: come capita a tanti poveri odierni), parlava spesso e volentieri de per lù, tra sé e sé: lo fanno anche gli scarp de tennis people del giorno d’oggi, costretti dall’isolamento e dal disagio psichico ad aver dialoghi soprattutto con se stessi. Però vantava dù oeucc de bon, due occhi da buono: è se è vero che la vita di strada si è andata sempre più impastando di violenza, striandosi di traffici e illegalità che hanno per protagonisti tanti disperati e malintenzionati, non si può non riconoscere che ancora oggi i senza dimora, in maggioranza, sono vittime inermi dell’insicurezza metropolitana, con il

suo carico di pericoli e prepotenze.

D’altronde, anche all’epoca di Jannacci il barbon era il primm a menà via, il primo ad andarsene: a occultare la sua presenza, perché soggetto “naturalmente” esposto, sospettabile, censurabile, in occasione dei piccoli e grandi accadimenti storti della vita cittadina. La sua selvaticità, peraltro, non era tale dal renderlo insensibile al fascino dei simboli del progresso e della ricchezza: son mai staa su la machina mi, signore, confessava il protagonista della canzone all’automobilista che gli chiedeva un’indicazione stradale, e che pur apostrofandolo con un maleducato “barbon” l’avrebbe poi fatto salire a bordo, così come oggi molte biblioteche o internet point accolgono, più o

meno volentieri, moltissimi homeless alla ricerca di riparo dal freddo o dal caldo, ma anche attratti da computer e schermi che connettono al mondo circostante, e offrono qualche utile dritta su dove cercare un letto, un piatto di pasta, un lavoro.

Alla fine, però, l’uomo in scarpe da tennis l’han trovaa sotta a un mucc de carton, gh’han guardaa, el pareva nessun (…) el pareva ch’el dormiva: si moriva tristemente allora, nella reclusione del tutto aperto intorno, condannati a sembrare nessuno, come si muore drammaticamente oggi, abbandonati alla propria sconfitta, su un marciapiede o in un’area industriale dismessa. Lassa stà, che l’è roba de barbon, sentenzia la città che passa accanto e non si curva: non

L’uomo che spiazzava sempre. E Enzo, il mio Maestro. Di cabaret, e non solo. Un genio dell’improvvisazione. Che non è di Sandro Patè

Quelli che. E quelli che non sanno cantare Quelli che. Se ne è andato Enzo Jannacci e tutti, dai politici ai presentatori, passando per i giornalai e i giornalisti, hanno provato a rifare uno dei suoi pezzi più famosi. Chissà perché.

Aveva proprio ragione lui: «Per fare certe cose ci vuole orecchio». Quelli che, per molti, è solo una canzone-elenco che può contenere tutto senza soffermarsi nel dettaglio su nulla. In realtà, il brano in questione è tutt'altro che semplice. Il testo è tutto Maestro e autore giocato sull'improvvisazione, il solo Enzo Jannacci modo che aveva il suo autore per afinsieme a Sandro Paté frontare la musica e la vita. La poetica

8. scarp de’ tenis maggio 2013

di Enzo Jannacci è basata su questa strana pratica che lo spingeva a non realizzare mai due versioni identiche di uno stesso brano. Grazie a questa voglia di inventarsi sempre da zero, ha avuto un’esistenza piena zeppa di carriere. Ai biografi che vogliono raccontare la sua vita spetta ora un compito davvero complicato, per non dimenticare niente chissà cosa si inventeranno.

Non è semplice improvvisare nella vita.

Non è certo un problema che tocca so-

l’omaggio sapendo di vergare, in questo modo, oggi come allora, l’epitaffio della propria cecità morale e sordità politica.

Sogni carezze preghiere Insomma, i cantanti poeti – e Jannacci di certo lo è stato – sanno essere acuti, sorprendenti cronisti dei margini. Eppure la loro verità non si limita alla descrizione. Poco più di un anno fa, in occasione della morte di Lucio Dalla, autore dell’altrettanto memorabile Piazza Grande, l’editoriale di Scarp si interrogava sul perché «il barbon (…) ha diritto di cittadinanza molto più in romanzi, pièce teatrali, canzoni, film e affini, che nei meccanismi di rappresentanza politica e di tutela sociale che regolano la nostra convivenza civile». E si rispon-

deva avanzando «il sospetto che nel povero estremo il poeta – ne sia consapevole o meno – scorga una sorta di immagine “pura” dell’umano. Spogliata da ogni orpello consumistico, da ogni ansia proprietaria. Come chiedersi: che ne resta (o che ne è davvero) dell’uomo, se togliamo gli averi, gli status symbol e lo status sociale, il lavoro, persino la casa? Quel che resta (…) è un bel sogno d’amore. Rincorso già da tempo. (…) Ed echeggiato da quel che prova, intimamente, l’omologo bolognese, attorno al quale ruota l’intera Piazza Grande: A modo mio, avrei bisogno di carezze. E di sognare anch’io. E di pregare Dio».

In definitiva, i poeti ci sospingono a effettuare una scoperta minima, però a suo modo commovente: il marginale,

l’ultimo, la persona senza dimora (persona, prima che senza dimora) rivela efficacemente, nella sua “nudità” patrimoniale e nella sua invisibilità sociale, che l’umano resiste (esiste) là dove resistono attese d’affetti, desideri di relazioni, slanci dello spirito. Aperture verso l’altro, orientamenti verso l’alto. Non è un tetto sulla testa, e tantomeno il conto in banca, a definire il valore autentico di un’esistenza: sogni carezze e preghiere sono molto più irrinunciabili.

Per fortuna, vien da concludere, ogni tanto un poeta ci riporta all’essenziale. All’interiorità: la dimora che tutti condividiamo, anche quando non abbiamo dimora. Anche quando camminiamo su un anonimo stradone, verso l’Idroscalo del nostro smarrimento.

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GRAZIA SACCHI

insegnava a improvvisare furbizia. Ma movimento. Trasformazione del mondo. Superamento del disagio lo uomini di spettacolo come l'autore di El purtava i scarp de tennis. Non si tratta solo di un esercizio musicale. Allora cos'è?

Vuoti di condizionamenti Provo a fornire a una risposta perché ho conosciuto Enzo Jannacci. Era il 2000, e lessi sul Corriere della Sera che stava cercando ragazzi per aprire una scuola di cabaret. Mi presentai e dopo qualche settimana iniziarono le lezio-

ni. Ricordo ancora il primo viaggio su a Milàn. Dentro di me dicevo: il Maestro – è da allora che lo chiamo così – ci parlerà dei preziosi consigli che Dario Fo gli aveva dato agli esordi, ci leggerà i pezzi di cabaret che scriveva per il Derby Club o, finalmente, ci spiegherà le folli canzoni composte per Cochi e Renato. Che emozione. E invece non parlammo mai de La gallina o de La canzone intelligente. Si cominciò con la meditazione.

Jannacci sapeva sempre come spiazzare chi aveva di fronte. Le prime lezioni furono davvero massacranti. Il gruppo di studenti passava ore a respirare.

Insieme all'ossigeno che buttavo fuori se ne andava pure la grande voglia di imparare a far ridere. Capacità, quest'ultima, che Enzo, misteriosamente, ha sempre avuto. Chissà come faceva.

L'obiettivo che non comprendevamo a pieno era svuotarsi di tutti i condizionamenti. Fare piazza pulita di limiti e maggio 2013 scarp de’ tenis

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Ciao Enzo

Enzo dixit 1 Rispetto, non solo per il fratello maggiore Non si può dire, bisogna fare. Bisogna cambiare i cittadini italiani, insegnare l’educazione nelle scuole elementari…

Bisogna cambiare l’Italia, innescare un meccanismo di cambiamento sul lungo periodo.

Cambiare gli italiani vuol dire cambiare i giovanissimi, mandarli in una scuola dove ci siano maestri e maestre preparati con attitudini psicologiche specifiche, per far capire il rispetto per gli altri. Allora non ci sarà più solo il rispetto per il fratello maggiore. C’è il rispetto per tutti, perché qualcuno ti ha insegnato l’altruismo.

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Scarp de’ tenis numero 5, settembre 1996

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pregiudizi è inevitabile, prima di iniziare ad avere a che fare con gli altri.

In effetti, quando si scrive, si recita un pezzo comico o in generale si è impegnati in un’attività che prevede una qualche forma di contatto, bisogna premurarsi di conoscere le persone al nostro fianco. Ricordo le parole di Enzo: «Fuori tutto. Via tutta l'aria. Non tenete niente». Mi sembra ancora di averlo qui accanto a me. «Sandro, va che di aria ne hai ancora lì. Foera!».

Tutto un riempire e svuotare i polmoni fino a farli scoppiare.

Dopo ogni lezione, provati da questo strano esercizio, il Maestro ci diceva frasi difficili da dimenticare. La prima: «Qualsiasi lavoro voi facciate in futuro, dovrete aiutare gli altri, chi non ce la fa da solo». Poi anche: «Non scordate mai l'umiltà verso chi fa fatica a stare al mondo». E molte altre.

Forse nessuno del TIZIANO RIVERSO gruppo ha capito davvero il segreto della comicità di Jannacci. Non è uscito nemmeno un saltimbanco dalla lista dei partecipanti a quel vecchio corso.

Eppure tutti abbiamo capito come nascevano le sue canzoni, con i barboni sotto a un mucc de cartun, con gli operai che non arrivano a fine mese o gli zingari, gli ammalati, i clandestini in città: i dritti, in una parola – che racchiude tutti i personaggi delle sue canzoni – i diversi. «Anche con l’amore – diceva Enzo – bisogna andarci molto cauti. Conosco delle persone che sono uscite malconce da una storia finita male. Per loro, a volte, non esiste medicina giusta».

L’ansia di esporsi Ecco perché di canzoni con i sentimenti facili e gli innamorati seduti su una panchina al parco, per fortuna, non c’è traccia nella discografia di Enzo Jannacci, medico-cantautore che ha sempre guardato con attenzione gli ultimi. Li ha fatti diventare i protagonisti delle proprie piccole grandi opere. Ma per accorgersi delle persone, privilegiati e non, bisogna lavorare sui propri valori e mettersi continuamente alla prova. Il concetto chiave diventa, ap-

10. scarp de’ tenis maggio 2013

punto, improvvisazione. Un’abilità che non serve solo a suonare un brano che non si è provato abbastanza, o a vincere la paura del palcoscenico.

Io ho avuto il privilegio di conoscere un artista che aveva improvvisi momenti di timidezza e istanti di riservatezza davvero amabili. Enzo ha provato l’ansia di esporsi e l’ha affrontata. Forse, in alcuni momenti, ha persino inseguito la strana voglia di continuare a emozionarsi. L’improvvisazione, in effetti, non è furbizia. È movimento. È una trasformazione del mondo che sfocia sempre in una creazione. Chi sa davvero improvvisare usa il pensiero in maniera libera. È pronto a fare salti nel buio, ha un’idea del limite e, di conseguenza, riconosce le altre persone in difficoltà.

Superare un momento di disagio significa sempre trarre risorse da una parte misteriosa di sé. Risolvere qualcosa di mai affrontato prima è persino magico, per quanto può rendere più forti. “E allora sarà ancora bello / quando guardi il tunnel / che è ancora lì vicino e non ci credi ancora. / Ne sei venuto fuori e non ci credi ancora / e ci hai la pelle d’oca e non ci credi ancora” cantava Enzo in Se me lo dicevi prima. Bisogna imparare a improvvisare, per non cedere alla disperazione.

Come tutte le persone che operano nel volontariato, Enzo non parlava facilmente del suo impegno.

Ho avuto notizia di iniziative private ad anni di distanza dal nostro incontro, solo quando ho provato a fissare su carta i ricordi del pezzetto di vita passato assieme, e ho chiacchierato con altri che l’hanno conosciuto. Ora sarebbe fin troppo facile elencare ciò che Enzo faceva per aiutare i diversi della metropoli in cui ha sempre vissuto. Potrei citare le associazioni in cui ha prestato servizio medico gratuito o menzionare alberghi e ristoranti che pagava mensilmente per offrire un po’ d’aiuto ai senza dimora. Potrei, ma non lo farò.

Preferisco improvvisare e cercare di ricordare tutti, ma proprio tutti, i momenti che ho passato con il mio Maestro di improvvisazione, scomparso troppo improvvisamente.

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l’omaggio

STEFANO CASINI

Hai dato voce agli sconfitti, la gente ti vuole bene davvero Milano, basilica di Sant’Ambrogio, 2 aprile 2013: l’omelia ai funerali di Enzo Jannacci di Roberto Davanzo direttore di Caritas Ambrosiana

«Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale...», cantavi tanti anni fa, caro Enzo. Ebbene ora ci siamo al tuo funerale e siamo in tanti, e siamo tutti. Ma nella canzone precisavi il motivo, la curiosità: «per veder se la gente poi piange davvero». E anche questo te lo possiamo garantire: la gente ti voleva bene, ti vuole bene, perché non si può non voler bene a chi con la sua arte ha dato voce (...) a quelli che la voce non ce l’hanno, ai tanti anonimi sconfitti della storia, da quel Soldato Nencini meridionale ma di stanza ad Alessandria, «perché c’è più nebbia», a quello che Faceva il palo della banda dell’ortica sordo e cieco arrabbiato con i complici per un Non solo parole bottino che – secondo lui – gli conseIn queste pagine, Scarp ha voluto rendere omaggio gnavano a cento lire alla volta. a Jannacci anche Le riascolteremo a lungo le tue cancon una galleria di splendide zoni, non solo per ricordare te, ma per tavole di celebri fumettisti e illustratori. Che ringraziamo diventare più umani, più autentici. per la collaborazione.

Sotto a sinistra, il giovane Jannacci in una improvvisazione con musicisti dell’epoca

***

Enzo ci ha lasciato proprio nei giorni in cui i cristiani celebrano il mistero più

grande, quello di un Dio che non si è accontentato di fare tutto quello che ha fatto, ma che ha anche voluto entrarci in questa storia, sporcarsi i piedi con la polvere di questa terra, per dirci che questa vita potrebbe essere vissuta in modo diverso, in modo più bello, smettendo di farci gli affari propri, cominciando a prenderci cura anche degli altri, di quelli di cui nessuno si cura. (...)

Enzo sarà ricordato a lungo, la sua sepoltura nel Famedio lo salverà da un oblio immediato. Ma può essere solo questa la consolazione rispetto alla separazione che la morte porta con sè? (...)

Siamo di fronte al caso serio della vita, alla domanda che ci fa chiedere se c’è qualcosa per cui valga la pena di vivere, per cui valga la pena di morire.

La Pasqua di Gesù, una vita di dedimaggio 2013 scarp de’ tenis

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Ciao Enzo

Enzo dixit 2 Il personaggio esiste e continua a morire Auguro alla vostra rivista un futuro da Tiscali, visto che la Superga o la Nike, alle quali ho fatto vendere un sacco di scarpe da tennis, non mi hanno dato neanche diecimila lire...

Il giornale è giusto, la canzone azzeccata, il personaggio esiste e continua a morire…

Io cerco di scuotere la gente da 40 anni, ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. E se uno non ode, non capisce.

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Scarp de’ tenis numero 63, luglio-agosto 2002

zione agli altri che sconfigge il rifiuto e persino la morte, è una risposta non certo facile e che non ci mette al riparo da incertezze e disillusioni, ma è l’unica che (…) giustifica il rischio di vivere una vita centrata su chi ci sta attorno e non solo su di noi. A patto di riuscire a sentire il fascino proveniente da quel Gesù che tanto aveva attratto Enzo in questi ultimi anni. (…)

***

Ma permettetemi ora di parlare come direttore della Caritas di Milano. È dalla geniale ed amara poesia di Enzo Jannacci da cui abbiamo tratto il titolo di una rivista e di tanti progetti di dignitàda essa scaturiti, a Milano e in altre città d’Italia (...). È vero: El purtava i scarp del tenis è cantata in quel dialetto milanese che si è forgiato nei secoli grazie all’influsso delle tante lingue che passate da Milano-Mediolanum, la terra di mezzo tra il Mediterraneo e il nord Europa, tra i Balcani e i Pirenei. Un dialetto che, nel raccontare della storia triste di un senza dimora alla ricerca di un amore che non può essere negato a nessuno, ha smesso per un attimo di essere visto come una colonizzazione della ricca ed efficiente terra milanese per diventare una specie di esperanto

dell’emarginazione e della denuncia di ogni indifferenza. E se la canzone si chiudeva con il ritrovamento del protagonista sotto un mucchio di cartoni ormai esanime e con un cinico lasa sta, che l’é roba de barbun, possiamo dire che proprio quella canzone è diventata la cifra di un prendersi a cuore le storie e le vite di tanti “barboni” alla ricerca più o meno consapevole di un’esistenza più dignitosa, di un amore, di una speranza.

Il mondo degli emarginati che Jannacci aveva raccontato in modo struggente e ironico, sconsolato e caustico, dal protagonista di Ragazzo padre al villano di Ho visto un re passando attraverso il tossico di Se me lo dicevi prima, quel mondo, in quel barbone con le scarpe da tennis veniva magistralmente rappresentato. (...) E la carità ha bisogno – oggi più che mai – anche di poeti che ci riportino, come è stato scritto, all’essenziale, all’interiorità (…).

Enzo è stato questo tipo di poeta. Il nostro grazie va a lui e a quanti (…) lo hanno sostenuto nella sua arte, nella sua missione di medico, nella sua malattia: a partire dalla moglie, Giuliana, e dal figlio Paolo, cui va il nostro cordoglio e la promessa del nostro affetto.

Enzo dixit 3 Gente solidale ce n’è.

Però due su dieci La canzone nasce dalla mia continua ricerca di far capire l’immagine del diverso...

Oggi a Milano ci sono ancora quelli cunt i scarp del tennis, ma ai piedi hanno le Nike: i poveri oggi sono precari che cadono Scarp e Jannacci: riservato, ma non disinteressato nella delinquenza o nell’eroina, finiscono di Paolo Sappiamo che tutto nacque da un’idea di Pietro Lambruschi alla Centrale, Greppi e da un paio di scarpe da tennis, nel 1994. E da allora direttore o si aggregano ad altri primo Enzo Jannacci è il filo rosso, il minimo comun denominatore di Scarp disperati e fanno la tra questo mensile che parla della strada, il popolo che sulla stessa fine. (…) Milano strada ci vive e le migliaia di lettori, prima di Milano, oggi di è sempre stata una tutta Italia, che sulla strada Scarp lo acquistano. città borghese, con una Pietro, pubblicitario e creativo sensibile, è in definitiva grossa maggioranza colui che ha creato il link con Enzo Jannacci e quel mondo cosiddetta silenziosa, di poesia e disperazione che sta dietro la canzone scritta nel specie in centro. (…)

1964. Ormai mezzo secolo fa. Ma il Di gente sensibile e giornalismo che Scarp ha sempre tensolidale ne è rimasta. tato di sviluppare dal 1996, anno della Io li vedo. Però sono sua rifondazione con la Caritas Amsempre meno, il brosiana, non ha tempo, come la canrapporto non è uno a zone, e deve molto alla poetica del meuno, ma due a dieci. dico cantautore dei Navigli, alla sua in-

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Il marchio dell’Enzo, un’aura di simpatia

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Scarp de’ tenis numero 88, febbraio 2005

12. scarp de’ tenis maggio 2013

VITO POTENZA

stancabile ricerca di ritratti di umanità perdente, che da sempre abita le peri-

l’omaggio

Il fondatore

«Lo chiamai per dirgli che...»

Ogni città ha i suoi protagonisti e i suoi cantautori. A Bologna fu Lucio Dalla, con Piazza Grande: quella canzone diede il nome al primo giornale di strada italiano, nel 1994. Nello stesso anno a Milano Pietro Greppi, professione pubblicitario, pensava a un progetto simile. E pure il capoluogo lombardo aveva la sua canzone dedicata a un “barbone”. «Così la ballata di Enzo Jannacci divenne quasi

automaticamente la colonna sonora e l’ispirazione per il titolo del primo giornale di strada meneghino – racconta oggi Greppi, ideatore e fondatore –. Quando decidemmo che il giornale si sarebbe chiamato così, chiamai Jannacci e gli spiegai la scelta di rendere omaggio alla sua canzone». Il medico cantautore ne fu contento. «Non era di molte parole – ricorda Greppi – ma trovò il progetto molto bello e volle rimanere al corrente dei suoi sviluppi. Quando uscì il primo numero uno dei venditori, Francesco, gliene portò una copia».

E da allora, per lungo tempo, Jannacci continuò a comprare la sua copia dal venditore vicino a casa.

GRAZIANO ORIGA

ferie, che Scarp ha adottato e che si è rivelata la formula vincente per far immedesimare chi porta abitualmente le scarpe da tennis firmate con chi calza quelle donate dal centro di ascolto.

La conferma che quella è la via giusta (perseguire un giornalismo con l’anima), è la facilità con cui Scarp da testata con titolo in milanese si è trasformata in un’espressione universale di facile esportazione lungo tutte le periferie italiane, fino a Catania, sorta di koinè della povertà estrema. Quando il mensile ha tentato la vendita sulle strade di altre città non ha avuto problemi a farsi riconoscere e apprezzare.

Scarp de’ tenis ormai vuol dire strada in tutta Italia, ed è merito soprattut-

to del marchio di fabbrica impresso dall’Enzo, che riveste con un’aura immediata di simpatia i venditori provenienti da diverse zone del pianeta, da altri stradùn.

Profumo di umanità I rapporti diretti tra Jannacci e il giornale sono sempre stati rarefatti, in linea con la sua riservatezza. Lui ha seguito la nascita del periodico concedendo per telefono a Greppi il placet a usare il titolo della canzone per la testata, poi ha concesso interviste. Si sa che era un lettore, meno si sa della sua attenzione verso i venditori. Uno in particolare, Pietro C., che vendeva a Città Studi, quartiere milanese dove il cantautore ha abitato a

lungo, fino al 2000 gli faceva trovare una copia che Jannacci pagava generosamente. Poi Pietro lasciò Milano, per sua fortuna, per trasferirsi in una comunità piemontese, e non so onestamente chi lo avesse sostituito. Ma l’attenzione e la delicatezza della famiglia verso il mensile in occasione dei funerali testimoniano un interesse e una sensibilità costanti verso l’universo della marginalità.

Non è un caso che i giornali di strada che contano siano rimasti Scarp de’ tenis e Piazza Grande, nati dall’umanità e dal genio di due grandi della musica. Perché mescolano notizie e cultura popolare, ricordi struggenti, storie e speranze. Sanno di fatica: profumano di umanità.

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Non c’è più lavoro per lei...

L’esperienza della perdita del lavoro (che sia licenziamento, cassa integrazione, mobilità o altro) cambia in profondità chi la subisce. Insieme al lavoro, si perde qualcosa della propria identità: un’identità costruita giorno dopo giorno, nel tempo.

Un comitato nato da una crisi aziendale ha pensato di usare fotografie e parole, per ricordare a tutti che le persone uscite dal circuito produttivo non sono un peso, ma prima di tutto persone: con un loro mondo, una loro vita.

Con l’avanzare della crisi, si sono visti numerosi reportage su chi il lavoro l’ha perso o lo sta perdendo: belli, intensi, drammatici. Ma tutti di fotografi esterni alle vicende che raccontano. Questo lavoro, invece, cerca di raccontare non i lavoratori che hanno perso il lavoro e la loro disperazione, ma le persone e la loro dignità ferita. Ed è una mostra voluta da chi subisce tale meccanismo: insomma, un raccontarsi da dentro.

Sono stati fotografati e intervistati lavoratori ed ex lavoratori di varie aziende della Brianza (un tempo locomotiva tecnologica d’Italia, oggi non risparmiata dalla crisi), piccole realtà e sedi di grandi multinazionali.

Tutti si possono considerare autori: il raccontarsi e l’esporsi sono già una forma di resistenza. Forse di speranza.

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Mi chiamo Gianluigi e sono in cassa integrazione dal 2006 Il corpo compatto emana un’energia contagiosa: «Sono delegato sindacale dal 1981, quando eravamo ancora Ibm». Risoluto e sorridente, incarna lo spirito tenace di un uomo abituato a lottare: «Essere del sindacato ti garantisce una forte idealità. Il ruolo di delegato ti dona autostima, ti motiva. Affronti periodi difficili senza rimanere ai margini dei problemi» La voce scende di una tonalità. Abbassa leggermente lo sguardo sui fogli sparsi sul tavolo: «Inutile nasconderlo: questa crisi divide la gente. Le persone non si espongono, non scendono in sciopero, non manifestano. Ognuno pensa che non sarà toccato personalmente».

Appoggiati ai muri, su piccole mensole, sono distribuiti ritagli colorati: «È inevitabile: dopo più di sei anni di precarietà, i tuoi famigliari non possono non risentire di questa situazione». Si guarda intorno, si sofferma su una sagoma rossa che raffigura una donna sorridente.

«Negli anni che mi separano dalla pensione, mi piacerebbe contribuire al rilancio del Polo tecnologico vimercatese, per il futuro di questa terra e dei giovani».

Non uno di meno è il comitato nato tra i lavoratori Alcatel Lucent di Vimercate, quando la multinazionale delle telecomunicazioni ha annunciato un pesante piano di tagli e cassa integrazione. Il comitato propone iniziative di riflessione e solidarietà, nel territorio, nelle scuole, con lavoratori di altre aziende. Tra esse, la mostra “Non c’è più lavoro per lei” (prossimo appuntamento in piazza dell’Arengario a Monza, il 25 maggio): immagini di Paolo Dalprato ed Elena Bestretti, parole di Elvis Crotti, 19 ritratti di persone con la vita capovolta dalla crisi.

Istantanea impietosa, ma molto umana, della perdita di competitività e di posti di lavoro in un’area tecnologicamente avanzata, la Brianza vimercatese, fino a pochi anni fa ritenuta la “Silicon Valley italiana”.

Info e contatti www.facebook.com/non.piu.lavoro.per.lei

fotoreportage Mi chiamo Gianni e sono in cassa integrazione da luglio 2012 In primo piano, un berretto da baseball rosso sbiadito della Cgil. «Per la mia vita, l’attività sindacale è stata molto importante. Fare il delegato mi ha dato una visione più generale della crisi che stiamo vivendo».

Le mani sfiorano il libretto di Bellini: A te o Cara. «Non sono un teorico del sindacato.

A me piace lavorare a contatto con le persone, condividere le esperienze».

Sullo sfondo, su un leggio pieghevole, s’intravede lo spartito. E lucevan le stelle.

«Bici e canto: le mie passioni extra-lavoro».

Gianni indossa una maglia da ciclista arancione, bianca e nera con il logo Alcatel e un blusotto senza maniche. «Questi nove mesi di cassa integrazione li affronto a testa alta». Lo dice con orgoglio: «In questo periodo di crisi, il cantiere della nuova sede AlcatelLucent è una contraddizione». Sorride, abbassa lo sguardo, si guarda le mani.

«Martedì 30 aprile rientrerò in ufficio, saluterò i colleghi: come se non fossi mai stato via».

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Non c’è più lavoro per lei...

Mi chiamo Walter e sono in cassa integrazione dal 2010. «Sono 27 anni che lavoro nel settore della floricultura. Dopo un anno di vivaio: o te ne vai o non riesci più a farne a meno». È un uomo robusto. Indossa un maglione di lana a treccia color écru, un paio di pantaloni sbiaditi. «Il male maggiore è non lavorare. Il vivaio mi manca tantissimo, il contatto con la natura conta quasi più del salario e del freddo che patisci nelle mattine d'inverno».

Barba disordinata, capelli lunghi, occhi liquidi chiari cerchiati da occhiaie scure. «Per apprezzare il mio lavoro devi essere un po’ orso, amare la solitudine.

Quando lavoravo nei vivai, stavo anche tre mesi senza vedere nessuno. E allora potevo osservare da vicino le civette, le serpi strisciarmi ai piedi, i nidi dei topi, sciami d’api formarsi sopra la testa. Avvistare una volpe». Il cellulare suona. Lo afferra. Lo lascia squillare. «Oggi, a 43 anni, quando mi presento per un colloquio, mi rispondono che sono vecchio. L'edilizia e le strade stanno mangiando la Brianza». Le dita delle mani hanno unghie bianche, perfette, quasi infantili: «In questo periodo, sto più tempo con i miei tre figli. E cerco di aiutare le persone che vivono le mie stesse difficoltà».

Mi chiamo Giacomo e sono in cassa integrazione dal 2006. «Svolgo attività sindacale da tre anni: il sindacato mi ha salvato la vita». La voce tentenna, le parole sembrano distillarsi fra mille pensieri.

«In questi sei anni di cassa integrazione e precarietà non ho potuto fare spese straordinarie. Sono single.

Nel tempo libero, ho accudito i miei genitori, aiuto i miei fratelli» Siamo circondati da molte sedie vuote, gli schienali rossi, i tavolini per prendere appunti sono abbassati. «Oggi alla Bames, su 500 dipendenti, 450 sono in cassa...».

Sgrana gli occhi marrone, la bocca sottile si trasforma in una smorfia quando si sofferma sui numeri, sulle responsabilità dell’azienda, sulle promesse mai mantenute, sui debiti della proprietà. «Se pensi che solo pochi anni fa in Ibm eravamo migliaia...». Muove i piedi stretti in un paio di scarpe da trekking. «Questa opera di dismissione dequalifica professionalità medio-alte senza dare prospettive di futuro». Si placa, le parole che battono in gola, il block notes verde lucido della Cisl stretto al petto. Si allontana pensieroso, prima di rispondere sottovoce.

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fotoreportage

Mi chiamo Barbara e sono in mobilità da gennaio 2012. Sul polso un elastico rosa, la fede al dito, 28 anni di lavoro nella stessa fabbrica. «Per assurdo, tutto è cominciato il giorno dopo la vittoria di quattro titoli mondiali». La voce è rotta dall’emozione. «Quel pomeriggio del 28 ottobre 2009, il delegato ci ha comunicato incredulo: Siamo tutti licenziati!». Abbassa la testa, si guarda il palmo delle mani. «Abbiamo deciso di reagire: il 13 dicembre abbiamo iniziato un presidio permanente». È rimasto il candore dello sguardo, gli occhi lucidi, la determinazione dei giusti. «Come risposta, i dirigenti Yamaha hanno usato la cattiveria. E pensare che io, come tanti, avevo dato l’anima per l’azienda...». Si scuote, alza le mani davanti al viso. «Il giorno della smobilitazione del presidio, abbiamo deciso di tagliare la bandiera che aveva sventolato per 445 giorni». Un velo di plastica protegge un rettangolo di stoffa rossa, le dita lisciano gli spigoli. «Fuori non c’è nulla. Io sono da 35 mesi senza lavoro». Poi, inaspettatamente, sorride. «Ho saputo che la roulotte utilizzata durante il presidio verrà data ad altri lavoratori in lotta». Appesa al muro, una litografia. Un regalodell’azienda, ricorda senza ironie, per l’inizio del nuovo millennio...

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Belpaese sempre meno attraente. Per gli stranieri. Ma pure per i giovani italiani: che il lavoro vanno a cercarselo oltre frontiera

GOODBYE ITALIA (Chi torna, chi emigra) di Francesco Chiavarini

In Lombardia nel 2012 meno stranieri che nell’anno precedente: primi segnali di inversione di tendenza?

Intanto cresce il numero degli italiani che se ne vanno all’estero: +30% negli ultimi dodici mesi.

La crisi allontana autoctoni e immigrati dallo Stivale.

E non è un problema solo economico e demografico: i rimpatri forzati spesso lacerano famiglie che si erano integrate, le partenze dei giovani italiani alimentano una generazione di sradicati

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In Lombardia, uno straniero su dieci vuole andarsene. In Italia, solo lo scorso anno, mille sono tornati a casa con i rimpatri assistiti. Oltre 300 mila non hanno trovato da noi quello che cercavano: il lavoro. Italy, goodbye? L’Italia ha smesso di essere l’America per chi proviene dal cosiddetto Sud del mondo? La crisi economica sta respingendo indietro (o spingendo altrove) chi era venuto nel Belpaese in cerca di futuro? Certamente ognuno dei tre fatti citati, preso singolarmente, ha una spiegazione a sé. Ma se è vero che tre indizi fanno una prova, allora forse siamo di fronte a un quadro nuovo, benché gli esperti di flussi migratori continuino a rimanere divisi tra interpretazioni apocalittiche (è iniziato il Fuga dalla Lombardia contro-esodo) minimaliste (è solo una In realtà i ricercatori dell’Orim hanno momentanea battuta d’arresto). fatto anche di più. Hanno chiesto agli Andiamo con ordine. E partiamo stranieri dove avrebbero voluto vivere appunto dalla Lombardia, la regione nei prossimi anni. Ebbene le risposte dove è concentrato un quinto della posono state raggelanti, per quei lombarpolazione immigrata in Italia. Ebbene di che pensano ancora di abitare in una proprio qui il numero degli stranieri delle aree più floride dell’Europa. Un scende. Secondo l’ultimo Rapporto immigrato su dieci, infatti, ha dichiaradell’Orim (l’osservatorio regionale per to che intende andarsene: il 6,4% vorl’integrazione e la multietnicità), il nurebbe tornare nel paese d’origine, il mero degli stranieri al 1° luglio 2012 era 4,9% trasferirsi in un altro stato. Non so1 milione 237 mila, 33 mila in meno rilo. Se si considerano solo coloro che sospetto al 2011. Non tantissimi per la veno arrivati nel 2012, cioè a crisi già conrità (appena -2,6%). Ma il punto – fanclamata, la percentuale di chi è pronto a no osservare i ricercatori – è proprio dire addio sale al 40%. quel segno “meno”. Se, infatti, è vero Colpa dell’inospitalità degli autocche già da alcuni anni la popolazione toni, che ancora alle ultime regionali immigrata stava crescendo di meno, hanno ridato fiducia alla Lega Nord, non era mai accaduto che addirittura partito anti-immigrati per eccellenza? diminuisse.

In realtà, più del “cattivismo padano” Siamo, insomma, di fronte a un pripare centri la recessione economica. mo segnale d’inversione di tendenza. A Rivela infatti sempre l’Orim che in cui, probabilmente, ne seguiranno alLombardia la disoccupazione tra gli imtri. «Se le condizioni di crisi del mercamigrati è salita dall’11,7% del 2011 al to del lavoro continueranno ad aggra14,4% del 2012. I più penalizzati sono gli varsi, il flusso in uscita degli immigrati under 30: oltre la metà ha difficoltà di è destinato ad aumentare», prevede accesso al mercato del lavoro. La conseGiancarlo Blangiardo, demografo che guenza è un progressivo impoverimenha curato il Rapporto. to anche delle famiglie immigrate. Il

l’inchiesta

reddito medio mensile del 2012 è sceso a 1.400 euro, mentre nel 2011 era di 1.500 euro. Altri indicatori fotografano una situazione sempre più pesante. Sono in diminuzione le famiglie straniere che riescono a risparmiare: mette da parte 100 euro mensili il 27,8% (nel 2011 erano il 34,7%). Diminuiscono le rimesse: le famiglie che riescono a mandare nel paese di origine più di 100 euro al mese scendono dal 33% al 28,3%.

Infine, solo una famiglia su cinque oggi è proprietaria di una casa (20,1%), due anni fa lo era il 23,2%.

Fuori dal mercato Se questa è la situazione nella regione più produttiva del paese, non va meglio nel resto d’Italia.

A fine marzo la Direzione generale dell’immigrazione e delle politiche di

integrazione del ministero del lavoro e delle politiche sociali ha presentato il Rapporto semestrale sul mercato del lavoro degli immigrati, secondo il quale l’ultimo semestre ha visto un rilevante aumento degli immigrati disoccupati: 318 mila stranieri senza lavoro in più.

Come ha spiegato il sottosegretario Maria Cecilia Guerra nel corso della

presentazione, l’aumento degli immigrati disoccupati dipende da molti fattori. Da un lato, l’aumento dei richiedenti asilo, che come è noto non possono svolgere attività lavorativa mentre attendono la risposta alla domanda di protezione. E così i 60 mila arrivati in Italia dal Nord Africa dopo le primavere arabe avrebbero fatto crescere dell’11% il numero delle persone straniere inattive. D’altro canto, la crescita dei disoccupati stranieri è stata determinata anche dall’aumento dei ricongiungimenti familiari, di cui in genere usufruiscono donne che si occupano della famiglia o giovani che studiano.

Tuttavia, anche tenendo conto di queste ragioni, il rapporto sottolinea che per la prima volta i «disoccupati stranieri aumentano, mentre maggio 2013 scarp de’ tenis

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Goodbye Italia. (chi torna, chi emigra) crescono anche gli occupati». Segno che, nonostante la grande flessibilità mostrata dai lavoratori immigrati, una quota sempre maggiore non riesce a trovare una collocazione nel mercato.

Senza lavoro, gli stranieri ripensano al loro progetto migratorio. I ritorni in patria effettuati con l’assistenza e gli aiuti previsti dal meccanismo del Ritorno volontario assistito sono passati dai

La storia

Rodrigo rientra in Ecuador Bussa al vetro del mio open space con un’aria più triste del solito. Convinta che sia arrivato per pulire gli faccio cenno di entrare.

Ma non è venuto a fare i suoi soliti lavori. Rodrigo, oggi, è qui con la mano tesa, lo sguardo basso, perché ci tiene a salutarmi prima di partire. Partire per dove? La notizia che stia per tornare a casa sua, in Ecuador, mi lascia allibita. Ventotto anni, di cui quattro in Italia, un lavoro alla cooperativa di pulizie svolto sempre oltre il comune senso del dovere, il sorriso e la battuta pronti, Rodrigo è un classico caso di “immigrazione riuscita”, di buon inserimento sociale.

Eppure molte nubi si sono addensate sui suoi progetti: il costo della vita crescente, la crisi, la notizia, temuta quanto attesa, che il contratto di lavoro non gli sarebbe stato rinnovato. Di conseguenza, un rapido calcolo, i consigli dei familiari, la decisione: meglio tornare a casa e sopravvivere, cavandosela con i propri mezzi, che restare in Italia ad “arrancare”.

«Ho faticato molto a prendere questa decisione – spiega Rodrigo –, ma la verità è che altri, legati all’Italia ben più di me, perché qui hanno anche la famiglia, già sono tornati. Io sono senza figli e mi spiace dire che oggi è l’unica fortuna che mi resta per sperare di farcela».

Un mutuo da pagare per la casa italiana, le rimesse da spedire in Ecuador, un contratto di lavoro rinnovato a singhiozzo, devono essere stati un peso davvero troppo gravoso per le spalle di questo ragazzo. «La rata del mutuo – continua Rodrigo – è una delle spese che hanno inciso di più. L’idea di vendere casa mi preoccupa, perché so che il mercato è in ginocchio. Ma non importa. Per ora voglio solo tornare».

Paola Malaspina

228 effettuati nel 2009 agli oltre mille previsti per l’anno in corso. È vero che dal 2009 il Ritorno volontario assistito è attuato con il co-finanziamento del Fondo europeo rimpatri, il che permette al ministero dell’interno di offrire concrete opportunità di reinserimento nel paese d’origine a chi sceglie di aderire al programma. È vero anche che, proprio grazie a quei fondi, è stato possibile ampliare la rete delle onlus che organizzano i percorsi di ritorno. E che, proprio grazie a questa rete, è stato possibile raggiungere un numero maggiore di potenziali beneficiari con una più capillare campagna d’informazione. Tuttavia, è difficile immaginare che la crisi economica non abbia nulla a che fare con l’impennata delle richieste di aiuti per il rimpatrio, triplicate proprio negli anni in cui il nostro paese è entrato in recessione. «I migranti che tornano – ammette Carla Olivieri, responsabile della Rete italiana per il rimpatrio assistito (Rirva) – non lo fanno mai a cuor leggero: si tratta sempre di una scelta difficile, caratterizzata da ansia e senso di fallimento».

Lo sguardo altrove «Sarebbe azzardato stabilire se stiamo assistendo a una frenata, a una stabilizzazione o addirittura a un’inversione

Maschi, settentrionali, laureati: Nel 2012 boom dell’emigrazione: se ne sono andati quasi in ottantamila. La maggioranza di Marta Zanella

A salutarlo, alla Stazione Centrale a fine dicembre, c’era qualche amico che aveva sfidato il freddo e gli aveva dato una mano a caricare le valigie. Nessuna lacrima: emigrare ai tempi dei voli low cost non implica dirsi addio. Ci si prova, dunque, forse con più facilità. E così Marco, liceo classico, una laurea in lettere, diversi testi teatrali scritti e portati in scena, ma finora costretto a sopravvivere con quattro soldi facendo il barista e il modello per le pubblicità, ha deciso di lasciarsi alle spalle i suoi primi trent’anni di vita a Milano e ripartire da capo. A Parigi. Trentenne, uomo, lombardo: è il ritratto di chi sceglie di lasciare l’Italia oggi. La crisi ha fatto esplodere l’emigrazione italiana, che nell’ultimo anno ha registrato un boom che non si vedeva da tempo: sono stati quasi 79 mila i connazionali che nel 2012 hanno deciso di scappare dal nostro paese, il +30,1% rispetto all’anno precedente,

20. scarp de’ tenis maggio 2013

quando ad andarsene erano stati in 60 mila. Sono soprattutto giovani, secondo i dati appena resi noti dalla trasmissione Giovani talenti di Radio 24, che ha elaborato le cifre dei registrati all’Aire, l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero: oltre quattro emigrati su dieci hanno un’età compresa tra 20 e 40 anni, e sono il 28,3% in più rispetto al 2011, mentre gli uomini sono stati il 56% del totale, contro il 44% di donne.

Uno su otto in Germania Tra chi si mette alle spalle lo Stivale, resta l’Europa la meta più gettonata (scelta dal 62,4% dei connazionali emigrati). La Germania, in particolare, resta il paese più attraente, con 10.520 nuovi ingressi di italiani nel 2012, seguita da Svizzera

l’inchiesta di tendenza nei flussi migratori che investono il nostro paese – osserva Olivero Forti di Caritas Italiana –. Certamente, l’Italia non è la Svezia, che ha una tradizione di accoglienza di migranti politici. Non è nemmeno un paese co-

loniale, che ha mantenuto legami con i territori d’oltremare, come Francia e Inghilterra. Il nostro paese ha sempre accolto esclusivamente migranti economici. Da noi gli stranieri vengono non per le generose politiche di acco-

glienza, ma per trovare un lavoro. E ora che il lavoro manca, si può ipotizzare che chi voleva venire ha rimandato la partenza in attesa di tempi migliori, e chi è già arrivato sta volgendo lo sguardo altrove».

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Verso l’Ucraina

L. elettrizzato da Milano, deve arrendersi al rimpatrio L, 24 anni, ucraino, è uno degli oltre mille stranieri che quest’anno ha aderito ai programmi di rimpatrio assistito.

La sua storia migratoria comincia nel 2008, quando una sera sbarca all’aeroporto di Malpensa. Ha in mano un visto turistico. Quel documento è costato ai suoi una cifra da capogiro, 5 mila euro, tutta una vita di risparmi. Perché è così che funziona per i ragazzi dell’est: se ci si vuole costruire un futuro, bisogna emigrare. E per farlo non basta decidere di partire. Bisogna comprarsi il diritto a farlo.

Il visto turistico è il lasciapassare per superare la frontiera senza essere ricacciati indietro. Quel documento costerebbe poche decine di euro, ma la corruzione fa lievitare il prezzo. E’ così che va. Tutti lo sanno. Anche i genitori di L., che gli regalano quel documento dopo il diploma, come fosse un premio. Sperando che possa essere un investimento per il futuro.

Arrivato a Milano, L. lavora per un po’, in nero, nel panificio di un suo connazionale, che lo sistema a dormire da amici.

Certo, all’inizio è difficile, ma L. lavora duro, risparmia pure qualche soldo, la mattina presto vende le brioche alle ragazze che hanno passato la notte nei locali della movida milanese. Lui ha 20 anni, il profumo di quella vita spensierata gli piace. Milano lo elettrizza. Dopo tre anni dal

suo arrivo, però, il panificio chiude i battenti.

L. cercare un altro lavoro, ma non riesce più a trovarlo.

Inizia a dormire per strada, poi trova un vagone abbandonato alla stazione Garibaldi. Quando gli ultimi pendolari scendono, lui sale e stende il sacco a pelo sui sedili. Meglio che la strada. Meglio anche del dormitorio pubblico. Poi arriva dicembre. Fa freddo. Nel vagone, la notte, L. ha paura, dorme poche ore, mangia quando i volontari gli portano qualcosa. Ai suoi dice che va tutto bene e che presto manderà anche i soldi a casa. Ma sa che non può continuare a mentire a lungo. Ed è così che decide di chiedere aiuto. Il funzionario del comune gli spiega come stanno le cose: senza lavoro non potrà rinnovare il permesso di soggiorno. Ha però una possibilità: accettare di essere aiutato a tonare a casa. Gli pagheranno il viaggio, gli daranno 400 euro per la prima sistemazione, poi oltre mille euro per l’inserimento.

L. accetta. A febbraio l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) gli comunica che il ministero ha accolto la sua domanda e gli fornisce i documenti. Il giorno in cui gli hanno consegnato il biglietto di ritorno – racconta il funzionario del comune – L. «ha portato con sé un vocabolario d’italiano. Per non dimenticare». [f.c.]

generazione formato diaspora ha tra 20 e 40 anni, a sorpresa soprattutto dal nord. Ma c’è chi si batte per restare…

(8.906), Gran Bretagna (7.520), Francia (7.024), Spagna (3.748) e Belgio (2.317).

Tra i paesi extraeuropei, sono in tanti a scegliere il Sudamerica (oltre 6 mila in Argentina e 4.500 in Brasile), mentre 5 mila hanno fatto le valigie per gli Stati Uniti e quasi 1.700 per l’Australia.

Un po’ a sorpresa, come detto, si scopre che a partire di più sono i giovani settentrionali: uno su sei viene dalle regioni del nord, e uno su tre parte proprio dalla “ricca” Lombardia (13.156). Tra chi ha trasferito la propria residenza all’estero seguono veneti (7.456), siciliani (7.003), piemontesi (6.134), laziali (5.952), campani (5.240), e poi emigrati da Emilia Romagna (5.030), Calabria (4.813), Puglia (3.978) e Toscana (3.887).

Ma se è vero che, a differenza del

passato, sono in gran parte i settentrionali che hanno scelto di fare le valigie, non è vero che dal Mezzogiorno non si scappi più: chi se ne va è chi ha i titoli di studio più alti. «Il numero dei giovani laureati che si trasferisce all’estero è aumentato nel corso del decennio, una tendenza opposta a quella rilevata per il complesso dei meridionali espatriati – spiega Luca Bianchi, direttore di Svimez, nel Rapporto italiani nel mondo 2012, edito da Fondazione Migrantes –. La quota dei laureati sul totale dei giovani da 25 a 39 anni passa, infatti, dal 7% nei primi anni Duemila al 16% nell’ultimo triennio».

C’è da considerare che si tratta sempre di numeri approssimati per difetto: lo strumento più adatto per misurare

questi spostamenti è la conta delle cancellazioni di residenza dalle anagrafi comunali, ma è comunque un metodo parziale, perché sono moltissimi coloro che lasciano il paese per un periodo a termine e non modificano la residenza.

«Parliamo soprattutto di giovani che se ne vanno per un tempo di studio o un’esperienza professionalizzante, e che spesso migrano più volte avanti e indietro, e tra i vari paesi dell’Unione europea, senza che nei registri comunali ne resti traccia – analizza Delfina Licata, caporedattore del Rapporto italiani nel mondo –. Quasi tutti partono con l’idea che il loro sia un trasferimento temporaneo. È a termine per chi parte con un contratto in tasca: a maggior ragione lo è per chi va via cercando lavoro, senza un progetto maggio 2013 scarp de’ tenis

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Goodbye Italia. (chi torna, chi emigra) definito». Insomma: parto, ma poi non so cosa succederà. «D’altronde oggi ci si sposta con molta facilità: anche quando si emigra in un altro continente è piuttosto facile tornare per le vacanze o per Natale. Diventa quasi un pendolarismo transnazionale».

La classe dirigente se ne va Secondo l’Istat, la quota dei laureati in uscita ha fatto registrare un vero e proprio boom negli ultimi anni: un balzo dal 12% del 2002 al 27,6% del 2011, oltre 10 mila giovani, il doppio di quelli che sono rientrati. Il prezzo che l’Italia paga per queste fughe è alto: l’investimento in capitale umano perso per l’espatrio dei laureati ammonterebbe, secondo calcoli Istat, a circa un miliardo di euro l’anno, senza contare il valore dei brevetti realizzati all’estero da ricercatori italiani. Il Belpaese è storicamente terra di emigrazione, più che di immigrazione, ma rispetto al passato «oggi c’è un’aggravante – commenta Luca Bianchi –: è la classe dirigente di domani che se ne va. Negli ultimi tempi, anche grazie alle vaste mobilitazioni giovanili, la coscienza pubblica ha preso atto di questo grave stato delle

«Forse tornerò, da pensionato…»

Maurizio, giovane ingegnere trasferitosi in Inghilterra, a progettare videogiochi Ormai da dieci anni vive nel Regno Unito, dove lavora nel settore dei videogiochi. Ha iniziato come programmatore e da sei mesi, con due ex colleghi, ha fondato una propria azienda. Maurizio, 34 anni, è originario di Roma ma ha vissuto gran parte della sua vita a Catania, dove si è laureato come ingegnere informatico.

Molti partono per mancanza di opportunità in Italia. E dal sud a emigrare sono soprattutto i laureati. La tua scelta da cosa è stata dettata?

Il mio sogno è sempre stato lavorare come programmatore di videogiochi. Purtroppo in Italia non c’è mercato, quindi ho sempre saputo che sarei partito per l’estero. Volevo restare in Europa, il paese più attivo nel settore è la Gran Bretagna. Dopo aver fatto vari colloqui e aver valutato varie mete, nel 2004 ho optato per un trasferimento a Dundee, in Scozia.

22. scarp de’ tenis maggio 2013

Dalla Scozia ti sei poi trasferito a Cambridge, Inghilterra. Come sono i paragoni con la situazione italiana?

In Gran Bretagna si vive bene, a vari livelli. A livello professionale se vali hai la possibilità di emergere, non sei ostacolato perché sei straniero o troppo giovane, i salari sono adeguati alle capacità e all’esperienza. Anche a livello sociale si sta bene. Si vive più rilassati, senza lo stress continuo che la persona accanto a te voglia cercare di “fregarti”. C'è un gran rispetto per il prossimo e questo ha un impatto significativo sulla qualità della vita.

Chiaramente non esiste il paese perfetto, mentirei se dicessi che non mi manca l’Italia. La nostalgia della famiglia, del clima o anche solo di luoghi e costumi si fanno sentire. Ma se dovessi fare un bilancio, per le mie esigenze e la mia qualità di vita, preferisco la Gran Bretagna.

Quindi tra i tuoi progetti non c’è il rientro in Italia?

Ho cambiato il mio metro di giudizio: non tollero più gli episodi quotidiani di piccole e grandi inciviltà. Non penso di tornare in questa Italia. Ne avrei la possibilità, avendo ora la mia azienda personale, ma ho fatto una scelta consapevole.

La lista di cambiamenti che dovrebbe affrontare l’Italia perché possa diventare un paese in cui tornerei a vivere è così lunga, che difficilmente potrà realizzarsi. Però mai dire mai. Magari tornerò, una volta in pensione.

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l’inchiesta cose. Politica e istituzioni sono chiamate ad agire affinché la questione delle nuove generazioni italiane diventi la chiave per modernizzare l’Italia».

Se c’è chi parte, c’è d’altronde chi sceglie di restare, e di non arrendersi a una sconfitta generazionale che sembra già scritta. Alcuni giovani si sono raccolti intorno a uno slogan (“Io voglio restare” – www.vogliorestare.it) e ne hanno fatto un movimento. Il loro appello, scritto lo scorso autunno, ha raccolto nelle prime settimane quasi duemila adesioni tra universitari, dottorandi e ricercatori, ma anche giornalisti precari e praticanti avvocati, operai e attivisti. «Perché mai dovremmo restare in Italia, se qui non è possibile vivere con dignità, dare corpo alle nostre aspirazioni, mettere in gioco le nostre competenze? Eppure noi crediamo di essere una risorsa», scrivono nel loro manifesto. Cancellare la precarietà, creare un nuovo sistema di welfare, innovazione e lotta all’illegalità sono le loro richieste. Il movimento si è riunito in tre incontri nazionali, a novembre, febbraio e aprile. Troveranno interlocutori interessati a impedire che una generazione si trasformi in una diaspora?

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Stefano in Australia

«Guadagno e lavo panni, l’Italia è una Ferrari rallentata» Mi presento: Stefano, 32 anni, romagnolo di sangue e pesarese di vita. Era da tempo che pensavo di partire per l’Australia, ma la scelta del momento è stata quasi casuale: a settembre, tramite LinkedIn (il social network dedicato alle esperienze lavorative, ndr) ho trovato un posto, anche se per poche ore, come insegnante di italiano. E poi è andata come vanno i piani di Dio, quando le cose vanno da sole con un filo di gas. Sono arrivato a Sydney, una città abbastanza vivibile anche se è una metropoli, e mi sono stabilito a Seaforth, nelle Northern Beaches. Lì, in sole tre ore di ricerca, ho trovato lavoro in una deli, piccola salumeria-ristorante gestita da un australiano con genitori italiani. È stato il primo di molti mestieri, ho lavorato come cameriere, giardiniere, traduttore, insegnante privato e in un’altra deli.

L’Australia per me è il luogo ideale per molti obiettivi: fare un’esperienza di vita, conoscere un altro paese, conoscere me stesso più a fondo, imparare a cucinare, lavarmi i panni sporchi – panni emotivi e fisici –, mettere da parte qualche soldo… E ho scoperto che qui è molto facile metterne da parte, per chi ha voglia di lavorare, spirito di sacrificio e parla bene l’inglese.

Non è però così semplice integrarsi. È più facile fare amicizia e tessere rapporti con altri immigrati – spagnoli, centroamericani, brasiliani… – che con gli australiani. È un paese che ha molti servizi di qualità, educazione e sanità soprattutto, non ci sono corruzione e furberie, ma tutto costa caro. E vivere qui aiuta a vedere l’Italia con altri occhi. Come me, altri italiani sospirano pensando al nostro paese, che potrebbe essere molto meglio di questo posto, ma che da sempre è come una Ferrari che viaggia in seconda marcia. [a cura di Paolo Meneghini]

In Colombia

Adele, fuga d’amore. E verso le opportunità...

Esperienze di lavoro e all’estero ne ha tentate molte. L’ultima la vede oggi docente in un’università di Cartagena, città colombiana affacciata sul mar dei Caraibi, teatro – negli ultimi anni – di una vera e propria fioritura culturale. Adele ha 32 anni e un dottorato di ricerca in sociologia. Il suo sembra l’ennesimo caso di “fuga di cervelli”. «Ma in realtà – confessa – la mia è una fuga d’amore…».

La sua avventura con il Sudamerica è iniziata quando trascorse un periodo in Argentina per la tesi di laurea: da allora ha vissuto con un piede al di qua e l’altro al di là dell’Atlantico. «Dopo qualche anno sono ripartita, per la Colombia, dove ho trovato un mercato del lavoro diversissimo da quello italiano: mobile, vivace, stimolante», racconta la giovane. Ha collezionato colloqui, le sue esperienze sono state considerate con ammirazione, le sono stati proposti lavori interessanti: «Ero così poco abituata che non sapevo cosa scegliere!». Lo status di italiana, poi, le ha garantito una sorta di “marchio doc” legato alla cultura e le ha permesso di entrare in contatto con il mondo artistico.

Dopo alcuni mesi, però, la nostalgia ha cominciato a fare

capolino. A rientrare in Italia, però, sono stati in due. Adele e il marito si sono trovati ad affrontare nel Belpaese l’ambiente difficile e a volte logorante della creatività.

Hanno messo in piedi un progetto artistico legato al tango: «Tanti gli sforzi e anche i risultati ottenuti, ma c’è sempre una resistenza da parte delle istituzioni a riconoscere, nella proposta artistica, anche uno strumento di trasformazione sociale. Abbiamo vissuto per un po’ così, come piccoli giullari del quotidiano». E poi di nuovo la vita si è fatta precaria: Adele e il marito si sono ritrovati un’altra volta a fare le valigie per un luogo dove le loro professionalità potessero essere riconosciute, dove c’era spazio per progettare e realizzare. «Da qualche mese siamo arrivati a Cartagena – conclude la donna –. Qui non vivo il peso dell’essere extracomunitaria, piuttosto sperimento il privilegio dell’essere comunitaria, europea.

Non so quali saranno i prossimi capitoli di questa storia, scritta a quattro mani, ma continuo a credere nella possibilità di costruire mondi che siano casa per le tante famiglie transcontinentali…».

maggio 2013 scarp de’ tenis

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Siamo tornati in Emilia. Nei luoghi della solidarietà che Scarp aveva visitato dopo il sisma di un anno fa. Ecco cos’è cambiato

La speranza ha ritrovato casa

La Lucciola dalle tende alle casette L’angolatura dell’immagine è la stessa. Ma i ragazzi disabili della Lucciola oggi svolgono le loro attività nelle casette in prefabbricato.

Un anno fa, invece, nel prato solo tende.

Eppure qualcuno dorme ancora sul divano, al piano terra, con la radio accesa, la pila sul comodino, pronto a correre fuori...

24. scarp de’ tenis maggio 2013

testi e foto di Stefano Lampertico Le tende non ci sono più. Al loro posto, le casette rosa. Prefabbricate.

E anche il fango non c’è più. Così i ragazzi della Lucciola, il centro diurno di Rivarino di Modena, possono svolgere le attività sotto un tetto che li protegge. Certo, le difficoltà, rimangono. La villa che li ospitava prima del terremoto, e che si trova a pochi metri di distanza, è lì. Immobile. Inagibile. Con il suo carico di rimpianti e insieme con il desiderio di

il reportage

Per pregare e aggregare La chiesa di Cavezzo è ancora scoperchiata.

Le celebrazioni presiedute da don Giancarlo (sotto) e altre attività si svolgono nel Centro di comunità (sopra) finanziato da Caritas Italiana

Cavezzo

Sessanta famiglie fuori casa «Il terremoto l’abbiamo in testa» La chiesa parrocchiale di Cavezzo (Modena) ha ancora il tetto scoperchiato. E ci vorrà molto tempo per poterla riavere utilizzabile. Ma da qualche domenica, don Giancarlo può celebrare la messa nel centro di comunità. Cavezzo l’ha inaugurato da poco. È uno dei 17 centri che Caritas Italiana ha finanziato nei territori terremotati. Sono strutture polifunzionali, all’interno delle quale si possono svolgere attività religiose, ricreative, sociali, culturali. «Il terremoto, purtroppo, ce l’abbiamo ancora in testa – osserva don Giancarlo –. Gli effetti sulla nostra gente si vedono, eccome. La paura non se n’è andata. Se ne sono andati invece in tanti.

Tante famiglie, che hanno trovato altre sistemazioni. Tanti immigrati, che hanno perso il lavoro. Qualcuno si è spostato, qualche altro se n’è tornato al proprio paese. Altri ancora stanno qui, ma senza lavorare è duro vivere». A Cavezzo ci sono ancora famiglie ospitate nei moduli abitativi prefabbricati. Sono una sessantina. Molti palazzi, anche nel centro storico, sono ancora inagibili. La piazza solo da pochi giorni è tornata a vivere.

Ma i segni del sisma sono davvero tanti. «Il centro di ascolto Caritas – prosegue il parroco – ha sede nel container, proprio dietro la chiesa.

Distribuiamo aiuti, generi alimentari, vestiti. La generosità, da questo punto di vista, non è mai mancata. E hanno funzionato i tradizionali meccanismi del gemellaggio tra Caritas, ma soprattutto i legami che nel tempo si sono formati con altre comunità. Abbiamo davvero ricevuto segni di solidarietà da tutta Italia (da Padova, Brescia, dalle Caritas delle Marche) che ci fanno sentire la speranza ancora viva. E che ci permettono di continuare a guardare al futuro». Intanto però qualcuno ancora, la notte, a Cavezzo, dorme sul divano, al piano terra, e con la luce accesa...

poterla riavere, un giorno chissà quando, riaperta e funzionale.

Ci siamo già stati alla Lucciola, lo scorso anno. Pochi giorni dopo il sisma che sconvolse l’Emilia-Romagna (e lembi di Lombardia e Veneto) tra il 20 e il 29 maggio. Incontrammo la dottoressa Emma Lamacchia, neuropsichiatra, anima del centro. La ritroviamo oggi, un anno dopo. Insieme con i suoi ragazzi, con le volontarie indaffarate a preparare il

pranzo per gli ospiti del centro diurno. E con i ragazzi della Lanterna di Diogene, il ristorante sulle rive del Panaro poco distante qui, nato per offrire un’opportunità di lavoro a chi, da svantaggiato, fatica a trovare un lavoro stabile. Stanno rimettendo in sesto le botti dell’aceto. La villa ospitava anche l’acetaia. Ora le “batterie” nelle quali matura e fermenta l’aceto tradizionale di Modena sono nel container a fianco delle casette. Ci si in-

Balsamo terremotato L’acetaia di Rivarino, un’importante fonte di sostentamento per le attività del centro di accoglienza La Lucciola e del ristorante La Lanterna di Diogene. Il sisma l’ha compromessa. Ma le due strutture continuano a operare

Solidarietà, il valore che resiste alle scosse scarp de’ tenis

Così un anno fa 2013 La pagina di apertura di un anno fa: Scarp de’ tenis si occupò degli effetti che il sisma di fine maggio aveva prodotto sulle strutture della solidarietà

maggio 2013 scarp de’ tenis

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La speranza ha ritrovato casa

La neuropsichiatra «Il terremoto ci ha fatto crescere molto. Ci ha fatto maturare». Emma Lamacchia è l’anima del centro La Lucciola a Rivarino

L’acetaia nel container I ragazzi della Lucciola e della Lanterna di Diogene, a Rivarino di Modena, non hanno smesso di produrre l’aceto balsamico tradizionale. Le botti, dall’acetaia in un’antica villa, sono state trasferite in un container

gegna, insomma. «Ma l’aceto – dice Giovanni, operatore e anima della Lanterna – sarà buonissimo».

Impossibile nutrire dubbi, a giudicare dai profumi che si sprigionano. Visitammo lo scorso anno, con Maria Pia, collega de Il Nostro Tempo di Modena anche la Lanterna, il ristorante gestito insieme a persone con problemi (sindrome di down, psicosi, paralisi cerebrale infantile). Gli avventori erano calati sensibilmente. La crisi e la paura di uscire: una miscela che stava affossando un’esperienza che avevamo valutato come straordinaria. Oggi le cose, ci racconta Giovanni, vanno indubbiamente meglio.

E così i sogni e la speranza hanno ritrovato la proprio casa, qui. Anche grazie alle numerose iniziative di solidarietà.

Aiuti da tutta Italia Anche alla Lucciola, la solidarietà ha portato frutti positivi. «Dopo il sisma abbiamo spostato le attività nelle tende.

Lì abbiamo passato l’estate con i ragazzi del centro. Che hanno vissuto quei momenti, non semplici, quasi con leggerezza, come fosse una vacanza all’aperto. Anche se la presenza della villa, inagibile, vicino a noi, è per certi versi ingombrante. Ci sono ragazzi che faticano a parlare e che si esprimono solo a gesti,

26. scarp de’ tenis maggio 2013

che ancora oggi, ogni mattina, vogliono vedere la loro casa, il luogo in cui si svolgevano tutte le attività. I nostri bambini – prosegue la dottoressa Lamacchia – hanno una vita molto dura, continuamente, ogni giorno attraversata dalla dolore, dalla precarietà, dal buio. L’unica maniera per aiutarli era quella di insegnare loro che esiste una vita migliore, che domani può essere più bello di oggi». E in questo quadro, la nuova sistemazine nelle casette certo aiuta molto. «Ma rimane incomprensibile, per i ragazzi, il tempo dell’attesa. Che vedono comunque troppo distante».

Come detto, le nuove strutture sono il segno di una dimostrazione di affetto

per la Lucciola e per i suoi ragazzi, davvero molto significativa. «Con i nostri ragazzi abbiamo riflettuto molto sul significato della ricostruzione, della fatica a ripartire, a riprendere una vita normale. Il sisma, da questo punto di vista, ci ha fatto crescere molto. Così abbiamo combattuto ogni giorno i segni di sfiducia e di difficoltà».

Si respira una buona aria. Vitalità. Il martello che picchia sulla botte. Il rumore del decespugliatore, si regola la siepe. Il profumo delle verdure, coltivate nell’orto e subito servite in tavola. Il terremoto, è storia di un anno fa. Un ricordo, sì. Ma la vita qui, continua con i suoi ritmi.

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In servizio da pochi giorni

Servizio civile nel “cratere” Emanuele e Ilaria. Sono i due giovani modenesi che hanno scelto di svolgere il servizio civile nel cuore del “cratere” del sisma. Li incontriamo a Cavezzo, al Centro di ascolto Caritas.

Emanuele ha 24 anni, ancora non ha un lavoro. Ilaria, invece, di anni ne ha 20 ed è una studentessa di economia e commercio. Da poche settimane sono a Cavezzo, dove gli aiuti alla popolazione vengono distribuiti ancora con regolarità. Cibo e vestiti. Il centro ha ancora la sua sede provvisoria in un container, proprio di fianco alla parrocchia senza tetto. I locali della parrocchia sono inagibili.

Verona, centro per homeless innovativo. Pensato anche dagli utenti

Diritto al bello, diritto a una casa di Daniela Palumbo Gli spazi si possono riqualificare. Si possono ristrutturare. Si possono reinterpretare. Ma non solo. Si possono anche leggere. E, attraverso una lettura partecipata, gli spazi si possono reinventare e far diventare belli; anche uno spazio destinato agli homeless. Utopia? No: è accaduto a Verona. La cooperativa sociale “Il Samaritano” doveva ristrutturare un capannone industriale di oltre 500 metri quadri per farne un luogo di accoglienza per persone senza dimora: 27 posti letto, oltre i 65 già esistenti in una struttura adiacente. «Non volevamo fare il solito albergo degli homeless – spiega Michele Righetti, responsabile della cooperativa Il Samaritano –. La nostra utopia è sempre stata che diventa anche interiore, psicologisvuotare i dormitori, perché dopo aver co. Diventa più facile anche costruire un risposto ai bisogni primari di una perprogetto di inclusione sociale, dove l’osona che ha dormito per tanto tempo in spite si sente considerato persona». strada, si deve cominciare a costruire un Insomma, a Verona hanno pensato progetto sociale di reinserimento fuori a una piccola, concreta, rivoluzione del dalla struttura. Però, fintanto che ci vive, concetto di aiuto agli ultimi della scala la persona deve trovare una casa, non sociale. Michele Righetti coltivava da un alloggio anonimo. Uno spazio imtempo questo sogno e in un incontro portante. Dove sperimentare la dimencon la Federazione italiana organismi sione del benessere materiale e fisico,

per le persone senza dimora ha scoperto che qualcuno stava lavorando a un progetto sulla bellezza per i senzatetto.

«Gli amici Fio.psd ci hanno parlato di un’esperienza realizzata a Torino grazie a una partnership tra pubblico e privati». È seguito l’incontro con i docenti promotori del progetto “Abitare il dormitorio”: Valentina Porcellana, antropologa del dipartimento di filosofia e scienze dell’educazione dell’Università di Torino, e l’architetto Cristian Campagnaro, ricercatore del dipartimento di architettura e design al Politecnico.

«La bellezza vince sempre, come metodo e riscatto»

Giovanni Catanzaro da diversi anni lavora come operatore sociale con persone senza dimora all’associazione Opportunanda di Torino, mentre per la Caritas diocesana di Torino segue il progetto Scarp de’ Tenis. Ha partecipato al workshop al Samaritano. Ecco le sue impressioni. *** «Per tentare un bilancio del workshop partirei dal concetto di bellezza. La bellezza come fine del nostro lavoro, frutto di un processo creativo in divenire, sintesi di approcci e punti di vista differenti: degli ospiti, dei designer e degli operatori. La bellezza come riscatto e metodo. Riscatto, perché attraverso essa – qui declinata come creazione di uno spazio confortevole ed esteticamente piacevole – si supera la logica al ribasso per cui “a chi è in difficoltà in fondo basta un tetto”. E metodo, poiché alla base del progetto c’è la ricerca di una relazione efficace, in grado di veicolare, tramite un oggetto e nella decorazione di uno spazio, messaggi, bisogni e speranze. La relazione insauratasi fra i vari componenti del workshop si è rivelata una sorta di contagio positivo, consolidatosi nel corso dei giorni.

Un ottimo lavoro è stato fatto dai coordinatori (Valentina Porcellana, Cristian Campagnaro e Alice Stefanizzi), che hanno creato i presupposti affinché l’incontro potesse essere fruttuoso. Ma soprattutto il workshop stata la dimostrazione che in un contesto dove sono ospitate persone in situazione di deprivazione (economica, affettiva e relazionale), se si lavora sulla relazione e si costruiscono spazi di confronto, è possibile puntare sul protagonismo e sulle capacità che molto spesso le persone conservano, malgrado abbiano perso tutto».

28. scarp de’ tenis maggio 2013

l’esperienza Abitare il dormitorio è un format di “nuova architettura sociale”, un progetto interdisciplinare avviato nel 2009. Il progetto è incentrato sull’analisi antropologica e la riqualificazione degli spazi pubblici di accoglienza notturna per persone senza dimora, e si sta diffondendo in diverse città italiane, grazie al fatto che Fio.psd lo sponsorizza.

Coinvolti anche gli ospiti La locanda “Il Samaritano” è stata inaugurata il 29 aprile, dopo un lungo percorso condiviso. Valentina Porcellana e Cristian Campagnaro vi hanno lavorato gratuitamente (così come gli studenti che hanno realizzato il workshop).

«Ci interessa che il progetto acquisti profilo scientifico e l’Università ci sostiene – spiega Valentina Porcellana –.

Lo proponiamo a costo zero, naturalmente ci sono le spese vive, arredi e muratura. Abbiamo fatto due interventi, a Torino e Verona. Rispetto all’Europa siamo indietro: in Francia è da poco partito un progetto di umanizzazione degli spazi-dormitorio che va nella nostra direzione. Ma è un intervento dell’amministrazione pubblica. Noi possiamo contare su pochi “illuminati”...».

Quella di Valentina è una battaglia culturale: «La solidarietà da noi è ancora ferma a un concetto di beneficenza.

L’idea che combattiamo, prevalente nel nostro paese, è che se concedi il bello a un “barbone”, questo si abitua e non se

L’architetto

Writing, piante in mensa e poltrone così ti rivoluziono il dormitorio «A Verona il progetto “Abitare il dormitorio” ha mosso i suoi passi nei primi giorni di gennaio 2013 – racconta Cristian Campagnaro, docente del Politecnico di Torino –: dopo una fase di lettura e analisi del percepito e dei processi di fruizione degli spazi, da parte di operatori, ospiti e volontari, anche mediante focus group è possibile ricostruire le aspettative per i nuovi servizi e le criticità nell’accedere a quelli attuali. Tutti gli interventi (sulla zona mensa, sul centro diurno e caffetteria, sulle aree laboratorio e gli spazi ricreativi esterni) sono stati concordati con l’équipe, gli ospiti e i volontari. Le decisioni sono partecipate e corali. Molte attrezzature sono state realizzate ad hoc, altri prodotti sono stati costruiti dagli ospiti nei laboratori che frequentano».

Quali sono gli interventi distintivi?

A Verona è emersa l’esigenza di aggiungere funzionalità agli ambienti senza penalizzare la cura e il bello. Ogni spazio ed elemento è stato “letto” alla luce della funzione che avrebbe dovuto esercitare. Ad esempio, l’area caffetteria ha risentito degli input degli educatori: spazio organizzato non come un bar, ma secondo una logica di maggiore socializzazione. In tutti gli ambienti abbiamo creato un sistema di information design: icone particolari, poi realizzate dagli ospiti, che hanno la funzione di spiegare i servizi che la locanda offre. Negli spazi comuni c’era poi l’esigenza di luoghi dove poggiare le cose, anche lì c’è stato uno studio sul design adatto. Nella zona diurna e sulle pareti di biblioteca e falegnameria abbiamo realizzato interventi di street art. Diversi ospiti avevano familiarità col writing, altri con la decorazione di interni, gli studenti col graphic design: ognuno è intervenuto secondo le proprie competenze o capacità mai prima valorizzate.

Il luogo che ha richiesto più lavoro?

La mensa. Si voleva realizzare un luogo dove fornire un servizio e far passare messaggi educativi; uno spazio conviviale, che trasmettesse serenità. Ne è emerso un ambiente con tante piante, anche alberi veri e propri. I tavoli sono lunghi e hanno buchi centrali dove mettere le piante, i tavoli sono anche vasi.

Ne risulta un luogo molto verde, nel quale si sta insieme per comunicare.

Tanta socializzazione, forse troppa? Un individuo ha anche bisogno di stare solo...

Infatti gli ospiti a un certo punto hanno manifestato questa sacrosanta esigenza. Nello spazio all’aperto sono state realizzate con bancali riciclati poltrone con schienali profondi e braccioli lunghi, dove sprofondare in solitudine.

Abitare il dormitorio In queste pagine, ambienti e dettagli della casa di accoglienza “Il Samaritano”: ambienti e arredi esito di una progettazione partecipata, all’insegna del bello maggio 2013 scarp de’ tenis

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TERRA FUTURA 2013 A dieci anni dalla prima edizione, buone pratiche di vita, di governo e di impresa, per un modello diverso di sviluppo e di consumo.

Firenze, Fortezza da Basso, dal 17 al 19 maggio 2013 "" "

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Al centro della manifestazione - promossa da Fondazione culturale Responsabilità etica per il sistema Banca Etica, Regione Toscana e Adescoop-Agenzia dell’economia sociale, insieme ai partner Acli, Arci, Caritas Italiana, Cisl, Fiera delle Utopie Concrete e Legambiente - le buone

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pratiche di vita, di governo e di impresa all’insegna della sostenibilità. Prodotti, progetti e percorsi per lo più nati dal basso, che oggi - tanto sul piano teorico quanto su quello pratico -, si rivelano percorsi obbligati, non solo alternative possibili.

Terra Futura vuole anche in questa decima edizione alimentare il dibattito su un modello diverso di sviluppo e avanzare proposte concrete per nuovi modi di vivere, consumare, coltivare, abitare, produrre, viaggiare, comunicare, governare… La rassegna espositiva sarà organizzata secondo diverse sezioni tematiche: Abitare naturale (edilizia sostenibile, prodotti e tecnolo-

gie costruttive a basso impatto ambientale), Azioni globali&welfare (intercultura, pace, diritti umani, volontariato, sussidiarietà, welfare partecipativo, campagne di sensibilizzazione, finanza etica e cooperazione internazionale), Mangiare e produrre sostenibile (agricoltura biologica e biodinamica, km zero, prodotti ecologici e tessile naturale), Comunicare la sostenibilità (media, editoria, web e comunicazione), Eco-Idea-Mobility mobilità sostenibile), EquoCommercio (commercio equo e solidale), Itinerari educativi per la sostenibilità (educazione, orientamento, formazione e ricerca), NuovEnergie (energie rinnovabili, risparmio energetico ed ecoefficienza), Governare responsabile (reti associative pubbliche e istituzioni), Salute+Benessere (prevenzione, medicine non convenzionali e discipline bionaturali), Turismo eco&Responsabile (viaggi e vacanze sostenibili e accessibili), TutelAmbiente (tutela dell’ambiente e della biodiversità, riciclo e riuso).

Presenti enti e istituzioni, realtà del terzo settore (associazioni, cooperative, ong, fondazioni…), imprese eticamente orientate.

Ricco e articolato anche il programma culturale, che vedrà in calendario incontri, convegni, workshop e dibattiti alla presenza di illustri esperti e noti personaggi del mondo del terzo settore, dell’economia, della politica, della cultura. E ancora spettacoli, momenti di animazione e laboratori, per coinvolgere direttamente il pubblico.

Nel 2012 sono stati oltre 80mila i visitatori, 550 le aree espositive e oltre 4.000 gli enti rappresentati (associazioni, reti e movimenti, cooperative, enti e istituzioni, imprese eticamente orientate...), 250 gli appuntamenti culturali, 1.000 i relatori, 230 le proposte di laboratori, animazione e mostre. E ancora, 600 gli incontri della “Borsa delle imprese responsabili”, a cui hanno partecipato oltre 120 realtà provenienti

da tutto il mondo. Terra Futura è da sempre un evento green (nel 2008 è stata premiata da Italia For Events come “evento green di eccellenza”, vincendo il Premio Greenmeeting): un impegno che cresce di anno dopo anno, con un preciso percorso di responsabilità sociale e ambientale condiviso tra i partner. Risponde a questa logica la scelta di materiali certificati per la realizzazione degli strumenti di comunicazione, la selezione attenta dei fornitori, e nei tre giorni la raccolta differenziata dei rifiuti, gli incentivi ai mezzi di trasporto sostenibili, e ancora l’utilizzo di stoviglie biodegradabili, le azioni di ecoefficienza come la riduzione e la compensazione della produzione di Co2, … A ogni espositore, inoltre, è richiesto di seguire il regolamento di sostenibilità della manifestazione e di autocertificare le buone pratiche presentate.

Quest’anno si è scelto anche di non utilizzare la moquette per l’allestimento degli stand espositivi, per ridurre la quantità di materiali non riciclabili e difficili da smaltire al termine dell’evento. Un’attenzione tutta particolare, infine, alle proposte gastronomiche che, anche in rispetto alle diverse esigenze e sensibilità dei partecipanti, saranno etiche e sostenibili.

L’ingresso è libero, con i seguenti orari: venerdì 17 ore 9 – 20; sabato 18 ore 9.30-21 (area esterna fino alle 24); domenica 19 ore 10-20.

l’esperienza ne va più. Invece è il contrario. Ogni gesto ha un significato simbolico. Se diamo il bello a una persona in difficoltà, il messaggio che gli arriva è di fiducia nei suoi confronti. Fiducia e attenzione sono le molle che riescono a far ripartire anche gli animi più spenti. Il bello cura, il brutto svilisce: fa sentire le persone davvero ultime, inutili. La bellezza è un dono e tutti hanno diritto a essa».

La bellezza vince sempre A Verona l’intervento di rivisitazione di spazi e arredi è venuto dopo il workshop “La bellezza vince sempre”: cinque giorni residenziali al Samaritano per studenti universitari, educatori laureati, operatori sociali e antropologi. In totale 22 persone, con la decisiva aggiunta degli utenti, destinatari dell’intervento: persone senza dimora che, in una quotidianità condivisa, hanno espresso le loro preferenze e la loro lettura di come avrebbero dovuto essere spazi funzionali e accoglienti. Il gruppo è giunto a definire gli aspetti emotivi e percettivi della fruizione degli spazi della struttura di accoglienza, e le relative criticità.

«Siamo soddisfatti – racconta Michele Righetti –: la nostra utopia si è rivelata un sogno possibile. Grazie al contributo della fondazione CariVerona e soprattutto quello della Caritas diocesana, oltre che di un benefattore anonimo. Per l’arredo abbiamo investito circa 100 mila euro, usando materiali di riciclo. E i nostri utenti hanno lavorato in falegnameria, realizzando arredi e complementi. Un lavoro di gruppo in cui tutti abbiamo messo in gioco qualcosa di noi. E i risultati si vedono».

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L’ospite della Locanda

«Da brutto anatroccolo a cigno.

E adesso studierò architettura...»

L'esperienza vissuta con i ragazzi dell’Università di Torino e i loro insegnanti per progettare insieme l’arredamento del centro del Samaritano è stata molto interessante. Per me, che ho una certa età, ma come dico sempre sono “giovane dentro”, è stata un’occasione di incontro e scambio di opinioni con persone giovani ma ben preparate, che sapevano quello che facevano.

E lo facevano con entusiasmo. Nei giorni passati con loro ho avuto modo di esprimere le mie idee, ho incontrato persone che mi hanno saputo ascoltare e grazie a loro mi sono sentito davvero giovane anch’io.

Mi ha colpito positivamente anche il titolo del progetto, “La bellezza vince sempre”, forse perchè per tutta la mia vita sono stato, e sono, sensibile alla bellezza. Ricordo che anni fa mi capitò di commuovermi fino alle lacrime davanti a un tramonto sul mare della Sicilia. Ma anche tante opere dell’uomo sono portatrici di una bellezza che ha da sempre il potere di incantarmi: un bel quadro, un monumento antico, una bella chiesa, indipendentemente dal fatto di essere religiosi o meno, sono capolavori che portano la bellezza intorno a noi. E mi dispiace pensare che spesso chi avrebbe la possibilità di farlo non la apprezza.

Un’altra cosa che l’esperienza del workshop ha risvegliato in me è la fascinazione non soltanto per ciò che riconosco bello, ma anche per come è stato fatto, per le tecniche utilizzate. In quei giorni si è risvegliata in me la voglia di imparare ancora, di proseguire gli studi che avevo iniziato da ragazzo. E così ho deciso: a settembre mi iscriverò all’Università della terza età e seguirò disegno e architettura. Anche per questo, forse, ho apprezzato tanto l’idea che a pensare e progettare la sistemazione della Locanda abbiamo collaborato anche noi, che poi la utilizzeremo, e abbiamo potuto dire la nostra.

Nessuno di noi aveva mai provato prima un’esperienza così. Certo, a vedere la Locanda ora, ricordando com'era, direi che è una trasformazione non da poco: il “brutto anatroccolo” è diventato un cigno. Mi auguro davvero che chi vivrà questi spazi li possa sentire, anche grazie al modo in cui sono stati trasformati, come “casa sua”, e quindi li tratti con rispetto, li tenga bene, nonostante tutte le difficoltà che la vita gli ha inferto e che si porta addosso, e che non dimentichiamo mai. A tutti noi la vita ha dato amarezze e sofferenze. Ma la bellezza può “curare” le ferite e insegnarci che possiamoe essere ottimisti, malgrado tutto. Lo dico a me stesso, ma soprattutto ai ragazzi che sono qui da noi, che sono giovani: siate ottimisti.

Mai, mai affondare.

Antonio

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Federazione ampia, con una nuova guida Sono quasi 100, in 15 regioni, gli organismi aderenti a Fio.psd. Galliani succede a Pezzana come presidente. Lotta all’homelessness: sfide per il futuro

di Giancarlo Righi Stefano Galliani è il nuovo presidente della Federazione italiana organismi per le persone senza dimora. È stato eletto lunedì 22 aprile dall’assemblea dei soci, riunitasi a Roma, nella sede della federazione. Galliani, 50 anni, già presidente dal 2002 al 2004, lavora come educatore all’Opera Bonomelli di Bergamo, occupandosi “sul campo” di percorsi di reinserimento sociale di persone senza dimora.

Ma è anche vicepresidente di Feantsa, la “rete delle reti” che a livello continentale rappresenta, dialogando con l’Unione europea, gli organismi che si occupano di homeless. E nel suo primo intervento da presidente, ha evidenziato la volontà di irrobustire ulteriormente le connessioni con l’Europa, non solo per sfruttare al meglio e più efficacemente, in epoca di restrizione del welfare nazionale, i finanziamenti che Bruxelles rende disponibili zioni, cooperative, fondazioni, enti locaper la lotta all’emarginazione e la coeli) che aderivano alla federazione erano sione sociale, ma anche per favorire – 67: oggi sono 97, attivi in 15 regioni itagrazie al confronto con le più avanzate e liane (65 al nord, 15 al centro, 17 al sud), innovative esperienze continentali – l’ecapaci di esprimere una porzione elevavoluzione della cultura e delle prassi di tissima dei servizi che in Italia vengono chi, in Italia, si occupa di servizi alle pererogati nell’ambito della lotta all’homesone senza dimora. lessness.

Galliani guiderà, nel triennio 20132016, un consiglio direttivo rinnovato e ampliato, del quale faranno parte CristiIl futuro fa paura na Avonto (cooperativa Progetto Tenda L’assemblea di Roma ha tributato un caTorino), Davide Boldrini (Agape onlus loroso ringraziamento e un prolungato Mantova), Paolo Brivio (Caritas Ambroapplauso a Paolo Pezzana, genovese, siana - Milano), Alessandro Carta (coopresidente della Federazione dal 2004. perativa Il Simbolo - Pisa), Fiorenzo De Pezzana riceverà dal nuovo direttivo un Molli (Fondazione Casa della Carità - Miincarico a occuparsi di alcune questioni lano), Jacopo Fiorentino (Avvocato di rilevanti per la lotta all’homelessness nel strada onlus - Bologna), Cristian Gatti nostro paese, in qualità di consulente (Fondazione Comunità solidale - Trenesperto e in continuità con il lavoro to), Domenico Leggio (Caritas diocesasvolto in questi anni. na - Ragusa), Alberto Mortara (FondaNel congedarsi dall’incarico di prezione Auxilium - Genova), Luigi Pietrosidente, Pezzana ha ripercorso l’evoluluongo (Associazione amici Casa della zione della federazione nel decennio Carità - Cassino) e Danilo Tuccillo (coodurante il quale l’ha guidata, delineanperativa La Locomotiva - Napoli). do le sfide per il futuro prossimo: coL’assemblea dei soci Fio.psd ha decistruzione – con il ministero del welfare, so di rafforzare Il consiglio direttivo (unle regioni e gli enti locali – di linee guida dici membri più il presidente), in consiper il contrasto dell’homelessness in Itaderazione del notevole ampliamento lia; utilizzo e aggiornamento dei dati della rappresentanza territoriale che della ricerca nazionale sull’homelesFio.psd ha conosciuto nel triennio sness, realizzata tra 2009 e 2012 con uscente. Nel 2010 gli organismi (associaIstat, ministero del welfare e Caritas Ita-

32. scarp de’ tenis maggio 2013

Nel segno della continuità Pezzana (foto in alto) ha guidato la Fiopsd dal 2004 ad oggi. Gli succede Stefano Galliani (qui sopra) educatore all’Opera Bonomelli di Bergamo

liana, per farne il cardine di nuove politiche di lotta alla grave marginalità adulta; sviluppo dell’approccio housing first (basato sulla centralità dell’alloggio e l’evoluzione delle strutture d’accoglienza oltre il modello dell’ospitalità collettiva) nei processi di reinserimento abitativo e sociale.

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Ospite in redazione

Roy, segretario di Caritas Internationalis in visita a Scarp

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Un segretario generale a Scarp. Non è quello dell’Onu, ma è pur sempre un “pezzo grosso”, a livello internazionale. Michel Roy, francese, guida dal 2011 Caritas Internationalis, la confederazione cui aderiscono 165 organismi caritativi cattolici (Caritas nazionali e altre realtà), ovvero la rete più ampia e capillare al mondo nell’ambito della lotta alla povertà e della cooperazione allo sviluppo, con una rappresentanza permanente all’Onu. Roy è stato a Milano, in aprile, per fare il punto, insieme ai suoi colleghi di Caritas Italiana e Caritas Ambrosiana, sulla partecipazione del network Caritas all’Expo 2015, il grande evento espositivo e culturale dedicato al tema “Nutrire il pianeta.

Energia per la vita”. Nella grande esposizione Caritas avrà uno spazio stabile, dedicato alla presentazione della campagna globale per l’accesso al cibo che la confederazione lancerà nel 2014 e delle molteplici esperienze (programmi educativi, interventi di emergenza, progetti di sviluppo) che tutte le Caritas del mondo realizzano su questo tema. Dopo aver discusso degli impegni per l’Expo, Michel Roy (accompagnato da Luciano Gualzetti, vicedirettore di Caritas Ambrosiana e presidente di cooperativa Oltre) ha fatto visita ad alcuni servizi Caritas nella città di Milano, tra cui il Rifugio per persone senza dimora di via Sammartini e – appunto – la sede centrale di Scarp.

Un motivo in più per sentirci parte della “famiglia globale” Caritas…

Nella foto: Michel Roy tra Lorenzo De Angelis e Antonio Mininni, della redazione di strada

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milano Le bande di giovani latinomericani, organizzate e violente. Sono una famiglia, per molti ragazzi sradicati. “Ricongiunti” a forza...

Pandillas, identità condivisa e criminale Como Minori non accompagnati, primato dell’accoglienza Torino Rifugiati nel villaggio che ospitò le Olimpiadi Genova Ritratti di anziani, ombre sulla strada Vicenza Ado, la bottega creativa del lavoro “guidato” Modena Portobello, market sociale: comunità dietro l’emporio Rimini Rapporto Caritas 2012: ingabbiati dalla povertà Firenze Al volante alticci, obbligati a fare del bene Napoli Contadino Gaetano, maestro di armonie Salerno Trasporti pubblici, fallimento di un sistema Catania “I food share”, io scelgo di condividere il cibo

34. scarp de’ tenis maggio 2013

di Stefania Culurgioni La scena sul monitor è questa: un gruppo di ragazzi che si ritrovano in un parco di Milano. Si mettono in cerchio, si fanno stretti uno accanto all’altro, parlano. Dalla sinistra dello schermo sbuca un ritardatario. Si affanna correndo nel prato, raggiunge gli amici. Due di loro si staccano dal cerchio e lo prendono a calci in testa. Lo gettano a terra, gli sono addosso, lo picchiano forte. Il cerchio però resta compatto. Nessuno si volta per fermarli, nessuno si gira per capire cosa accade. La riunione all’aperto prosegue come se fosse la cosa più naturale del mondo.

Seconda scena: metropolitana di Milano, linea gialla, fermata Missori. Due ragazzi e una ragazza si alzano di scatto e si fiondano addosso a un quarto, seduto nell’altro lato dei sedili. Lui scappa, salta giù dal vagone, cerca di difendersi. Ma non c’è modo: i tre lo subissano di pugni, gli rubano il portafoglio, il cellulare, lo Gli ovuli poi diventavano dosi da spacriempiono di calci, la ragazza gli sfila ciare in città, in un commercio sotterrapersino le scarpe. neo gestito da molti di questi ragazzi.

Terza scena: in un capannone una Il fenomeno è poco conosciuto, trentina di giovani, forse anche di più. scarsa la “letteratura” sul tema, molta la Molte sono mamme giovanissime. In paura. Allora ci siamo chiesti che cosa fondo alla sala un separé bianco; oltre, sono queste bande latinoamericane, al riparo dagli sguardi di tutti, quattro quando sono nate a Milano, da chi sono ragazzine. Una in mezzo, tre intorno a composte, che tipo di reati commettolei. Si fanno dei segni con le dita, si baciano sulla guancia, poi inizia il pestaggio. La vittima non oppone resistenza.

Si lascia prendere a botte finché tutte e tre le altre, a turno, non l’hanno pestata per bene. Ma cosa succede?

Bande sempre più pericolose Siamo nel commissariato di polizia di Mecenate, stiamo guardando insieme a un agente i video girati con le telecamere nascoste in diversi luoghi della città nell’ambito di una grossa indagine che ha visto come protagoniste le bande latino americane (le cosidette pandillas) di Milano. Settantacinque arresti, 112 indagati, tra loro molti minorenni: è di poche settimane fa la notizia di un’operazione contro un gruppo di persone che nascondevano ovuli di cocaina dentro cani ancora vivi. Facevano arrivare gli animali dalla Colombia all’Italia, dove li uccidevano per estrarre la droga.

scarpmilano no. E perché non ci sono progetti di recupero di strada avviati dalle istituzioni.

La difficoltà di fare parte Matteo Conte è un educatore dell’associazione Codici, che nel 2004 ha conosciuto da vicino molti di questi giovani: «Si tratta di ragazzi stranieri sudamericani, arrivati in Italia quando avevano 11, 12 anni – spiega –. Fino a quell’età hanno vissuto in patria con nonni o zii, spesso lasciati molto liberi di crescere per strada, mentre le mamme erano in Italia a lavorare come badanti. Poi sono stati chiamati in Italia nell’età dell'adolescenza e sono stati strappati, sradicati dalla loro vita. Arrivati qui, hanno fatto fatica ad adattarsi. Si sono trovati davanti un genitore estraneo, che non li ha visti crescere, e sono rimasti delusi: dalla scuola italiana, inadeguata; dalle mamme, che facevano lavori umili per 12 ore al giorno. Ritrovarsi in un gruppo, una pandilla, è stato per loro un modo per ritrovare un’identità condivisa».

Il fenomeno in Italia è iniziato intorno al 2000, al seguito dei grandi flussi di immigrazione sudamericana, soprattutto alla volta di Milano e Genova. «Già da allora si sono manifestate le prime avvisaglie sulla pericolosità sociale potenziale di questi gruppi – raccontano dal commissariato Mecenate –, solo che per molto tempo i singoli episodi sono stati sottovalutati, sono stati presi come folklore. Ma non era così: le bande su-

Nuovi affiliati Rito di iniziazione di una gang filmato dalla Polizia. I ragazzi vengono malmenati, ma non si devono lamentare

Quartiere Turro

In parrocchia con mazze e coltelli: «Così lavoriamo per includere» Un prete giovane, di una parrocchia di periferia, sempre al lavoro con i ragazzi: è don Nicola Porcellini, 35 anni, da dieci nella parrocchia di San Giovanni Crisostomo a Turro, zona via Padova. È un territorio definito “problematico”, spesso teatro di fatti di micro e macrocriminalità.

Un quartiere abitato da persone provenienti da tutto il mondo, la cui integrazione è spesso complessa. Tra i migranti c’è un’alta percentuale di latino-americani e, tra di loro, non mancano gli affiliati alle pandillas.

Don Nicola appena arrivato in parrocchia ha subito avuto a che fare con i problemi di questa zona, in particolare dei ragazzi latino-americani.

«Io vengo da Melzo – spiega don Nicola –, un paese che ancora dopo il Duemila non aveva accolto molti stranieri. In questa zona di Milano, invece, c’è sempre stata una forte presenza di migranti. L’oratorio rispecchia la storia del quartiere, non ci sono dinamiche stabili di appartenenza e partecipazione.

Per molto tempo la parrocchia è stata solo uno spazio abitato. Appena arrivato qui, ricordo la presenza di molti ragazzi provenienti dall’Ecuador, perché al parroco era stato affidato un ragazzo della stessa nazionalità e i suoi amici spesso venivano a fargli compagnia. I ragazzi avevano dai 14 ai 17 anni ed esprimevano la loro socializzazione con il ballo, in particolare l’hip hop. In quell’inverno c’è stato un forte scontro tra latinos e italiani, che ha coinvolto anche la nostra parrocchia. Un giorno sono stato costretto a chiamare i carabinieri perché alcuni giovani si sono presentati con coltelli, mazze e tirapugni negli zaini».

Oggi la situazione sta cambiando lentamente in meglio, sia nella zona che in parrocchia. Dal 2006 a San Giovanni Crisostomo opera un’équipe di educatori coinvolti da don Nicola, per meglio fronteggiare i problemi dei ragazzi. «Data l’alta presenza di ragazzi stranieri di seconda generazione provenienti da paesi diversi – continua don Nicola – e i conseguenti problemi di integrazione, da sette anni abbiamo avviato una proficua collaboriamo con alcuni educatori professionali, nella convinzione che il semplice volontariato, per quanto importante, non sia sufficiente a risolvere i problemi. Pe cercare di creare punti di convergenza cerchiamo di offrire ai ragazzi e alla loro famiglie diverse occasioni di incontro. Il cortile dell’oratorio rappresenta per noi un luogo di intervento e di azione educativa e il catechismo, anche se è un’attività istituzionale, permette ai ragazzi di aggregarsi sin da piccoli, superando le barriere etniche. In più, consapevoli dell’importanza della scuola in questo processo, organizziamo un doposcuola in collaborazione con la scuola media del quartiere, la Rinaldi».

Una parrocchia accogliente, dunque. Tra gli iscritti al catechismo il 30% dei partecipanti sono di origine non italiana, e la metà di essi proviene dal Sud America. Ma anche una parrocchia pronta a fare rete con le agenzie educative attive in zona. «Lo scorso anno, in collaborazione con il consiglio di zona 2, Codici, cooperativa Comin, Tempo per l’infanzia e Terre Nuove abbiamo realizzato un progetto per l’integrazione, finanziato dall’Unione europea – ha spiegato ancora don Nicola –. Noi in particolare abbiamo coordinato l’azione di leva civica, il cui scopo è stato attivare i ragazzi a fare volontariato nel quartiere e nelle associazioni. L’intervento non è stato semplice ma, alla fine, siamo riusciti a coinvolgere circa 50 giovani di varie nazionalità. Un bel successo».

Ma non è tutto. Oltre alle attività estive, che hanno il fulcro nell’oratorio feriale, quest’anno la parrocchia propone un’iniziativa di vita comune: una volta al mese un gruppo di ragazzi fanno esperienza di condivisione nella casa parrocchiale, in cui si ritrovano la sera e trascorrono insieme la notte. Per fare gruppo. Per sentirsi parte. Senza distinzioni. maggio 2013 scarp de’ tenis

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Ragazzi che partono in svantaggio, Cassiopea contro la “disafigliazione” Un progetto di aggregazione e accoglienza per i ragazzi in ricongiungimento famigliare e quelli di seconda generazione: è Cassiopea, un servizio della cooperativa Comin, che da tempo sostiene i giovani stranieri e le loro famiglie. Ne parliamo con Alessia Cattaneo, dell’équipe di Cassiopea.

In cosa consiste il progetto?

Cassiopea da più di dieci anni sostiene le famiglie straniere nel delicato percorso di ricongiungimento con i figli.

Il progetto assiste i ragazzi stranieri nel loro percorso di inserimento e conoscenza dell’Italia, paese in cui si trovano sradicati e disorientati, aiutandoli a capire una cultura molto diversa da quella del paese d’origine e offrendo spazi di socialità in cui confrontarsi con altri ragazzi che stano vivendo o hanno vissuto un’esperienza simile alla loro.

Il progetto prevede anche incontri per i genitori, finalizzati al confronto e al mutuo-aiuto, oltre a un lavoro individuale di mediazione con ciascun nucleo famigliare.

Quali sono le principali difficoltà che questi ragazzi incontrano?

I problemi nascono dalle differenze tra la “vita lasciata” al paese e la “nuova vita”. Persone care, ambiente, clima, stili di vita, tutto è differente: ne consegue l’incapacità a leggere le abitudini e le richieste che incontrano in Italia.

Anche l’incontro con i genitori è segnato spesso da

incomprensioni e difficoltà di condivisione di progetti per il futuro. Per questo ciò che vivono è un senso di solitudine e spaesamento, rispetto a una famiglia e un paese che sentono lontani e ostili.

Intercettate anche appartenenti alle pandillas? Quali sono le dinamiche interne a questi gruppi?

Quando ci troviamo di fronte ai ragazzi, quello che più ci preoccupa non è ciò che viene esplicitato, ma il non detto, che si intuisce da segnali in codice e appuntamenti dati tramite sms. I ragazzi che fanno parte di questi gruppi sono stati ricongiunti: un ricongiungimento quasi mai scelto dal ragazzo ma subito, dove il progetto è dell’adulto e lo sradicamento è imposto. In questa situazione il processo di integrazione diventa difficile. I ragazzi partono in svantaggio nell’inserimento scolastico e in quello nel territorio, inoltre non si identificano con la vita fatta dai genitori. Si crea così la cosiddetta “disafigliazione creativa”: i ragazzi, cioè, si vedono e si riconoscono solo nel mondo dei propri pari. Ne scaturisce l’adesione a gruppi che, di fatto, tendono a riprodurre e riarticolare modelli svuotati di senso. Infatti rispetto ai ragazzi arrivati con le prime migrazioni e sin dall’origine appartenenti a pandillas, oggi ci imbattiamo in ragazzi che apprendono l’uso della violenza come “socializzazione” dove, spesso, il risultato trascende la previsione del gesto.

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scarpmilano damericane a Milano sono 15, anche se solo 8 sono attive, e circa 400 sono i componenti. All’inizio si scontravano per liti sentimentali, per screzi tra ragazzi, poi sono scivolate nel crimine vero e proprio. Oggi molti di loro controllano lo spaccio di droga in città, hanno armi, fanno rapine. Solo quest’anno ci sono stati 7 tentati omicidi».

Difficile rapporto madre-figli E poi, c’è quello cui abbiamo accennato all’inizio: Latin King Chicago e Luzbel, Nieta, Trebol, sono solo alcuni dei nomi delle pandillas. Alcune di queste sigle hanno codici di comportamento interni di stampo quasi militare, che ricordano anche la mafia italiana. Esempio: se arrivi tardi a una riunione, sarai picchiato. Se sparisci per un po’ dal giro, quando rientri sarai picchiato. Ti devi vestire in un certo modo, con certi colori, fare determinati gesti simbolici e devi pagare una quota settimanale agli affiliati che sono in carcere. Quando poi ci si incrocia per Milano tra bande rivali, è la rissa: ci si picchia, ci si pugnala, ci si deruba per il controllo dei parchetti,

anche solo per qualche sguardo storto in discoteca. «È una realtà molto difficile – spiega Gabriela Sbiglio, psicologa di origine argentina che lavora al consultorio familiare dell’istituto “La Casa”, in via Lattuada, a Milano e che ha seguito diverse mamme sudamericane con figli coinvolti in queste situazioni o a rischio di commettere reati –. Da un lato c’è il rapporto tra madri e figli da ricostruire, perché questi ragazzi sono cresciuti con al-

tri adulti in patria, e qui si trovano con una persona sconosciuta, la loro madre.

Dall’altro ci sono le mamme che non hanno il tempo e le risorse per accompagnarli in questo difficile percorso di crescita e integrazione. Inoltre, queste donne sudamericane non mettono in preventivo di trovarsi in una situazione del genere. Si aspettano riconoscimento dai figli per il loro sforzo, si trovano davanti ragazzini estranei con cui non riescono a parlare. E loro, i ragazzini, hanno di fronte una madre che non li capisce, si sentono soli, delusi, di nuovo abbandonati e senza riferimenti. Ecco perché i ragazzi trovano nelle bande un luogo di riconoscimento, un codice di appartenenza».

Molti di loro sono finiti in carcere con pene molto pesanti: «E il carcere – continua Matteo Conte di Codici – è spesso il luogo della riflessione. Da lì vorrebbero ripartire, anche per insegnare ai nuovi arrivati dai paesi del Sud America che non ha senso sfogare la propria rabbia in gesti che ti fanno sentire protagonista, ma che poi ti rovinano la vita».

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dicembre 2008 - gennaio 2009 scarp de’ tenis

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I guai finanziari della madre e il suo status di apolide lo hanno fatto finire in strada. Ma non si è arreso: in Bocconi, a marzo, il diploma in economia

Dottor Dari, la laurea strappata alla strada di Maria Chiara Grandis «Quando di colpo ti trovi a vivere per strada hai due scelte: o ti perdi d’animo, o cerchi di tirarti su». La racconta così la sua storia Dari Tjupa, 31 anni, laureato in economia delle istituzioni e dei mercati finanziari all’Università Bocconi.

A risollevarsi lui ce l’ha fatta, ma la tesi di laurea sulle migrazioni interne in Italia negli anni del boom economico l’ha scritta al Rifugio Caritas, la struttura per senza dimora gestita da Caritas Ambrosiana vicino alla stazione Centrale di Milano, dove è stato ospite per otto mesi. Al punto più basso di una storia che avrebbe abbattuto chiunque. «Fino allo scorso anno la mia vita era divisa tra lo studio e l’aiuto a mia mamma nella sua sartoria. Seguivo gli aspetti amministrativi dell’attività.

Ma poi la crisi e uno sfratto hanno cambiato tutto. E mi sono trovato a dormire all’aeroporto di Linate...».

Problema nel problema, Dari era venisse riconosciuto, ma questo è sucapolide, condizione non riconosciuta cesso solo a marzo 2013». dallo stato italiano: una gabbia buroNel frattempo la situazione si era cratica gli ha complicato la vita e gli ha complicata: mentre Dari cercava di reimpedito di ottenere un permesso di golarizzarsi, la madre è rimasta senza lasoggiorno con il quale presentarsi a un voro. Con la crisi, gli ordini in sartoria si colloquio di lavoro. erano ridotti e il lavoro scarseggiava. Sopraggiunto lo sfratto, Dari – che possiedeva solo un permesso di soggiorno Apolide senza diritti provvisorio, che scade in fretta – si è tro«Sono arrivato in Italia dall’Estonia nel vato presto per strada. «I volontari Cari1995, a 13 anni – ricostruisce Dari –. tas mi hanno trovato a Linate e mi hanMamma aveva chiesto asilo politico cono accompagnato al Rifugio in stazione me cittadina estone, mentre io risultavo Centrale, dove sono arrivato a giugno – apolide dal crollo dell’Unione Sovietica prosegue –. Successivamente sono stato nel 1991 quando, per una lacuna legiospitato dalla Casa della Carità. La cosa slativa, non avevo ottenuto la cittadipiù importante in queste situazioni è nanza». L’Italia ha firmato le convenzioavere rispetto di chi ti circonda, al di là ni internazionali Onu sull’apolidia e chi delle apparenze. Solo vedendo il lato di si trova in questa condizione, vivendo umanità delle persone senza dimora nel nostro paese, può godere dei diritti riesci a interagire con loro e a ottenere civili. Il punto è che l’apolidia va certifirispetto a tua volta, e questo è fondacata. E Dari quel documento l’ha aspetmentale per andare avanti. Certo, trotato per tredici anni. varmi a scrivere la tesi in dormitorio con «A Milano mi sono iscritto al liceo i senza tetto è stato un momento molto linguistico Manzoni, dove ho imparato duro, che mi ha messo davvero alla prola vostra lingua – prosegue il ragazzo, in va...». un italiano impeccabile –. Dopo la maturità, ho potuto frequentare l’università. Nel frattempo, compiuta la magLa ragnatela della burocrazia giore età, ho avviato la procedura al miIl 26 marzo, nell’aula del campus della nistero dell’interno perché il mio status Bocconi dove si è laureato con 106 su

38. scarp de’ tenis maggio 2013

110, non c’erano solo gli amici e i compagni di corso di Dari, ma anche le famiglie milanesi che hanno letto la sua storia sui giornali, rappresentanti della questura e operatori sociali. «È stato un momento molto bello ed emozionante – ricorda Dari, che qualche giorno prima aveva ottenuto lo sblocco della sua pratica dal ministero e di conseguenza i documenti dalla questura –.

Mi avevano detto che si trattava di un procedimento lunghissimo, forse perché queste pratiche sono istruite dallo stesso ufficio che si occupa di quelle per l’ottenimento della cittadinanza, le quali, si sa, hanno tempi lunghi e mai certi. Sicuramente il fatto che il presidente del parlamento europeo Martin Schulz sia venuto a conoscenza della

Laurearsi sulla strada Dari Tjupa ha discusso la tesi in Bocconi. Sopra, mentre studia in biblioteca. A destra, nella sua attuale camera alla Casa della Carità

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Lo status

Dura la vita da apolide, a rischio i diritti elementari

mia situazione, quando a febbraio ha visitato il rifugio Caritas, ha dato una mano a risolvere tutto. E poi devo la mia gratitudine a tanti: dall’università, che mi ha aiutato nel percorso, ai tanti giornalisti che hanno fatto conoscere la mia storia».

L’unica differenza fra Dari e un cittadino italiano ora è il diritto di voto. «È presto per parlare di cittadinanza, prima devo ottenere un lavoro», spiega dopo la laurea, sperando di riuscire a trovarne uno in linea con il suo percorso di studi e di potere essere presto in grado di pagare un affitto per tornare indipendente. «In ogni caso voglio restare in Italia. Non solo è il paese che sento mio, ma è l’unico che ho...».

Dari spera che la sua esperienza

Essere apolidi significa non essere considerati cittadini da alcuno stato. In Italia sono circa 850 le persone che si trovano in questa condizione, che nel mondo interessa oltre 12 milioni di individui. In Lombardia, nel 2011, se ne contavano 164, di cui 42 in provincia di Milano.

Un numero in crescita negli ultimi cinque anni. Il problema principale, per un apolide in Italia, è l’assenza di certificazione della propria condizione giuridica. «In questo caso gli svantaggi sono molti – spiega Giulio Greco di Asmira, associazione per gli studi sulle migrazioni, il rifugio e l’apolidia dell’Università Statale di Milano –. Non ci si può avvalere del servizio sanitario nazionale né sposarsi, ad esempio, perché non si possiedono i documenti». Le Nazioni Unite hanno regolamentato l’apolidia con due convenzioni: quella del 1954 definisce lo status di apolidi e quella del 1961 mira alla riduzione del fenomeno. L’Italia ha reso esecutiva la prima nel 1962, mentre la procedura di riconoscimento dell’apolidia è stata regolata vent’anni fa. «Le nostre leggi sono un po’ vecchie, basti pensare che nel 1992 non si registravano ancora le migrazioni di massa cui assistiamo oggi – sottolinea Greco –. Tutto sommato però l’Europa non è messa così male nella tutela delle persone apolidi, che per la maggior parte sono ex cittadini sovietici. Storicamente i casi più frequenti di apolidia si verificano al dissolversi di uno stato, come appunto l’Urss o l’ex Jugoslavia.

E queste sono le circostanze che creano emergenze di massa».

Il problema è che bisogna agire a livello internazionale. «Da sempre l’Onu si è concentrata soprattutto sulla tutela dei rifugiati, perché rappresentano un problema più urgente – racconta Greco –. In occasione del cinquantesimo anniversario della convenzione del 1961, però, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha lanciato una campagna per convincere i paesi ad aderire alle convenzioni sull’apolidia, ottenendo qualche risultato. Tuttavia bisogna poi che ogni singolo stato modifichi le proprie leggi interne». L’apolidia è accentuata in zone come il sud-est asiatico. «Ci sono rapporti che stimano da un milione e mezzo a tre gli apolidi in Tailandia, ad esempio. Altro territorio dove il problema ha raggiunto grandi dimensioni è il Bangladesh: qui negli ultimi secoli è arrivato un milione di persone in fuga, si tratta di un’etnia musulmana perseguitata in Birmania e non accettata altrove».

In questi casi le convenzioni internazionali non bastano. «Lo Sri Lanka dopo la guerra civile ha deciso di dare la cittadinanza a tutti gli apolidi, una buona soluzione. Ci si aspettava che anche la Tailandia facesse lo stesso ma in realtà, anche se la legge sulla cittadinanza è stata rivista, non si è arrivati a tanto».

possa essere utile per aiutare chi si trova nella stessa condizione. «Mi auguro che vengano modificati i procedimenti amministrativi per vedere riconosciuto lo status di apolide, soprattutto perché si possa lavorare. Ho l’impressione che le cose finalmente si stiano muovendo in questo senso, almeno nell’opinione pubblica».

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I FRATEL ETTORE DI OGGI 2. Magda Baietta nel 1998 ha fondato la Ronda della Carità: aiuti dal camper, per generare la fiducia che sottrae alla strada

Le notti di Magda, che dispensa sorrisi di Daniela Palumbo iniziato le ronde cittadine, Paolo Coc«Fin da piccola mia madre mi ha abituata a guardare a chi ha meno di cheri. Un grande uomo». me. E a pensare che se si aveva la fortuna di avere di più, si doveva aiutare quanti quella fortuna non l’avevano avuta. Eravamo benestanti, ma i miei lavoravano sodo. Io sono nata a Lodi e lì avevamo un cinema e un ristorante, ma mia madre, Non mi piace aiutare il prossimo oltre al lavoro e alla famiglia, si è sempre dedicata agli altri come crocerossina. Ho Magda è una persona aperta e tolleimparato da lei a guardare all’altro con amore e compassione. Mai dall’alto». rante, ma non provate a darle dell’assiMagda Baietta è una donna pratica, con valori forti, ma che affondano le rastenzialista. «Non mi piace aiutare il dici nella concretezza. Oggi ha 62 anni e nel 1998 ha fondato la “Ronda della Caprossimo per sentirmi meglio. Non vorità”: a Milano, cinque sere su sette lei e i volontari sono in strada per intercettare glio aiutare il senzatetto perché stia bei diseredati che affollano le vie della città. Ma la Ronda ha anche una postazione ne dove sta. Io devo fare in modo che venga via dalla strada. Ma è difficile che fissa, a piazza Fontana, dove il camper la persona accetti di recarsi nei luoghi attrezzato è un rifugio sicuro per chi ha tavo nei sogni e ho cominciato a capideputati a risolvere i suoi problemi. La bisogno di rifocillarsi, di abiti nuovi e re che non potevo fare quel servizio. nostra scommessa è dunque precedeuna parola di conforto. Inoltre, la RonAgli inizi degli anni Novanta ho voluto re la domanda, sera dopo sera. Tazza di da della Carità risponde alle segnalafare l’esperienza del campo di lavoro thè dopo tazza di thè. Un sorriso, e la fizioni dei cittadini (grazie al coordinaestivo dei Soci costruttori, a Ravenna, ducia aumenta. Fino al giorno benemento del centro di aiuto della staziodove ho incontrato, tra i volontari-ladetto in cui la persona accetta di essene Centrale, tel 02.88447645). voratori, alcuni cosiddetti “barboni” re accompagnata verso un progetto di che mi hanno indicato le associazioni vita che non prevede la strada. Non è di Milano che si occupavano di senza La piccola “ribelle” facile, sono persone che hanno storie dimora. L’esperienza della Ronda della «Da piccola ero ribelle e volevo fare l’arpesanti da portarsi dietro». Eppure Carità è nata in seguito all’incontro che tista – racconta Magda –-. Ma i miei non Magda ci prova ogni notte. mi ha cambiato la vita, con colui che ha lo capivano e mi fecero fare una scuola che non mi interessava. Così, mi feci bocciare. Allora, mi spedirono in collegio dalle suore di Maria Bambina. Ma si stava bene e anche con loro imparai la La Ronda della Carità – in rete con i servizi del comune di Milano e solidarietà. Ci portavano fuori a fare il la Caritas Ambrosiana – conta oltre 50 volontari, dai 23 agli 83 anni. servizio di aiuto ai poveri, ho degli La vecchietta di 83 anni, Lia, attualmente prepara i sacchetti splendidi ricordi di quelle suorine piedi stoffa ricamati da lei per venderli nella prossima raccolta fondi ne di attenzioni per il prossimo». della Ronda: la raccolta sarà dedicata al progetto di costruire un rifugio Se le chiedi perché fa tutto questo, per homeless di 15 posti.

Magda si stupisce. «Io non potrei conMediamente, ogni anno le attività della Ronda sono le seguenti: cepire la mia vita senza il servizio alla 210 uscite serali, ogni sera vengono avvicinati fino a 100 utenti persona più fragile. Dopo la scuola è arsenza dimora e distribuiti oltre 4.300 sacchetti di cibo. rivata la famiglia, ma io dopo aver creDurante le uscite vengono dati anche capi di vestiario, zaini e borse, sciuto le figlie non volevo più stare sensacchi a pelo e coperte. Le ore di volontariato complessivamente donate za fare niente. Il mio tempo libero era in un anno sono circa 3.700, calcolando 934 presenze di circa 4 ore sprecato fra lo shopping e le chiacchieciascuna. Quasi lo stesso numero di ore è stato impiegato per re fra amiche. Ho cominciato a fare la gli accompagnamenti degli utenti in orari diurni ai vari servizi, cui volontaria in Croce Rossa, poi nell’Abio, si sommano 63 colloqui svolti nel centro di ascolto della Ronda all’ospedale di Melegnano. Ma tornavo e 29 utenti seguiti nei vari ospedali durante i ricoveri. a casa e stavo male, i bambini me li por-

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In giro per la città cinque sere su sette tra gli oltre 50 volontari anche “nonna” Lia

maggio 2013 scarp de’ tenis

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storie di via brambilla Da un progetto per far suonare ragazzi rom, un’ensemble multiculturale

Iulian in attesa di Battiato, nasce l’Orchestra dei Popoli di Paolo Riva

M

A TU LO CONOSCI QUESTO BATTIATO?», chiedeva Iulian il pomeriggio prima dell’esibi-

zione. Romeno di nascita, italiano d’adozione, poco meno di 18 anni, come tanti suoi coetanei non sapeva esattamente chi fosse il cantante siciliano che avrebbe accompagnato con il suo violino di lì a poco, nel corso di un grande concerto al Conservatorio di Milano. Eppure Iulian aveva capito che si trattava di un personaggio importante e, nonostante gli avessero chiesto di lasciare la sala per l’ultimo sound check, si era rifugiato dietro la tenda di un ingresso, in attesa dell’autore di La cura. Poi, quando è arrivato “il maestro”, ecco il commento, caustico, da adolescente: «Ma è vecchio!». In effetti, Franco Battiato ha compiuto da poco 68 anni, è nato nel 1945. «L’anno in cui è finita la guerra», risponde Iulian, pronto. «Si, ma la seconda», precisa Ioan, nascosto poco lontano. Istruzione e goliardia, talento e faccia tosta, momenti difficili e di crescita.

Sono così Iulian e Ioan, due dei circa venti ragazzi rom che, seguiti dalla Casa della Carità, negli ultimi tre anni hanno fatto un lungo percorso che li ha portati dai campi della città di Milano alle aule del Conservatorio e, da qualche mese, anche a far parte di un’ensemble di 60 musicisti provenienti da tutto il mondo. È la neonata “Orchestra dei popoli Vittorio Baldoni” che, proprio con Franco Battiato, ha esordito il 23 aprile alla sala Verdi del Conservatorio, di fronte a oltre 1.400 persone. Il progetto coinvolge giovani provenienti dall’Iran, dalle Filippine, dal Brasile, dal Senegal, dall’Armenia, dal Perù, dalla Turchia. E dalla Romania, dove sono nati Iulian e Ioan. E dove tutto è idealmente iniziato.

L’Orchestra, infatti, è il punto di arrivo di una collaborazione tra la Casa della Carità e il Conservatorio, cominciata nel 2010 per consentire ai giovani rom provenienti dalla Romania e seguiti dalla fondazione di far fruttare il loro talento. Le due realtà hanno siglato un protocollo, i ragazzi hanno iniziato a frequentare le aule dello storico istituto milanese e, seguiti da maestri e operatori sociali, hanno imparato a leggere la musica. E così alle canzoni della tradizione, imparate da nonni e genitori e suonate spesso a memoria senza conoscere le note, si sono aggiunte le competenze tecniche e, di conseguenza, la possibilità di frequentare i corsi del Conservatorio al pari di tutti gli altri alunni. Un modello che ha funzionato e che quindi si è deciso di ampliare, lavorando per creare l’Orchestra dei Popoli e coinvolgendo anche la neonata Fondazione Casa dello spirito e delle arti e la storica associazione Ibva. E così, ciò che ad alcuni poteva sembrare un progetto specifico, tagliato sulle esigenze di una “minoranza” rom troppo spesso considerata diversa, si è rivelato un’esperienza positiva per i giovani di tutta Milano. A sperimentare lo straordinario potere della musica ora non saranno più solo Ioan e Iulian, ma anche Luis, Giovanni, Maggette e tanti altri ragazzi. Di Milano e del mondo intero.

INFO www.casadellacarita.org/orchestra-dei-popoli

All’inizio era un’accordo con il Conservatorio per venti minori rom. Oggi è un’opportunità aperta a tutti

www.casadellacarita.org

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42. scarp de’ tenis maggio 2013

latitudine como Da dieci anni Como ospita moltissimi ragazzi stranieri senza famiglia

Minori non accompagnati, il capoluogo dell’accoglienza di Salvatore Couchoud

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la città di Como vanta un singolare primato, finito recentemente sotto i riflettori dell’attenzione dei media e analizzato a più riprese attraverso studi e convegni: il crescente afflusso nel capoluogo di minori stranieri non accompagnati. Da gennaio 2003, ovvero da quando il comune lariano decise di aprire il Centro Arcobaleno di via Vellleggio per ospitare sedici minori provenienti dall’ex Jugoslavia, ammontano complessivamente a 65 le presenze di giovani sprovvisti di rete familiare che sono stati accolti nelle strutture predisposte dall’assessorato ai servizi sociali di palazzo Cernezzi, e sono ben 13 i nuovi arrivi solo dall’inizio dell’anno in corso.

«La decisione di scegliere Como come punto di arrivo – spiega l’assessore comunale Bruno Magatti – non è certamente frutto di un percorso fortuito, ma il risultato della ricezione di un messaggio in cui emergono le spiccate caratteristiche di accoglienza e cura che il nostro territorio può vantare. A noi spettano il compito e la responsabilità di accompagnare questi ragazzi verso un’integrazione reale, mettendo in campo esperienze e capacità in grado di fornire loro autentiche possibilità di autonomia. Resta però il fatto che la città di Como, con le sue sole forze, non sarà mai in grado di affrontare e risolvere un problema che rimane di competenza nazionale, ma anche europea».

Molto è stato fatto e si continua a fare per venire incontro alle esigenze di questi adolescenti, per lo più provenienti dal Nord Africa e dall’Europa dell’est, oltre che per sciogliere alcune difficoltà legate, soprattutto, all’accertamento dell’età e all’effettiva identificazione di giovani che, giungendo spesso privi di documenti e dichiarando un’età anagrafica inferiore a quella reale, “costringono” l’amministrazione a farsi carico di “minori” che sono tali solo nominalmente.

Ma il problema più complicato è individuare soluzioni di lungo periodo che sfocino in adeguati percorsi di integrazione. Molto si è fatto anche in questa direzione, con il progetto “Una sfida per crescere” elaborato dalla cooperativa Il Biancospino, con le attività collaterali dell’impresa sociale Starting Work e con i contributi delle cooperative Il Seme e Cometa formazione.

Sono dunque trenta, al momento, le doti occupazione per minori stranieri non accompagnati (del valore di 5 mila euro ciascuna) che sono state erogate, e altre stanno per essere sovvenzionate, con buona pace di quella parte della cittadinanza – capita anche nelle migliori famiglie – che preferirebbe investire quei fondi verso più italiche emergenze. Dimenticando che, per Como, è più salutare vantare una benemerenza quale quella dell’accoglienza dei minori stranieri, che altri primati meno nobili e gratificanti, come quelli che di tanto in tanto balzano agli onori delle cronache.

A DIECI ANNI

L’assessore: «A Como arrivano non per un caso fortuito».

I percorsi di integrazione sono difficili. Ma vi partecipano molti soggetti del territorio

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44. scarp de’ tenis maggio 2013

Tetraedro

torino Abbandonato dopo le Olimpiadi invernali, il Moi rinasce. Grazie a un’occupazione...

Ieri gli atleti, oggi i rifugiati

Stabile occupato I rifugiati stanno ripulendo e mettendo in ordine gli alloggi dell’ex Villaggio olimpico

di Vito Sciacca Il mercato ortofrutticolo torinese di via Giordano Bruno è stato per decenni uno dei centri pulsanti del commercio cittadino. Ogni giorno qui, ancor prima dell’alba, era tutto un fremere d’attività: camion che scaricavano, contrattazioni, altri veicoli che smistavano frutta e verdura ai mercati rionali e ai rivenditori della città.Tutto è cambiato nel 2006, l’anno delle Olimpiadi invernali: traslocati i mercati nella cintura, il Moi è rinato a una nuova vita. O, meglio, cosi avrebbe dovuto essere nelle intenzioni del comitato organizzatore delle infrastrutture dei Giochi, che decise di edificare nell’area il villaggio olimpico, destinato a fornire alloggio e infrastrutture a circa 2.500 atleti. Un intervento su 62 mila metri quadrati di superficie: 22 mila di residenze e 40 mila destinati ai servizi logistici e organizzativi, per una spesa pari a 30 milioni di euro.

Area dimenticata da tutti

Nel quartiere

Nelle intenzioni dei progettisti, l’area avrebbe dovuto, al termine delle Olimpiadi, essere riconvertita in uno spazio di edilizia residenziale e agevolata, una sorta di “città giardino satellite” che avrebbe contribuito alla riqualificazione dell’intero quartiere.

Le cose, però, sono andate in ben altro modo: nel 2007 il comune ha venduto la proprietà per 15,9 milioni di euro al Fondo Città di Torino, gestito da Prelios Sgr (36% delle quote) e partecipato dallo stesso comune (35%) e da Equiter, società del Gruppo Intesa Sanpaolo (29%), ma le vendite non sono mai decollate: abbandonate a se stesse per anni, le palazzine hanno risentito di un rapido degrado; se si esclude l’Ostello della gioventù (unica costruzione completamente di proprietà del comune), uno stabile adibito a residenza universitaria e il palazzo del Coni, oggi la vista d’insieme è quella di un decadimento sconsolante, ancora più doloroso se si considera che si tratta di edifici nuovi, abitati per meno di un mese.

L’appoggio dei volontari: «Restituiscono le case al quartiere»

Una casa per 300 migranti Una nuova destinazione delle strutture è stata attuata lo scorso 30 marzo,quan-

46. scarp de’ tenis maggio 2013

G, è una insegnante d’italiano che lavora con i profughi. La incontro nel cortile delle palazzine occupate e quando le chiedo come è nata l’idea dell’occupazione non ha esitazioni: «Alcuni studenti ci hanno detto che stavano chiudendo i centri, del modo delirante con cui sono stati trattati: due anni chiusi nei centri e poi ti mettono in mano 500 euro (che neppure tutti hanno preso) e ti ritrovi abbandonato a te stesso. Siamo andati in due strutture ancora aperte per cercare di capire quante persone vi fossero, e il risultato è stato sconfortante: più di 900 persone abbandonate a se stesse. A quel punto la nostra priorità è stata dare un tetto a queste persone. Abbiamo cercato di creare una rete, contattando più realtà possibili, dalla pastorale dei migranti ai centri sociali.

Abbiamo in programma di attivare corsi d’italiano, il bisogno primario è stato un tetto, ma l’obiettivo successivo è dare loro anche una dignità, la possibilità di non essere un corpo estraneo al nostro paese».

Questo posto è vuoto da sette anni: cosa avete provato entrandovi dopo tanto tempo?

Rabbia, veramente. Un posto così, lasciato marcire. Queste persone restituiscono qualcosa: abitando questo posto lo salvano dal degrado, come abbiamo scritto in un volantino: “Abitate una casa ed essa non crollerà”.

Guardati intorno, adesso è tutto pulito…

Tante provenienze diverse, nessun problema?

Diverse, sì, ma hanno un obiettivo comune e pian piano stanno imparando a collaborare.

E il quartiere, la gente qui intorno, come ha preso questa novità?

Molte persone sono state molto collaborative, anche aiutandoci. Abbiamo tenuto un’assemblea pubblica e ho visto un po’ di perplessità all’inizio, ma finora il riscontro è stato positivo. Occorrerà fare opera di sensibilizzazione, non tutti sanno chi siano queste persone e quali siano le loro storie.

Aghios

scarptorino L’intervista

«Non volevo infrangere la legge, ma alla fine non ho avuto scelta»

do circa 300 migranti (per lo più reduci dell’emergenza Nord Africa), coadiuvati da un Comitato Solidarietà – costituito fra gli altri da insegnanti volontari dell’Asai, Usb, vari esponenti dei circoli Arci e dai centri sociali Askatasuna e Gabrio – hanno occupato due palazzine fino ad allora disabitate a cui, il 4 aprile, se n’è aggiunta una terza, portando il totale dei rifugiati alloggiati a 450.

Sono tunisini, bengalesi, etiopi, eritrei, nigeriani, somali, quasi tutti con un passato di guerre e disperazione alle spalle, quasi tutti con un permesso di soggiorno rilasciato per motivi umanitari. Sono quasi un terzo dei 920 rimasti in Piemonte a marzo, quando è stata decretata dal governo la fine dell’Emergenza Nord Africa.

L’atteggiamento delle forze dell’ordine all’inizio è stato d’attendismo: la situazione, data la tipologia degli occupanti e la presenza di famiglie con bambini, non può essere trattata come una mera questione d’ordine pubblico.

Nonostante tutto ciò la visita alle palazzine occupate è per certi aspetti sorprendente: gli alloggi, occupati da trequattro persone ciascuno, sono stati ripuliti e arredati per quanto le circostanze lo permettessero (non pochi abitan-

A. viene del Gambia ed è in Italia da un anno e mezzo. Come molti altri rifugiati, ha vissuto la solita trafila: l’arrivo in Italia dopo un viaggio fortunoso dalla Libia, l’accoglienza in un centro e, da qualche tempo, la vita di strada.

Quando sei stato dimesso dal centro di accoglienza in che situazione ti sei ritrovato?

Tutto è stato molto difficile: non avevo un posto dove stare, per difendermi dal freddo passavo le giornate in stazione o in altri posti simili. Spesso mi incontravo con altri profughi e insieme ci confrontavamo, cercavamo di trovare soluzioni alla nostra situazione. Ovviamente il problema fondamentale è trovare un’abitazione, ma con i 500 euro che ci avevano messo in mano al momento della dimissione dal campo non era certamente pensabile affittare un alloggio.

Quando nacque l’idea di occupare uno stabile?

Durante una di queste riunioni tre amici, Abu, Lucy e Patricia, mi informarono che esisteva la possibilità di occupare questo stabile rimasto vuoto dal tempo delle Olimpiadi. Confesso che la cosa mi lasciò perplesso.

Sapevo che si trattava di un’azione illegale e avevo paura di mettermi nei guai, sarebbe stato aggiungere un problema a quelli che già avevo. Poi ho incontrato alcuni ragazzi italiani che stavano organizzando questa cosa, che mi hanno tranquillizzato dicendomi che sarebbe stata una cosa senza violenze. Così la domenica di Pasqua ci siamo ritrovati in un centinaio e siamo entrati nel piazzale antistante le palazzine; quando poco dopo sono arrivati i carabinieri, Abu, Lucy e Patricia e alcuni altri italiani si sono piazzati come barriera per impedire che ci facessero sloggiare o ci arrestassero. Hanno parlamentato per un po’ e dopo poco i carabinieri se ne sono andati. Siamo entrati nel palazzo e ci sono state assegnate le stanze.

Cosa hai provato in quel momento ?

Mi ci è voluto qualche giorno per realizzare che avevo finalmente un posto dove stare, che potevo dormire nuovamente in un letto e non per strada.

Con tutto quello che abbiamo passato, non cerchiamo altro che un po’ di pace.

Cosa speri per il futuro?

Avere di nuovo una casa, una vita normale, un lavoro. Un po’ di normalità...

Mr X ti del quartiere si sono adoperati per fornire agli occupanti un aiuto concreto: materassi, piccoli mobili, stoviglie) e si svolgono riunioni interne tra i profughi per organizzare la gestione degli spazi.

Contemporaneamente molti continuano a perseguire il loro percorso d’integrazione, tramite corsi d’italiano o la ricerca di un lavoro.

ra Boldrini. A lei, che prima di occupare l’alta carica istituzionale ha ricoperto l’incarico di portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, una delegazione di occupanti ha esposto le condizioni in cui sono costretti a vivere dalla fine del piano di emergenza decretato dal governo.

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Incontro con la presidente Intanto il 10 aprile nel centro della città si è svolta una manifestazione, con destinazione il Teatro Regio, dove si teneva l’inaugurazione della Biennale Democrazia, alla quale è intervenuta come ospite la presidente della Camera, Laumaggio 2013 scarp de’ tenis

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genova Quattro ritratti di anziani senza dimora. Lo sfrattato a 85 anni, lo svanito tornato, l’inafferrabile acculturato, lo spagnoleggiante

Anziani ombre sulla strada di Stefano Neri Eri lì, acquattato sulla sedia. Rintanato nella tua giacca consumata. Con la barba folta, sotto la quale ti sei probabilmente nascosto per anni. E quel colbacco scuro, che ti faceva molto karasciò. Leggevi il giornale, ripiegato su di esso; ti salutai ed esplodesti in un discreto ma significativo sorriso. Mi davi l'impressione – scusa se dico questa cosa – non solamente di essere stato molto solo, ma di non aver parlato da tempo con qualcuno. Perciò mi raccontasti subito, con impeto, la tua storia recente: incredibile. Incredibile, sì, che una persona di ottantacinque anni, in scadenti condizioni generali (di salute e trascurata nella cura di sè), potesse finire sfrattata così, da un giorno all'altro. Apparentemente senza preavviso. Quando arrivasti accompagnato dalle forze dell'ordine rimasi, nonostante gli anni di posarti, rifocillarti. Portando un po' di esperienza, assolutamente sbigottito. tranquillità in quella situazione di puro Capire cosa era effettivamente sucsconvolgimento in cui ti eri ritrovato. cesso, a quel punto, era secondario; Avevi lavorato per anni alle dipenl'importante era trovarti una sistemadenze di famiglie genovesi, anche molzione adeguata. Perciò, dopo qualche to benestanti, come tuttofare. E svolto giorno presso un’accoglienza notturna diversi altri lavori. Ora eri in pensione e per persone senza dimora, riuscimmo vivevi con stile a dir poco morigerato. a sistemarti in una pensione. Molto acEppure, sin da quando ci incontrammo, cogliente, gestita da persone estremasi coglieva già una sofferenza anche fisimente sensibili. Avevi la possibilità di rica, profonda, che andava oltre l'età. Per-

48. scarp de’ tenis maggio 2013

Prima di «questa piena eri sbarbato, indaginoso, sorridente.

Non lo dimenticherò

»

ciò un giorno ti ho portato in ospedale; un luogo dove non saresti voluto andare. Ma ti sei fatto accompagnare, seguire. E la velocità con cui te ne sei andato è stata spaventosa, terribile. Come una sorta di inondazione, che spazza via ogni cosa. Prima di questa piena eri completamente sbarbato, indaginoso, sorridente. Non lo dimenticherò mai. ***

scarpgenova

«

Averti qui era importante. Ma tu hai sempre fatto fatica a stare fermo

»

Impellente bisogno di andare Per alcuni anni ho perso le tue tracce.

Sparito, svanito nel nulla. Volatilizzato.

Sei stato nel tempo avvistato, e questo mi ha un po' tranquillizzato. Non completamente però. Perché conoscevo le tue condizioni di salute, sapevo di un deterioramento che avanzava. E il fatto di averti qui, sotto un’ala protettiva, era importante. Ma tu hai sempre fatto fatica a stare fermo. Hai sempre sentito quell'impellente bisogno di andare, per conoscere il mondo e godere pienamente la vita. Senza pensare alle conseguenze, senza calcolare gli effetti. Sei sempre stato così. Un giorno eri in un luogo, dove stabilivi amicizie, relazioni.

E il giorno successivo eri sparito, svanito nel nulla.

La tua memoria ora sta cedendo.

Proprio questo ti ha riportato qui, a Genova. Città che ti ha adottato, nel tuo passato recente. Che hai odiato e amato. Non puoi più andare in giro da solo, ti perderesti. ***

Sei difficile da capire Sei sempre stato deciso, inafferrabile.

Inavvicinabile. Ma non nel senso che non ti si poteva stare vicino, anzi. Eri una compagnia piacevole, competente, erudita. Inafferrabile, piuttosto, nel senso che era difficile capire ciò che realmente nutrivi dentro. Arcigno, a tratti scorbutico. Estremamente orgoglioso, spesso contaminato dai fumi dell'alcol.

Bastian contrario, hai sempre rifiutato l'aiuto offerto.

Però sei sempre rimasto in contatto, non ti sei mai allontanato più di tanto.

Sei stato spesso come su un ponte: a battagliare a volte in direzione di un allontanamento, altre verso un avvicinamento mai definitivo. Il tuo bisogno di socialità era comunque forte. Avevi un libro per ogni occasione (anche se i libri di storia ti caratterizzavano) ed eri costantemente immerso nella lettura. Poi avevi come un’urgenza di raccontare, analizzare, condividere, discutere.

Discussione dopo discussione, hai cominciato a fidarti, a raccontare di te; a sentirti in un luogo sicuro. Continuando con le tue, a tratti interminabili, invettive; ma portando a capire chi eri. Una persona estremamente intelligente, ma fragile di fronte a determinate situazioni della vita. ***

Resistenza

Io sono Angelo e sono un volontario!

Oggi non ho bevuto il mio caffè, il mio cane mi guarda, il gatto lo stesso.

Questi due si sono capiti.

Pronto a ricominciare Vogliono mangiare.

Eravamo a un buon tratE io sono un volontario e debbo capire. to del viaggio. Ancora alDico ciao al mio caffè cune stazioni e saremper me non c’è tempo. mo arrivati a destinazioLi accontento e vado a lavorare. ne. A quel punto, inaI poveri hanno bisogno spettatamente, apristi le del mio aiuto sacro. porte della conversazioIo sono il volontario Angelo ne. In un italiano spagnoe debbo capire. leggiante; ma chiaro, luciArrivo al mio posto, comincio a servire. do, conciso. Eri grato, Gli metto la pizza profondamente, per quel e mi arriva la domanda: che stava accadendo. E fe«Non c’è maiale vero? lice. All'alba dei sessantaIo sono musulmano, lo sai?» cinque anni avresti nuovaIo gli dico: «È con i funghi» mente avuto i documenti. E e lui mi chiede, una identità. un paio di mutande e calze nuove!

Col crollo di tutte le paure Davvero è sporco e le ansie ormai da tempo rae io gliele porto da casa: dicate sul tuo territorio interioio sono un volontario, re. Sono svolte nella propria videbbo capire… ta, epocali. Perché da invisibile riUn altro mi chiede torni a essere una persona, con la cinque euro e dice: sua dignità e i suoi diritti; con la «Loro sono i miei conseguente responsabilità che ciò amici di strada. comporta. D'altronde, tu non eri mai Siamo in cinque e voluto tornare nel tuo paese. Non avepregheremo per te!». vi parenti (prossimi quantomeno) né Io ho capito subito, conoscenti. E la tua vita ormai scorreva è questione di Tavernello! qui. Non ti aspettavi di trovarti in simile Finisco il programma difficoltà, sei stato un gran lavoratore. e cammino verso casa.

Ma forse non ti aspettavi nemmeno di In mente un pensiero riprendere vita, dopo tante prove. mi fulmina: il mio gatto e il cane si sentono abbandonati.

Entro in casa e guardo il cane: mi ha preso una scarpa, il gatto mi piscia nell’altra.

Io sono Angelo e sono un volontario!

Io debbo capire e debbo resistere.

Gigi Buffon ha resistito, resisto anche io!

La resistenza Italiana siamo noi.

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Sei stato «spesso come

su un ponte: a battagliare a volte verso un allontanamento altre verso un avvicinamento mai definitivo

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Gheorghe Mateciuc

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vicenza Ado: un laboratorio di creatività. E un luogo dove persone senza dimora riescono ad acquisire reali competenze lavorative

La bottega del lavoro guidato di Cristina Salviati Da un paio d’anni a gestire le strutture di accoglienza per persone senza dimora del comune di Vicenza c’è la cooperativa Cosep. Da quando hanno avuto l’appalto l’aria è decisamente cambiata, capita di andare in Albergo cittadino e trovarli impegnati in progetti di scrittura o di informatica, e la redazione vicentina di Scarp de’ tenis ha spesso collaborato con loro nell’animazione di spettacoli di lettura ed eventi pubblici.

Cosep ha sede a Padova e da parecchi anni si occupa di animazione, di affiancamento sociale e di supporto psicologico alle persone senza dimora. Dal 2007 ha avviato il progetto Ado, che significa attività diurne occupazionali, ma anche artigianato di oggi, a sottolineare il fatto che per creare nuove occupazioni per persone emarginate si possono inventare nuove produzioni e metodologie, riscoproco riconoscimento, fino a valorizzaprendo e rivisitando l’artigianato. re le competenze residue di ognuno. In Ora una di queste botteghe-laboraquesto modo non ci facciamo fermare torio si trova anche a Vicenza in via Cedalle aspettative né dai pregiudizi». derle, zona Ferrovieri. Si tratta di una veOltre al laboratorio occupazionale, ra e propria bottega artigianale, dove a vengono proposte attività con il comlavorare sono alcune persone senza diputer e gruppi di confronto sul percormora accompagnate da un educatore. so intrapreso. «Insomma – chiarisce «L’idea – spiega il presidente della cooSandonà – tutto è pensato per costruire perativa, Daniele Sandonà – è quella del insieme nuove opportunità e un nuovo lavoro guidato, un forma di inserimenmodo di relazionarsi». to che avviene per gradi. Per far questo ci siamo studiati una produzione che Un laboratorio su misura parte dall’assenza di competenze speNella bottega si trovano in bella mostra cifiche: man mano che le capacità cregli oggetti prodotti. Ma per capire bescono, anche il tipo di lavoro diventa ne come funziona questa “produzione più impegnativo. Per il risultato finale è guidata” occorre andarci di persona. fondamentale la partecipazione a tutte Entrando nel laboratorio, si è subito le attività proposte, dove si attiva il recicircondati da oggetti delle più svariate forme e colori, molti pensati per camerette di bambini, ma ce ne sono anche per adulti: portafotografie, quadri, appendini, bauli, pendagli, magneti, mensole, tutti di legno e tutti composti per sovrapposizione o a incastro, come se fossero puzzle bi o tridimensionali.

A lavorare in via Cederle in questo periodo sono Mario e Salvatore, insieme all’educatrice Valentina. «Hanno cominciato semplicemente dando il colore ai singoli pezzi – spiega ancora San-

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donà –, ma in poco tempo sono passati a realizzare gli incastri e a dipingere i particolari».

Tutti i pezzi sono sagomati da una tagliatrice laser, comandata direttamente da un programma Cad per computer; l’ideatore delle forme, il progettista degli oggetti, è proprio il presidente Sandonà. «Per le decorazioni mi ispiro anche ad autori famosi, come gli artisti di strada Somero Britto o Keith Haring, oppure mi avvalgo della collaborazione di un giovane grafico, Riccardo, che per esempio ha creato l’immagine di un simpatico riccio. Io mi studio forme e colori, poi decido a quale degli oggetti si adatta di più. Disegno con il computer e il gioco è fatto».

Insomma alla bottega Ado si sono

Creativi e professionali Alcuni degli oggetti realizzati nella bottega di via Cederle

scarpvicenza Il tempo scorre Il tempo scorre con immensa felicità, tutto resta, solo l’assurdo se ne va. È bello credere nella saggia realtà, non chiedere mai nulla, accettare quello che ci dà.

Pur bello è stato, nulla ho avuto, e tanto ho donato.

Questa è stata la mia vita condotta in modo strano eppure questa realtà mi ha fatto capire che vivere vuol dire amare e credere.

Questo sono io amo la mia vita e credo in Dio. Carlo Mantoan

inventati una nuova forma di artigianato del legno, facile per iniziare, ma anche formativa e creativa, perché studia sistemi di aggancio e di incastro inno-

Il racconto

Il bullismo genera violenza: «Ciò che ho subito, ho fatto ad altri» Quando andavo a scuola ho assistito a episodi di bullismo e vi sono rimasto coinvolto. Per questo ho deciso di tentare di spiegare questo fenomeno, assai più diffuso di quello che normalmente si pensa. Non serve andare nei quartieri a rischio delle metropoli e delle grandi città, la rabbia e la violenza, nutrite dal malumore tipico dei ceti sociali meno agiati, esistono anche nelle aree rurali, all’apparenza così tranquille. Ed è proprio questo il mio caso, io provengo da un piccolo paese alle soglie di Vicenza.

Il bullismo è socialmente trasversale: non necessariamente i teppisti sono figli di povertà e degrado, e nella mia esperienza personale ho avuto a che fare con questa “lotta di prevaricazione”, tra studenti. La riflessione a posteriori mi porta a dire che nel mio caso si è trattato di un incivile meccanismo, in cui il sistema scolastico stesso avallava il fenomeno, fino a renderlo istituzionalizzato. Ricordo che alle elementari avevo una maestra che letteralmente ha aizzato alcuni miei compagni contro di me. Parlando in dialetto, anche se eravamo a scuola, mi chiamava indormensà (tonto, uno che dorme in piedi) davanti a tutta la classe; poi, rivolta ad alcuni bambini, li incitava: «Questo qui bisogna svegliarlo». Passando tra i banchi capitava che mi tastasse le braccia, e scuotendo la testa commentava: «Muscoli, muscoli», segnalando agli altri che dovevo imparare a battermi.

Così appena la maestra usciva di classe un gruppetto di compagni cominciava a pendermi a botte, quaderni in testa, calci, schiaffi.

Se un genitore cerca di intervenire la situazione può anche peggiorare, perché i ragazzi ti canzonano ancora di più chiamandoti “cocco di mamma”.

Anche se a essere preso di mira è un bambino piccolo come me, che avevo solo 9 anni, la legge del branco vuole che ognuno si difenda da solo e dimostri di essere un “duro”. Poi ho imparato a difendermi. E alle scuole medie ero un bullo anch’io, trattavo male i compagni più tranquilli e attaccavo i più deboli. Quello che avevo subito, ora lo facevo agli altri.

Col tempo mi sono reso conto che questo modo di agire è sbagliato, che non si può reagire al male con il male, e sono tornato a essere la persona tranquilla che ero da bambino.

Con questa storia però vorrei sottolineare l’importanza del ruolo degli insegnanti. Se l’atteggiamento del professore o della maestra è indifferente a questi fatti violenti, o peggio con parole inappropriate si alimentano angherie e soprusi, si attua una sorta di “darwinismo sociale”, e succede che si lascia campo libero ai più forti e ai più competitivi, a discapito dei meno dotati e reattivi. Non bisogna sottovalutare certi atteggiamenti aggressivi, non si tratta di “ragazzate”; anzi, si deve sempre pensare che atti rissosi o dispotici possono avere conseguenze anche gravi, e che “la violenza attiva violenza”.

Naafex

vativi. Infine si ha attenzione anche per l’ambiente, e per colorare si utilizzano colori acrilici all’acqua, perché non siano nocivi alla salute.

Prossimamente il laboratorio dovrebbe anche aprire al pubblico; al momento si può andare a visitare di perso-

na il lunedì, mercoledì e venerdì mattina e il martedì e giovedì pomeriggio. Alcuni articoli possono essere visti e ordinati sul sito www.cosep.it, altrimenti si possono avere informazioni telefonando alla cooperativa Cosep, al numero 335.7151914.

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modena Apre Portobello, “market sociale” dove può fare la spesa chi è in difficoltà. Coinvolte 50 realtà: non profit, aziende, istituzioni

La comunità dietro l’emporio di Stefano Malagoli «Alla base di tutto c’è l’idea di comunità; la comunità modenese che si mette in gioco attraverso una molteplicità di associazioni, che si uniscono e si attivano per cercare di rispondere ai bisogni del territorio, creando qualcosa di veramente nuovo». Chiara Rubbiani, direttrice del Centro servizi per il volontariato di Modena, sintetizza così l’idea dalla quale è nato, dopo un impegnativo lavoro di due anni, “Portobello”, emporio sociale di Modena, luogo di raccolta e di distribuzione di beni alimentari e non, rivolto alle famiglie e agli individui in condizioni di povertà.

La crisi economico-finanziaria e sociale ha fortemente incrementato i bisogni di sostegno. Anche tante famiglie che non avevano mai avuto problemi economici rilevanti, sono entrate in condizioni di povertà, anche solo a causa di nuovi eventi come la perdita del lavoro e il sovraindebitamento.

Il mondo del volontariato ha sentito il bisogno di reagire a questa grave situazione, fornendo una risposta pronta ed efficace. Così si è sviluppata l’idea delModena, che hanno fornito in comodal’emporio sociale, sull’esempio di quanto gratuito l’immobile in via Divisione to è già stato realizzato anche in altre Acqui presso cui si sta realizzando Porparti d’Italia, da Prato a Trieste, da Toritobello (l’inaugurazione è prevista a fine no alla vicina Parma. maggio – inizio giugno) e che partecipaFinalità di “Portobello” è contribuire no a tutte le fasi di progettazione. In para soddisfare il bisogno di generi alimenticolare, l’individuazione del target del tari, prima necessità di persone e famiprogetto, cioè le famiglie in difficoltà a glie che vivono a Modena situazioni di causa di problemi connessi al lavoro e fragilità e povertà, integrato con la cura alla crisi economica, è stata realizzata di delle relazioni, l’ascolto e l’offerta di altri concerto tra i servizi sociali e le associapercorsi o servizi. zioni proponenti, allo scopo di considerare “Portobello” come risorsa aggiuntiva e specifica nel panorama del welfare Un progetto nato in rete locale, non un doppione di opportunità Il progetto, coordinato dall’associazione già presenti.

Centro servizi per il volontariato di MoSaranno dunque gli uffici territoriali dena, è realizzato in stretta collaboradei servizi sociali a definire quali persozione con i servizi sociali del comune di ne avranno accesso e a quanto ammonta il valore in “punti” dell’aiuto di cui potranno disporre. A regime la struttura dovrebbe fornire il fabbisogno di cibo per 350-400 famiglie l’anno. I destinatari sono, appunto, gruppi familiari in dif-

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L’idea è «contribuire a soddisfare il bisogno alimentare di persone e famiglie che vivono situazioni di fragilità, sviluppando anche la cura delle relazioni, l’ascolto e l’offerta di altri percorsi

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ficoltà economica per mobilità, cassa integrazione, contratti di solidarietà, licenziamento per chiusura azienda e riduzione di personale, lavoratori autonomi che hanno cessato l’attività, con un calo di almeno il 30% del reddito. E poi iscritti al centro per l’impiego dopo il 1 gennaio 2011, nuclei familiari con solo redditi da pensione e famiglie in cui vivono persone con handicap certificati. «In questa fase di avvio – spiega il coordinatore del progetto, Luigi Zironi – stiamo cercando soprattutto volontari per gestire l’emporio, e anche donatori.

Quello delle donazioni è un meccanismo virtuoso, in base al quale un singolo, ma anche un gruppo non strutturato o un’associazione, possono decidere se donare una borsa della spesa o un car-

scarpmodena rello intero: denaro che si trasforma in spesa per chi ne ha bisogno. Ci piacerebbe, una volta avviato il progetto, che la gente organizzi raccolte a favore dell’emporio. Per motivi organizzativi e logistici siamo in difficoltà a raccogliere piccoli quantitativi di merce dai singoli, tipo la borsa della spesa: per quel tipo di aiuto viene organizzata, ad esempio, la raccolta alimentare proposta da “Rock No War”, che quest’anno ha deciso di destinare a Portobello circa 5 tonnellate di cibo delle 52 raccolte complessivamente. Una volta avviato l’emporio, l’obiettivo sarà quello della raccolta diretta dalle aziende produttrici, con l’intento di limitare al massimo la spesa per l’acquisto dei generi alimentari e non».

Per donare è già possibile contattare il sito www.portobellomodena.it o il profilo facebook portobellomodena. Ma non è solo il market che caratterizza il progetto “Portobello”.

Aiuti ma anche consulenze «Questa è solo una delle tre anime: le altre – continua Luigi Zironi – sono le consulenze per gli utenti e gli incontri aperti a un pubblico più vasto sugli stili di vita e il consumo critico, oltre al magazzino. Infatti quello che serve per il market finisce sugli scaffali, mentre l’esubero viene redistribuito a favore di realtà che ne hanno necessità».

Gli obiettivi che si pone la rete dei 20 soggetti promotori, tutti appartenenti al mondo del terzo settore, e dei 30 partner del mondo delle istituzioni, delle imprese e dell’associazionismo, sono svariati. Anzitutto, si intende predisporre e organizzare un luogo il più rispettoso possibile della dignità delle persone, per la raccolta e la distribuzione di beni di prima necessità. Tale spazio sarà integrato con altre attività di accoglienza, con spazi e tempi dedicati per costruire relazioni, raccordarsi a servizi pubblici e privati, accompagnare le persone e le famiglie. Poi, c’è l’intenzione di coniugare gli sforzi di tanti soggetti, allargando la rete dei sostenitori anche oltre il mondo non profit, per contrastare la povertà at-

Come funziona

La spesa si fa a punti, si restituisce da volontari “Portobello” è uno spazio che negli arredi ricorda un supermarket, con una scelta di prodotti mostrati su scaffali che offrono la possibilità agli utenti di individuare ciò che più risponde alle loro necessità familiari. È fornito di prodotti di prima necessità, alimentari o di igiene personale, e vi hanno accesso, per un tempo definito, famiglie in difficoltà economica.

Ogni nucleo è dotato di una tessera a punti gratuita, con la quale è possibile “fare la spesa”. Il prezzo dei prodotti esposti non è espresso in euro, bensì in “punti”. Le famiglie mensilmente godono di un certo quantitativo di punti commisurato al nucleo familiare; la selezione all’accesso avviene sulla base della valutazione dell’Isee, con particolare attenzione alle famiglie numerose.

L’aiuto alle famiglie, come detto, ha un tempo limitato, deciso in fase di progettazione, e che comunque non potrà superare i due anni, scaduti i quali le famiglie potranno essere accompagnate in altri modi, ma dovranno cedere

traverso un progetto di comunità, convogliando le attività e gli sforzi di tutte le realtà laiche e di ispirazione religiosa interessate a contrastare forme di povertà.

Ulteriore obiettivo, è ottimizzare sia le risorse umane sia quelle alimentari ed economiche, al fine di rendere più efficace l’attività di assistenza realizzata dalle associazioni e ricavare spazi e tempo per la cura delle relazioni con le persone e le famiglie, l’ascolto e l’offerta di attività sociali rivolte a donne e bambini. Infine, si punta a sensibilizzare e creare un partenariato diffuso con una molteplicità di soggetti della società civile (istituzionali, profit e del terzo settore) per combattere lo spreco, educando al consumo sostenibile e al riuso.

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la tessera ad altri in graduatoria. Anche nel caso in cui le condizioni economiche della famiglia-utente variassero, la famiglia non potrà più ricevere beni gratuitamente.

La famiglia beneficiaria sarà coinvolta come volontaria nell’emporio stesso o per altre organizzazioni di volontariato, in modo che non si senta assistita, ma sia responsabilizzata e si proponga come risorsa per la comunità.

Attorno al market saranno organizzati un punto di ascolto per l’accoglienza e l’accompagnamento delle nuove famiglie ammesse, nonché attività di socializzazione e orientamento ai servizi del territorio e alle iniziative dalle associazioni.

«Siamo una parte del welfare municipale – dice Luigi Zironi –. Questo meccanismo della spesa in cambio dell’invito all’impegno e a restituire qualcosa alla comunità, è basato sull’idea del patto: si riceve e si contribuisce (naturalmente senza obbligatorietà) a migliorare la propria condizione di vita, svolgendo volontariato presso Portobello o altrove: In questo modo si rende alla comunità quanto si riceve. L’auspicio è riuscire a raggiungere persone che, pur in difficoltà, sono sulla soglia della povertà e, al tempo stesso, sono restie a chiedere aiuto per un fatto di dignità, correndo magari il rischio di finire in circuiti più rischiosi, come ad esempio l’usura». maggio 2013 scarp de’ tenis

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rimini Inquietante Rapporto 2012 della Caritas diocesana. Mille utenti in più ai centri d’ascolto: l’assenza di lavoro segna il territorio

Chiusi in gabbia dalla povertà di Angela De Rubeis La povertà li ha chiusi in gabbia. Italiani, giovani, anziani, intere famiglie: non è più solo “gente di passaggio” a cercare in Caritas le chiavi per uscire da una situazione di sopravvivenza. Bussano alla porta dei centri d’ascolto (33 quelli attivi in tutta la diocesi di Rimini) per qualche indumento, una doccia, un pasto caldo o un letto dove trascorrere la notte. In molti casi, come dimostrano i numeri del Rapporto sulle povertà 2012 presentato dalla Caritas diocesana a inizio aprile, si tratta di “normali” che fino a ieri avevano un’azienda, un lavoro tranquillo, o comunque riuscivano ad arrangiarsi. La crisi li ha messi in ginocchio. Tanto da chiedere aiuto non solo per il pagamento dell’affitto o delle bollette, ma anche per i ticket sanitari o la quota della gita scolastica del figlio.

Nella sua nona edizione, il Rapporto si è concentrato proprio sul problema della mancanza del lavoro. Le sue conseeconomiche ed abitative che si intrecguenze su una realtà – i poveri ed emarciano spesso con situazioni familiari ginati “vecchi” e “nuovi” – che solitacomplesse e conflittuali». È soprattutto mente non “passa” in altre indagini ecoil dato dei disoccupati, 4.690, a far rifletnomiche e sociali, la Caritas diocesana tere: in due anni sono aumentati del le ha volute “sbattere in faccia” alla ca14,2%. Altrettanto preoccupante è il dapitale dell’ospitalità. E per la prima volto di chi dichiara di vivere con la famita anche sul web. glia: dal 33% del 2010 si è arrivati al 40%, Perché quello che più interessa, sotcon una stima complessiva delle persotolinea il direttore don Renzo Gradara, ne in stato di disagio che arriva a 18.300 è il “valore educativo” insito in quei nuunità. Nel 2012 è salito anche il numero meri e in quelle storie. Ne emerge «una di giovani tra gli utenti: 478 quelli tra i 19 prospettiva forse parziale e anche un e i 24 anni, +20% rispetto al 2010. «Si po’ deformata – spiega don Renzo –. Ma tratta prevalentemente di stranieri, soanche un rapporto sull’economia di prattutto rumeni, ma cresce anche il questo territorio che non tenga conto numero di italiani, il 15,6%, con genitodella povertà, sarebbe deformato». ri separati o con problemi lavorativi».

Parallelamente, aumentano anche gli Senza lavoro e senza casa anziani sopra i 75 anni (105, +110%) o Nel 2012 i 33 centri d’ascolto della dioperché la pensione non è più sufficiencesi (compresa la sede di San Giuliano) te o perché i figli, rimasti senza un imhanno accolto 7.025 persone. Quasi piego, non riescono più ad aiutarli. mille in più rispetto al 2010. Ma chi busSalgono del 44% rispetto al 2010 ansa alle porte delle Caritas? Sempre meche le persone che non hanno più una no gente di passaggio, dato che aumencasa: 1.167. L’emergenza però va oltre, tano i residenti (dai 2.756 del 2011 a perché sempre nel 2012 in 2.242 hanno 3.010), e sempre più italiani (in due andichiarato di non avere un domicilio ni sono aumentati del 50%, arrivando a stabile: chi si appoggia a casa di amici, quota 1.846). «Il problema principale – chi dorme in rifugi di fortuna, in macspiega la responsabile dell’Osservatorio china o in strada perché non riesce più diocesano sulle povertà, Isabella Mana pagare l’affitto. Per altri 3.834 utenti cino – è il lavoro, sommato a difficoltà

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Caritas un tetto continua a esserci, ma è alquanto instabile, soprattutto per coloro che vivono in affitto(3.302). Non vanno meglio le persone che bussano ai centri d’ascolto pur avendo un alloggio di proprietà (219): la perdita del lavoro compromette gravemente le rate del mutuo.

Rimini e Italia addio L’unica voce a diminuire nel 2012 è stata quella degli utenti stranieri, anche se il trend va in parte spiegato con i rientri in patria: da 5.295 sono scesi in un anno a 5.142 (-3%), pur restando la maggioranza degli utenti dei centri d’ascolto.

Tra le 87 nazionalità registrate, prevalgono rumeni (1.143, quasi +2%), marocchini (956, +26%, soprattutto donne, +10%, che cercano di trovare una soluzione dopo che il marito ha perso il lavoro) e albanesi (377, +36%), anch’essi colpiti dalla crisi occupazionale. Dimi-

scarprimini nuiscono invece gli utenti da Ucraina (11,6%) e Russia (-26,5%), soprattutto per il calo delle richieste di badanti da parte delle famiglie italiane.

«Guardiamo i poveri da vicino». Il monito, in una sala affollatissima, alla presentazione del Rapporto, è stato lanciato dal vescovo di Rimini, monsignor Francesco Lambiasi, che ha spronato i cristiani a seguire l’esempio evangelico del buon samaritano. «Dobbiamo avere il coraggio di avvicinare i poveri con gli occhi e il cuore di Cristo – ha detto –.

La povertà ci deve mettere in discussione, altrimenti rischiamo gargarismi da salotto che non servono a nulla».

Il presidente della provincia, Stefano Vitali, nel citare don Oreste Benzi ha ribadito che «non è più il tempo del compromesso, ma dell’azione. Bisogna avere un comportamento più etico: se non lo faremo, se non ci indigneremo un po’ di più per cambiare le cose, allora anche gli sforzi della Caritas saranno vani».

Approfondire, capire e scuotere sono invece le tre parole chiave usate per l’occasione dal sindaco di Rimini, Andrea Gnassi: «Dobbiamo smettere di avere reticenze e dire che non va bene che ci siano centinaia di evasori fiscali, così come non va bene che ci siano 15 mila case sfitte e gente che dorme in strada». Ma non ha mancato neanche di rispondere al monito del vescovo, ricordando le difficoltà attuali degli amministratori nel rispondere ai bisognosi: «Non guardi negli occhi, perché in queste condizioni non riesci a dare una risposta».

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L’iniziativa

Campo di lavoro diocesano: affari del secolo e ricavi solidali Sono oltre 70 mila gli euro incassati dai mercatini dell’usato, di cui 40 mila a Rimini e 30 mila tra Riccione, Cattolica, Bellaria e Villa Verucchio. È il primo bilancio, ancora provvisorio, fatto registrare dal 33° Campo di lavoro missionario della diocesi di Rimini, svoltosi il 13 e 14 aprile. Si tratta di importi grosso modo allineati agli incassi di un anno fa, nonostante un certo calo di materiali, in quantità e qualità, rilevato in tutti i centri di raccolta. «Colpa della crisi – è il coro unanime dei “campolavoratori” –, che probabilmente ha indotto molte persone a non regalare oggetti che in casa potevano ancora servire». Grazie a due splendide giornate di sole, non sono invece mancati i visitatori: migliaia di persone che hanno invaso i piazzali, alla ricerca dell’affare del secolo.

Biciclette a 10 euro, sci venduti a 3 euro, 1 euro per comprare un vestito o un paio di scarpe ancora in buono stato. Per non parlare di due vecchie casseforti, per complessivi otto quintali di peso, arrivate al Campo di Rimini con la serratura bloccata. Alla fine sono state vendute per 300 euro a un appassionato di San Giovanni in Marignano, con la promessa di restituire al Campo il tesoro che, non si sa mai, dovesse nascondersi all’interno.

Per stilare un bilancio completo dell’edizione 2013, occorrerà attendere ancora la pesatura dei materiali da rottamare (ferro e metalli vari, carta, stracci, ecc.) che saranno messi in vendita sul mercato del recupero.

Qualunque sarà il risultato finale, gli organizzatori si sono però subito dichiarati più che soddisfatti. Il Campo, ancora una volta, ha saputo coinvolgere tante persone di diversa provenienza sociale e culturale (oltre un migliaio i volontari che si sono seduti alle mense allestite sotto i tendoni nelle diverse località), disposte a lavorare fianco a fianco per un obiettivo comune. Ma, soprattutto, il Campo 2013 ha visto una ancor più estesa partecipazione di giovani, e questa è la notizia più bella.

Specie in vista del futuro.

Diversi i destinatari dell’immenso lavoro. La missione diocesana in Albania, innanzitutto, e il Centro educativo Shen Asti, che si occupa di progetti di reinserimento di minori provenienti da situazioni di abbandono.

I fondi saranno devoluti anche al completamento della scuola di Karansi sostenuta da “Cattolica per la Tanzania”, l’associazione cattolichina da anni impegnata in progetti di aiuto nel paese africano, e al progetto “Asili popolari” della parrocchia di San Martin de Porres a La Guaira, un grosso quartiere popolare di Caracas, in Venezuela, dove c’è la necessità di garantire un modesto contributo economico alle mamme assistenti, impegnate ogni giorno nel doposcuola della missione.

Completano la lista delle priorità all’estero il contributo deciso per la costruzione della nuova chiesa dei frati cappuccini dell’Emilia-Romagna in Etiopia e per l’acquisto di un pulmino da parte dell’associazione Papa Giovanni XXIII in Sri Lanka, che servirà per trasportare al lavoro ragazze del posto seguite dalla missione.

Venendo alle destinazioni locali, è stato previsto quest’anno per la prima volta un contributo alla Caritas diocesana per sostenere famiglie riminesi in difficoltà. Attraverso l’associazione “Famiglie insieme”, da anni la Caritas eroga piccoli prestiti a tasso minimo a famiglie disagiate, ma le richieste aumentano e i mezzi a disposizione non sono più sufficienti.

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firenze Pizzicati a violare il codice della strada, convertono la pena in lavoro di pubblica utilità. Opportunità per loro. E le associazioni

Obbligati a fare del bene di Veronica Guida Già da diversi anni l’ordinamento italiano ha introdotto la pena del “lavoro di pubblica utilità”. Per alcuni reati il giudice può applicare, su richiesta dell’imputato, questa sanzione, che consiste nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività, da svolgersi presso enti pubblici o organizzazioni di assistenza sociale e volontariato. I casi per i quali la legge prevede questa sanzione sono alcuni reati legati alle sostanze stupefacenti, al gioco d’azzardo e scommesse clandestine nelle manifestazioni sportive, e anche delitti riguardanti l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici o religiosi. Di fatto, i casi in cui tale pena è stata comminata sono stati molto rari fino a quando, a fine 2010, non è intervenuta la modifica di alcune norme del codice della strada, che hanno previsto, in caso di guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, pene detentive e pecuniare molto severe, che però possono essere sostituite con quella del lavoro di pubblica utilità. Si tratta, in questo caso, di una specie di “messa alla prova”, il cui buon esito comporta l’estinzione del reato (quindi nessuna traccia rimane sulla fedina penale), il dimezzamento del periodo di sospensione della patente e la revoca della confisca del veicolo. Occorre specificare però che tale opportunità è concessa dalla legge una sola volta, e nel caso di ulteriori violazioni la persona si troverà a percorrere il classico iter penale.

Il fenomeno «sta mettendo

Un boom di patenti ritirate Questa improvvisa maggiore severità nel trattamento del reato di guida in stato di ebbrezza, ma anche la possibilità di scontare la pena con i lavori di pubblica utilità, ha provocato un vero è proprio boom di casi di persone entrate loro malgrado nell’ambito penale e, di conseguenza, un esponenziale incremento di richieste verso le associazioni di volontariato da parte di coloro che chiedono di svolgere gratuitamente un’attività lavorativa sostitutiva della pena.

Si tratta prevalentemente di persone giovani, mai entrate prima nel circuito

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in contatto un sempre maggiore numero di persone con il mondo della giustizia penale e con quello del volontariato

Quest’ultimo infatti considera il reato come violazione di una norma e la pena come conseguenza giuridica che sanziona tele violazione (di solito con la privazione della libertà). Diversamente, la giustizia “riparativa” propone una sorta di equazione in base alla quale “il crimine è una violazione delle persone e delle relazioni interpersonali; le violazioni creano obblighi; l’obbligo principale è rimediare ai torti commessi”.

Ma non è tutto. Il fenomeno sta mettendo in contatto un sempre maggiore numero di persone non solo con il mondo della giustizia penale, ma anche con quello del volontariato. Tanti di coloro che si affacciano alle associazioni chiedendo ospitalità per questo loro problema, affermano di non aver mai avuto precedenti esperienze di volontariato o

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penale, con una normale vita lavorativa e familiare. Il fenomeno, ancora poco conosciuto e anzi di solito sconosciuto fino a quando non vi si rimane coinvolti direttamente, è interessante.

Dal punto di vista prettamente giuridico, è la prima volta che si ha un significativo numero di casi riguardanti la cosiddetta giustizia “riparativa”. Si tratta di un modello di giustizia alternativo a quello tradizionale di tipo “retributivo”.

Stretta sui limiti In vertiginoso aumento le patenti ritirate e, di conseguenza, il numero delle persone che chiedono di convertire la pena in volontariato

scarpfirenze dai classici ambiti religiosi, di età più giovane rispetto al consueto, con competenze e professionalità nuove da mettere a disposizione nei servizi.

Occasione per nuovi “agganci”

di contatto diretto con il cosiddetto “sociale”. L’esperienza di queste inedite collaborazioni dice che per molti di loro i giorni trascorsi presso un servizio agli “ultimi” si rivelano una scoperta, quasi più scioccante del fatto di dover scontare una pena. Alcune di queste persone decidono infatti di continuare a svolgere il volontariato anche dopo aver terminato di scontare il periodo dovuto. Il fenomeno diventa, dunque, un’opportunità, sia per chi vi è suo malgrado coinvolto, sia per le associazioni di volontariato, che si trovano a poter usufruire di un bacino del tutto nuovo di volontari, con motivazioni e provenienze spesso diverse da quelle usuali.

La Caritas diocesana di Firenze, ad asempio, ha avuto a che fare con volontari non necessariamente provenienti

Un ulteriore motivo di interesse riguarda il modo con cui le associazioni si pongono di fronte a questo nuovo fenomeno. Ve ne sono alcune che si mostrano diffidenti verso volontari che, in definitiva, sono obbligati a esserlo (e in più hanno anche commesso un reato). Altre sono soprattutto preoccupate degli adempimenti burocratici richiesti e del rapporto da tenere con il tribunale e le forze dell’ordine incaricate del controllo. Altre ancora, invece, vedono in tutto questo solo un’opportunità per avere qualche volontario in più.

Una prospettiva importante nella quale inquadrare la questione è però quella del servizio che è possibile offrire a chi si trova coinvolto (a volte travolto) in questa situazione. Può accadere a chiunque di noi di agire superficialmente e bere un bicchiere di troppo prima di mettersi al volante (per superare i limiti di legge non occorre bere molto).

Se però, una volta effettuata la scelta di “riparare” facendo volontariato, non si trova un’associazione che dia la possibilità di praticare la strada del lavoro di pubblica utilità, si rischia una seria delusione.

Attualmente a Firenze le associazioni che hanno stipulato una convenzione con il tribunale sono poche, e pochi i posti che ognuna mette a disposizione, rispetto alle richieste sempre crescenti. I casi gestiti nel 2012 dall’Uepe (Ufficio esecuzione penale esterna) di Firenze sono stati circa 70. A marzo 2013 erano già oltre 50. Solo la Caritas diocesana è stata destinataria, nei primi tre mesi dell’anno, di almeno 20 richieste. È quindi cruciale ampliare il numero di associazioni che offrono accoglienza e aumentare il numero di posti disponibili all’interno di quelle già coinvolte.

Un effetto indiretto, ma importante, di queste esperienze è per esempio il fatto che i cittadini più “benestanti” si trovano a conoscere da vicino i problemi di quelli più poveri: ciò può incoraggiare una nuova cultura dell’accoglienza e della solidarietà. È comunque di fondamentale importanza sensibilizzare e informare le

Lo strumento

La giustizia che intende riparare La giustizia riparativa considera il reato in termini non meramente formali, bensì esperienziali, ossia come “lesione” che coinvolge direttamente, e sotto molteplici aspetti (morali, materiali, emotivi, relazionali), singole persone e una comunità.

Partendo da questi presupposti, in tale concezione della giustizia al reato corrisponde in primo luogo l’obbligo – in capo all’autore – di porre attivamente rimedio alle conseguenze dannose che la sua condotta ha cagionato, alla vittima o alla società.

I sostenitori di questo modello di giustizia – sperimentato negli ultimi anni in Italia relativamente alle violazioni del codice della strada – si augurano che esso possa essere applicato a un numero sempre maggiore di reati (ovviamente fatta salva la tutela della sicurezza pubblica), data anche la provata inutilità (per non dire dannosità) che il modello carcerario italiano sta mostrando in relazione alla finalità “rieducativa” della pena prevista dalla Costituzione.

persone, a partire dai giovani nelle scuole, sui rischi che si corrono mettendosi alla guida dopo aver bevuto alcolici. In caso di neopatentati è sufficiente un tasso infinitesimale di alcol per incorrere nelle sanzioni, per cui moltissime famiglie possono trovarsi da un momento all’altro e del tutto impreparate ad avere a che fare con giudici, avvocati e assistenti sociali, con costi economici e psicologici assai elevati.

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napoli GENTE DI TALENTO 4. Incontro con Gaetano Russo, direttore della Nuova orchestra “Scarlatti”, promotore d’arte anche tra i piccoli

Contadino Nino, maestro di armonie di Sergio Gatto La musica, quell’arte sublime e soave, dona una sensazione di pace interiore. Le note sussurrano dolci parole, catturando la mente facendola inebriare, è come vivere in un’altra dimensione senza sapere chi siamo. Forse siamo tutto o niente e come in un sogno vorremmo non finisse mai.

La redazione napoletana di Scarp ha incontrato il maestro Gaetano Russo, direttore dell’orchestra Alessandro Scarlatti: conoscerlo di persona e sentirlo parlare ha appagato le mie aspettative. Paragonandolo a tutte le persone che abbiamo incontrato fino a oggi, posso affermare con pacatezza d’animo che il maestro mi aggrada, ha talento. È sicuro di sé, conosce bene il suo lavoro che è anche la sua passione e ne ha una conoscenza profonda. E ha colmato alcuni punti oscuri che an-

Al concerto

Mia mamma m’annoiava, ma ho rivalutato la classica Per me non è mai stata “classica”. Quando sentivo mia mamma intonare Casta diva o Vissi d’arte, così mentre faceva le cose, mi annoiavo a morte. Ma poi si cresce, la musica rock che avevo abbracciato è diventata un po’ barocca, progressive e l’orchestra è entrata nella band.

Orchestra e orchestrazione, quindi gestione precisa e programmata degli strumenti: così la classica ha trovato un nuovo appassionato. Ascoltare la “Scarlatti” alla Mostra d’Oltremare è stato un divertimento, riuscivo a guardare un musicista – che so? – il violino, o l’oboe, e sentivo solo lui, come se avessi abbassato il livello di tutti gli altri sul mixer.

Uno spasso e una sorpresa per me, per noi di Scarp, e ancor più per i bambini: ogni tanto mi giravo e ne beccavo qualcuno attentissimo, qualcun altro felicissimo e un paio letteralmente a bocca aperta. Si fosse fatta durante la mia infanzia una cosa così, avrei sicuramente insistito molto di più con la genitrice per iscrivermi al Conservatorio. E poi il maestro, da vero padrone di casa, ha intrattenuto i suoi ospiti con garbo, simpatia e l’autentica autorevolezza del suo ruolo.

Così, prima che venisse a trovarci, ho pensato: «Chissà che verrà a dirci Mr. Gaetano, quassù in redazione. A me basta che suoni un po’ il clarino e risponda a qualche domanda».

Straordinario, ecco, proprio extra-ordinario: non è cosa da tutti i giorni di avere in redazione un direttore d’orchestra, un musicista classico bravo e blasonato, e poterlo intrattenere con le nostre domande e curiosità per due ore buone.

Ma egli è così, uomo di terra: non ha paura di niente e sa

58. scarp de’ tenis maggio 2013

nebbiavano la mia mente, essendo io non esperto e poco avvezzo ad ascoltare musica classica e sinfonica (la cosiddetta musica da intenditori).

Figlio di genitori contadini, nono di dieci fratelli, Russo ha vissuto in un piccolo paesino del Cilento (Lentiscosa) fino ai 10 anni, poi ha chiesto al padre di studiare musica e per poterlo fare ha passato tutta l’adolescenza in collegio,

Musica per tutti La nuova orchestra “Alessandro Scarlatti”.

A destra il direttore, Gaetano Russo, parla con i redattori napoletani di Scarp

stare con tutti. La sua campagna l’ha fatto forte: sotto l’aspetto tenero rivela una sostanza dura e una convinzione nei suoi mezzi non comune, rinforzata dai (pochi) errori fatti nella vita. Al contrario, ha un merito grandissimo: giusto vent’anni fa ha fatto risorgere la Nuova Orchestra Scarlatti, vecchia gloria della Rai di Napoli in bianco e nero. Con la sua orchestra, da due decenni, dà concerti in Italia ed Europa, facendo un lavoro di diffusione e di educazione musicale (e non solo) presso bambini e ragazzi. A guardarlo, Gaetano Russo, sembra sempre sul punto di iniziare qualcosa e il frequentarlo deve essere un continuo divenire di idee, proposte di incontri, perché no, di scontri. Foss’io così...

Invece coltivo i miei dolori come fossero piantine, convinto che debbano solo crescere; ma va ancora bene: se il bene non è in me o per me, almeno sono in grado di riconoscerlo quando lo vedo. Chi si accontenta gode, qualche volta è vero.

Bruno Limone

scarpnapoli a Salerno, città che gli poteva offrire la possibilità di coltivare il suo interesse.

Non senza fatica si è diplomato al Conservatorio e dopo ha fatto l’insegnante di musica, ma non era la sua strada; ha quindi suonato nell’orchestra dell’Opera di Roma, per poi fondare la Nuova Orchestra Scarlatti.

Un traguardo di cui noi abbiamo goduto i frutti diverse volte: al museo diocesano abbiamo ascoltato una serie di concerti nell’ambito dell’autunno musicale e, di recente, abbiamo partecipato a “Musica insieme“, un concerto molto speciale. Gaetano Russo, infatti, ha pensato questo incontro per i bam-

bini e i ragazzi delle scuole, per spiegare come funziona un’orchestra, facendo ascoltare alcuni brani famosi, come la Sinfonia numero 40 di Mozart o la Sinfonia dei Giocattoli, e altri brani resi famosi dalla pubblicità.

All’auditorium della Mostra d’Oltremare abbiamo visto che lui, spiegando e dirigendo, riesce a catturare l’attenzione non solo dei ragazzi ma anche degli adulti, che hanno colto l’occasione per bearsi di tanta bella musica, viversi quel bel momento e premiare poi i professori con applausi scroscianti. Il maestro, sin dall’inizio, con parlare leggero, ha introdotto i brani con spiegazioni semplici, sottolineando che il segreto del successo è riuscire a formare un’orchestra unita, in cui ogni componente rispetti il proprio ruolo. Solo rispettando le regole dell’orchestra si può suonare (e ascoltare) una buona musica.

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L’incontro

Candida musica gira maestosa e un papà paragonato a Mozart Siamo andati all’Auditorium per vedere come il suono diventa musica, cosa unica. A parte che prima dell’inizio gli 800 bambini facevano un casino enorme ma quando uscì il maestro tutti zitti, perché tutto incominciava: entrò il primo violino, poi un altro, e pian piano entrarono tutti, gli strumenti a fiato, gli archi e anche le percussioni. Quando hanno iniziato a suonare si sono visti subito i bambini ammirati da suoni tanto dolci e dalla sensibilità dei maestri, che facevano uscire dai loro strumenti candida musica, che intorno a noi girava maestosa e gradevole. Hanno suonato la Sinfonia dei Giocattoli e anche canzoni famose di Renato Carosone e il pubblico portava il ritmo battendo le mani. Quando il maestro ha visto tanta voglia tra i bambini, ne ha chiamati due a dirigere la Sinfonia numero 40 di Mozart, è stato un gran divertimento anche per loro che erano un po’ intimiditi, per i loro compagni e per noi grandi.

In mezzo a tanti bambini anch’io sono tornato un po’ bambino, è stata un’esperienza bella che mi ha dato gioia nel capire la vera musica; ho visto all’opera gli strumenti che in armonia si uniscono in un solo suono per dare gioia alla nostra anima. Mi è piaciuta molto la musica di Mozart, molto ascoltato in tutto il mondo, ci sono tante versioni della sua sinfonia: da quella più classica a quella più veloce e allegra.

La musica è una variante della nostra vita, può cambiare il nostro umore ma anche la nostra personalità, dipende dalla musica che ascoltiamo: classica, moderna, dark e tante altre. Ma ascoltare una sinfonia ti porta in un mondo dove l’anima e la musica si incontrano e vanno via dove il corpo non può arrivare, uniscono i sensi che volteggiano nell’aria finché non finisce la dolce musica e si ritorna con i piedi per terra. È stato come gustare il sapore della musica, entrata nel cuore come miele inebriante: insomma la Sinfonia 40 di Mozart è bella e bisogna ascoltarla per sentire come è grande nella sua pienezza, e chi sa ascoltare con il cuore può capire quanto è preziosa.

Tutto questo l’ho capito meglio anche durante l’incontro con Gaetano Russo; lui è un uomo semplice da capire, sia quando dirige, cioè parla con la musica, sia quando coinvolge con parole che sembravano anche loro musicali. Nato in una famiglia di contadini, è stato affascinato dalla musica fin da piccolo ed è andato a studiarla in collegio. Ci ha parlato molto di suo padre, come ne fosse innamorato, e io da buon osservatore gli ho chiesto a quale musica paragonasse suo padre. Lui è rimasto un po’ sorpreso da questa domanda, ci ha pensato un po’ e poi ha detto che per un uomo semplice come lui, che amava stare nella sua terra, lavorarla e difenderla, certamente la più adatta era la musica di Mozart. Perché Pietro Paolo Russo era un uomo semplice, come è semplice Gaetano Russo detto Nino.

Antonio Casella maggio 2013 scarp de’ tenis

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salerno Profonda crisi delle società Cstp e Sita. Metro fantasma.

Aeroporto fermo. Tagli all’occupazione. E cittadini senza servizi

Trasporti pubblici, siamo al fallimento di Angelo Pierri

Sole Un bel sole: scendo le scale convinto di prendere la bicicletta.

Apro la porta e non la vedo, non c’è più.

Me l’hanno rubata!

A me, che da ragazzo ne ho rubate tante...

Ora capisco come potevano sentirsi i proprietari...

Per fortuna il nervoso mi è durato poco, «Ti sei fatto far gaggio» mi dicono gli amici del bar ridendo.

E si concorda, ma solo per scherzo, che può essere l’occasione per trovarne una più bella, sola soletta, da “raccogliere” per strada!

Aghios

Lavoratori esasperati Il Consorzio salernitano trasporto pubblico non ha soldi: si protesta (foto a destra) per salvare servizi e posti di lavoro

60. scarp de’ tenis maggio 2013

Non è soltanto il Consorzio salernitano trasporti pubblici ad attraversare una grave crisi e a procurare enormi disagi alla popolazione. La Sita sud, società pubblica di trasporti su gomma, che collega le principali città del sud Italia, è a sua volta a rischio di fallimento da alcuni mesi, relativamente alla sua filiale Sita Campania. Per Salerno tale società è fondamentale, in quanto garantisce collegamenti con Napoli, con la costiera amalfitana e con numerose altre località della regione.

Trasporti importantissimi: basti pensare che solo sulla tratta Salerno-Napoli viaggiano ogni giorno ben 5 mila passeggeri. Ma non solo. D’estate, gli autobus della Sita rappresentano l’unico collegamento su gomma tra Salerno e i vari paesi della Costiera amalfitana (Cetara, Maiori, Minori, Ravello, Amalfi e Positano), dunque sono una fondamentale risorsa turistica.

In totale, gli autobus Sita che viagsottolineare la carenza di traghetti e aligiano sulle strade campane sono 270, e scafi, cosiddetto “Metrò del mare”, dirischiano di scomparire; ben 462 dipenretti alle località delle due costiere: un denti sono a rischio di licenziamento. La numero assolutamente insufficiente, risocietà è a rischio di fallimento in quanspetto alle esigenze. A Salerno, inoltre, to ha perdite di 9 milioni di euro, geneda molti anni si vive una situazione di rati dall’inadempienza nei pagamenti stallo per una nuova opera, la metropodelle province di Napoli e Avellino e dai litana leggera, che nei piani dell’ammitagli dei finanziamenti della regione nistrazione comunale dovrebbe colleCampania. Sita sud, invece, riesce a operare bene in Puglia e Basilicata, dove i finanziamenti regionali sono regolari.

Carenza di aliscafi La mobilità campana è dunque in grave pericolo, sull’orlo del baratro, ma la mobilità salernitana sta ancora peggio: la regione ha deliberato il 29 marzo lo stanziamento di 130 milioni di euro per la mobilità regionale, ma assurdamente tali fondi saranno riversati solo alle ferrovie regionali e all’Eav (trasporti del napoletano). Sia Cstp, che vive una gravissima crisi, sia Sita non beneficeranno di un solo centesimo. Con il sopraggiungere dell’estate, Salerno dovrebbe vivere il suo periodo migliore, essendo una città di mare che si trova giusto al centro di due magnifiche costiere: l’Amalfitana e la Cilentana. Ma, oltre alle difficoltà che incontreranno salernitani e turisti con gli autobus della Sita, c’è da

scarpsalerno gare tutta la città, da est a ovest, snellendo il traffico su gomma e l’inquinamento. Le stazioni della metro sono state inaugurate, ma le corse non sono iniziate, nonostante nel progetto siano stati investiti milioni di euro. Così la metropolitana di Salerno rischia di diventare l’ennesima incompiuta del Mezzogiorno, territorio dove spesso sono impiegate ingenti somme per realizzare opere che non vedono mai la luce.

In questo caso, pare che il problema sia il mancato accordo (con stanziamento di fondi) con la regione.

Voli di linea? Forse nel 2015 Inoltre, Salerno è tristemente famosa per essere il luogo di partenza dell’autostrada più discussa d’Italia, la Salerno – Reggio Calabria: i lavori perdurano da decenni, rallentando enormemente il traffico dei veicoli da e per la nostra città.

E, in ultimo, aggiungiamo il più annoso dei problemi, relativo all’infrastruttura forse più importante del salernitano: l’aeroporto di Salerno – Costa d’Amalfi, che esiste già dalla seconda guerra mondiale, ubicato nel comune di Pontecagnano Faiano. Alcuni anni fa erano iniziati i voli dallo scalo salernitano: ma tutte le compagnie, Alitalia compresa, che hanno utilizzato tale aeroporto hanno poi deciso di andare via, lasciando lo scalo senza voli.

Una grave carenza nella programmazione e nelle sinergie tra i vari enti

La denuncia

Rischio licenziamenti, il disagio di studenti, cittadini e turisti Salerno negli ultimi vent’anni ha fatto passi da gigante: la vivibilità della città è aumentata in maniera esponenziale, attraverso l’opera di recupero del centro storico e di quartieri periferici, la costruzione di nuovi importanti parchi pubblici, il restauro e il rilancio dello storico teatro Verdi, il primato nazionale per la raccolta differenziata e tanto altro. Ma intanto, da quasi due anni la città e la provincia subiscono gravissimi disagi in uno dei settori più importanti della vita sociale: i trasporti.

Il Cstp, acronimo di Consorzio salernitano trasporti pubblici, è l’azienda che si occupa della mobilità pubblica a Salerno e nel comprensorio circostante. L’azienda è pubblica, nel senso che le quote della società sono gestite dai comuni del comprensorio attraversati dai mezzi Cstp, e dalla provincia. Dall’estate 2011 sono iniziati i disagi, da quando cioè l’azienda non ha più avuto il denaro necessario per pagare gli stipendi agli oltre 500 dipendenti. Da allora si sono susseguiti scioperi, con pericolo di licenziamento e cassa integrazione, che hanno gettato in uno stato di estrema prostrazione le famiglie dei dipendenti. Ma soprattutto, negli ultimi due anni il servizio pubblico degli autobus salernitani ha funzionato a singhiozzo: in diversi giorni dell’anno neanche un mezzo è transitato per la città.

Nel corso dei mesi si sono trovati diversi accordi provvisori: i dipendenti si sono tagliati parte dello stipendio (il 7%) così come i dirigenti; si è costituito un collegio di liquidatori del Consorzio, che opera in sinergia con il tribunale fallimentare, e intanto si sta provando a ricapitalizzare l’azienda. Il comune di Salerno ha deciso di rilevare il 31% delle quote societarie scoperte, versando 95 mila euro, mentre la provincia ha deliberato uno stanziamento di 135 mila euro. Anche altri comuni del comprensorio (ma non tutti) stanno deliberando stanziamenti di fondi.

Ma intanto, da due anni i cittadini vivono disagi incredibili: corse tagliate, ritardi enormi, fermate e mezzi affollatissimi; attualmente sono soltanto trenta gli autobus che transitano per le strade gestiste dal consorzio, un numero davvero ridicolo, in confronto alle esigenze di un territorio così vasto e popoloso. A ciò va aggiunto lo stato davvero precario del parco mezzi del Cstp: molti degli autobus utilizzati sono vecchi di oltre 15 anni, diversi non sono a norma e qualcuno rischia di perdere pezzi per strada. Gravi disagi sono vissuti anche dagli studenti universitari: l’Università di Salerno è ubicata nel comune di Fisciano, in un campus sito a dieci chilometri dal capoluogo. Ebbene gli studenti denunciano la difficoltà nel seguire i corsi. E chiaramente, il disagio riguarda tutti coloro che utilizzano gli autobus per andare a lavoro, gli anziani che vivono in quartieri periferici e i turisti che sostano in città.

In questa situazione, un’altra beffa per i passeggeri: negli ultimi due anni il costo dei biglietti è aumentato di 40 centesimi. I viaggiatori sono davvero stanchi, i dipendenti vittime del sistema: la comunità tutta auspica una pronta risoluzione della grave questione.

Antonio Minutolo (regione, provincia, comuni, camera di commercio e vari altri) da anni frena quello che potrebbe diventare un grande volano di sviluppo del nostro territorio: in tanti anni non si è riusciti neanche ad allungare la pista, che allo stato

attuale genera grossi problemi di manovra ai velivoli. A quanto pare, bisognerà attendere il 2015 per poter avere dei voli di linea, intanto ci si dovrà accontentare di qualche compagnia di charter.

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catania Quattro ragazzi hanno fondato “I food share”, sito internet che mette in contatto chi offre e chi cerca aiuti alimentari

Condividere cibo, scelta intelligente di Gabriella Virgillito

Marzo Sta finendo ’sto mese veramente pazzo, un po’ mi ha bagnato un po’ imbiancato e anche un po’ abbronzato, però il conto in banca non è cambiato nemmeno un po’!

Il perché, io lo so, però non ci sto.

Che farò non lo so.

Non mi resta che aspettare aprile con l’immancabile pesce, il tepore, e germogli che danno tanto piacere alle mogli.

Allora forza uomini diamoci da fare è il momento di procreare.

Mr X

Secondo le stime della Confcommercio, sono 4 milioni le persone, in Italia, “assolutamente povere”, mentre 1,3 miliardi di tonnellate è la quantità di cibo che viene dispersa o sprecata a livello internazionale, secondo i dati pubblicati dalla Fao nel 2011. Nel paesi sviluppati, gran parte di questo spreco avviene a livello di distribuzione e consumo domestico; solo in Italia vengono buttati via ogni anno 12,3 miliardi di euro di cibo. E mentre avviene tutto questo spreco, le mense assistenziali sono sempre più frequentate da persone impoverite dalla crisi.

Per provare a capovolgere un tale stato di cose, la parola d’ordine è “condivisione”. Ed è proprio in quest’ottica che ha preso vita, su iniziativa di quattro ragazzi di Caltagirone, in provincia di Catania, I Food Share, piattaforma on line che mette in contatto chi ha cibo in eccedenza: grandi distributori, come le catene di supermercati o anche privati cittadini, con chi invece ne ha bisoscambio sull’uscio di casa, oppure scegno. Si tratta del primo sito del genere gliendo la sede di un ente sociale come in Italia, il secondo nel mondo, dopo il luogo di raccolta e ritiro; tutto ciò nel ritedesco Foodsharing.de, da cui trae spetto della privacy di chi è stretto dalle ispirazione. necessità, ma magari prova pudore a reAccedendo alla piattaforma Ifoodcarsi in mensa. share, singoli cittadini, famiglie, associazioni, aziende private, aziende agriGià una trentina gli aiutati cole, ong, parrocchie ed enti sociali posI food share è un’iniziativa creata da Dasono inserire i prodotti che desiderano niele Scivoli, Francesco Perticone, Dadonare, completi di descrizione e data niela Lirosi e Elisabetta Di Benedetto, di scadenza, e creare così la propria cequattro ragazzi tra i 25 e i 35 anni di Calsta alimentare. A quel punto, i potentagirone. «L’idea ci è venuta a fine 2012, ziali beneficiari possono farne richiesta momento in cui ci siamo domandati se e accordarsi con l’offerente per uno la solidarietà, così intensa durante il pe-

A Sant’Agata, una comunità che si fa vicina Prosegue il mio viaggio per far conoscere le parrocchie che ospitano la vendita del nostro mensile della strada, Scarp de’ tenis. Questo mese vi parlerò della chiesa “Tommaso V dei martiri inglesi”. La parrocchia si trova in un paese limitrofo a Catania, situato esattamente al confine nord della mia città, il suo nome è Sant’Agata Li Battiati. La chiesa si erge immersa in un vasto giardino, pieno di fiori e piante secolari, di proprietà dei padri gesuiti. Il più carismatico di essi è il parroco, padre Francesco.

La comunità di fedeli è abbastanza nutrita, da quando mi conoscono mi sono tutti molto vicini, mi dimostrano il loro caloroso affetto, tanto da indurmi ad aver creato una composizione poetica ad essi dedicata, il cui titolo è Una comunità vicina.

Tony Bergarelli

62. scarp de’ tenis maggio 2013

scarpcatania riodo natalizio, potesse essere resa quotidiana attraverso un servizio capace di facilitare l’incontro tra la domanda e l’offerta – spiega Elisabetta Di Benedetto –. Uno dei nostri obiettivi è coinvolgere in questo nuovo processo di solidarietà la rete delle Caritas, le parrocchie e tutte le realtà attive nel territorio, che rappresentano punti di riferimento per le persone che non hanno da mangiare e che, dunque, è molto probabile non possano neanche accedere a internet».

I Food Share è un’associazione senza scopo di lucro. La sezione “volontari” è aperta a chiunque, in ogni parte d’Italia, desideri dare il proprio contributo.

Polenta, pasta, caffè, sale, acqua e i biscotti sono tra i prodotti che vengono distribuiti al momento. In un mese e mezzo di vita, una trentina di soggetti hanno richiesto e ottenuto aiuto.

«Alla consegna dei prodotti – spiega Daniele Scivoli, altro fondatore – pensano direttamente le persone che si sono mandate i messaggi. Noi non ce ne occupiamo, ci pensano i cittadini attraverso un sistema di messaggistica interna, che permette di concordare modalità di consegna o ritiro. Il nostro obiettivo principale è infatti creare il contatto tra l’offerta e la domanda».

I Food Share è una grande idea, un’iniziativa intelligente e solidale che, sin

dagli inizi, ha conquistato le pagine di diverse testate giornalistiche. Noi della redazione catanese di Scarp abbiamo ospitato due dei suoi animatori nel nostro programma radiofonico settimanale “Radio Strada” e ne è nata una fruttuosa collaborazione; il nostro giornale di strada ha infatti trovato posto nel sito di I Food Share, che promuove la vendita del giornale. Una bella cooperazione che speriamo porti a importanti risultati.

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Iniziative

Stelle senza dimora nella poesia di Girolamo Un incontro significativo si è svolto il 12 aprile nell’aula magna della facoltà di scienze politiche di Catania. È stato l’incontro con Girolamo Grammatico, scrittore e operatore della Caritas di Roma, oltre che presidente dell’associazione “La casa di cartone”. A organizzare l’incontro, insieme alla professoressa Maria Teresa Consoli, direttrice Laposs università di Catania, e a Roberta Rizzotti, responsabile dell’Help Center della Caritas diocesana di Catania, è stata la redazione catanese di Scarp.

Nel corso dell’incontro, lo scrittore ha spiegato quanto sia importante il linguaggio da adottare, dove si affrontino tematiche sociali delicate come quella dei senza dimora.

Ci si è proprio soffermati proprio sul termine “senza dimora”, l’uso del quale – per definire le persone che hanno perso la casa –, non serve che ad accentuare qualcosa che manca, a etichettare in maniera negativa chi, invece, sta in mezzo a noi; in realtà, attorno alla mancanza di una casa ruotano tanti altri problemi, tra cui quello delle relazioni umane.

Altri termini che spesso adoperiamo in modo errato sono “invisibili” o “ultimi”. Non si possono ritenere invisibili le persone che hanno bisogno del nostro aiuto, semmai sarebbe meglio parlare della cecità di chi non riesce a vederli. Nè sono ultimi, perchè per “ultimi” vengono intesi i perdenti o le cose meno necessarie, come quando si compila la lista della spesa. I senza dimora in realtà sono persone dignitose, che spesso hanno qualità nascoste come ogni altra persona al mondo e si vergognano di essere caduti in miseria.

Nel pomeriggio è stato presentato il libro di poesie scritto

da Girolamo Grammatico: La magnitudine dell’indigenza. È stato un momento ad alto impatto emotivo: con l’accompagnamento musicale della fisarmonica di Valerio Cairone, tutti noi abbiamo letto poesie autobiografiche o scritte dai redattori di tutta Italia di Scarp. È stato un bel momento, che abbiamo condiviso con tante persone che sono venute ad ascoltarci. Alla fine della presentazione abbiamo potuto gustare le delizie gastronomiche multietniche preparate dall’associazione interculturale Ghezà. Girolamo Grammatico, infine, ha raccontato della sua esperienza iniziata a Roma, nell’ostello Caritas che accoglieva 198 persone: «Ho imparato molte cose da loro.

Per me i senza dimora sono stelle che hanno illuminato quelle notti buie: alcune più brillanti, altre più piccole, perchè magari erano solo di passaggio. Per questo ho scelto di intitolare il mio libro La magnitudine dell’indigenza».

Roberto De Cervo maggio 2013 scarp de’ tenis

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poesie di strada

La morte Meglio morire da soli che male accompagnati.

La televisione e i cellulari sono un male sociale.

Questo mondo è ipocrita e ruffiano.

Amo Cristo…la natura… i senza tetto… i buoni di cuore… e gli amici sinceri!

Amo la notte e i miei risvegli!

Chissà che sarà di me!

Silvia Giavarotti

Il Palloncino e la luna Un palloncino blu s’alzò in cielo una sera, e tra nuvole e vento salì sempre più su.

Con un po’ di fortuna giunse fino alla Luna.

Le disse: “Fammi posto, che voglio andar più su!”.

La Luna, assai cortese, un poco si spostò, ma, passando vicino, bucò il palloncino.

Con un botto sparì.

La Luna si impaurì.

Poi un’amica Stella la Luna rincuorò, e l’astro della notte a sorrider tornò.

...Corsi Benvenuto per tornare a te Francesco Nel tempo corsi, di te non mi accorsi.

La fretta di arrivare mi ha privato d’amare.

Non ho saputo frenare i passi, che si posavano sui sassi.

Ho diretto la mia esistenza verso luoghi senza speranza.

Ho rinchiuso nel buio i sogni, privandomi di me e dei tuoi bisogni.

Per egoismo ho trascurato ciò che avevo, non permettendomi di capire ciò che perdevo.

Corsi troppo nel tempo avuto, per riprendere ciò che ho perduto.

Non ho tempo per i rimpianti, l’ottimismo non concede nulla ai deliranti.

La vita che mi resta, attende le mie gesta.

E’ finito il tempo disperato, che per scelta mi fu destinato.

Ora è tempo di trovare, la via giusta per tornare.

Ora è tempo per i sogni, che ritornino per i tuoi bisogni.

Ora è tempo che l’amore, trionfi sul dolore.

Ora è tempo che l’amore, ti ridia il tuo candore.

Ora so che il mio cuore, non può stare senza il tuo amore.

Domenico Casale

Mary

Ma tu riposi?

64. scarp de’ tenis maggio 2013

Piccono l’anima a colpi di scrittura raschio via quella polvere sottile che ne materializza l’esistenza.

Nel silenzio che parla dissolvo il tempo d’inaudite paure, alleggerisco il giogo del tuo ultimo oltraggio del mio estremo dolore.

Riposi, sazio, in quel letto di spine o danzano a un passo dalla colpa la vergogna e il rimorso?

Aida Odoardi

Un urlo di gioia, esulta la folla che ad aspettare non era stanca, esulta la folla per la gioia della fumata bianca; dopo Benedetto un nuovo Papa è stato eletto, che da chi lo conosce bene sono certe le testimonianze dei suoi gesti d’amore, verso gli altri, delle sue benevolenze, emulando il Cristo sceso nel popolo e fattosi servo, così lui umile fra gli umili abbracciando e confortando gli handicappati, lavando i piedi ai carcerati.

Ogni sua parola è una nuova speranza, come un fiore sempre fresco, benvenuto tra noi, benvenuto Papa Fancesco.

Mr Armonica

Fiore di mamma Quando sono nato ero un fiore per te, dal tuo seno succhiavo la vita e qualsiasi intemperia affrontavi per me.

Durante la vita nei campi ho vissuto, fiori bianchi, rossi e gialli ho mietuto, un solo fiore mi accorgo è il più bello, sei tu fiore di Mamma che io amo.

Il tuo seno ho tanto straziato, e sei tu che mi hai sempre salvato, l’ultima linfa ancora vuoi darmi, che bel fiore sei tu… “dolce Mamma”.

Gaetano “Toni” Grieco

ventuno Ventuno. Come il secolo nel ventunodossier Sud del mondo, quale viviamo, come l’agenda rinnovabili e sviluppo. L’energia pulita per il buon vivere, come come investimento su persone, l’articolo della Costituzione sulla libertà di espressione. ambiente e lavoro. L’esempio Ventuno è la nostra del Bangladesh, con la scommessa idea di economia.

Con qualche proposta per giocata da Graamen Shakti agire contro l’ingiustizia e di Andrea Barolini l’esclusione sociale nelle scelte di ogni giorno.

ventunoeconomia A Milano il primo negozio con i servizi e i prodotti offerti dal lavoro dei carcerati

21 di Simona Brambilla

ventunorighe Lavoro “ristretto”, tra teoria e realtà

di Ileana Montagnini area carcere Caritas Ambrosiana

maggio 2013 scarp de’ tenis

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21ventunodossier Nel mondo oltre un miliardo di persone vivono senza elettricità.

Ma le energie “verdi” raggiungono anche i luoghi più remoti...

Le rinnovabili, fonti di sviluppo dossier a cura di Andrea Barolini

Uno studio americano ha calcolato che per ogni miliardo investito nelle energie rinnovabili la ricaduta occupazionale è pari a 33 mila nuovi posti di lavoro.

Nei paesi in via di sviluppo si può generare un effetto moltiplicatore: costruire un impianto in un’area priva di condutture elettriche non solo crea occupazione, ma consente di promuovere sviluppo: si alimentano scuole, ambulatori, piccole imprese. Che a loro volta creano lavoro.

Un circolo virtuoso, sul quale conviene investire anche ai paesi avanzati

66. scarp de’ tenis maggio 2013

Eolico, solare, idroelettrico

Le energie pulite?

Generatrici di futuro Immaginate per un momento come sarebbe la nostra vita se non avessimo accesso alla normale fornitura di energia elettrica. Non avremmo modo di conservare il cibo in un frigorifero. Dovremmo accendere una candela per leggere un libro dopo le sette di sera. Non potremmo asciugarci i capelli con un phon o ascoltare musica. Avere un telefono cellulare, un computer e un accesso a internet, poi, non sarebbero altro che un miraggio futuristico.

Vivere senza energia, oggi, significa essere privati di servizi essenziali. Ma vuol dire anche essere tagliati fuori dal mondo e vedere ridotte al minimo le possibilità di risollevare la propria condizione sociale, economica e persino umana. Immaginare uno scenario simile, per chi come noi ha la fortuna di vivere in un paese industrializzato e mediamente ricco (nonostante la crisi), è quasi impossibile. Per questo, si potrebbe facilmente cadere nell’errore di credere che la mancanza totale di accesso all’energia sia oggi, nel mondo, un problema esistente ma limitato. Niente di più sbagliato, purtroppo: la fotografia che ca interessi qualcosa come il 20% della abbiamo scattato poc’anzi non è altro popolazione mondiale. Ancor più che la quotidianità per 1 miliardo 400 preoccupante, poi, è la “geografia” del milioni di persone. A confermare la spaproblema: la maggior parte di chi vive ventosa cifra è stato il Fondo monetario senza poter contare stabilmente su internazionale, nel rapporto World Ecolampadine, prese elettriche o radio abinomic Outlook 2012, nel quale si sottota nelle aree rurali dell’Asia e dell’Africa linea come la carenza di energia elettrisubsahariana. Territori che non vengo-

Indice di sviluppo umano

grafico 1. Correlazione tra accesso all’energia e Indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite

Fonte: Ipcc, Renewable Energy Sources and Climate Change Mitigation Special Report, 2012

energia pulita

Accesso all’energia, pro capite (in gigaJoule)

no allacciati alla rete elettrica per via dei costi giudicati troppo elevati (anche in questo caso, l’economia di mercato impone i propri dogmi...). È per questo che, in posti simili, le energie rinnovabili non costituiscono solamente un’arma per combattere il cambiamento climatico: rappresentano la differenza tra vivere e sopravvivere. È noto, infatti, che i piccoli impianti eolici, solari o idroelettrici hanno l’enorme vantaggio di essere “autosufficienti”.

Essi, infatti, non necessitano di alcun allaccio alla rete elettrica tradizionale, e possono fornire energia, in loco, senza l’impiego di alcun combustibile. Si possono sfruttare l’energia solare o la forza

del vento per riscaldarsi o per cucinare, così come per ottenere luce elettrica, o i biocarburanti per i trasporti. «In Africa, grazie al fotovoltaico possiamo alimentare impianti fondamentali come le pompe per l’estrazione di acqua dai pozzi», ricorda Gianni Silvestrini, direttore scientifico del Kyoto Club.

Ma avere energia a disposizione significa anche poter risollevare, se non creare ex novo, le economie locali. Un rapporto pubblicato nel 2010 dall’Agecc (il Gruppo consultivo del segretario generale delle Nazioni Unite sull’energia e sul cambiamento climatico) ha sottolineato infatti l’importanza di ottenere un accesso universale alle moderne

In Africa si possono usare l’energia del vento e del sole per riscaldare, cucinare, estrarre acqua dai pozzi.

E anche per ottenere energia elettrica...

maggio 2013 scarp de’ tenis

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ventunodossier

Rinnovabili e attenzione all’ambiente: solare, geotermico, idroelettrico, eolico e marino producono solamente tra 4 e 46 grammi equivalenti di biossido di carbonio per ogni chilowattora prodotto

fonti di energia entro il 2030, definendolo un obiettivo cruciale nell’ambito della transizione verso un mondo sostenibile. È significativo, da questo punto di vista, ricordare come sia stata provata l’esistenza di un rapporto di stretta dipendenza tra il grado di accesso all’energia e il miglioramento dello Human Development Index (Hdi), ovvero l’Indice di sviluppo umano (Isu) di una popolazione, definito dalle Nazioni Unite combinando dati relativi all’aspettativa di vita alla nascita, all’istruzione e ai redditi percepiti.

Un accesso all’energia minimo (misurato in GigaJoule nel grafico 1) è considerato vitale e imprescindibile se si vogliono raggiungere livelli accettabili di Isu (va notato, invece, come in seguito la curva tenda nettamente ad appiattirsi: segno che sistemi produttivi eccessivamente energivori non favoriscono in alcun modo il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione!).

Ricchi di sole e di vento Per i governi, gli enti locali, le organizzazioni internazionali o le associazioni che intendono adoperarsi per colmare quello che è un vero handicap per milioni di comunità, investire nelle fonti rinnovabili può costituire dunque un’opportunità eccezionale. E anche un risparmio economico enorme: costruire ad esempio un piccolo impianto fotovoltaico per fornire energia in un villaggio di una regione remota costa certamente molto meno che raggiungerlo tramite i cavi elettrici tradizionali. Tanto

68. scarp de’ tenis maggio 2013

più che, in termini quantitativi, è sufficiente un’erogazione relativamente bassa di energia per garantire un livello di vita accettabile. Secondo il rapporto Renewable Energy Sources and Climate Change Mitigation, redatto dall’Intergovernamental Panel on Climate Change (Ipcc) è sufficiente infatti una quota pari a 42GJ (gigajoule) all’anno procapite.

Parliamo di meno di un terzo di quanto, secondo i dati della Banca mondiale, si consuma mediamente in Italia. Per le nazioni povere, insomma, i vantaggi legati allo sfruttamento delle rinnovabili potrebbero essere salvifici.

Da non sottovalutare, poi, sono le ricadute occupazionali: in tutto il mondo, secondo uno studio dell’Unep, i posti di lavoro creati grazie alle energie pulite erano pari a 2,3 milioni nel 2008. Nel solo 2006, il ministero dell’ambiente della Germania indicò in 236 mila i nuovi posti generati dal settore (due anni prima erano stati 161 mila), mentre negli Usa il Center for American Progress ha calcolato che per ogni miliardo investito nelle rinnovabili la ricaduta occupazionale è pari a 33 mila nuovi impieghi.

Tutto ciò, nei paesi in via di sviluppo o emergenti, genera di fatto un vero e proprio effetto-moltiplicatore: costruire un impianto in un’area priva di energia non solo crea in sé occupazione, ma consente di aprire scuole, piccole attività, ambulatori. Che a loro volta garantiscono nuovo lavoro e possono attirarne altro (ad esempio rendendo località

energia pulita

sprovviste di servizi nuove mete turistiche).

Senza dimenticare, ovviamente, le ragioni ambientali che spingono a puntare sulle rinnovabili, considerando in particolare la loro capacità di ridurre le emissioni di anidride carbonica. Vale la pena di ricordare, infatti, come solare, geotermico, idroelettrico, eolico e marino producano solamente tra 4 e 46 grammi equivalenti di biossido di carbonio per chilovattora prodotto. Ma non è tutto: le fonti rinnovabili presentano anche un impatto idrico estremamente più basso rispetto a quelle tradizionali (eccezion fatta per l’idroelettrico), il che costituisce un vantaggio incalcolabile nei climi caldi e secchi (a cominciare dai paesi africani). La salvaguardia dell’ambiente è poi legata anche alla tutela della salute. Una transizione verso le rinnovabili potrebbe consentire ai 2,6 miliardi di persone (vedi tabella 2) che nel mondo usano ancora oggi biomasse tradizionali per cucinare – con tutto ciò che questo comporta in termini di inquinamento dell’aria all’interno delle case – di avere a disposizione un metodo efficiente e sano per alimentarsi. «Le energie rinnovabili consentono inoltre di utilizzare frigoriferi per conservare i cibi, così come medicinali e vaccini. Mentre l’uso di stufe efficienti garantisce aria salubre all’interno delle abitazioni», aggiunge Silvestrini.

L’energia pulita, dunque, può consentire ai popoli più poveri della Terra di

raggiungere un vero punto di svolta.

«Sono convinto che nei prossimi anni si registreranno tassi di crescita molto elevati – conclude il dirigente del Kyoto Club – e ci saranno ricadute positive anche in paesi come l’Italia, che sarà in grado di esportare il know how acquisito in termini di gestione e manutenzione». Una dinamica favorita anche dal

crollo dei prezzi degli impianti, soprattutto per quanto riguarda i pannelli fotovoltaici, il cui prezzo è sceso sensibilmente negli ultimi anni, soprattutto a causa del massiccio apporto delle produzioni cinesi.

E chissà che un domani non saranno i paesi ricchi di sole e vento, i nuovi grandi esportatori di energia.

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La compagnia energetica del Bangladesh

La scommessa di Grameen Shakti Dall’Africa all’Asia, sono numerose le iniziative che puntano sulle energie rinnovabili per garantire elettricità a popolazioni non raggiunte dalle reti elettriche tradizionali. Non c’è un modello di riferimento, i metodi sfruttati per raggiungere gli scopi prefissati cambiano da caso a caso. In uno dei paesi più poveri del mondo, il Bangladesh, è nata ad esempio la Grameen Shakti: si tratta di una renewable energy service company (società di servizi per le energie rinnovabili). Un’azienda, cioè, che si occupa di installare e gestire impianti alimentati da fonti pulite, come ne esistono già moltissimi in Europa.

La Grameen, per il paese asiatico, non costituisce solamente una speranza: oggi la si può considerare una solida e importante realtà, nonché un esempio di di energia. Luoghi nei quali vive circa successo imprenditoriale. Basta dare l’80% della popolazione (il che lascia un’occhiata ai suoi “numeri” per rencomprendere facilmente le dimensiodersene conto: la compagnia installa ni del problema). Grameen Shakti offre attualmente qualcosa come mille imanche una serie di possibilità per finanpianti al giorno. La maggior parte di esziare un impianto (con rateizzazioni si si concentra proprio nelle aree rurapossibili fino a 36 mesi, a un tasso di inli, le più in difficoltà e le meno fornite teresse massimo dell’8%). Grazie ai ritmaggio 2013 scarp de’ tenis

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ventunodossier grafico 2. Impianti installati da Grameen Shakti in Bangladesh (dati fino al 2011)

numero di impianti

Anche in Etiopia e Malawi, grazie a un progetto Coopi, si investe sull’energia pulita: benefici in ambito sociale ma anche per il turismo!

Fonte: Natural Group - http://natgrp.org

mi raggiunti e al successo dell’operazione, sono già stati installati un milione di pannelli, e si conta di raggiungere i 5 milioni entro la fine del 2015. Un risultato straordinario, raggiunto dove il business “tradizionale” delle grandi centrali, invece, fallisce.

Passi avanti anche in Etiopia Il caso del Bangladesh può certamente fare scuola. Ne esistono però anche altri, sviluppati su basi diverse, e non per questo meno di successo. Due di questi portano una firma italiana, quella dell’associazione per la cooperazione internazionale Coopi, che ha operato in Malawi e in Etiopia. «Nel primo caso abbiamo operato in due aree: l’isola di Likoma e il territorio di Kasungu. In quest’ultimo vivono 1.300 agricoltori, dei quali solo il 3% ha accesso all’energia grazie alla rete tradizionale», racconta Paola Fava, responsabile delle iniziative in Malawi.

Il progetto, del valore complessivo di 680 mila euro, è ormai in fase avanzata: «Ci aspettiamo di raggiungere una serie di risultati nel prossimo futuro. Puntiamo in particolare alla riduzione del 40% dell’uso di legna per cucinare, da parte di 9 mila persone, grazie alla distribuzione di stufe efficienti.

Inoltre, grazie ai pannelli solari, abbiamo installato un sistema di pompag-

70. scarp de’ tenis maggio 2013

gio di acqua che parte da alcune dighe e alimenta una serie di torri-cisterna, per consentire di irrigare la zona e diversificare la produzione agricola».

Ma non è tutto: a mille famiglie sono stati distribuiti anche solar kit per micro-impianti fotovoltaici e scorte di biocarburanti per ottenere luce nelle case e consentire di avviare alcune piccole imprese. «In questo modo sono sorti un internet cafè, un cinema, un parrucchiere, un barbiere. E poi c’è la promozione turistica – aggiunge Paola Fava –: nell’isola di Likoma, un’associazione alimenta grazie a solare ed eolico piccoli alberghi e bar».

Infine, ma è una questione non

meno importante, sono state attrezzate tre scuole in aree rurali (altre tre lo saranno quest’anno), dotate anche di connessione a internet, dove studiano 3 mila alunni: «Nella stagione delle piogge, altrimenti, la luce naturale non sarebbe stata sufficiente per proseguire le lezioni dopo le 15».

Allo stesso modo, in Etiopia si è deciso di operare in territori di campagna. Qui la situazione di partenza è ancora peggiore: solamente lo 0,4% della popolazione risulta raggiunta da una fornitura di energia elettrica per uso privato. Coopi ha avviato un progetto triennale, che prevede tra le altre cose l’installazione di impianti alimentati da fonti rinnovabili in quattro scuole, quattro ospedali, quattro centri veterinari per gli allevatori. Grazie agli interventi dell’associazione, inoltre, 12 mila persone – soprattutto donne e bambini – potranno contare sui servizi di alcuni presidi sanitari. Saranno poi installati pozzi alimentati da pannelli fotovoltaici, che coinvolgeranno tre nuove cooperative agricole composte da 56 membri.

Un progetto, insomma, che tiene conto di fattori occupazionali, sanitarie, ambientali e anche di istruzione: le fonti rinnovabili sono in grado, concretamente, di aprire a decine di migliaia di persone le porte del futuro.

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21ventunoeconomia A Milano nasce Air, primo polo di prodotti e servizi “made in carcere”: supporta un’esperienza sempre meno marginale

Così ti accelero l’impresa “ristretta” In vetrina a Milano In queste pagine le immagini del negozio Air di via dei Mille a Milano. In esposizione i prodotti (e i servizi) frutto del lavoro “ristretto”

di Simona Brambilla

Tatiana continua a dormire “dentro”, ma di giorno ha una nuova vita, come tuttofare della cooperativa Opera in Fiore 72. scarp de’ tenis maggio 2013

Il primo polo italiano dei prodotti made in carcere. È l’Acceleratore d’impresa ristretta (Air), un nuovo store dedicato ai prodotti e ai servizi di aziende nate all’interno delle case circondariali milanesi, volto a sostenerle nel passaggio da logiche assistenziali a dinamiche economico-commerciali.

L’iniziativa è nata dalla cooperazione tra l’assessorato alle politiche del lavoro, il provveditorato alle carceri e 15 realtà imprenditoriali del milanese. Al suo interno trovano spazio molti detenuti o ex detenuti che lavorano a tempo pieno. Tatiana, per esempio, è nata e cresciuta in quartiere problematico, Quarto Oggiaro. Da alcuni mesi ha trovato un lavoro nella cooperativa Opera in Fiore, una delle circa 15 realtà imprenditoriali e cooperative presenti in Air. La sua è una storia difficile, che l’ha vista entrare e uscire più volte dal carcere di Bollate per aver commesso reati minori. Oggi è obbligata a tornare in carcere a dormire tutte le notti, ma è fe-

lice di poter lavorare.

«Sono entrata nella cooperativa Opera in Fiore l’estate scorsa, quando ero in detenzione domiciliare, dopo una carcerazione di due anni – racconta Tatiana –. Grazie alla cooperativa sono riuscita a lavorare un po’, abbiamo fatto catering all’Idroscalo. Dopo poco tempo però mi è arrivata la condanna definitiva e sono dovuta tornare in carcere. Oggi di giorno esco per lavorare, la notte torno dentro. Qui faccio un po’ di tutto, diciamo che sono un jolly: dal fare le pulizie al montare le lampade...».

Tatiana non si è persa Tatiana ha tre figlie, una di 17 anni, una di 12 e una di 7. Le due più piccole vivono con la nonna, mentre la grande in una comunità per minori: «L’adolescenza è un’età difficile, ci sono i primi amori, la scuola, i primi lavoretti... Così io e mia figlia insieme abbiamo deciso che per lei era utile stare in comunità, in modo che fosse meglio seguita

carcere e lavoro

Cinque vetrine in via dei Mille a Milano

Un grande showroom per fare incontrare l’economia reale con quella carceraria A Milano è sorto il primo polo italiano dei prodotti made in carcere. In viale dei Mille 1, all’angolo con piazzale Dateo, si trova la sede dell’Acceleratore d’impresa ristretta: un nuovo store dedicato ai prodotti e ai servizi di aziende nate all’interno delle case circondariali milanesi. Lo store ha una superficie di 200 metri quadri e cinque vetrine; lo spazio è stato messo a disposizione dal comune di Milano per promuovere un’iniziativa nata dalla cooperazione tra l’assessorato alle politiche del lavoro, il provveditorato alle carceri e 15 realtà imprenditoriali. Il risultato è un grande showroom, volto a commercializzare e far conoscere ai cittadini il meglio dei prodotti realizzati dai detenuti di Bollate, Opera, Beccaria e San Vittore. Questo nuovo spazio consente infatti alle realtà coinvolte, a rotazione, di esporre e vendere i propri prodotti e servizi: dalla manutenzione del verde e coltivazioni floro-vivaistiche, dai lavori di falegnameria a quelli sartoriali e di pelletteria.

Non solo: in Air trovano rappresentazione anche servizi di call center e data entry, di ristorazione, di realizzazione di impianti e quadri elettrici. E ancora: attività di banqueting e catering, mobili ecosostenibili, scenografie e produzioni video.

I protagonisti del progetto Air sono i detenuti: 150 persone, tra uomini e donne con condanne che variano

dall’ergastolo ai reati minori. «Lo scopo del progetto è creare sinergie, fare consulenza alla imprese che lavorano nelle carceri e che hanno necessità diverse – spiega Alessandro Silvagna, della cooperativa A&I, che si occupa per conto del comune di Milano della gestione dello show room –. Una cooperativa che lavora nel carcere minorile Beccaria, per esempio, ci ha chiesto aiuto per individuare una nuova sede per inserire al lavoro 15 ragazzi appena dimessi; un’altra che lavora ad Opera ha invece bisogno di spazi per attrezzature...». Air risponde a tutte queste richieste: il progetto è volto a favorire la contaminazione dell’economia carceraria con quella reale.

Nel nuovo spazio, inaugurato all’inizio del 2013, i due mondi interagiscono. «Air è una sorta di trampolino per le imprese che spesso sono nate grazie al volontariato, ma oggi hanno sempre più bisogno di una struttura», continua Silvagna.

E c’è di più: non solo ci si propone di valorizzare e sviluppare realtà produttive che da anni operano nel circuito penitenziario, ma si intende anche stimolare imprese milanesi ad avviare produzioni nei penitenziari del territorio. A questo fine, lo spazio di piazzale Dateo ospita anche incontri, seminari e iniziative di formazione e confronto. Durante la Settimana del design milanese, per esempio, ha costituito una delle location del Fuorisalone. maggio 2013 scarp de’ tenis

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ventunoeconomia

e indirizzata», spiega Tatiana con aria fiera, perché la figlia più grande è appena riuscita a ottenere un piccolo posto come stagista parrucchiera.

La vita di Tatiana, sin da quando era piccola, non è stata facile, ma con una condanna definitiva impressa sulla fedina penale lo è ancora di più. «Se io non avessi conosciuto Federica (presidentessa di Opera in Fiore, ndr) mi sarei certamente persa – prosegue Tatiana –.

Per quattro mesi sono stata agli arresti domiciliari, ospite a casa di un amico.

Potevo uscire solo per due al giorno, dalle 10 della mattina a mezzogiorno, troppo poco per cercare un lavoro, una casa, fare la spesa. Quando noi detenuti usciamo dal cercare, siamo etichettati e nessuno ci vuole prendere a lavorare. Per fortuna che esistono cooperative come Opera in Fiore, ma secondo me sono troppo poche per aiutare tutti i detenuti. Io ho avuto la fortuna di incontrare Federica, lei è stata il mio angelo custode». Tatiana uscirà definitivamente dal carcere nel 2015 e potrà finalmente tornare a vivere con le bimbe.

Pino si inventa il call center “Fine pena mai”: è questa invece la sentenza definitiva inflitta a Pino. Anche lui lavora presso l’Acceleratore d’impresa per la società bee.2 srl, un’agenzia che svolge attività di contact center nel settore dell’energia verde. Pino oggi è in se-

74. scarp de’ tenis maggio 2013

milibertà, ha tre figlie, una moglie e un buon lavoro, che lo vede impiegato come responsabile commerciale. Ma la sua storia carceraria è iniziata molti anni fa, nel 1993. «Sono stato accusato di omicidio da alcuni collaboratori di giustizia venti anni fa, allora vivevo in Comasina, un quartiere molto difficile. Dal 1993 fino al 2007 non sono mai uscito dal carcere, poi grazie alla buona condotta ho ottenuto alcuni benefici – spiega l’uomo –. Oggi esco la mattina dal carcere di Monza, lavoro tutto il giorno e torno a dormire la sera alle 11».

Nonostante la dura condanna ricevuta, Pino durante il periodo di detenzione ha deciso di lavorare, affinchè la sua vita potesse migliorare. «Durante la carcerazione ho partecipato a tutti i corsi di formazione che riguardavano l’informatica, fino a quando ho avuto io la possibilità di diventare docente e insegnare agli altri detenuti quanto ho imparato – racconta –. Dopo alcuni an-

Pino è in semilibertà. In prigione ha studiato informatica. E ora mette a frutto quelle conoscenze

ni ho avuto l’idea di creare un call center dentro il carcere, a quei tempi stavo a San Vittore. Ho presentato il progetto all’allora direttore, Luigi Pagano, che mi ha dato una mano e insieme siamo riusciti ad aprire il primo call center al mondo in un carcere. Sono venuti addirittura dei giornalisti cinesi a intervistarci...». Per quattro anni Pino ha gestito l’iniziativa, coordinando ben 80 operatori retribuiti, in servizio dalle 8 alle 20. Grazie a questa attività ha poi cominciato a collaborare con una cooperativa sociale, attraverso cui ha conosciuto bee.2. «Grazie a me l’azienda è entrata nel mondo delle carceri», conclude con fierezza Pino, che tra un anno potrà richiedere la liberazione convenzionale: sostanzialmente sarà libero, ma ogni sera dovrà, da un determinato orario in poi, dimostrare di stare a casa. «Non vedo l’ora di poter tornare a casa a dormire, non voglio perdermi nemmeno un attimo della vita delle mie due bimbe piccole, come ho purtroppo fatto con la grande».

Due storie drammatiche, due percorsi di vita difficili, in cui uno spiraglio di luce viene dal lavoro e dagli affetti. Se questi ultimi riguardano la vita privata, il lavoro invece è stato reso possibile da iniziative come Air, un progetto che mira a dare sistematicità e sostenibilità a inizitive troppo spesso lasciate alla buona volontà di chi le promuove.

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ventun righe di Ileana Montagnini area carcere Carcitas Ambrosiana

Lavoro “ristretto”, tra teoria e realtà Parlare di lavoro per le persone ristrette significa scontrarsi subito con una contraddizione fra teoria a applicazione della stessa. Infatti l’ordinamento penitenziario (O.P., legge 354/75) attribuisce un ruolo fondamentale all’inserimento lavorativo delle persone in esecuzione penale, in pena alternativa e uscite dal carcere, per favorire la loro risocializzazione. Ma se questa è la teoria, nella pratica la percentuale di persone detenute che accedono al lavoro, sia intramurario che fuori degli istituti di pena, è molto bassa.

Nel nono “Rapporto nazionale sulle condizioni detentive” realizzato dall’associazione Antigone, si legge che nel 2012 meno dei 20% del totale dei reclusi hanno avuto accesso a un lavoro.

Il lavoro “ristretto” si divide essenzialmente in due tipologie: il lavoro all’interno e il lavoro fuori dagli istituti. All’interno le persone possono essere impiegate dall’amministrazione penitenziaria per le pulizie, le mense e i servizi vari, oppure possono lavorare per cooperative e imprese che svolgono parte delle proprie commesse nelle carceri. Il lavoro all’esterno, invece, è connesso alla fruizione di alcune misure alternative, come la semilibertà e l’affidamento sociale. Anche chi fruisce dell’articolo 21 ha la possibilità di trascorrere parte della giornata in un luogo di lavoro esterno agli istituti. Oltre alla difficoltà di accesso alle possibilità lavorative, si osserva spesso che i lavori intramurali sono poco qualificanti per il futuro lavorativo della persona; questa osservazione, unite ai dati sulla scolarità e a situazioni pregresse di fragilità sociale, dipingono nell’insieme un quadro molto complesso per il reinserimento lavorativo. Sarebbero necessari percorsi di valida formazione, durante e al termine della detenzione, per avvicinare autenticamente le persone al lavoro, dotandole di profili riqualificati e spendibili, e permettere loro un reinserimento credibile nella comunità.

76. scarp de’ tenis maggio 2013

lo scaffale

Le dritte di Yamada Ho in sottofondo An Ending (Ascent) di Brian Eno e Daniel Lanois, i suoni ideali per la discesa col paracadute di Ned, il bambino sulla copertina del libro (illustrato) di questo mese. S’intitola FortunataQuante Come mente ed è stato scritto e disegnato da Remy Charlip, rapportarsi ai risposte del cavolo! nativi digitali un grande artista scomparso l’estate scorsa dopo aver dato ascolto –per tutta la vita– alla sua internal dance, Una guida La diffusione della che lo ha reso coreografo scrittore e illustratore. semiseria per tecnologia cloud Il New York Times ha celebrato i suoi incredibili genitori disperati ha influenzato talenti in un articolo “in memoriam”: Charlip nasce nel alle domande gli stili di vita, dei figli su sesso di comunicazione 1929 a Brooklyn, da genitori immigrati dalla Russia ed e società. e apprendimento, entrambi artisti (il padre era pittore, la mamma manPerché le domande ponendo nuove dava avanti una drogheria e scriveva poesie). Studia sia dei bambini sono sfide alle famiglie textile design che danza, alla gloriosa Juilliard School di universali, ma le e alle scuole.

New York, e nel 1953 dà vita con altri danzatori alla prerisposte dipendono I “nativi digitali” dalla sensibilità spesso si trovano stigiosa Merce Cunningham Dance Company, per cui del genitore a insegnare Charlip disegnerà anche i costumi di scena. Le sue e dal grado di agli adulti come diverse carriere lo portano a collaborare con tanti comprensione del si utilizzano le musicisti (John Cage ad esempio) e artisti, tra cui la bambino. Barbara nuove tecnologie, compagnia del Living Theatre.

Summa racconta e questo crea in modo spassoso un equilibrio Charlip ha vinto tre volte il premio indetto dal New i suoi percorsi sbilanciato e York Times per il Miglior libro illustrato dell’anno, nonper dare risposte incoerente. Scopo ché svariati riconoscimenti alla Fiera del libro di comprensibili ai del libro è fornire Bologna, e un Guggenheim Fellowship, premio dato – suoi bambini. Una agli educatori dal 1925 – “a chi ha dimostrato capacità eccezionali guida intelligente le modalità di che aiuta i genitori approccio per nella produzione culturale o eccezionali capacità creaa commettere sostenere l’azione tive nelle arti”. Ho anche scoperto che Remy Charlip meno errori quotidiana a favore era molto amico di Brian Selznick, altro grandissimo e a saper vivere della crescita illustratore. Cresciuto con la magia di Fortunately nel il momento dei bambini. cuore, Selznick ha voluto dare in Hugo Cabret il volto delle domande con leggerezza.

Facci, Valorzi, di Charlip a Georges Méliès, l’artista cui si deve l’invenBerti zione del cinema (e del montaggio), dopo i fratelli Barbara Summa Generazione Lumière. E proprio Fortunately di Remy Charlip (FortuLa risposta Cloud natamente in italiano, edito da Orecchio Acerbo) è uno del cavolo Erickson dei libri più amati e –pensate– ininterrottamente stamExorma, pagine 176 pagine 137 euro 13,90 euro 17,50 pato dall’anno in cui uscì per la prima volta, il 1964 (!).

«Quando stai leggendo a un bambino, lui non vede l’ora di arrivare alla pagina dopo. “Gira la pagina, gira la pagina!”. Questo perché ogni nuova pagina è una porta verso un altro e differente mondo». Questo diceva Remy Charlip, e questa è la sua infallibile messinscena in Fortunatamente, scandita da doppie pagine a colori e in bianco e nero, alternate.

Il protagonista – Ned, un bambino – riceve un invito per una festa a sorpresa: la festa è a Miami e lui a New York. Poco male, Ned fortunatamente ha un amico che gli può prestare un piccolo aereo a cui, sfortunatamente, esplode il motore. Fortunatamente Ned trova un paracadute con cui scendere tranquillo nel cielo blu, ma naturalmente c’è un buco nel paracadute, anche se, fortunatamente, a terra si vede un covone.

A guardare meglio, c’è un forcone nel covone, e Ned lo schiva. Ma schiva anche il covone, e finisce in acqua ... Mi fermo qui... cercatelo in libreria.

C’è una festa a sorpresa a cui Ned approda, ci mancherebbe. Ed è il “come” a rendere speciali queste pagine, che hanno un ritmo che prevede sfortune e fortune, entrambe funzionali all’ingegno e al morale di Ned, che apprende scopre o mette in atto tutto quello che serve per arrivare a quella festa, nonostante tutto.

Fortunatamente di Remy Charlip, Orecchio acerbo, euro 11,50

contemporanea

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Sotto il cielo di Buenos Aires Una mattina di marzo Ines parte insieme alla sua famiglia, destinazione Argentina. È il 1951: lontani dall’Italia, in cerca di futuro. Ma Ines, diventata grande, incontra sulla sua strada la dittatura argentina, e diventa una desaparecida, una delle tante di quegli anni.

La cercherà Estela, la figlia, e Angela Maria, la madre... Storia generazionale che racconta di donne forti e fragili, in cerca di futuro e identità.

Per ragazzi dagli 11 anni.

Daniela Palumbo Sotto il cielo di Buenos Aires Mondadori pagine 246 euro 15

Miriguarda

Pillole senza dimora

di Emma Neri

Con Guido, guida e “scarpista”, si ammira Vicenza dalle terrazze Ad aprile una parte della redazione vicentina di Scarp de’ tenis ha approfittato dell’apertura straordinaria alle terrazze della Basilica palladiana, il monumento più noto della città, per vedere Vicenza dalla stessa visuale del grande architetto Andrea Palladio. A fare da guida ufficiale è stato Guido Pollini, venditore e collaboratore di Scarp. Da un anno Guido collabora con il comune di Vicenza come guida turistica: è appassionato di arte e parla quattro lingue, avendo lavorato per progetti di sviluppo in Africa. Inoltre è spiritoso e i turisti si divertono sempre molto alle sue storielle sulla città. In questo periodo di apertura delle logge e della terrazza della Basilica, Guido sta lavorando molto.

Milano

Nuovo book crossing e foto dall’India alla Casa delle Culture Un nuovo punto di bookcrossing in città è stato inaugurato il 23 aprile. La provincia, con la Casa delle Culture di via Natta, apre le porte ai libri, sia per i grandi che per i piccoli: l’invito è di portare i volumi che si è letti (e che sono piaciuti) per condividerli e prenderne altri in prestito.

Il progetto si intitola “Libri Liberati” e sarà attivo nei giorni e negli orari di apertura della Casa (da martedì a venerdì ore 10-18.30, sabato e domenica 14-20).

Sempre alla Casa delle culture del mondo, sarà presentato il reportage dal Rajastan, realizzato dal fotografo

78. scarp de’ tenis maggio 2013

Attilio Tripodi: si intitola “Namasté”.

Ovvero: “mi inchino a te”, il tipico saluto indiano, usato quando ci si incontra e ci si accomiata. Namasté è accompagnato dal gesto delle mani giunte e portate all’altezza del cuore, con il capo leggermente chino. È parte di una concezione spirituale in cui l’altro implicitamente accoglie la divinità che è in tutti gli esseri umani. Attilio Tripodi ha raccontato il cuore gioioso dell’India e la mite ma dignitosa disponibilità a raccontarsi anche in condizioni disagevoli. In esposizione immagini scattate nell’aprile 2012 nella “Terra dei Re”, lo stato più grande dell’India, situato nel nord del grande paese asiatico. Fino al 19 maggio.

INFO culturedelmondo@provincia.milano.it

L’Onu chiede all’Ungheria il rispetto dei diritti umani L’Onu ha chiesto al governo ungherese di ritirare l’emendamento, approvato recentemente, che autorizza le forze dell’ordine a proibire di dormire in spazi pubblici. Le persone senza dimora sono circa trentamila nel paese. L’Onu ha stigmatizzato la decisione, accusando il governo di estrema destra di istituzionalizzare in questo modo la criminalizzazione degli homeless e di fomentare i pregiudizi, ostacolando il rispetto dei diritti umani fondamentali.

Inoltre, le relatrici Onu che hanno chiesto il ritiro dell’emendamento, hanno sottolineato che in Ungheria i centri di accoglienza per i senza tetto sono pochi e inadeguati.

Il fratello scomodo di Madonna torna a scagliarsi contro la popstar Ha pochi anni in più rispetto alla celebre sorella, ma vive per strada.

Perché è un homeless. Anthony Ciccone è il fratello sfortunato di Madonna, ed è tornato a sparare a zero contro la ricca popstar, sempre più ricca, dato che recentemente si è tornato a parlare di lei in quanto prima cantante donna ad aver abbattuto il muro del miliardo di dollari guadagnati in carriera. Anthony Ciccone, 57 anni, vive nel Michigan e non se la passa bene. In un’intervista al britannico Daily Mail ha attaccato la sorella perché dice che lo ha dimenticato... Lei invece dice che lo ha sostenuto diverse volte ma il fratello non è mai riuscito a liberarsi della dipendenza dall’alcol e alla fine è sempre tornato in strada, perdendo lavori e soldi.

Milano

Talenti del pianoforte, concorso per ragazzi che amano la musica Situata in via Ricordi 13, l’associazione culturale musicale “PianoFriends” anche quest’anno mette in palio una borsa di studio del valore di duemila euro con il premio “Piano Talents

caleidoscopio Genova

Festival delle favole, suggestioni anche per adulti

2013” (iscrizioni fino al 31 maggio). La manifestazione con i concerti dei premiati avrà luogo a Milano dal 12 al 16 giugno.

Il concorso premia diverse fasce di età, dai 5 ai 20 anni. È prevista una tassa di iscrizione che cambia a seconda della fascia di età.

INFO pianofriends@yahoo.it

Milano

Museo Cappuccini, venti capolavori illustrano la carità Fino al 16 giugno il museo dei Cappuccini ospita l’esposizione dal titolo “Venti capolavori per raccontare la carità”. Nell’intento di riconfermare la propria identità museale, strettamente legato alla realtà storica, culturale, spirituale e sociale dell’ordine dei frati minori Cappuccini, e grazie allo stimolo offerto dall’Opera San Francesco per i poveri, con cui condivide spazi attigui e finalità di accoglienza del prossimo e dei bisognosi, il museo presenta un percorso biblico-iconografico sulla carità. Tre i filoni espositivi: “La Carità donata: l’iconografia di Gesù buon pastore, colui che per amore si fa carico di chi gli è stato affidato”. Inoltre, “Le immagini di Carità: la figura del buon samaritano e allegorie della Carità”; infine, “La consapevolezza e l’impegno della comunità francescana-cappuccina verso l’amore per il prossimo”.

A completamento del percorso espositivo (venti grandi dipinti, più disegni, testi e altri materiali), una piccola mostra fotografica sulla carità vissuta oggi, nell’esperienza di Opera san Francesco.

INFO www.museideicappuccini.it

Il premio letterario “Hans Christian Andersen – Baia delle favole” è giunto alla 46ª edizione, confermandosi una delle manifestazioni più prestigiose e più attese nel campo della scrittura per ragazzi.

L’appuntamento per grandi e piccini è a Sestri Levante dal 7 al 10 giugno, quando saranno proclamate le fiabe vincitrici e le piazze, le strade e le spiagge della cittadina ligure diventeranno palcoscenico a cielo aperto, pronte a regalare la magia dei racconti e le suggestioni di grandi spettacoli di teatro urbano.

Sono previsti laboratori di teatro, music-arte, ceramica e teatro corporeo.

INFO www.andersenpremio.it

On Prendersi cura della terra, piccoli detenuti coltivano (bio)...

Una buona, seppur piccola notizia per le carceri italiane. I ragazzi degli istituti penitenziari minorili di sei regioni italiane hanno iniziato, in questa primavera, corsi di orticoltura biologica all’interno degli istituti stessi, come attività formativa. I giovani detenuti coltiveranno varietà antiche e autoctone per valorizzare la biodiversità e le produzioni tipiche dei territori.

A essere coinvolti saranno circa 70 ragazzi e ragazze degli istituti di Palermo, Roma, Pontremoli (Mc), L'Aquila, Airola (Bn) e la comunità Borgo Amigò di Roma. I ragazzi e le ragazze coinvolti hanno fra i 14 e i 21 anni. L’iniziativa rientra nel progetto di Aiab “Ricomincio dal Bio”, che coinvolge giovani minori sottoposti a misure penali, presenti negli istituti o affidati a servizi sociali.

Genova

Disagio psichico, incontri per diventare volontari Così lontani, così vicini.

“Il disturbo mentale tra timore e realtà” è il titolo di un ciclo di incontri di approfondimento sui problemi legati al disagio psichico. Lo scopo è offrire ai volontari già attivi in questo ambito e agli aspiranti tali un’occasione di formazione per qualificare l’operato della realtà organizzatrice, cioè l’Associazione ligure famiglie pazienti psichiatrici sezione Tigullio (Alfapp Tigullio), in collaborazione con Celivo – Centro servizi al volontariato della provincia di Genova.

Il corso si svolgerà nella sala conferenze del Banco di Chiavari e della Riviera Ligure, a Chiavari (Ge). Incontri in programma nelle seguenti date: lunedì 13, 20 e 27 maggio e mercoledì 3, 10, 17 giugno.

INFO E ISCRIZIONI segreteria, tel.

0185.329332 – mpinato@asl4.liguria.it

Off Lo dice Eurostat: l’Italia sta vedendo declinare la scuola In un paese civile è uno dei primi indicatori di qualità di vita: la salute della scuola pubblica, che si traduce (anche) nel numero di studenti che terminano gli studi.

L’Italia, secondo le cifre del rapporto Eurostat, istituto europeo di statistica, è in controtendenza rispetto alla media Ue: abbiamo sempre meno diplomati e sempre più abbandoni. Gli studenti che lasciano gli studi sono da noi il 17,6%, contro il 12,8% in Europa. E sono solo il 21,7% i diplomati italiani, mentre la media europea è al 35,8%. Siamo fanalino di coda anche per il numero di laureati: nell’Ue il 36% di giovani tra 30 e 34 anni ha concluso con successo il percorso universitario.

La strategia europea prevede che la percentuale salga al 40% entro il 2020: per ora la superano Gran Bretagna (47,1%), Francia (43,6%) e Spagna (43,1%).

maggio 2013 scarp de’ tenis

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cinque domande a... Edoardo Winspeare di Danilo Angelelli

«Don Tonino, che ha cambiato la vita di tanti» Il cognome non tradisce le origini salentine.

I suoi film sì. Pizzicata, Sangue vivo, Il miracolo e Galantuomini utilizzano tutti, o quasi, colori, luci, umori e suoni del lembo di terra più a est della nostra penisola. Edoardo Winspeare disegna uno sfondo salentino anche per il mediometraggio L’anima attesa, nel quale fa muovere Carlo, disincantato uomo d’affari, colto nel momento in cui decide di prendere una pausa dal lavoro e raggiungere la sorella ad Alessano (Lecce), dove sperimenterà un cambiamento radicale.

Alessano è il paese dove è nato (ed è sepolto) un grande costruttore della Chiesa ispirata ai valori dell’accoglienza evangelica, e un simbolo di tutta la Puglia: don Tonino Bello. In occasione dei vent’anni dalla morte del vescovo di Molfetta, Pax Christi, l’associazione pacifista di cui è stato presidente, e Mosaico di Pace, rivista dell’associazione, promuovono il film, disponibile in dvd: non un lavoro biografico, ma un’occasione per rievocarne il messaggio.

Winspeare, perché questa scelta narrativa?

Con la biografia di certi uomini si rischia sempre di fare dei santini. Oltre a non voler correre un simile rischio, ho pensato che fosse più bello raccontare Pastore e fotogramma gli effetti che un grande uomo ha avuto e ha sulle Edoardo Winspeare, regista salentino. Il suo ultimo lavoro è L’anima persone. Don Tonino non solo ha ispirato questo attesa, girato nei luoghi dove nacque ed è sepolto don Tonino Bello film di 40 minuti, ma è presente in maniera (nella foto sopra, a destra). Pax Christi e la rivista Mosaico di pace hanno promosso una campagna di crowd funding per finanziare la diretta: ci sono molte sue frasi che ho fatto produzione del film, in occasione del ventennale della morte di colui pronunciare ad alcuni personaggi, alla fine c’è che fu vescovo di Molfetta e presidente di Pax Christi Italia. proprio lui che parla. Inoltre è presente un PER RICHIEDERE IL DVD www.mosaicodipace.it personaggio ispirato a don Tonino, un bambino che segue il protagonista con la fisarmonica.

Magari l’anima ha proprio le fattezze di don Tonino bambino.

Quali sono i momenti del film in cui è più forte il richiamo ai valori del sacerdote pugliese?

Quando il protagonista scopre la bontà quotidiana, quando vede qualcuno che gli sorride, gli extracomunitari che sono gentili con lui, il giardiniere che gli regala la pianta e gli dice di prendersene cura. Ecco, “prendersi cura”.

Un’espressione che ritorna nel film e nella vita del sacerdote.

L’anima attesa è stato realizzato anche grazie al sistema del crowd funding: chiunque poteva contribuire alla realizzazione del film, anche con pochi euro, aderendo alla campagna “Adotta un fotogramma per don Tonino” e divenendone “coproduttore”. Lui avrebbe gradito…

Una partecipazione dal basso è nello stile del pastore salentino, capace di organizzare la gente con una modalità semplice ma efficace, perché autentica. Era importante per don Tonino Bello creare una rete fatta di relazioni umane.

La campagna è partita i primi di ottobre 2012 e ad oggi sono 220 gli adottanti, tra singoli, associazioni, cooperative…

Lei ha conosciuto personalmente don Tonino Bello. Cosa vive oggi in Edoardo Winspeare di quell’incontro?

In tutte le cose che faccio penso a lui, al suo senso di responsabilità, al coraggio, alla gentilezza. Era un uomo talmente forte che non aveva bisogno di essere duro. Diceva cose incredibili con serenità. È un mio punto di riferimento.

Nel film emerge anche l’autorità morale di quest’uomo. E il suo impegno nella vita di ogni giorno…

Voglio che in chi vede L’anima attesa scatti una scintilla, non perché intendo dare il mio contributo al processo di beatificazione, ma affinché il pubblico si identifichi proprio con il suo essere uomo tra gli uomini, nella quotidianità.

E poi, sì, ho cercato di rendere evidente nel film la sua autorità morale, una cosa che manca ai giorni nostri.

80. scarp de’ tenis maggio 2013

caleidoscopio Vicenza

Firenze

Festival biblico, le Scritture dialogano con il mondo moderno

Terra Futura anno dieci: si riflette sull’Europa per andare oltre la crisi

La nona edizione del Festival biblico (dal 31 maggio al 10 giugno) scommette sulle Sacre Scritture quali testi ispiratori di fede e di vita. Il tema 2013 è “Se conoscessi il dono di Dio”, ed è stato scelto perché la Parola biblica è ancora capace di interagire con la vita di credenti e non credenti.

Essa infatti non riguarda soltanto la missione cristiana, ma anche l’esigenza di umanesimo etico-spirituale socialmente, condiviso in un’epoca ricca di inedite potenzialità, ma segnata anche dalla frammentazione e dalla perdita del volto umano di tante relazioni. Il dialogo con il mondo moderno è visto da molti come frontiera decisiva della missione della Chiesa e nel Festival biblico si declina in un programma ricchissimo di idee, novità e personaggi della cultura e della letteratura, attinti dal panorama internazionale.

INFO www.festivalbiblico.it

Alimentare il dibattito su un modello diverso di sviluppo. E avanzare proposte concrete per nuovi modi di vivere, consumare, coltivare, abitare, viaggiare, comunicare, governare… È l’obiettivo che Terra Futura, la mostra convegno internazionale delle buone pratiche di sostenibilità ambientale, economica e sociale, torna a proporsi anche in occasione della decima edizione, in programma dal 17 al 19 maggio alla Fortezza da Basso di Firenze. Promossa da Fondazione culturale Responsabilità etica per il sistema Banca Etica, regione Toscana e Adescoop – Agenzia dell’economia sociale, insieme ai partner Acli, Arci, Caritas Italiana, Cisl, Fiera delle Utopie Concrete e Legambiente, la manifestazione avrà come cardini la rassegna espositiva e il programma culturale, che quest’anno si concentra sul tema “Dieci anni dopo: oltre la crisi, per una nuova Europa”.

INFO www.terrafutura.it

Ricette d’Alex

Polpettine di carne alla pizzaiola Alex, chef internazionale, ha lavorato in ristoranti e alberghi apprendendo l’arte della cucina nell’albergo di famiglia, a Rovigo. Oggi – i casi della vita... – vende Scarp.

Prendete un etto di carne tritata per porzione, amalgamatela come segue: con un uovo intero, del pane imbevuto nel latte e strizzato, prezzemolo tritato, poca cipolla e uno spicchio di aglio tritato. Formate polpettine di grandezza media. Pelate delle patate – un paio a persona – e tagliatele a fette di un centimetro. Le posate in una teglia da forno e le condite con olio e qualche pomodoro a pezzi piccoli. Aggiungete un po’ di origano. Mettete in forno e copritele con un po’ di acqua. A tre quarti dalla cottura mettete le polpette nella teglia e lasciate fino a che si cuociano. Servite ben caldo.

pagine a cura di Daniela Palumbo per segnalazioni dpalumbo@coopoltre.it

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street of america Lee incontra homeless tra i libri, a San Francisco. Altri casi nel paese

“Lettori” causa recessione, tutto esaurito in biblioteca di Damiano Beltrami da New York

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Tra libri e pc In biblioteca, per cercare riparo e letture, o anche solo un posto sicuro per appisolarsi.

Sono migliaia, gli assistenti, nelle biblioteche d’America.

Che si organizzano, per intercettare gli homeless e aiutarli

EN POCHI DI QUELLI CHE SPULCIANO LIBRI E RIVISTE nella biblioteca di San Francisco sono dav-

vero interessati a ciò che hanno sotto gli occhi. La maggior parte cerca solo un posto sicuro in cui appisolarsi.

Lo sa bene Kathleen Lee, che trascorre diverse ore al giorno su e giù per i sei piani dell’edificio alla ricerca di questi “lettori per necessità”. Sono nascosti dietro a sfilze di libri in brossura, cataloghi ingialliti e dizionari di lingue. La signora Lee li può capire, anche lei viveva in strada fino a qualche anno fa. Oggi assistente sociale, a poco a poco ha conosciuto tutti gli inquilini di questa grande casa piena di volumi nel cuore di San Francisco, la città che con i suoi diecimila homeless è spesso considerata la capitale dei senza dimora statunitensi.

Alle storie stampigliate sui libri della biblioteca si intrecciano le loro, non meno avvincenti. C’è Andrew, il vecchio galeotto uscito dal carcere ma disorientato nel mondo senza sbarre; c’è “l’Autrice”, pure lei avanti con gli anni, che senza sosta scrive e scrive su un quadernone a quadretti; c’è il professor Morales, che si dice docente di geografia e viaggiatore incallito anche se da più di vent’anni non si è mai mosso dal quartiere; e ci sono tanti altri habitué, per i quali questo spazio sostituisce un po’ tutto: il salotto, la camera da letto, l’ufficio, la dispensa.

I racconti delle loro vite sono un misto di frammenti di realtà e amore per l’affabulazione. Lee, però, riporta tutti con i piedi per terra. Verifica se hanno mangiato, se hanno un posto in cui andare a dormire durante la notte, se hanno bisogno di medicine o semplicemente di una doccia. È uno dei cinque consiglieri, tutti ex senzatetto, che lavorano a tempo pieno con uno psichiatra nella biblioteca, per aiutare i suoi impoveriti avventori. L’intervento dell’équipe – una delle prime negli Stati Uniti a offrire questo servizio, quattro anni fa – non è più un esperimento. Benché l’economia americana abbia ripreso a girare (il tasso di disoccupazione è sceso al 7,7%, il valore più basso dal dicembre 2008) sono decine di migliaia le persone che, impigliate nella rete della grande recessione, cercano rifugio nelle biblioteche.

Da quando Lee opera a San Francisco, la signora è stata contattata da decine di sale di lettura sparpagliate per gli Stati Uniti. Ormai molte biblioteche americane sono diventate informali ostelli diurni per senza dimora. In parte lo sono sempre state e accade anche in altre parti del mondo, ma il fenomeno in America è aumentato in modo sensibile dal 2008 a oggi.

Mancano dati in proposito, ma secondo Lee, che è protagonista di questa esperienza dal 2008, le biblioteche stanno assumendo assistenti sociali, infermieri e altri specialisti per aiutare i loro ospiti più bisognosi un po’ in tutto il paese: da Sacramento in California a Tulsa in Oklahoma passando per Salt Lake in Utah. A Greensboro, in North Carolina, la biblioteca ha persino cominciato a servire pasti caldi gratuiti...

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82. scarp de’ tenis maggio 2013

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