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numero 173 anno 18 luglio-agosto 2013

300€

Spedizione in abbonamento postale 45% articolo 2, comma 20/B, legge 662/96, Milano

il mensile della strada

de’tenis www.scarpdetenis.it

ventuno Un Reddito per l’inclusione

Street food L’Italia che mangia in strada La cucina “sul marciapiede” è fatta da ingredienti semplici, freschi e poco costosi. Ogni città ha le sue gustose specialità. Il nostro viaggio, da Milano a Catania, alla ricerca dei sapori ritrovati Milano Entroterra Giambellino Como La mensa reggerà? Torino “Fa bene” a tutti Genova Homeless comprimibili? Vicenza Birillo e Bandito Modena Porta Aperta, il bilancio Rimini Riprendiamo la festa Firenze Il coraggio dei Pep Napoli Bella leggerezza Salerno Sogno Giffoni Catania Speranza sofferta



editoriali

Cari lettori, buone vacanze e... arrivederci a settembre!

Sicurezza nel servizio Roberto Davanzo direttore Caritas Ambrosiana ei giorni in cui questo numero di Scarp andrà in stampa, la Camera dei deputati si troverà a decidere rispetto alla proposta di cancellare il progetto che prevede l’acquisto di cacciabombardieri F35 (costo 14 miliardi di euro, oltre 50 miliardi per l’intero programma), aerei con funzioni di attacco, non solo di difesa. Contemporaneamente assistiamo al quasi azzeramento dei fondi per il servizio civile, passati in cinque anni da 300 a 68 milioni di euro. Il governo Monti si era impegnato per un bando da 18.810 posti, l’attuale esecutivo ha annunciato una cifra attorno ai 15 mila. Ci avevamo creduto, alla retorica della “difesa non armata” del paese, a partire dall’epopea dell’obiezione di coscienza, fino al progetto di servizio civile nazionale, iniziato nel 2001. In tutti questi anni gli enti impegnati in questo ambito hanno affinato le loro capacità progettuali, senza che questo abbia trovato però sbocco adeguato. Al punto che, negli ultimi bandi, il numero di domande presentate è stato tre-quattro volte il numero di posti disponibili! Ma, ancora una volta, inquieta l’assordante silenzio attorno a questi fatti, l’impossibilità di ascoltare l’opinione pubblica quando si tratta di decidere dove operare tagli alla spesa dello stato. È facile gridare contro l’aumento Iva o l’Imu sulla prima casa. Non altrettanto quando si tratta di spiegare da dove reperire in modo alternativo le risorse. Siamo così convinti, per esempio, che la sicurezza del paese dipenda dall’acquisto degli F-35, e non passi piuttosto attraverso l’opportunità, per i nostri giovani, di un anno di servizio non armato e non violento in situazioni di bisogno, fragilità, povertà? Un anno di cui sono universalmente riconosciuti fecondità formativa e spessore educativo: insegna a essere cittadini attivi, innamorati del bene comune. E costa molto meno di un singolo bombardiere.

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L’hotel è gestito direttamente dalla famiglia Brumana; mamma Pia, che si occupa della cucina vi vizierĂ con i suoi deliziosi manicaretti. Alla reception Sara vi accoglierĂ al vostro arrivo in hotel. Andrea, laureato in scienze infermieristiche, responsabile del servizio di assistenza, sempre a disposizione per qualsiasi vostra necessitĂ . Marta, la piccola di casa, iscritta all’istituto alberghiero, addetta al servizio bar e ad organizzare passeggiate per fa farvi ammirare le bellezze della nostra natura. Il tutto sapientemente diretto da papĂ Mario. Tutta la fa famiglia ed il personale saranno costantemente impegnati perchĂŠ vi sentiate a vostro agio, protetti, in un clima caloroso e sereno.


sommario Fotoreportage

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Gianni Berengo Gardin, Storie di un testimone p.6

Scarp Italia

Cos’è È un giornale di strada non profit. È un’impresa sociale che vuole dar voce e opportunità di reinserimento a persone senza dimora o emarginate. È un’occasione di lavoro e un progetto di comunicazione. È il primo passo per recuperare la dignità. In vendita agli inizi del mese. Scarp de’ tenis è una tribuna per i pensieri e i racconti di chi vive sulla strada. È uno strumento di analisi delle questioni sociali e dei fenomeni di povertà. Nella prima parte, articoli e storie di portata nazionale. Nella sezione Scarp città, spazio alle redazioni locali. Ventuno si occupa di economia solidale, stili di vita e globalizzazione. Infine, Caleidoscopio: vetrina di appuntamenti, recensioni e rubriche... di strada!

Gianni Berengo Gardin: «Io, artigiano della fotografia» p.24

Scarp città Milano Laboratorio Giambellino p.26 Abit@giovani: socialità che rinasce, con una casa p.30

Como

dove vanno i vostri 3 euro Vendere il giornale significa lavorare, non fare accattonaggio. Il venditore trattiene una quota sul prezzo di copertina. Contributi e ritenute fiscali li prende in carico l’editore. Quanto resta è destinato a progetti di solidarietà.

Per contattarci e chiedere di vendere

Mense affollate: «Preoccupati per il futuro» p.38

Torino “Fa bene” al mercato, fa bene al quartiere p.40

Genova Ma i senza dimora sono “comprimibili”? p.42

Vicenza

Redazione centrale - milano cooperativa Oltre, via degli Olivetani 3, tel. 02.67.47.90.17 fax 02.67.38.91.12 scarp@coopoltre.it

Il gioco, il freddo: storia di Birillo e Bandito p.44

Modena “Porta Aperta”, sempre di più p.46

Redazione torino associazione Opportunanda via Sant’Anselmo 21, tel. 011.65.07.306 opportunanda@interfree.it

Rimini Shopping continuo? Riprendiamoci le feste p.48

Redazione Genova Fondazione Auxilium, via Bozzano 12, tel. 010.52.99.528/544 comunicazione@fondazioneauxilium.it

Firenze Il coraggio di Michi, Jens e altri Pep... p.50

Redazione Vicenza Caritas Vicenza, Contrà Torretti 38, tel. 0444.304986 - vicenza@scarpdetenis.net Redazione rimini Settimanale Il Ponte, via Cairoli 69, tel 0541.780666 - rimini@scarpdetenis.net

Napoli Quant’è bella leggerezza... p.52

Salerno Giffoni, il sogno di un uomo p.54

Catania

Redazione Firenze Caritas Firenze, via De Pucci 2, tel.055.267701 scarp@caritasfirenze.it

Redazione Catania Help center Caritas Catania piazza Giovanni XXIII, tel. 095.434495 redazione@telestrada.it

L’inchiesta Homelessness: la casa è tutto. Da subito p.19

L’intervista

Come leggerci

Redazione napoli cooperativa sociale La Locomotiva largo Donnaregina 12, tel. 081.44.15.07 scarpdenapoli@virgilio.it

L’inchiesta Street food: cucina di moda da un’arte di strada p.12

La speranza sofferta ogni giorno p.56

Scarp ventuno Dossier Jeans griffato, diritti negati p.60

Economia Reddito minimo, patto per l’inclusione p.64

Caleidoscopio Rubriche e notizie in breve p.69

Speciale La gente di Jannacci p.75

scarp de’ tenis

Il mensile della strada Da un’idea di Pietro Greppi e da un paio di scarpe - anno 18 n. 173 luglio - agosto 2013 - costo di una copia: 3 euro

Per abbonarsi a un anno di Scarp: versamento di 30 € c/c postale 37696200 (causale AbbonAmento SCArP de’ tenIS) Redazione di strada e giornalistica via degli Olivetani 3, 20123 Milano (lunedì-giovedì 8-12.30 e 14-16.30, venerdì 8-12.30), tel. 02.67.47.90.17, fax 02.67.38.91.12 Direttore responsabile Paolo Brivio Redazione Stefano Lampertico, Ettore Sutti, Francesco Chiavarini Segretaria di redazione Sabrina Montanarella Responsabile commerciale Max Montecorboli Redazione di strada Antonio Mininni, Lorenzo De Angelis, Tiziana Boniforti, Roberto Guaglianone, Alessandro Pezzoni Sito web Roberto Monevi Foto di copertina Max Peef Foto Archivio Scarp Disegni Luigi Zetti, Elio, Silva Nesi Progetto grafico Francesco Camagna e Simona Corvaia Editore Oltre Società Cooperativa, via S. Bernardino 4, 20122 Milano Presidente Luciano Gualzetti Registrazione Tribunale di Milano n. 177 del 16 marzo 1996 Stampa Tiber, via della Volta 179, 24124 Brescia. Consentita la riproduzione di testi, foto e grafici citando la fonte e inviandoci copia. Questo numero è in vendita dal 14 luglio al 14 settembre 2013.


Storie di un testimone Gianni Berengo Gardin è considerato da molti il più rappresentativo tra i fotografi italiani. «Il mio lavoro non è assolutamente artistico – dice Berengo Gardin – e non ci tengo a passare per un artista. L’impegno stesso del fotografo non dovrebbe essere artistico, ma sociale e civile». Da semplice bisogno di raccontare, soprattutto di documentare, in Berengo la fotografia diventa testimonianza. Le folle, l’infanzia e il tempo, il lavoro: le sue immagini illustrano come era. E come è cambiata la realtà sociale del nostro paese. In queste pagine, insieme a belle immagini della mostra che Milano gli sta dedicando, per i lettori di Scarp pubblichiamo in esclusiva alcune foto scattate nel 2012 dal grande fotografo per l’istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone. “Gente di Milano”, un maestro a Palazzo Reale Dal 14 giugno (e fino all’8 settembre) Palazzo Reale presenta la mostra “Gianni Berengo Gardin. Storie di un fotografo”, che dopo il grande successo alla Casa dei Tre Oci di Venezia, arriva a Milano arricchita di una nuova sezione dedicata proprio alla “Gente di Milano”: 40 fotografie con i volti, i cortili, la vita passata della città che ha adottato il grande fotografo, nato in Liguria nel 1930, e che proprio quest’anno lo ha insignito dell’Ambrogino d’oro. Promossa dal comune di Milano e prodotta da Palazzo Reale, Civita Tre Venezie e Fondazione Forma per la Fotografia, l’esposizione rappresenta la più grande retrospettiva del maestro.

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fotoreportage

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Storia di un testimone

«La sua grandezza è la semplicità. O meglio, la capacità di rendere leggibile la complessità del mondo. Quel modo diretto e senza scorciatoie di guardare dritto negli occhi. Nelle sue storie c’è una quantità umana che corrisponde al suo amore per la vita. C’è commozione senza retorica». (Denis Curti)

Gianni, un giorno alla Sacra Famiglia In queste pagine, alcune foto che Berengo Gardin ha scattato alla Sacra Famiglia di Cesano Boscone (istituto fondato nel 1896 alle porte di Milano, e che oggi offre servizi di assistenza e riabilitazione a migliaia di persone con disabilità psicofisiche e anziani non autosufficienti). Le immagini fanno parte della mostra “Fondazione Istituto Sacra Famiglia. Ieri e oggi”, curata da Giovanna Calvenzi

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fotoreportage

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Ferro Comunicazionedesign

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lla a solidarietà solidarietà h ha au una na c carta piÚ arta iin np iÚ Se paghi la tua spesa alla Coop con car ta Equa dai un contributo corrispondente all’1% del valore della spesa a un fondo gestito da Caritas Ambrosiana, che ser ve ad aiutare persone bisognose. Coop raddoppia il tuo contributo. 8Q JHVWR GL VROLGDULHWj VHPSOLFH PD HI ¿FDFH Richiedi carta Equa nei supermercati e ipermercati di Coop Lombardia

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anticamera Aforismi di Merafina AVREI VOLUTO Che tu esistessi e nulla più IL GELATO Il gelato è un amore senza fine LO SCRITTORE É più facile fare la spia che fare lo scrittore

Senza passato Pareti di grigia follia confondono le nostre menti, raggio di ordinario delirio offuscano le nostre paure. Attimi, visti e rivisti di perdute speranze, momenti isolati di doloroso oblio. Una luce fioca, lontana, un bagliore, un lampo. Un ritorno a noi stessi, senza passato Gaetano Toni Grieco

L’angelo e il maledetto Tu che hai sofferto come ho sofferto io. Tu uguale ad un angelo, ed io un maledetto da Dio. Hai il volto coperto di miele, e tante api ti girano attorno, cercando di nutrirsi del tuo bene. Qualcuna ci è riuscita, ma dopo col pungiglione ti ha punto, e ne è rimasto il veleno dentro. Succhia e sputa questo veleno mio angelo dorato coperto da un velo. Quel velo di tristezza che ancora ti fa male, lo so, lo sento quanto senti il male, non ti sono vicino ma lo so provare, perchè anche io come te, ho amato, ho creduto, ma non c’era pane che poteva sfamare questa fame d’amore. Cerca in te una rivincita vera, una rivincita pulita. Non sprecare la tua vita, non farti sporcare più. Ed io nonostante sia un maledetto da Dio, crederò fermamente in te mio angelo d’orato, in attesa che tu sia felice..

Fabio Schioppa

Venerdì 28 giugno è nata Martina, primogenita del nostro direttore Paolo Brivio e della moglie Anna Maria. A Martina, mamma e papà l’abbraccio di tutta la redazione di Scarp.

Palloncini Penso e libero ancora palloncini verso un cielo presente di trascorsi… Freschi zampilli guizzi di ricordi gocce sincronizzate di immagini sfocate di amare nostalgie. Me al parco ad “assaggiare” giochi, raccogliere manciate di pinoli, esemplari foglie da donare a mia madre. Canti, salti, rincorse, scivolate, vertigini di giostre ed altalene. Fotogrammi di un tempo che non torna legato a filo saldo alla memoria perché nessuno me lo porti via. Aida Odoardi luglio - agosto 2013 scarp de’ tenis

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STREET FOOD Cucina di moda da un’arte di strada di Stefania Culurgioni e Ettore Sutti

È fatta da ingredienti semplici, freschi e poco costosi. Ogni città ha le sue specialità. Il nostro viaggio, da Milano a Catania, alla ricerca dei sapori ritrovati. La rivincita dello street food. Da qualche tempo la cucina cosiddetta “di strada” sta tornando prepotentemente alla ribalta, grazie, soprattutto, alla riscoperta che alcuni grandi chef stellati hanno effettuato di piatti cucinati al momento, con materie prime povere, non necessariamente in una cucina ultrafornita. Complici anche i prezzi relativamente bassi, il fenomeno è in rapida ascesa, al punto da meritarsi programmi televisi dedicati e, addirittura, una guida specifica tra le Lonely Planet, la bibbia del viaggiatore fai da te. E se è vero che gli alimenti e i paesi chioschi di kebab più citati nella guida appartengono ad e simili: cibi di Asia, Sudamerica e Africa, luoghi in cui strada immigrati. il cibo di strada è, il più della volte, l’uFioriscono anche nica maniera possibile di cibarsi per le contaminazioampi settori della popolazione, anche ni, lontano dalla in Europa, e in Italia in particolare, comlogica dell’induplice anche la crisi economica, si assiste strializzazione di alla riscoperta dello street food, così coalimenti originame lo definisce chi vuole essere trendy. riamente tipici di una zona o di un terE così attirano un’attenzione inusiritorio (pizza, pollo fritto, hamburger, tata tradizionali cibi di strada, come i tacos), tipica del sistema dei fast food. pani ca’ meusa di Palermo, le paste creRimane il fatto che la cucina di strada, sciute o la pizza di Napoli, i pizzi del Saquella vera, è fatta di ingredienti freschi, lento, il panino col lampredotto di Fitipici della zona e cucinati sul posto, renze, le infinite qualità di piadine di Rispesso davanti al cliente, in cambio di mini, le focacce e le torte salate che si pochi spiccioli. possono trovare in quasi tutta la Liguria. Ai quali, complice l’internazionalizTradizione dell’antica Roma zazione della cultura e della gastronoNulla di veramente nuovo, dunque, ma mia, si aggiungono un po’ in ogni dove una tradizione che si rinnova. Basti

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pensare all’antica Roma, quando per le strade dell’urbe e della miriade di città sparse nell’impero giravano folle di cittadini che a una certa ora dovevano ovviare al problema della fame e della sete. Cucinare e consumare piatti tipici da marciapiede è qualcosa che facciamo da sempre, come spiegano Giacinto Miggiano e Maria Chiara Armenia, esperti dell'Università Cattolica di Milano per il dipartimento di scienze dell’alimentazione, ed Ezio Marra, esperto


l’inchiesta Restaurant man

Joe Bastianich: «Cibo del popolo che ti regala i sapori di una volta» É il più ruvido tra i giudici di Masterchef Italia (programma cult per gli amanti della buona cucina) e il suo slang italo-americano gli è valso un’irresistibile imitazione da parte di Maurizio Crozza. Lui è Joe Bastianich, imprenditore, uomo di spettacolo (presenta diverse edizioni di Masterchef in giro per il mondo) ma, soprattutto, ristoratore di successo: gestisce trenta locali di altissimo livello in tutto il mondo. E produttore di vino di grande qualità. Lo abbiamo interpellato durante una pausa di lavoro nella sua New York. Joe, la cucina, la grande cucina, in quanto fatto di costume, risente, inevitabilmente, dell’epoca e delle mode. Lo street food, il cibo di strada fatto con ingredienti poveri e a basso costo, rimane invece sempre fedele a se stesso. Qual è il segreto di questo successo? Street food significa mangiare bene spendendo poco. In pratica tu togli servizi e comodità, puntando sui sapori e sulla bontà della preparazione. Qui sta la forza della cucina di strada, ma anche la sua debolezza, dato che è difficile garantire i sapori e la qualità in posti lontani da dove ci si procura la materia prima. Con lo street food non si bara: se non fai bene il tuo lavoro la gente smette di venire da te e va dal tuo concorrente. I grandi cuochi rielaborano lo street food: ingredienti considerati meno nobili hanno nuova vita. Da cosa nasce questa tendenza? La grande cucina riscopre sapori e prodotti semplici e genuini. Materie prime freschissime, preparazioni semplici e poco elaborate sono il segreto per proporre sapori che, pur venendo dalla tradizione, sono modernissimi. Ecco perché alcuni di questi ingredienti o preparazioni trovano tranquillamente posto anche tra i fornelli degli chef stellati. In Asia, ma anche in America, io mangio spesso per strada e, devo dire, ho sempre mangiato benissimo spendendo poco. È quella che io chiamo la vera “cucina del popolo”: buona, abbondante e a prezzi accessibili. Se una tradizione va avanti da centinaia di anni, un motivo ci deve essere... Perché hanno tanto successo i programmi televisivi di cucina? Perché mangiare e bere bene fa salute, fa qualità della vita, fa stare insieme in famiglia. È il nuovo lusso. I cuochi diventano il simbolo di queste nuove abitudini: se cibo è la nuova religione, loro sono i nuovi profeti. dell’Università di Milano Bicocca. «Se si parla di cibi votati a un consumo veloce – spiega Miggiano –, l’Italia offre l’imbarazzo della scelta, tanto nella sua storia quanto nel presente. Le prime testimonianze certe della presenza di street food nella nostra penisola risalgono ai tempi di Roma antica. Le strade della città erano animate da folle di cittadini, che all'ora di pranzo si trasformavano in clienti di un fiorente e frenetico commercio di ambulanti, botteghe

Nonostante la crisi ha deciso di aprire un ristorante in Italia. Significa che la ristorazione, se fatta bene, continua ad andare bene? Ad agosto aprirò a Cividale del Friuli. Il ristorante si chiamerà “Dell’Orsone”. Nel cuore della mia azienda, tra i vigneti. Lo ripeto sempre: la ristorazione chiede sacrificio e abnegazione, nulla si improvvisa. Se si lavora seriamente, i risultati non tardano ad arrivare. Ci svela il segreto dei suoi trenta ristoranti di successo? Lavorare e studiare tanto. Se una persona è preparata, le opportunità si creano. Io ho avuto la fortuna di nascere in questo mondo. Ma nella ristorazione non esistono rendite di posizione. Ho sempre puntato sulla cucina italiana, rinnovandola. Finora ho avuto ragione. [e.s.] luglio - agosto 2013 scarp de’ tenis

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Mangio in strada e taverne di vario genere. Oppure pensiamo alla pastasciutta: all’inizio era un pasto povero, consumato nelle strade della Napoli borbonica». Ogni regione d’Italia, in realtà, vanta proposte gastronomiche tipiche: «Potremmo citare la pizza ripiegata “a libretto” o “a portafoglio” o sotto forma di pizza al taglio – continua Maria Chiara Armeni –, oppure, parlando di panini, i pizzi sono il caratteristico cibo di strada leccese: hanno una forma circolare e al loro impasto vengono aggiunti ingredienti tipici della zona salentina, come olive, pomodorini, cipolle e cime di rapa ‘nfucate, ovvero saltate in olio con aglio e peperoncino, o i “pezzetti”di carne di cavallo preparati per le feste di paese. Oppure pensiamo alle fritture

come le panelle e gli arancini, prodotti tipici siciliani, o anche la porchetta di Ariccia. La Romagna è il regno della piadina. Tutto questo senza dimenticare le bevande tipiche: ancora oggi i romani in cerca di refrigerio vanno sul Lungotevere per una grattachecca. In Sicilia sono molto diffusi gli acquafrescai, baracchini che servono granite alla frutta (limone, gelsi e latte di mandorle), limonate e altri prodotti rinfrescanti artigianali. Tipico di Catania è per esempio il seltz, bevanda a base di limone, sale e sciroppo agli agrumi. Si pensi anche a uno dei mezzi più salutari e naturali per dissetarsi: la frutta. Con la bella stagione lungo le strade compaiono molti venditori da cui acquistare succose fette di anguria e melone».

Cibo buono e adatto a tutti Non un cibo da poveri ma nemmeno un cibo da ricchi. Bensì un piacere condiviso, che accomuna tutti, a seconda del gusto e delle voglie. «Vent’anni fa, la moda dei fast food aveva fatto abbassare l’attenzione sulla qualità del cibo – commenta Ezio Marra –. Oggi invece si è passati quasi all’eccesso, proliferano i programmi tv, si parla di chef stellati, mangiare sano e bene è diventato di moda. Eppure nelle grandi città si fa fatica a trovare cucine tipiche. Per esempio a Milano, dove si mangia la cucina lombarda? Solo in posti rari. Il cibo di strada è un segno di resistenza di certe cucine tradizionali, come quando da bambino mi facevo comprare il castagnaccio e le caldarroste».

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La Milano dei sapori antichi Pochi i presidi che difendono la tradizione. Ma per loro i clienti non mancano mai di Alberto Rizzardi Tra i tanti modi per conoscere l’Italia nella sua intimità più profonda, la lente d’ingrandimento offerta dal cibo da strada è uno degli strumenti più sorprendenti. Chioschi, banchetti, furgoni e carretti: sono migliaia, nel nostro paese, le variazioni sul tema. Tutte diverse, ma ugualmente recanti in sé una forte e verace identità enogastronomica. In questo quadro, anche se ha fama di città del lavoro, più che della cucina, Milano non fa eccezione. Presenta negozi e luoghi fisicamente piccoli, ma con numeri da multinazionale e notorietà oltre confine: è il caso di Luini, da fine Ottocento in via Santa Radegonda, nel cuore di Milano, dove, a volte, la fila per godersi i panzerotti pugliesi supera quella per visitare il Duomo. Se, invece, avete voglia di un buon hamburger, in via Corridoni ha aperto da poco più di un anno il Visconti Street Food. “Tutto accade intorno a un bancone”, è lo slogan del locale, che in uno spazio elegante offre la possibilità di gustare hamburger fatti in casa (anche il pane lo è), kebab di coniglio, fish&chips, spiedini di polpo, galletti alla diavola, oltre a piatti freddi e insalate: fascia di prezzo non proprio economica, ma of-

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uova e cicoriella alla pasta e fagioli, giù giù fino ai dolci. E se avete la fortuna di capitarvici il venerdì, sotto con i fritti, specialità del giorno.

I maestri del fritto

ferta ricca e valorizzata da alcune chicche, come il ketchup di carote. Non siete in centro città, ma nella zona sud-ovest? Allora una tappa obbligatoria è “Mangiari di strada” in via Lorenteggio, che raccoglie il meglio dello street food italiano, con qualche aggiunta straniera. Tutto è curato nel dettaglio, con una ricerca attenta delle materie prime, che punta al biologico. Posti a sedere? Tanti, dentro e fuori. Prezzi da 6 a 13 euro. Il menù? Ricchissimo, dalle bombette di Alberobello alla frittata di spaghetti, dalla coratella di agnello con

Se si parla, tuttavia, di fritto a un milanese, in due casi su tre la risposta sarà: la friggitoria di piazza 24 maggio. In uno dei cuori pulsanti della movida cittadina, Il kiosko – così si chiama – esiste da più di mezzo secolo, vi lavorano tredici persone e, oltre alla sua natura di friggitoria, è e resta soprattutto una pescheria, tradizione di famiglia del titolare, Raimondo Zannini. «Puntiamo su un’atmosfera alla buona ma anche sulla qualità e sul giusto rapporto qualità-prezzo», spiega Roberto, uno dei dipendenti. La clientela è mista; i tavolini quattro o cinque, ma buoni per consumare un fishburger o qualche anello di totano; d’estate, venerdì e sabato, anche fino alle 23. Una delle storie più interessanti che riguardano lo street food made in Milan arriva dalla zona sud-est della città. In piazza Buozzi, laddove corso Lodi incontra via Adige, sorge dal 1967 il chiosco Dorando Giannasi. “Il buono della


l’inchiesta

Michele il cocomeraio: «Da cinquant’anni disseto i milanesi» Un coltellaccio lungo più di venti centimetri, di forma rettangolare, con un bel manico di legno. E poi un banco colorato di frutta, di tutte le varietà possibili, perché bisogna accontentare tutti i palati. Anche se quella che va per la maggiore resta lei, l’anguria fresca, dissetante, purificante, che scende in gola a dare sollievo quando arriva il caldo e in città si soffoca. Michele ha 76 anni ed è stato il primo, così ci dice, che a Milano ha portato la tradizione della “fetta”. Arrivò dal sud Italia 50 anni fa, non sapeva dove cominciare per trovare lavoro, scaricò un camion di meloni per strada in piazza Brescia e si mise accanto un contenitore di ghiaccio. Tutto cominciò da lì. Le persone si fermavano, si facevano una bella fettona di frutta e se ne andavano contente. «Una volta era più facile, c'erano meno autorizzazioni da chiedere e da pagare – ricorda –, la città era bella, si stava bene». Eppure anche oggi, con la circonvallazione a poche decine di metri, il traffico congestionato della città che lavora, camion e motorini che frullano i timpani, anche oggi insomma si fermano in tanti per una pausa di freschezza. Tante famiglie, giovani, anziani, personaggi noti, come l’attore Ezio Greggio e il calciatore Materazzi. «Era il 1965 quando ho cominciato – racconta – e allora tagliavo solo fette d’anguria. Da qualche anno sono arrivati papaye, manghi, ananas, frutta esotica e mix frullati, ma lei è

quella che va sempre per la maggiore». L'unica cosa che serve a Michele è il caldo, e forse lui è l’unico a non lamentarsi dell’afa. Perché quando la gola gratta, l’anguria dà sollievo. «Qui da me ci si siede, si chiacchiera, si ride, si mangia, si sta mezzora e poi si va via – racconta –. Se la temperatura è alta, se non piove, se non c'è vento, taglio anche 40 angurie al giorno». E dire che gli angurieri puri, a Milano, sono rimasti in tre: Michele in piazzale Brescia, un chiosco in piazza Po e uno alla Barona. oggi, Giannasi li applica alla sua attività, nel rapporto che lo lega ai 15 dipendenti, quasi tutti stranieri, l’ultimo assunto a inizio giugno. Polli allo spiedo, patate fritte e al forno, lasagne e prodotti a base di riso le specialità del chiosco, aperto dalle 7 alle 20 da lunedì a sabato. Nessun tavolino, ma un posto ombreggiato nelle vicinanze si trova facilmente.

La tradizione dei fruttaroli

Il buono della città Lo storico chiosco Dorando Giannasi in corso Lodi

città”, recita lo slogan. E, parlando con il signor Giannasi in persona, si capisce pian piano che quel “buono” non si riferisce solo alla qualità dei prodotti in vendita, ma a una più ampia sfera valoriale che è merce assai rara e preziosa oggigiorno. Emigrato a Milano da ragazzo a inizio anni Sessanta, proveniente dall’Appennino reggiano, Giannasi iniziò a lavorare in una polleria a

gestione familiare a Lambrate e i titolari incominciarono presto a volergli bene. Così, più avanti, smessa l’attività, gli diedero 10 milioni di lire per avviare l’attività. «Ce li restituirai con calma, quando potrai» – ricorda oggi con affetto Giannasi, che quei 10 milioni li investì nell’acquisto e nella ristrutturazione del chiosco, già esistente, di piazza Buozzi. Quella stessa filosofia e quei valori,

Avete, infine, voglia di ristorarvi con una buona fetta d’anguria? Beh, preparatevi, perché avrete di che faticare. A Milano sono rimasti solo tre “anguriari”. Uno di questi è il chiosco di piazza Po. Gestione familiare, clima cordiale e atmosfera tranquilla, è aperto sette giorni su sette dalle 10 del mattino alle 2 di notte; praticamente è quasi impossibile trovarlo chiuso da giugno a settembre. Qui si possono gustare angurie a 4 euro la fetta, meloni e i principali frutti di stagione, con un piatto speciale di frutta mista (10 euro). «La clientela è mista e di tutte le età, con molti giovani e tanti giocatori di Inter e Milan – confida Maicol, il figlio del titolare, Franco –. Rappresentiamo l’estate sana milanese». Frutta anche “a portar via”. Ma fermatevi un attimo, se potete. Ne vale la pena.

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Mangio in strada

Napoli resiste all’attacco fast food Nonostante l’incremento di offerta da parte di catene in franchising, la tradizione culinaria partenopea non accenna a retrocedere di un passo: «Qui mangiamo bene»

di Laura Guerra

Napoli come molte città mediterranee, ha elaborato nei secoli una ricdienti di qualità quantomeno dubbia. ca tradizione di cibo di strada. Piatti semplici ma non poveri, piuttosto piatti popoHanno una clientela fatta di persone lari. Il più famoso, è senz’altro la pizza piegata a libretto, celebrata dai film neoreache risolvono il nutrirsi guardando solo listi e dall’istantanea che immortalò l’allora presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, al prezzo. Questo fenomeno, figlio della mentre ne gustava una visitando i decumani in occasione del G7 del 1994. L’especrisi economica, segnala un’impoveririenza del doverla mangiare camminando ha consigliato e fatto mettere a punto l’amento di abitudini alimentari che, in albitudine di servirla piegandola in quattro, a libretto appunto, in modo che il concuni casi, è figlia di una disgregazione dimento di olio, pomodoro e mozzarella non sbrodoli dagli angoli. Posto d’onore anfamiliare». Ma Napoli ha la tradizione e che per la pizza fritta, da mangiare al naturale senza altre aggiunte addentata apil sapere per non assecondare la tenpena tirata su con il mestolo forato dall’olio che ribolle in un enorme padella nera. denza a mangiare scadente solo per far tacere la fame. «Ora che è estate – conNe racconta già la scrittrice Matilde Se«A Napoli si mangia bene per straclude Pignataro –, ci sono i chioschi dei rao nella seconda metà dell’Ottocento da – conferma Luciano Pignataro, giormellonari che vendono angurie fresche nel suo romanzo più famoso “Il Ventre nalista e fondatore dell’omonimo winea fette e quelli che, provvisti di griglia e di Napoli” e viene proposta ancora oggi blog – spendendo anche meno di 5 o 10 pentolone, cuociono le pannocchie di in tante friggitorie di quartiere. Perché è euro e, nonostante, ciò, continuano ad mais regalando buon cibo e l’emozione proprio la tradizione della frittura di picaprire nuovi fast food che offrono ingredei sapori dell’infanzia». colo taglio a vincere su tutti i fast food multinazionali che qui non hanno mai attecchito. Il tradizionale panino “americano” Catania è uno dei baluardi del cibo di strada. Nel capoluogo etneo vige una non regge il confronto con un cartoccio parola d'ordine: Arrusti e mangia (arrostisci e mangia), termine che lascia di fritturine: pasta cresciute, crocchè di presagire una pantagruelica e rustica sosta per rifocillarsi. Quest'arte esiste e patate, arancini di riso al sugo o in bianresiste soprattutto nei quartieri popolari dove è facile trovare diversi esercizi di co, frittatine di maccheroni, timballi. C’è ristorazione all'aperto tra cui spiccano le macellerie equine che ogni sera si poi una tradizione di street food legata a organizzano allestendo grossi bracieri sul marciapiede davanti al negozio. La strade precise: le fritture più fragranti si tradizione del cibo di strada ha luogo anche nei mercati storici di Catania come preparano soprattutto lungo le vie dei la famosa Fera 'o luni (l'antica fiera del lunedì) o in suggestivi borghi marinari decumani del centro antico e nella Picome i famosi "Archi della Marina", dove è possibile degustare il prelibato sangeli (sanguinaccio) e la trippa bollita, insieme ad altre frattaglie. gnasecca storico mercatino rionale aliResistono anche le bancarelle dove si può assaggiare il mauro, un'alga gustosa mentare, dove oltre alla frutta e alla vercondita con sale e limone spremuto. Restando in tema di limoni, è facile dura fanno bella mostra di sé olive vertrovare i venditori di piretti, grossi limoni simili a cedri che vengono tagliati a di e nere e ogni tipo di frutta secca. È la fette e accompagnati da sale o bicarbonato. strada dove apre ancora tutte le mattine Altra ghiottoneria prettamente street food è la crispella: una croccante e calda il tradizionale carnacottaro, banco in pastella fritta che ricopre un condimento di acciughe o di ricotta. marmo di carni cotte che offre un ricco Fanno parte della tradizione anche le cipollate, presenti nei paesi etnei, che assortimento di quinto/quarto: trippe, consistono nella preparazione di cipolla (famosa quella di Zafferana Etnea) centopelli, per e muss, cioè piede e muservita a mo' di bruschetta su fette di pane abbrustolito, con olio extravergine d'oliva, origano e una sarda aperta e cotta alla brace. Nel corso delle feste so di maiale lesso condito con sale e lipatronali o delle varie sagre (famosa fra tutte quella del pesce spada ad mone. Acitrezza), ma in particolare della Festa di Sant'Agata a Catania, le attività Sul lungomare invece si va per sgracommerciali di arrusti e mangia si moltiplicano in una meravigliosa esplosione nocchiare passeggiando il tarallo sugna di odori, sapori e colori che il tempo non potrà mai portare via. e pepe da sempre impastato con manRoberto De Cervo dorle tostate.

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Catania, baluardo dell’“arrostisci e mangia”

16. scarp de’ tenis luglio - agosto 2013


l’inchiesta

La piada, la Lella e lo chef

Orgoglio di Rimini La “mitica” Lella spiega i segreti della piada allo chef pluristellato Massimo Bottura

di Melania Rinaldini Nata come cibo dei poveri, la “tonda”, nelle sue mille varianti, non conosce crisi. Venti aziende nella provincia di Rimini, 80 chioschi, 30 produttori di piada pre-confezionata. Il cibo di strada torna di moda e la piadina fuori moda non ci è mai andata a finire. Che sia piada o piadina o meglio pieda e pida, la storia non cambia: da cibo della povera gente oggi è a tutti gli effetti il “pane” tipico sulle tavole dei riminesi e non solo, immancabile nei menù di ristoranti, trattorie e semplici chioschi. Artigianale, sfornata al momento, oppure nella variante più “industriale”, precotta, esposta anche sugli scaffali dei supermercati. Ma i veri protagonisti sono loro, i chioschi, oltre 80 nell’intera provincia riminese. Il Bar Ilde sul colle di Covignano, è uno dei luoghi simbolo della città. Rinomato anche Dalla Lella, che fornisce piadine e cassoni anche a pub e supermercati. modenese, titolare dell’Osteria FranceProprio il figlio della nota “piadinara” riscana (www.osteriafrancescana.it), tre minese, Massimiliano Nanni, 17 anni fa stelle michelin. L’incontro tra lo chef e la decise di elevare la bandiera romagnola piadarola Lella è parte del tour che ha anche sulla Grande Mela portandosi “battezzato” la guida ai cibi di strada di nella valigia Piadina, vino e cucina, il riRimini (www.riministreetfood.com), storante che sorge nel Greenwich Villainiziativa lanciata dalla rivista Rolling ge, fra la quinta e la sesta Avenue. Stones insieme alla Ducati che mette le «Ma ce la serve con forchetta e colali al tour dei “baracchini”. tello?» sono dubbiosi i due turisti toriBottura ha fatto un giro turistico dei nesi, Lella risponde con un sorriso: locali della storica piadineria “Lella”, as«Nooooo, si piega e si mangia con le masaggiando le erbe pronte per i cassoni e ni». Scene di un tardo pomeriggio di manipolando, soddisfatto, gli impasti giugno. Di li a poco si ode il rombo di messi a riposo. «È dalla cura, dall’ordine due Ducati: sono Andrea Gnassi (sindae dall’ospitalità dei luoghi che si capisce co di Rimini) e Massimo Bottura, chef se si mangerà bene in un posto. Qui si

mangia bene». Anche i cuochi stellati apprezzano il cibo di strada? Io viaggio sempre per cercare nuovi spunti, per conoscere cibi e tradizioni culinarie. È dalla strada, dai mercati, dai chioschi, che si capisce cosa mangia la gente, il cibo della quotidianità. Conosceva già Rimini e le sue specialità gastronomiche? Sì, come turista gastronomico ho già avuto modo di apprezzare la piadina, lo squacquerone, i vini. La via Emilia collega questo territorio anche dal punto di vista dei sapori, da Parma a Modena fino ad arrivare a Rimini. Perché fare da testimonial a Rimini Street Food 2013? La ritengo un’iniziativa straordinaria per valorizzare il territorio, e mi sono subito innamorato dell’idea quando Andrea (Gnassi, sindaco di Rimini, ndr) me l’ha proposta. Ho portato la mia ricetta personale “Piada Street Food 2013” alla rappresentante riminese della piada, la mitica “Lella”, per cementare un gemellaggio.

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Mangio in strada

Genova

Il maestro del panino che non teme rivali A vederla da lontano, dall’ogiva stretta del portico di Sottoripa, è una piccola bottega con un’insegna anni ’70, la scritta Gran Ristoro impressa a grandi caratteri neri su sfondo arancione. Nella minuscola vetrina, con una minuziosità tutta ligure, sono disposti salumi e condimenti di ogni tipo e denominazione: salame di cinta senese tartufato, arrosto di tacchino al basilico, ma anche specialità meno ricercate, come acciughe sott’olio, porchetta e il mitico “misto piccante” sott’olio. A passare in certe ore della giornata, quelle della pausa pranzo specialmente, bisogna farsi largo tra la coda di persone, che inizia già in fondo al portico. Insomma, basta poco a capire che, quando si arriva al Gran Ristoro, si è in un luogo speciale. Meta trasversale rispetto a età, classi sociali, appartenenze etniche, è uno di quei bar che a Genova riescono a mettere d’accordo un po’ tutti: difficile non trovare qualcosa che piaccia, nel suo fittissimo menù di panini (difficile, se mai, è scegliere in fretta, ma la lunga coda lascia tempo per riflessioni e consultazioni con gli altri clienti). Vicinissimo al Porto Antico, ideale per una pausa al sole,

ospita ogni giorno studenti, lavoratori, ma anche molti immigrati che, con pochi euro, trovano la possibilità di un pasto veloce, ma sostanzioso e di qualità. A ribadirlo è il titolare, Stefano Boggiano, che, in merito all’apertura di un nuovo Mc Donalds in centro storico, nel vicino Palazzo Serra Gerace, risponde di non temere gli effetti di quella che chiama una “non concorrenza”: «Noi non vendiamo hamburger – mi spiega – e voglio proprio vedere come farebbero gli americani a tenere i nostri prezzi e offrire ogni giorno salumi toscani». Di fatto, nonostante in città, dagli anni ’90 in poi, siano stati aperte molti locali simili l’originale non teme concorrenza. Al più, se proprio un “competitore” lo si vuole trovare, sta proprio a due passi, nello stesso portico di Sottoripa. Parimenti famosa per i buongustai del centro storico genovese, la friggitoria Carega, con il suo forno a vista e la parete di piastrelle bianche e blu, offre un’ottima alternativa al panino, con i suoi “cartocci” di fritto: calamari, gamberi, pescetti, ma anche frittelle di baccalà e pizze fritte, da gustare in ogni ora del giorno, rigorosamente “in piedi e con le mani”. Stessa formula di ingredienti freschi e bassi costi, anche la friggitoria è rimasta negli anni un’istituzione sul “fronte del porto”. E così, a dispetto delle multinazionali che avanzano, del cibo globale che spopola, le prelibatezze locali resistono e offrono ancora, a tutte le tasche e a prova di crisi, una bontà che sa di genuino e di mare. Paola Malaspina

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l’inchiesta

La casa è tutto. Da subito Housing first: nuovo paradigma nella lotta all’homelessness. Si parte dall’alloggio, saltando i gradi intermedi di accoglienza. L’Europa ci crede e investe: e in Italia?

di Francesco Chiavarini Addio al dormitorio pubblico. Ma anche ai condomini solidali, agli appartamenti protetti, alle “prime”, “seconde” e “terze accoglienze”. I ferri del mestiere con cui almeno un paio di generazioni di operatori sociali hanno per decenni combattuto l’homelessness, in Italia e nel vecchio continente, paiono destinati presto o tardi a finire negli scantinati delle anticaglie e a essere dimenticati insieme alla loro spesso esoterica terminologia. L’Europa ha scoperto, infatti, che per aiutare i senza tetto bisogna, prima di tutto, dare loro una casa. Non è sufficiente una branda in un istituto come il dormitorio, che grande o piccolo che sia, gestito dal pubblico o dal privato, con le pareti intonacate di fresco o sbrecciate, resta sempre e solo un ghetto, quanto meno un universo appartato. Non serve nemmeno – e forse è addirittura controproducente – un alloggio in una “comunità” dal nome fantasioso, evocativo, spesso poetico, magari biblico. Ci vuole, invece, un appartamento, per quanto anonimo, dove i vicini sono persone comuni. E non solo. La casa va offerta subito. Non alla fine di un percorso. Ma all’inizio. Con buona pace della retorica dell’accompagnamento sociale. Si tratta di un cambiamento culturale profondo: un radicale mutamento di paradigma, che non potrà non orientare diversamente le politiche sociali europee e, dunque, le già scarse risorse del ci, più iniziative private) soprattutto – bilancio comunitario, lasciando a bocma non solo – gli stati del nord. E da ca asciutta chi invece resta legato a inqualche settimana il radicale cambiaterventi e concezioni considerati supemento d’approccio è stato in qualche rati. E il nuovo paradigma ha un nome, modo ufficializzato. Ad Amsterdam, inche circola già da anni tra chi si occupa fatti, il 13 e 14 giugno, si è svolta la condi persone senza dimora, e soprattutto ferenza di Housing first Europe, chiamanegli ambienti dove più innovative sota a fare il punto sulla prima sperimenno state le sperimentazioni e più avantazione organica voluta dalla Commiszate sono le pratiche: Housing first,“prisione europea per promuovere ma, per prima cosa la casa”. iniziative ispirate ai nuovi principi, nell’ambito del programma Progress per il Cinque più cinque lavoro e la solidarietà sociale. La rivoluzione cammina da tempo. In L’esperimento è durato due anni. Ha alcuni territori urbani di altri paesi e coinvolto cinque città test (Glasgow, continenti – Stati Uniti d’America, perAmsterdam, Copenaghen, Budapest e sino alcune aree dell’Oceania – è prassi Lisbona) e cinque città di controllo (Duconsolidata. In Europa, le hanno dato blino, Göteborg, Vienna, Gand, Helgambe (cioè documenti e fondi pubbli-

sinki). Nelle prime cinque realtà, alle persone senza dimora sono state date le chiavi di casa in appartamenti sparsi nei quartieri, senza aspettare che i futuri ospiti prima si disintossicassero o dimostrassero di aver smesso di bere. A tutti si è chiesto di contribuire all’affitto. Nelle seconde si è, invece, seguito il modello tradizionale, per gradi: prima la disintossicazione in comunità terapeutiche e solo alla fine l’accesso all’alloggio gratuito o a poco prezzo. Si è così potuto appurare che, mentre nelle città in cui si è applicato il modello tradizionale (staircase, modello scala a gradini) su dieci senza tetto inseriti nel programma, solo due raggiungevano l’ultimo gradino (cioè la casa) e di questi solo uno riusciva a mantenerla nel tempo, nelle città in cui si è seguito approccio housing first, otto su dieci erano in grado di sostenerne i costi al termine dei due anni di sperimentazione. Particolarmente significativo si è rivelato il caso di Lisbona. I senza dimora inseriti negli appartamenti sparsi nella città erano del tutto autonomi nelle proprie abitazioni, nonostante avessero problemi psichiatrici e dipendenze da alcol o sostanze. Il solo obbligo di cura imposto dal programma erano le visite domicilio, sei volte al mese. Gli ospiti degli appartamenti dovevano badare a loro stessi, contribuire a pagare le bollette e l’affitto. Risultato? Due anni dopo, l’83% dei partecipanti vive ancora nelle case, il 70% ha cercato di integrare il proprio reddito, il numero dei ricoveri psiluglio - agosto 2013 scarp de’ tenis

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La casa è tutto. Da subito chiatrici è diminuito del 90% e nessun ha riferito di aver trascorso la notte in una caserma di polizia dopo essere andato ad abitare in un appartamento. Il programma ha avuto effetti evidenti sull’intraprendenza e il miglioramento dello stile di vita dei beneficiari: il 26% ha preso parte a progetti scolastici e di formazione al lavoro, il 15,6% ha cominciato a frequentare una libreria, il 26,7% la chiesa, il 46,7% ha incontrato altre persone al ristorante o in un locale pubblico, il 15,6% ha fatto sport, il 6,7% ha visto un film o ha partecipato a un concerto.

Dalla strada alla casa t s r i f g n i us o h Alloggio condiviso, formazione

Alloggio con ac sull’occu fondato su partic

Tempo nessuna di god

all’abitare Alloggiate, non abbandonate Ideato dallo psichiatra americano Sam Tsemberis della New York University School of Medicine, l’approccio Housing first è incentrato sull’individuo e la responsabilità. «Ciò però non significa che le persone vengono abbandonate a loro stesse – tiene a precisare Marco Iazzolino, segretario generale della Fiopsd, la federazione italiana degli organismi per i senza dimora, che ha fatto parte del comitato di controllo della sperimentazione europea –. Al contrario. In tutti i paesi in cui è stato sperimentato il programma, gli ospiti degli appartamenti beneficiavano di un’ampia e specializzata gamma di servizi sociali: assistenza sanitaria e psicologica in primis. Il programma prevedeva anche l’accompagnamento sociale dei beneficiari, ma in una forma leggera, rivolta tanto agli ospiti degli appartamenti quanto ai loro vicini di casa che in questo modo, in un certo senso, diventavano partecipanti inconsapevoli della sperimentazione». Oltre a produrre indubbi benefici per i senza tetto coinvolti, i programmi di Housing first paiono avere anche il pregio di essere particolarmente economici. Si è calcolato, ad esempio, che il costo giornaliero di Casas Primeiro (il programma di Housing first sperimentato a Lisbona) è stato di 16,40 euro, contro i 18,60 di una notte in dormitorio, i 30,77 di un giorno in ostello e i 2.500 di un ricovero in una clinica psichiatrica. Stessi standard di efficienza sono stati riscontrati nelle altre città europee coinvolte nella sperimentazione.

Ma in assenza di reddito minimo? Facile aspettarsi che l’Europa si innamorasse del nuovo modello, tra l’altro in tempi di risorse sempre più scarse. «La

20. scarp de’ tenis luglio - agosto 2013

fase di accoglienza

abitazioni condivise vicine all’istituzione, permanenza limitata e sulla base di condizioni particolari, con servizi comuni

contesti istituzionali, ostelli, rifugi

strada più meno

sostegno individuale, cura, controllo spazio privato, autonomia, norm

Gli otto principi dell’Housing first L’alloggio, un diritto umano fondamentale Rispetto, calore umano e riguardo per tutti gli utenti Lavorare con gli utenti per tutto il tempo di cui hanno bisogno Housing in case popolari, con appartamenti indipendenti Divisione tra housing e servizi Scelta e autodeterminazione dell’utente Orientamento alla ripresa Riduzione del danno

I problemi dell’approccio classico tensione causata dai continui trasferimenti tra i vari livelli di alloggio

mancanza di scelta e di libertà da parte dell’utente del servizio

assunzione delle decisioni su dove e quando sistemare gli utenti da parte del personale di servizio, quindi poca privacy e poco controllo degli utenti

competenze acquisite per la residenza in un ambiente comune strutturato non necessariamente trasferibili a una situazione di vita indipendente

troppa attesa per passare a un alloggio indipendente; molti si “perdono”

effetto “porta girevole”, dentro e fuori la condizione di homeless: gruppo ampio di “frequentatori assidui” bloccato all'interno del sistema


l’inchiesta

Regolare abitazione indipendente con contratto di affitto

regolare ccordo upazione u condizioni colari

dimora finale, piena garanzia di godimento

o limitato, a garanzia dimento

o, disciplina malità

meno più

Commissione europea ha capito che il futuro dell’intervento sociale sugli homeless è l’Housing first. Non solo perché è un modello conveniente in termini economici, ma anche perché è capace di creare innovazione sociale e di produrre risultati misurabili – sottolinea Stefano Galliani, presidente Fio.psd dallo scorso marzo –. Se questo è vero, dobbiamo allora aspettarci che nei prossimi anni l’Europa dirotti su questi progetti i fondi sociali. Chi si occupa di senza dimora, farebbe bene a prepararsi e a capire in fretta i nuovi orientamenti, se non vuole perdere le risorse che rimarranno a disposizione». L’Italia, non inserita nella sperimentazione europea, è pronta ad affrontare il cambiamento culturale che chiede l’Europa? E quindi a mettere nelle condizioni chi progetta gli interventi sociali di salire a bordo del treno delle nuove linee di finanziamento? C’è una caratteristica che accomuna tutte le città che hanno partecipato alla sperimentazione. Si trovano tutte in paesi che garantiscono ai propri cittadini un reddito minimo. Nel nostro paese, invece, questa

Rivoluzione a Lisbona

Il guru rispetta le scelte, “Casa Primeiro” funziona È uno dei guru, almeno in Europa, dell’approccio Housing first. Non solo perché l’ha studiato e ci ha scritto sopra. Ma anche perché ne ha diretto una sperimentazione di successo e su ampia scala. Il professor Josè Ornelas, docente di psicologia di comunità all’Università di Lisbona, è stato protagonista, a maggio a Verona, al centro di accoglienza “Il Samaritano”, della prima tappa di un percorso di formazione organizzato, nel Triveneto, da Caritas e Fio.psd. Il suo intervento ha avuto un titolo che più eloquente non si può: “In principio era la casa”. Ornelas, ideatore del programma “Casa Primeiro”, ha raccontato l’Housing first alla lusitana, delineando i principi del suo metodo. E ha parlato di una vera e propria “rivoluzione copernicana” della lotta all’homelessness, ricordando che il metodo prevede l’accesso immediato all’alloggio della persona senza dimora, anche con problemi di dipendenze e disturbi psichiatrici, senza condizioni o impegno di seguire un trattamento o disintossicazione. «L’alloggio deve essere luogo di libertà, con uso permanente, senza limiti di tempo – ha esordito Ornelas –. Alla persona deve essere dato il tempo di abituarsi alla nuova condizione, perché a poco a poco la senta come propria. La persona per accedere alla casa non deve aderire ad un “progetto”. Non le si chiede di sottoporsi a disintossicazione o trattamento psichiatrico. La casa e la riabilitazione sono elementi separati, e normalmente è la persona che poi chiede o accetta la proposta riabilitativa, ma sapendo che non è un vincolo per restare nell’appartamento. Unico contratto è quello dell’affitto; unica promessa, riguarda il fatto che la persona accetterà di incontrare gli operatori a casa almeno sei volte in un mese e di pagare la sua parte di affitto se ha un’entrata. Tutto ciò risponde al principio dell’“andare verso”: non bisogna aspettare le persone in un ufficio dando loro un appuntamento, ma occorre inserirsi nella loro vita quotidiana, che ruota intorno alla loro casa. Non è la classica “presa in carico”, ma un accompagnamento». Il metodo di Casa Primeiro ruota intorno alla relazione, al contatto con gli operatori, pilastro dell’intero percorso. È attraverso la relazione, infatti, che la persona può ritrovare un proprio equilibrio, e fare le sue scelte, quali che siano. Scelte che vengono comunque rispettate. «L’utente è coinvolto fin dal principio – ha continuato Ornelas –, partendo dalla scelta stessa della casa. Le case del progetto, sia di privati che di enti pubblici, si trovano non “concentrate”, per evitare “ghetti”, ma sono sparse in tutta la città. Ciò richiede un gran lavoro di partnership tra l’équipe e i proprietari». Il partecipante contribuisce alle spese d’affitto con il 30% del reddito mensile. Il programma aggiunge il resto, oltre a stipendiare gli operatori, attivi in un rapporto di uno a dieci con gli utenti. Il progetto risulta anche poco costoso rispetto alle strutture di accoglienza classiche o all’inserimento nell’ospedale psichiatrico, sebbene gli operatori siano reperibili sette giorni su sette, 24 ore su 24. Il loro compito è sostenere gli utenti nel processo di recupero (per i malati psichiatrici), nel mantenere la casa, nella gestione delle incombenze quotidiane e nell’integrazione nella comunità. I servizi di riferimento, infatti, non sono creati ad hoc: si utilizzano quelli presenti nella comunità. I partecipanti al programma possono beneficiare infatti anche di altri servizi e programmi, come quelli che aiutano nella ricerca del lavoro. Ma le risorse della comunità, dai servizi di welfare a quelli ricreativi e sociali (biblioteca, impianti sportivi, caffè, ristoranti, concerti, cinema ecc…), sono valorizzati. Casa Primeiro, quindi, non mette solo la persona al centro, ma «la persona al centro della comunità», ha sentenziato Ornelas. In Portogallo, l’Housing first funziona per l’83% delle persone inserite in appartamento come atto d’inizio del percorso di reinserimento: sono ancora nelle case dopo due anni. La casa ha un impatto rigeneratore sulla qualità della vita. Non è tutto, ma non è poco. Giovanna Billeci luglio - agosto 2013 scarp de’ tenis

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La casa è tutto. Da subito

Il progetto

Patto e 25 appartamenti, in Ligura ora si cambia A Genova non ci sono persone che dalla strada accedono direttamente a una casa. Esistono i percorsi più tradizionali, che supportano le persone senza dimora attraverso un accompagnamento, normalmente attuato con l’inserimento in strutture residenziali collettive, a vari livelli. Però non è detto che debba continuare così in eterno. Nel capoluogo ligure e nell’intera regione è in atto un processo di ricezione e attuazione delle linee europee sull’housing da parte del comitato di coordinamento territoriale della Fio.psd (Federazione italiana organismi per le persone senza dimora), che ha presentato alla regione Liguria un progetto di Housing first, favorevolmente accolto. Il progetto è rivolto a persone senza dimora, italiane o straniere, regolarmente soggiornanti e con una residenza, anche fittizia, in uno dei comuni coinvolti (Genova, Savona, Sanremo e La Spezia). Attraverso fondi Fesr (Fondo europeo di sviluppo regionale) verrà finanziata la ristrutturazione di 25 appartamenti, da reperirsi tramite enti pubblici o privati e da destinare a persone in difficoltà già in carico ai servizi territoriali. A ciò si aggiungerà un accompagnamento educativo, elemento che le organizzazioni proponenti ritengono indispensabile: le persone verranno sostenute nel quotidiano, nella gestione ordinaria della casa, con l’obiettivo di costruire o rafforzare l’appartenenza a un territorio. E garantire una più elevata qualità della vita. L’obiettivo generale del progetto è portare a una diminuzione del numero di persone che vivono in strada, sperimentando percorsi nuovi e differenti rispetto agli attuali. Il modello finora seguito è il servizio che inserisce la persona in una struttura di accoglienza notturna e, attraverso un percorso di sostegno globale, la accompagna gradualmente a un abitare in autonomia. Nel nuovo paradigma, invece, vige un ribaltamento di prospettiva e di modalità operative: la casa da subito e un forte intervento educativo nel quotidiano, sulla gestione della casa e di tutti gli elementi connessi. Gli alloggi saranno, preferibilmente, piccoli appartamenti adatti a singoli. E saranno collocati, ove possibile, in zone diverse, per offrire un’adeguata eterogeneità e per scoraggiare eventuali situazioni di stigmatizzazione sociale. Ogni inserimento in alloggio dovrà essere preceduto dalla sottoscrizione di un patto socio-educativo tra la persona e il servizio inviante: si tratta di un percorso progettuale, non di un mero inserimento in un appartamento. Perciò verranno, sin da subito, chiariti gli obiettivi. Ogni persona sarà poi seguita e monitorata da un operatore di riferimento, che la sosterrà nel percorso all’interno della casa. Stefano Neri

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Le Caritas della Sicilia progettano È passato qualche mese da quel pomeriggio in cui andammo a tirar fuori Karina (nome di fantasia) da quella casa fatiscente. Dovevamo aiutarla a portar via le sue cose dopo che il padrone di casa l’aveva buttata in mezzo alla strada, poiché aveva ritardato di qualche mese il pagamento dell’affitto, rigorosamente in nero. Abbiamo camminato per gli stretti e abbandonati vicoli del centro storico di Agrigento, arrivando in un cortile dimenticato dal mondo: oltrepassata la soglia del portone attraverso una ripida scala, ci siamo immessi in una delle due stanze di un piccolo appartamento fatiscente. Muri umidi, intonaco cadente, infissi quasi inesistenti, arredamento di fortuna. È stato in quel momento che ho compreso cosa veramente indica il termine “senza dimora”. Presi i bagagli e i pochi oggetti, accompagnammo Karina dalle suore, al sicuro.

La storia di Karina serve a sfatare il mito del senza dimora come “uomo di strada”. L’homelessness rappresenta in ogni caso un degradante esempio di povertà ed esclusione sociale e si verifica anche in una società benestante. Una delle più diffuse risposte a questo genere di problemi, negli ultimi decenni, è stata l’accoglienza, articolata in diverse forme e strutture: foresterie, ostelli, case di accoglienza e sinonimi vari. Ma l’accoglienza collettiva di grandi numeri, se da un lato ha rappresentato e rappresenta una risposta umanitaria ineludibile, dall’altro presenta tutti i limiti della grande istituzione


l’inchiesta misura manca (anche se non mancano le proposte: si veda, da pagina 64 di questo numero di Scarp, quella del Reddito di inclusione sociale, che Caritas e Acli stanno avanzando proprio in queste settimane, ndr). Grazie ai sussidi pubblici, negli altri stati membri dell’Unione le persone senza dimora dispongono di denaro. Da noi no. Difficile pretendere che gli homeless italiani possano contribuire all’affitto dell’appartamento assegnato loro, uno dei principi cardine dell’approccio responsabilizzante dell’Housing first. E come reclamare che l’Europa finanzi in Italia progetti per i senza dimora che non potranno mai rispettare i requisiti richiesti? «È vero, siamo orfani di un reddito minimo – riconosce Galliani –. Ma abbiamo una società civile ricca e articolata, che potrebbe facilmente trovare sistemi virtuosi per permettere anche a un grave emarginato di recuperare risorse da investire nella propria autonomia abitativa. Il punto, piuttosto, è far comprendere all’Unione europea proprio questa ricchezza, che è la specificità italiana. Ma questa è una sfida che deve affrontare tutto il paese: il mondo del sociale, insieme a alla politica».

Da Trento ad Agrigento In attesa di una strategia nazionale, nel territorio qualcosa già si muove. A Trento, per esempio, la Caritas diocesana sta riconvertendo una ventina di appartamenti sociali. Gli ospiti contribuiscono all’affitto, grazie al reddito di garanzia, un contributo simile ai sussidi che esistono nel resto d’Europa e che la provincia autonoma di Trento ha introdotto, unica in Italia. «Ma rispetto alla filosofia molto centrata sull’individuo, noi preferiamo uno stile più comunitario, per cui ad esempio gli ospiti spesso coabitano», precisa Cristian Gatti, direttore della Fondazione Comunità Solidale, legata alla Caritas trentina. Ad Agrigento, invece, in mancanza di sussidi pubblici, gli ospiti degli appartamenti che la diocesi sta ricavando dentro un’ex struttura scolastica, contribuiranno offrendo ore di volontariato. «Stiamo cercando di adattare i principi dell’Housing first al nostro contesto», osserva Giuseppe La Rocca, progettista della Caritas diocesana». Chissà se lo saprà riconoscere anche l’Unione europea, quando dovrà concedere i finanziamenti.».

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insieme: «Abitazione individuale? Sì. E relazioni comunitarie» spersonalizzante e dunque non consente, se non raramente, di avviare con le persone accolte percorsi individuali di accompagnamento, di reinserimento sociale e di promozione umana, volti a costruire un’effettiva autonomia. In ambito europeo, il sistema dell’intervento a favore dei senza dimora si sta evolvendo, ed enfatizza l’obiettivo della fuoriuscita dalla condizione di marginalità sociale: ciò avviene recuperando fiducia in se stesso (empowerment individuale) e nella società (ricostruzione della rete sociale di riferimento); recuperando una condizione di equilibrio psico-fisico; programmando e seguendo un training sanitario idoneo; orientandosi al reinserimento del mondo del lavoro. Ma soprattutto programmando interventi di inserimento in un alloggio individuale: il cosiddetto housing. La necessità di rivedere il sistema dell’accoglienza raggiunge territori ed esperienze sempre più vasti e differenziati. In Sicilia, la rete delle 18 Caritas diocesane prova ad affrontare le nuove sfide, nella ricerca di un equilibrio fra accoglienza di primo livello (emergenziale) e modalità innovative di intervento. Quella dell’Housing first, in particolare, è la sfida che la Delegazione regionale Caritas della Sicilia ha voluto raccogliere per il biennio 2013-2014. Frutto di una verifica preliminare sui servizi di accoglienza sinora e attualmente gestiti, l’iniziativa è il primo esperimento di progettazione unitaria regionale: prevede una collaborazione nelle fasi di studio, progettazione e realizzazione di interventi innovativi, resi possibili da fondi europei, veicolati dalla regione Sicilia.

Il progetto di Housing first siciliano trova un elemento di innovatività, rispetto ai modelli già avviati, nel coinvolgimento delle comunità parrocchiali sul cui territorio insistono le unità abitative nelle quali si progettano di inserire le persone senza dimora. Nel rispetto della funzione pedagogica loro propria, l’idea proposta e sostenuta dalle Caritas siciliane tende all’attivazione delle parrocchie, tramite il coinvolgimento di volontari nelle attività di sostegno e integrazione degli utenti del progetto e la partecipazione di questi ultimi ad attività ricreative e formative parrocchiali.

Il progetto parte da una riflessione condotta per più di un anno dalla delegazione regionale e coinvolge le Caritas e i loro bracci operativi (associazioni, cooperative, fondazioni), insieme alla Fio.psd (Federazione italiana organismi persone senza dimora). Le Caritas diocesane siciliane stanno programmando molte attività; una tra quelle in fase più avanzata vede protagonista la Fondazione Mondoaltro onlus (braccio operativo della Caritas di Agrigento), che ha avviato la ristrutturazione di sette miniappartamenti da destinare a un percorso di housing first in un edificio del centro storico agrigentino, per superare la logica dell’accoglienza in dormitorio. Piccoli numeri, un traguardo chiaro: è ora di voltare pagina, puntando su un’autonomia dei destinatari dell’ intervento, non sganciata dalle relazioni comunitarie. Giuseppe La Rocca

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L’artigiano della fotografia Gianni Berengo Gardin, un maestro (e la sua Milano) in mostra. «Mi sono dedicato a reportage sociali, ma con il sociale si vive male... E oggi si scatta senza pensare»

di Daniela Palumbo

La fotografia «per me è testimonianza e io mi sento un testimone perché con le immagini ho voluto contribuire allo svelamento del mondo, con la speranza di farlo capire

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Dopo il grande successo di Venezia, anche Milano, sua città d’adozione, che lo scorso anno gli ha conferito l'Ambrogino d'oro, dedica una mostra a Gianni Berengo Gardin: uno dei giganti della fotografia internazionale e membro dell’agenzia fotografica Contrasto, ligure, classe 1930. Ma a Venezia le foto esposte erano 120, mentre a Palazzo Reale (dove resterà fino all’8 settembre) sono diventate 180, perché la mostra si è arricchita della sezione su Milano, con immagini inedite. La città lombarda rappresentata nella mostra ha soprattutto i volti degli anni Settanta: gli operai, gli inquilini delle case di ringhiera, i manifestanti in piazza Duomo. Abbiamo chiesto a Berengo – che con affetto ci ha narrato se stesso e la sua arte – cosa fotograferebbe oggi per rappresentare Milano. «Più o meno le stesse cose – risponde pensieroso –, ma allora lo sguardo era positivo. Oggi i protagonisti vantaggi, uno è l'immediatezza: la foto sarebbero i giovani e la disoccupazione, si può averla subito e la si può mandare i negozi semivuoti. Anche le case di rinimmediatamente in tutto il mondo. Ma ghiera esistono ancora, ma non sono a me non interessa. L'altro vantaggio è più abitate dalle persone di prima; oggi che mentre con l'analogico devi scegliesono diventati contesti di moda, prima re preventivamente la sensibilità della creavano comunità, socialità. Poi fotopellicola da utilizzare, con una macchigraferei la movida, questo terrificante na digitale la sensibilità la si può variare stare insieme dei ragazzi, nei locali “giuin ogni momento. Però tutti gli altri sosti”, uno stordirsi senza sosta. Noi ascolno svantaggi, anche perché la pellicola tavamo musica, leggevamo un libro, vedella macchina analogica è ancora sudevamo un film, ma oggi la cultura non periore di molto al digitale. va di moda». Oggi la tecnica del ritocco sembra aver preso il sopravvento nella foLei a un certo punto poteva fermarsi a vivere a Parigi o a Venezia. tografia: una foto può diventare Ma scelse Milano. Perché? qualunque cosa vogliamo. Ma la tecnica era indispensabile alla foÈ stata una scelta innanzitutto affettiva. Avevo vissuto a Parigi per due anni e tografia anche nell’analogico? avrei potuto fermarmi lì. Scelsi Milano Bisognava conoscerla, la tecnica, sennò perché c'erano gli amici più cari. Ma annon veniva niente. Ma era il fotografo che perché allora, negli anni Ottanta, era che guidava la macchina. Adesso la diuna città vitale, piena di attività culturagitale ragiona con la sua testa. Quindi, li, era la città italiana dove si fermavano se hai in mano una macchina che fa gli intellettuali e gli artisti, o gli artigiani quello che vuole, la fotografia riesce come me, perché era il luogo dove avvesempre. E questo è un gran male perché nivano le cose. L'unica pecca terrificancambia completamente la mentalità del te era lo smog, molto più di adesso. fotografo. A Milano c'è una pubblicità di una grande azienda che produce macchine digitali che dice: “Non pensare, Berengo Gardin artigiano dell’oscatta”. Io ai miei ragazzi dico sempre: biettivo: è passato al digitale? prima pensa, poi casomai scatta. E non Assolutamente no. Il digitale ha solo due


testimoni è detto che si debba scattare sempre. E poi questa facilità diventa una concorrenza sleale verso i fotografi professionisti, perché tutti possono scattare foto e i giornali le comprano anche se sono brutte, basta pagarle meno. Uno compra la macchina il sabato e la domenica si sente fotografo. Invece questo è un mestiere dove ci vuole studio, è come fare l’architetto, il geometra, il medico, invece oggi nella fotografia ci si può improvvisare. La fotografia è mestiere o arte? Io mi sento un artigiano della fotografia. Raramente un mio scatto mi ha soddisfatto davvero. Ho più di un milione di fotografie nel mio archivio, tante sono orrende, altre accettabili. Per me la fotografia è testimonianza e io mi sento un testimone perché con le immagini ho voluto contribuire allo svelamento del mondo, con la speranza di comprenderlo e di farlo comprendere, dal mio punto di vista, certo. Ho realizzato soprattutto lavori sociali, ma con il sociale si vive male. Per questo ho realizzato il commerciale ma mai moda o still life, non mi interessa. Mentre oggi i giovani vogliono fare solo foto artistiche e le gallerie spingono su questo tasto. Ma lo capisco, perché i giornali pagano un reportage cento euro, invece una foto artistica in una galleria viene pagata anche 20 mila euro. In La disperata allegria lei ha esplorato l'universo controverso degli zingari. Cosa gli è rimasto di quel mondo? Ero pieno di preconcetti sugli zingari, indubbiamente tanti rubano ma sono una minoranza, ne sono convinto. E poi anche fra di noi ci sono ladri, di ben altro stampo. I più lavorano, io sono stato a Firenze un mese e mezzo, ho vissuto con loro diverse settimane a Palermo, a Messina, Bolzano, Trento. A Reggio Emilia è successa una cosa straordinaria, nessuna donna voleva farsi fotografare. Non capivo. Il mistero mi è stato svelato da una di loro. Noi siamo 35 – mi ha detto – e andiamo tutte a servizio nelle case degli italiani. Però non sanno che siamo zingare, se lo sapessero la mattina dopo ci licenzierebbero. La stessa cosa succedeva con gli zingari di Firenze che facevano lavori di giardinaggio con il comune. Fra gli zingari ho scoperto degli

artisti meravigliosi, nella musica soprattutto hanno una grande tradizione. Berengo Gardin con la fotografia si è posto dei confini etici? Qualche volta si è tirato indietro nella pubblicazione di una fotografia? Io dico sempre che fotograferei in qualsiasi situazione, naturalmente per quanto riguarda luoghi e spazi pubblici. Da noi in Italia si può. Certo, poi si parla con la persona, si spiega lo scopo e di solito le persone comprendono il valore della testimonianza. Però qualche volta mi è accaduto di tirarmi indietro,

Incontro con il maestro Una “Milano di ringhiera” firmata Gianni Berengo Gardin: il celebre fotografo sarà il 22 agosto alle 17 a Palazzo Reale di Milano per incontrare il suo pubblico

al momento di valutare una foto per la pubblicazione. Ci sono situazioni dove non mi sembrava giusto esporre una persona allo sguardo pubblico. Un confine etico bisogna porselo sempre. La fotografia non fa eccezione.

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milano Da quartiere di periferia, con tanti problemi sociali, a laboratorio di trasformazioni urbane. Viaggio in un “entroterra resiliente”

Cervelli in fuga. Al Giambellino Como Mensa sotto pressione: sempre più utenti, reggerà? Torino “Fa bene” al mercato, fa bene pure al quartiere Genova Tagli in vista: gli homeless sono “comprimibili”? Vicenza Peripezie di un ludopate: il freddo, Birillo e Bandito Modena Il bilancio di Porta Aperta: solidarietà in tempi di crisi Rimini Shopping continuo? Riprendiamoci la domenica Firenze Il coraggio di Michi, Jens e di altri Pep... Napoli Com’è avere 15 anni? Quant’è bella leggerezza...

di Daniela Palumbo Gli amici al bar lo chiamavano il Drago nella ballata di Gaber, il Cerutti Gino, quello che ha segnato l’immaginario dell’appartenenza al quartiere Giambellino. Quel Cerutti Gino, oggi, non abita più qui. Non c’è più traccia nemmeno della ligèra, la piccola malavita milanese, che proliferava nel quartiere e stava stretta al bel René, il Vallanzasca che proprio al Giambellino muoveva i primi passi di una carriera fatta di violenza e fughe rocambolesche. Il Giambellino ha visto nascere storie e persone che restano nell'immaginario collettivo meneghino, e ancora oggi “essere del Giambellino”, a Milano, è segno di identità e appartenenza a un quartiere che è, nonostante tutto, un luogo dove le persone entrano in relazione e tessono insieme storie di vita, in una città – quella sì – diventata come un Drago che ingoia i luoghi e li rende non-luoghi. rebbe un supermercato e la gente farebEssere comunità oggi a Milano non be la spesa a testa bassa, senza scamè agevole. Il Giambellino – pur ormai biare una parola e facendo finta di non privo di anticorpi sociali, come tutte le conoscersi. «Nel mercato rionale – racperiferie dove i servizi sono un miraggio conta Vito, salito a 14 anni dalla Sicilia e il deserto avanza – è uno degli ultimi per abitare il Giambellino, mai spostaavamposti dove è possibile scorgere setosi dalla sua macelleria che sta dentro il gni di prossimità fra le persone. Deboli e mercato di quartiere – ci conosciamo in ordine sparso, ma ci sono. tutti e le persone possono fare la spesa Fin dagli anni Settanta, il quartiere è senza pagare, aspettiamo che arrivino stato il territorio con il più alto tasso di gli stipendi e le pensioni...». E si chiacassociazionismo a Milano. Anche oggi, chiera, magari commentando l’abbannelle case popolari, dove pure i conflitti dono in cui versa il quartiere. non mancano, c’è un comitato di autoEppure, il drago delle metropoli che gestione degli inquilini Aler. Il comitato ingoia i luoghi di comunità, sta facendo resiste – fra le altre cose – contro la chiusparire oratori, scuole, negozi, parchi, sura del mercato rionale. Perché arrivetutti i territori dove si impara la prossi-

Salerno Il sogno di un uomo: Giffoni, cinema giovane Catania Malattie neurodegenerative: la speranza sofferta

Entroterra Giambellino Un’immagine del docufilm girato nel quartiere

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scarpmilano mità, anche se si è differenti. A proposito di diversità, il 33% degli abitanti del Giambellino è straniero, non è biondo come il Gino, proviene da Egitto e Marocco: sono arrivati qui alla fine degli anni Novanta. A quel tempo il Giambellino era appena uscito dal lungo buio dei giorni, mesi e anni in cui la droga aveva fatto più danni di una guerra. Basti pensare che una mattina d’inverno i ragazzi di piazza Tirana si sottoposero al test dell’Aids e oltre l’80% di loro risultarono sieropositivi. Neppure allora il Giambellino si arrese.

Una Comunità che non molla Arrivò un prete di frontiera abituato a rompere gli schemi, si chiamava don Renato Rebuzzini. Prima abitava a Baggio e si prendeva in casa i ragazzi che si drogavano. «Bisogna trasmettergli il gusto di viverla la vita», diceva il don. E spesso ci riusciva. Don Renato arrivò al Giambellino e cambiò le carte in tavola. Era esplosivo e da quell’incendio benefico nacque la cooperativa Comunità del Giambellino, il nome Comunità non fu un caso: «Era il modo di don Rebuzzini di intendere il legame con il quartiere – spiega Dario Anzani, uno dei responsabili della Comunità, che ancora oggi è il punto di riferimento dei minori del quartiere, in via Bellini al 6 –; per lui la comunità era il luogo dove le persone hanno una relazione e su questa si possono imbastire rapporti di vicinanza, affrontando i conflitti dal di dentro. Noi abbiamo conservato e ci teniamo stretta quella impostazione. Infatti non andiamo a lavorare in altri quartieri perché non conosciamo il tessuto sociale, le persone, i problemi, e sarebbe un innesto artificiale». Oggi la Comunità del Giambellino

Il testimone

«Il deserto delle istituzioni avanza, ma non siamo diventati un ghetto» Dario Anzani è uno dei responsabili della Comunità del Giambellino, cooperativa nata negli anni Settanta sull’onda dell’impegno sociale in quegli anni clamoroso, al Giambellino. Pochi conoscono e amano il quartiere come Dario, che si spende quotidianamente nei servizi ai minori con disagio. Lui ha avuto una parte di rilievo nel progetto Entroterra, anche sollecitando le anime del territorio a spendersi nel racconto del proprio abitare il Giambellino. Il quartiere nasce negli anni Venti con l’insediamento di diverse fabbriche, la Osram e la Loro Pasini su tutte, nei dintorni di piazza Napoli. Poi la Tallero e la raffineria Carmagnani, e la Ferrotubi. È allora che cominciano ad apparire le prime case degli operai. Nel 1939 il regime fascista decide di costruire le case popolari per metterci gli emigrati italiani richiamati in Italia. Poi nel dopoguerra arrivano altre case popolari e la ligèra, la piccola malavita che campava all’ombra delle bische clandestine, ma che aveva delle regole. Regole strette per Vallanzasca, che qui al Giambellino muove i primi passi e forma la Banda della Comasina. Eppure il Giambellino, nella prima metà degli anni Settanta, pur nell’eterogeneità degli abitanti, vive un clima di tolleranza e buona convivenza. Diventando una delle zone a più alta concentrazione di iniziative e partecipazione sociale dell’intera Milano. «C’erano due anime che operavano, quella cattolica e quella comunista. Si guardavano in cagnesco ma partecipavano insieme alla vita del quartiere – spiega Dario Anzani –. Poi le posizioni più radicali portarono alla nascita del primo nucleo storico delle Brigate Rosse». Sul finire degli anni Settanta arriva la speculazione edilizia e le prime fabbrichette con i padroncini. Al Giambellino arriva anche la metropolitana. Con l’avanzata del terziario, negli anni Ottanta, le grandi fabbriche cominciarono a smobilitare e la geografia del territorio cambia ancora una volta. «L’identità operaia andò in crisi. Circoli, associazioni, bar, oratori e tradizionali luoghi di ritrovo scomparvero con l’avanzare effimero della “Milano da bere” – racconta Dario –. Arrivò l’eroina e distrusse quasi un’intera generazione del Giambellino. Nei vent’anni che seguirono proseguì lo smantellamento di presidi sociali, a cominciare dalle scuole, e sorsero le case con piscine annesse, vicino alle case popolari. Un connubio anomalo. Anche perché i ragazzini della classe medio-alta non frequentavano il quartiere, le scuole, gli oratori, i parchi. Venivano mandati fuori. E nel quartiere restavano quelli che la società ricacciava indietro. A rischio di ghettizzazione». Sul finire degli anni Novanta i nuovi abitanti sono gli immigrati dal sud del mondo: arrivano in massa e la conflittualità sale. «Eppure il Giambellino, da solo, sembra aver trovato gli anticorpi: non è diventato un quartiere ghetto, come Gratosoglio e Quarto Oggiaro». Anche grazie ad associazioni e cooperative sociali, che non hanno mai smesso di promuovere attività di integrazione e cultura. La resilienza sale. Ma dall’altra parte, dalla parte delle istituzioni? «Il deserto avanza». sta lavorando con ai nuovi abitanti del territorio. Giovani, trentenni, estromessi dall’università dopo la riforma Gelmini. Ricercatori universitari, colti, preparati, iperspecializzati. Ma senza lavoro. I più, si sa, vanno fuori a cercarlo, via da questa Italia deserta. Loro invece no: sono cervelli in fuga al Giambellino. Sono gli stessi che hanno raccontato il contenuto di questo articolo attraverso la realizzazione di un docufilm di un’ora – dal titolo Entroterra Giambellino –: nel vi-

deo ci sono il mercato che resiste, la coesione degli inquilini Aler, i ragazzi stranieri di seconda generazione. I creativi che si isolano in zona Savona. E hanno raccontato tutto questo senza lamentazioni. Dynamoscopio – è il nome dell’associazione che raccoglie queste nuove forze vitali del quartiere – è voluta partire da un proprio punto di vista, propositivo e non distruttivo. Questi giovani non vogliono essere etichettati come luglio - agosto 2013 scarp de’ tenis

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Dencity: sfida culturale, che ambisce a cambiare i linguaggi della città Erika, Jacopo e gli altri del collettivo Dynamoscopio adesso stanno lavorando a un altro progetto. Hanno vinto di nuovo un bando Cariplo e devono gestire, insieme ad altri soggetti del quartiere, come la cooperativa Comunità del Giambellino, un milione di euro in tre anni: il progetto si chiama “Dencity – Proposta per un sistema culturale urbano in Zona 6”. Dencity intende promuovere un sistema culturale integrato di zona, reinterpretando e restituendo in chiave artistica e creativa le sue risorse territoriali, con l’intento di formulare un’offerta culturale innovativa per Milano. Sulla scia di numerosi esempi europei e globali, il progetto Dencity promuove una visione territoriale integrata: patrimoni, linguaggi creativi, paesaggio e sviluppo locale interagiscono e generano prodotti culturali radicati e capaci di raggiungere il palcoscenico dell’offerta pubblica, cittadina ed extra-locale. Per tre anni ancora, insomma, Erika, Jacopo e gli altri scamperanno alla prospettiva di lavorare nei supermercati, o di fare la baby sitter o l’animatore. Tutti lavoro dignitosi. Ma i giovani del Giambellino hanno investito tempo, risorse, sogni, denaro, in prospettive diverse. Tre anni, e poi? «E poi vedremo. Aspettiamo, intanto viviamo. È dura – dice Jacopo –. Capisco chi se ne va. Ma noi vogliamo restare e cambiare qui le cose. Abbiamo investito tanto nella cultura, nell’università, nella ricerca, ne siamo fuori ma non perché non sappiamo fare le cose. Soprattutto, non ci arrendiamo. In questi anni, fino al 2016, investiremo ancora nel Giambellino».

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scarpmilano “resistenti”, amano la resilienza. Ovvero la capacità dell’uomo di affrontare le avversità della vita e di uscirne rinforzato e trasformato. La resistenza non genera nuove energie, la resilienza al contrario è energia creativa, propositiva, che guarda al futuro.

Un luogo dove si sperimenta «Con Entroterra siamo partiti dal Giambellino come luogo non della marginalità, della ghettizzazione, del disagio: niente vittimismo. Questo è piuttosto un luogo dove si diventa in grado di sperimentare nuove pratiche dell’abitare un territorio – racconta con convinzione Erika Lazzarino, una delle promotrici dell’associazione culturale Dynamoscopio e poi creatrice, insieme a un collettivo di 15 persone, del progetto Entroterra –. Luoghi come il Giambellino stanno anticipando il cambiamento di dieci anni rispetto a quello che accadrà in centro, perché qui si condensano cose e persone, storie di vita, convivenze eterogenee, disegni e immaginari che producono nuove prospettive. C’è una condivisione degli spazi spesso forzata, ma che darà vita a nuove geografie dell’abitare, e presto sarà una realtà inarrestabile anche nel resto della città». Nel docufilm Entroterra Giambellino (e nel libro prodotto grazie allo stesso progetto, dal titolo Nella Tana del Drago, in riferimento alla ballata di Gaber) è visibile il loro punto di vista sul futuro del quartiere: l’abitare questo territorio deve essere frutto di uno sguardo certamente in ascolto della fascinazione storica e delle appartenenze, ma va sganciato da un’identità troppo vincolante, che fissa lo sguardo in un orizzonte chiuso, impedendo il cambiamento. Le forze creative, allo stesso tempo conflittuali ma sinergiche, agiscono nel territorio e trasmettono visioni che anticipano un nuovo abitare il Giambellino. Ecco allora, per esempio, che gli orti urbani sono il passato del Giambellino, ma sono anche il futuro delle nostre porzioni metropolitane. La voce narrante che, nel docu-film, racconta il territorio, evocativa e lieve, è quella di un’immigrata di seconda generazione, Mina Moris Beshay. Lei termina la narrazione dicendo: «Abitare un posto è affezionarsi alle persone, quando vado in giro mi sento bene quando conosco le persone, costruire la

La cooperativa Uno scorcio di via Bellini 6 sede multicolore della Comunità del Giambellino

casa significa scegliere il posto dove ti senti a casa tua, vivere un luogo diverso da quello di prima, è come abitare un mondo intero». Il Giambellino è il mondo intero perché è abitato dal mondo, filo conduttore del film perché il cambiamento qui è portato anche dalle persone che arrivano e da quello che riversano nell’arrivare in un nuovo contesto, nel rifare un nuovo progetto di vita.

Milano può produrre poesia «Abbiamo lavorato sull’immaginario dell’abitare – racconta Jacopo Larena Faccini, 25 anni, urbanista, che ha partecipato al progetto –; è stato come se il gruppo di persone andato in giro ad ascoltare le storie del quartiere abbia messo una lente per leggere il territorio e per partire da un punto di vista preciso. Abbiamo narrato l’eterogeneità del Giambellino: di quelli che ci sono capitati arrivando da un altrove lontano come gli immigrati e di chi, come me e Erika, lo abbiamo scelto come punto di partenza, per abitarlo. Chi lo vive da ge-

nerazioni nelle case popolari di Lorenteggio, chi lo ripopola nelle zone abitate dalla creative class (Tortona, Savona), che assumono nuovi aspetti urbanistici. È interessante anche la zona Barona – parco Teramo perché diversa dalle altre: scampata all’infrastrutturazione, è inglobata nel Parco Sud; ci sono tante cascine e altrettante persone che rappresentano soggetti capaci di rigenerare il territorio nella progettazione del verde e della sua fruizione culturale». Insomma, al Giambellino ci si vive per scelta o per bisogno, ma poi le storie si intersecano; accade in posti come questo che i cittadini mettano in pratica la resilienza perché, al di là del deserto delle istituzioni, la gente deve vivere e decidere e sperimentare sulla propria pelle nuove esistenze. I problemi ci sono, eppure il Giambellino non è un ghetto. Quelli di Dynamoscopio hanno «letto la poesia» in questo mix di luoghi e persone. «Milano – è la conclusione, e chissà cosa ne penserebbe il Cerutti – è ancora in grado di produrre poesia».

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Grazie al progetto Abit@giovani, la Fondazione Housing Sociale ha distribuito più di 200 alloggi a giovani coppie altrimenti fuori mercato

Mettiamo su casa, una quota alla volta di Simona Brambilla Comprare casa, affittare un appartamento, accendere un mutuo. Tutto ciò, oggi, per i giovani, sembra una meta irraggiungibile, anche per chi può contare su un lavoro sicuro e ben retribuito. Negli ultimi tempi, però, un numero sempre maggiore di progetti, promossi da vari organismi e istituzioni, puntano a consentire ai giovani di rendersi indipendenti, andando a vivere da soli. È il caso del progetto di housing sociale “Abit@giovani”, partito da una proposta avanzata da don Gino Rigoldi e sostenuto da regione Lombardia, Aler Milano, Fondazione Cariplo, Fondo immobiliare di Lombardia e fondazione Housing Sociale, con il supporto di volti noti come Nico Colonna, Lella Costa, Ricky Gianco, Ermanno Olmi, e tanti altri. Il Fondo Immobiliare di Lombardia è stato il primo fondo etico dedicato all’housing sociale, avviato nel 2006 su iniziativa della Fondazione alla ricerca di una casa in cui andare a Housing Sociale e della Fondazione Cavivere insieme. «Da quando ho iniziato riplo, le quali, sotto la spinta del crea lavorare come maestra, io e Lorenzo scente disagio abitativo, hanno ricercaabbiamo deciso di cercare casa, ma ci to nuove modalità per incrementare gli siamo sin da subito scontrati con gli alinvestimenti nel settore. ti prezzi del mercato e, dopo qualche mese di ricerca, abbiamo accantonato l’idea – spiega Luana –. I prezzi delle caGià consegnati 207 alloggi se nella nostra zona, Città Studi – Lam«Abit@giovani – spiega Monica Moschibrate, oscillano tra i 180 ei 250 mila euni, responsabile del progetto per conto ro per un bilocale di 60 metri quadrati: della Fondazione Housing Sociale – ha decisamente fuori dalla nostra portata». lo scopo di allargare le prospettive e riNonostante entrambi, dopo una collocare la casa nella più ampia dilaurea in scienze della formazione primensione collettiva della vita del conmaria lei e in sociologia dei processi ordominio, del quartiere e della città, perganizzativi lui, possano contare su un ché l’abitazione non è soltanto una quelavoro, i prezzi ordinari delle case sono stione edilizia: è un bene fondamentale inaccessibili al loro conto corrente. «Abed è, insieme al lavoro, una condizione biamo provato a guardare le proposte di partenza per poter fare progetti, codelle banche – continua Luana –, ma struire relazioni e alleanze, sviluppare il date le premesse (entrambi lavoriamo tessuto sociale». da poco e io ho un contratto annuale), Abit@giovani ha già messo a disposicuramente avremmo avuto bisogno di sizione 207 alloggi a giovani under 35. un garante, e di anticipare almeno il Gli insediamenti abitativi proposti sono 20% del valore dell’immobile». disseminati in tutta Milano. Il progetto Poi Lorenzo e Luana sono venuti a si propone di rendere disponibili nel fuconoscenza del progetto Abit@giovani. turo mille alloggi nel territorio milaneConcluso con successo l’iter burocratise, distribuiti per nuclei di prossimità. co, ora attendono, una volta conclusi i Luana e Lorenzo, giovane coppia (di lavori di ristrutturazione, di poter entra24 e 28 anni), insieme da sette, hanno re nella loro prima casa. Il progetto perpreso parte al progetto. Dal 2011 erano

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mette loro di comprarla passo dopo passo: inizialmente è richiesto di versare una quota d’anticipo per prenotare l’appartamento e successivamente, al momento della firma del contratto, è richiesto di versare il 10% del prezzo dell’immobile. Durante il periodo dell’affitto pagheranno un canone mensile e una quota che sarà scalata dal prezzo dell’appartamento. Dal quinto all’ottavo anno potranno completare l’acquisto della casa, pagando il corrispettivo rimanente del prezzo.

Favorire la socialità Abit@giovani, oltre a dare la possibilità a ragazzi come Luana e Lorenzo di avere una casa, cerca di mettere in contatto i ragazzi tra loro e con la cittadinanza. Finalmente un nido Luana e Lorenzo avranno un appartamento grazie ad Abit@giovani. La pagheranno poco alla volta in base alle loro possibilità


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I progetti

Mattoni e partecipazione: l’housing sociale si fa strada

«Da poco abbiamo iniziato un percorso laboratoriale insieme ad altri giovani – spiega Luana –. Stiamo pensando a come coinvolgere gli abitanti del quartiere in un progetto di socializzazione». E proprio per riuscire a comporre un gruppo di persone motivate e consapevoli delle potenzialità del vivere collaborativo e partecipato, Abit@giovani propone ai candidati di prendere parte a una sorta di laboratorio di idee, che si concretizza in un percorso rivolto a tutti coloro che hanno firmato la prenotazione di un alloggio ed è organizzato in diversi incontri formativi e di lavoro. «Il laboratorio sociale si articola in due fasi – conclude Monica Moschini –: la prima è volta alla comprensione degli obiettivi sociali del progetto e al completa-

Abit@giovani, Cenni di cambiamento, MaisonduMonde36, CasaCrema+, Abitiamo insieme Ascoli: questi sono alcuni dei progetti promossi in tutta Italia dalla Fondazione Housing Sociale e che hanno l’obiettivo di risolvere il grave problema dell’accesso a un alloggio, che riguarda gli adulti, ma soprattutto i giovani di tutte le nazionalità. «Nei nostri progetti sono coinvolti tutti coloro che non riescono a soddisfare sul mercato il proprio bisogno abitativo, per ragioni economiche o per l’assenza di un’offerta adeguata, e che quindi trovano nell’offerta di un alloggio a prezzo calmierato una valida soluzione. Si tratta di giovani under 35 per Abit@giovani, ma in CasaCrema + e Cenni di cambiamento sono state coinvolte persone di tutte le età, interessate a vivere in un ambiente basato sulla collaborazione e la partecipazione attiva», racconta Monica Moschini della Fondazione Housing Sociale. I progetti della Fondazione, che si prefigge l’obiettivo di risolvere il problema abitativo con attenzione alle situazioni di svantaggio economico e sociale, si rivolgono a categorie differenti di persone: giovani, lavoratori, famiglie italiane e straniere, anziani soli. Maisondumonde36, per esempio, è un progetto realizzato grazie al Fondo Immobiliare di Lombardia e si propone di recuperare e valorizzare un edificio collocato in via Padova 36, offrendo 50 appartamenti in locazione calmierata. «Questo progetto ha lo scopo di soddisfare la domanda abitativa delle giovani coppie e delle famiglie immigrate in difficoltà, che non riescono ad accedere agli alloggi del libero mercato – continua Moschini –. Ma intende anche rispondere alla crescente necessità di persone con esigenze abitative di natura temporanea a basso costo e offrire un’abitazione migliore a chi già abita nell’immobile da decenni e costituisce la memoria storica del luogo». Cenni di cambiamento è, invece, il più grande progetto residenziale realizzato in Europa che utilizza un sistema di strutture portanti in legno. «L’intervento, collocato a ovest di Milano, offre appartamenti a prezzi contenuti e una soluzione abitativa innovativa che si basa sulla cultura dell’abitare sostenibile e collaborativo – spiega ancora Monica Moschini –. I destinatari di questo intervento sono principalmente i giovani, intesi sia come nuovi nuclei familiari che come single in uscita dalla famiglia». I progetti della Fondazione non sono però rivolti solo ai cittadini milanesi. CasaCrema+ è un intervento di housing sociale promosso nella città della bassa lombarda ed è composto da 90 appartamenti in classe A+ e una scuola per l’infanzia. Abitiamo insieme Ascoli è invece un progetto residenziale promosso dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno. «L’intervento intende far rivivere il centro storico cittadino – conclude Monica Moschini –, offrire un appartamento a canone di locazione contenuto con la validità di 12 anni a giovani coppie, diffondere la cultura della convivenza, della solidarietà e dell’abitare sostenibile».

mento dell’iter di assegnazione dell’appartamento. La seconda fase di laboratorio verrà avviata successivamente alla consegna dell’appartamento, e consisterà in un programma di accompagnamento mirato alla costruzione di una comunità attiva e partecipe». «Il fine del progetto è creare una specie di grande condominio virtuale, este-

so all’isolato e al quartiere, in cui gli abitanti si mettono in rete scambiandosi favori, conoscenze, compagnia – conclude Luana –. La prospettiva è andare a ricreare quella dimensione sociale che sembra orami essersi persa in grandi città come Milano». Relazioni autentiche: perché l’abitare non è solo un fatto di quattro mura.

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Dodicesimo Rapporto sulle povertà in diocesi: bisogni materiali in crescita, mentre gli stranieri vogliono andarsene e gli italiani cedono allo sconforto...

In tanti cercano cibo, la speranza vacilla «La crisi economica rischia di trasformarsi in una crisi della speranza». Non è stato morbido, l’esordio del direttore di Caritas Ambrosiana, don Roberto Davanzo, in occasione della presentazione, avvenuta a fiune giugno, del Rapporto sulle povertà nella diocesi di Milano, elaborato dall’Osservatorio diocesano sulle povertà e le ricorse. L’erosione della speranza è l’aspetto più drammatico che emerge dal Rapporto 2013. Essa rischia di travolgere gli immigrati, che oggi cominciano a essere talmente sfiduciati che, se non decidono di andarsene altrove, rinunciano a ricongiungere da noi la famiglia. Ma la crisi ruba la speranza agli stessi italiani. Tra i quali cominciano a serpeggiare sempre più sentimenti di frustrazione e rassegnazione. «Al punto – ha asserito don Davanzo – che ai centri di ascolto si accontentano di nieri, ma ormai in misura uguale anchiedere un po’ di cibo e qualche spicche gli italiani. Nel 2012 i nostri connaciolo. Come se il loro orizzonte fosse orzionali che hanno chiesto cibo ai cenmai chiuso, schiacciato sulla semplice tri sono stati il 37%, dato pressoché sisopravvivenza. La crisi, infine, logora la mile a quello registra tra gli immigrati. stessa speranza di chi vorrebbe dare riAnche l’analisi dei bisogni espressi dasposte adeguate ai bisogni materiali e si gli utenti dei centri di ascolto segnala accorge di non avere i mezzi sufficienti». la profondità della crisi e lo sconforto che si genera tra chi ne è colpito. Proprio tra gli italiani il bisogno di reddito La crisi sta rubando la speranza supera quello di occupazione ed è paIl quadro che emerge dal Rapporto, bari al 57,6%, con un incremento di 3 sato sui dati raccolti dagli operatori dei punti percentuali rispetto al 2011. Esso centri di ascolto e dei servizi di Caritas è particolarmente avvertito dalle donAmbrosiana nel 2012, è alquanto fosco. ne italiane, tra le quali raggiunge il La crisi non solo sta privando di op62,4%, con un incremento di 4,5 punportunità una fascia crescente della ti percentuali sul 2011. popolazione, ma ormai ruba anche la In questo quadro si pone la quesperanza di potere ritrovare un lavoro a stione degli immigrati. Gli stranieri (tra chi lo ha perso. Il dato più drammatico comunitari, extracomunitari irregolari che emerge dallo studio riguarda l’aue regolari) continuano a costituire olmento dell’11,5% dei disoccupati nel tre il 70% degli utenti dei centri di corso di un anno. E in molti cominciaascolto, anche se il dato fa registrare un no a predere la fiducia di poter ritrovacalo di 2 punti percentuali rispetto al re un nuovo posto di lavoro. Prevalgo2011. La contrazione del dato relativo no frustrazione e rassegnazione. alla componente straniera è in gran Questi sentimenti spiegano perché, parte riconducibile al sensibile calo ad esempio, continuino a crescere le rinella presenza di persone provenienti chieste ai centri di ascolto di aiuti imda Perù e Ucraina, tradizionalmente mediati. Dal 2008 al 2012 sono aumentra le prime cinque nazioni di provetati del 31,4% coloro che chiedono pacnienza degli assistiti della rete Caritas: co viveri e sostegno materiale. Questa i peruviani sono diminuiti del 18% ririchiesta non riguarda più solo gli stra-

spetto all’anno precedente, gli ucraini del 19,5%. Durante i colloqui con gli operatori Caritas molti stranieri provenienti da questi paesi hanno apertamente manifestato il desiderio di ritornare in patria. Il Rapporto non rileva dati circa i rientri di fatto avvenuti, ma sicuramente questo desiderio sta limitando l’avvio di procedure per i ricongiungimenti familiari e per chiamate di parenti e amici. Si tratta di un fenomeno connesso alla crisi economica, che ha condizionato le possibilità di inserimento lavorativo degli stranieri, e li ha disillusi sulla possibilità di superare i problemi economici nel nostro paese.

Dal basso una solidarietà diffusa «La perdita della speranza – ha spiegato ancora don Roberto Davanzo – è un lusso che non possiamo permetterci. Per questo Caritas Ambrosiana è impegnata con i suoi operatori e gli oltre tremila volontari nel paziente ascolto delle persone. Un lavoro fondamentale, perché è solo con la cura delle storie individuali che si possono ritessere i legami del tessuto sociale, requisito per battere la crisi. Per fortuna su questo fronte c’è una grande ricchezza, spesso sottovalutata. Nel vasto territorio ambrosiano si moltiplicano iniziative di solidarietà dal basso, forme di aiuto spontanee: gruppi di famiglie che si autotassano per sostenere chi ha perso il lavoro, fondi di solidarietà ispirati al modello del Fondo Famiglia Lavoro diocesano. Queste piccole esperienze diffuse sono segnali di una capacità di reazione della nostra gente. Aspettano di essere riconosciute e valorizzate dalle istituzioni. Da qui si può ripartire».

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Il convegno L’Italia investe poco. E l’austerity impone scelte, che riducono i servizi

I ragazzi, nostro futuro: «Non si tagli a chi non ha voce» di Ettore Sutti

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TAGLI ALLA SPESA PUBBLICA, CHE – NEL SETTORE – è già tra le più basse in Europa, non

possono pregiudicare servizi e interventi professionali necessari alla tutela dei minori. È questo il messaggio inviato alle istituzioni dalle Caritas della Lombardia, dalla sezione lombarda del Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza (Cnca-Lombardia), dal Forum regionale del terzo settore e da Uneba (Unione nazionale istituzioni e iniziative di assistenza sociale) al termine del convegno “Trame di tutela”, svoltosi a metà giugno. In Italia quasi un bambino su tre, sotto i 6 anni, è a rischio di povertà ed esclusione sociale, quasi un minore su quattro si trova in condizioni di deprivazione materiale. Come evidenzia il Gruppo italiano di monitoraggio sulla Crc (Convention on the Rights of the Child), l’Italia spende solo l’1,1% del proprio Pil per la protezione sociale dei minori, piazzandosi a un poco onorevole 18° posto tra i paesi europei, nelle politiche di contrasto alla povertà minorile. Ulteriori tagli ai fondi pubblici rischiano di compromettere in modo importante la tenuta dei servizi. A Milano gli effetti già si vedono. In maggio è stato comunicato un possibile taglio di 4,3 milioni di euro sui finanziamenti per le comunità residenziali per minori, i centri diurni e interventi educativi domiciliari. Nonostante l’annunciato ridimensionamento di tale taglio e lo spostamento dell’approvazione a settembre del bilancio comunale, l’offerta di alcuni servizi è stata modificata già a partire dal 1° luglio. Invece la tutela del minore, sostengono le associazioni, chiede la costruzione di una visione d’insieme, in cui bambini e ragazzi siano visti come soggetti del bene comune, valore vitale del presente che deve condizionare e orientare le politiche economiche, non dipendere da esse. Per scongiurare il pericolo che venga compromessa la tutela dei minori, occorre allora continuare a migliorare l’efficacia dei servizi. Due le strade indicate nel corso della giornata di studio: intervenire là dove si coglie una condizione di debolezza e fragilità, offrendo sostegno e assistenza alle famiglie – agendo in un’ottica preventiva è possibile evitare interventi più drastici ed economicamente più onerosi –; migliorare la collaborazione tra enti pubblici e terzo settore, tra servizi sociali e enti gestori dei servizi, per una sempre più condivisa progettualità, partendo da alcune buone passi già sperimentate. «Noi chiediamo – ha spiegato Matteo Zappa, responsabile dell’area minori di Caritas Ambrosiana – di essere lungimiranti. Tagliare servizi per i minori significa posticipare interventi e aumentare le spese. Quando le risorse diminuiscono è necessario fare economie: ma perchè tagliare ai soggetti che non hanno voce? I minori non hanno una reale rappresentanza nell’agenda politica, e così le fragili famiglie da cui molti provengono. Occorre avere il coraggio di investire: solo così potremo affrontare problemi che rischiano altrimenti di cronicizzarsi, rendendo necessari progetti emergenziali molto più costosi e molto meno efficaci».

Ridurre i fondi per i progetti sui minori significa spostare i problemi: la prevenzione costa meno dell’emergenza

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l’iniziativa Nell’appartamento di via Jommelli possibile passare del tempo insieme

Aus, porte sempre più aperte: spazio ai figli dei padri separati di Ettore Sutti

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EI DORMITORI PUBBLICI DI MILANO circa il 10% degli ospiti è costituito da uomini che

escono da crisi matrimoniali. Secondo alcune stime, nel milanese sarebbero oltre 50 mila i padri separati che incontrano grosse difficoltà a sostenere i costi di un alloggio. Nelle aree metropolitane il fenomeno è emerso ormai da qualche anno ed è in costante aumento. Ma non è tutto. Se per alcuni di loro trovare un alloggio non è un problema insormontabile, lo diventa nel caso debbano o vogliano ospitare per una o due notti i propri figli in un luogo accogliente e sicuro. «Per questo motivo – spiega Alessandro Pezzoni, responsabile dell’area grave emerginazione di Caritas Ambrosiana – Caritas ha deciso di ampliare il servizio Aus (Accoglienza per uomini separati), attivo dal dicembre 2010 nella zona Città studi. Nell’appartamento che abbiamo aperto in quel quartiere di Milano, ora gli ospiti potranno condividere gli spazi con i propri figli. L’ospitalità allargata, già possibile durante la giornata, sarà estesa anche, ma solo saltuariamente, alla notte, nel rispetto della privacy dei nuclei familiari». L’appartamento di 110 metri quadrati è composto da due stanze da letto, una cucina, un salotto, un bagno e un locale studio adibito a ufficio degli operatori. La casa può ospitare fino a un massimo di cinque persone e di due nuclei familiari. Gli spazi comuni della casa – l’ampia cucina e il salotto – sono stati concepiti in maniera tale da consentire agli ospiti, che spesso sono anche padri, di poter trascorrere del tempo con i propri figli in un luogo che sia davvero accogliente. «Il servizio è molto mirato – continua Pezzoni – perchè è destinato a chi, in seguito a un divorzio o una separazione, si trova in una fase di momentanea difficoltà abitativa, ma può contare su un lavoro o un reddito che consenta l’autosufficienza e la possibilità di contribuire alle spese per il mantenimento dell’alloggio. E chi entra in Aus non trova solo un alloggio. Riceve anche, se lo desidera, un supporto spirituale, educativo, sociale e psicologico, che può aiutarlo a recuperare stabilità e a superare il trauma che spesso la separazione produce». Nella casa sono presenti dalle 18 alle 22, a turno, tutta la settimana, due educatori, con il compito di sostenere gli ospiti nella ricerca di un alloggio definitivo, ma soprattutto nel recupero della propria stabilità psicologica e nel superamento del trauma che spesso la separazione produce. Se il caso lo richiede, gli educatori possono inviare gli ospiti anche al servizio di consulenza legale, garantito dall’associazione “Avvocati per niente”. Proprio perchè si tratta di un servizio molto mirato e destinato a persone in difficoltà momentanea, è previsto un contributo al canone di affitto di 200 euro al mese. Il progetto Aus è stato reso possibile grazie a un finanziamento di Ubi Banca, che ha consentito di coprire le spese di ristrutturazione e di arredo dell’appartamento.

Il progetto è dedicato a chi si è separato da poco: ora l’ospitalità allargata viene estesa anche alla notte

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storie di via brambilla Dormono nel carcere di Bollate, prestano servizio in Casa della Carità

Le canzoni di Stoyan e Luca, volontari da dietro le sbarre di Paolo Riva

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TOYAN E LUCA, OSPITI DELLA COMUNITÀ SO-STARE, che al secondo piano della Casa della

carità accoglie persone con problemi di salute mentale, cantano insieme. Intonano Celentano, soprattutto le canzoni storiche del Molleggiato. Hanno scoperto di avere questa passione comune chiacchierando durante la pausa di Stoyan che, finita la sigaretta, torna a seguire il servizio docce della fondazione. Luigi, invece, guida il pulmino e, insieme agli operatori, accompagna a casa due volte a settimana gli anziani che frequentano la struttura di via Brambilla. Giuseppe dà una mano in portineria mentre Luca e Marco sono due degli chef che, la sera, si mettono ai fornelli e cucinano per gli ospiti della Casa che tornano troppo tardi per cenare in mensa. Stoyan e Luigi, Giuseppe, Luca e Marco sono tutti volontari. Fanno parte del gruppo di circa un centinaio di persone che hanno deciso di regalare il loro tempo alla Casa della carità. A differenza degli altri, però, terminato il loro impegno, tornano in carcere. Sono, infatti, alcuni dei detenuti che, dentro il carcere di Bollate, hanno fondato l’associazione Articolo 21 che, in base all’omonimo articolo dell’ordinamento penitenziario, consente loro di uscire per lavorare e fare volontariato. In tutto, sono oltre 25 i detenuti inseriti nel progetto iniziato a febbraio. Sono seguiti dai loro educatori di riferimento, si alternano in turni nel corso della settimana e frequentano anche momenti di formazione con il personale della fondazione. «Da un lato – spiega il presidente don Virginio Colmegna – è un’iniziativa che ha migliorato la qualità della vita della Casa; dall’altro, credo sia un intervento molto significativo dal punto di vista culturale». L’esperienza è nata dalla volontà dei detenuti stessi. Sono loro che, nonostante avessero già ottenuto in molti casi un lavoro esterno e diversi benefici, hanno avuto la forza di proporsi. «Personalmente – aggiunge Silvia Landra, direttrice della Casa, che all’interno del carcere lavora come psichiatra – lo trovo un gesto molto bello, nonché la conferma che, quando l’ordinamento carcerario è ben applicato, sono possibili veri percorsi di cambiamento». «Io nella vita non ho mai combinato niente di buono – conferma Max –. Quando sono stato arrestato hanno fatto bene. Allora, l’unico modo per fermarmi era mettermi dietro le sbarre. Ora, invece, anche se sono sempre in carcere, ho un lavoro, faccio volontariato e sono anche membro del direttivo dell’associazione. Non mi sento più un peso, ma una risorsa, per la mia famiglia e per le istituzioni». «Questi ragazzi – ha raccontato con orgoglio il loro educatore Roberto Bezzi nel corso del convegno “Carcere e società” organizzato dalla Casa (www.casadellacarita.org/carcere-societa) – sono riusciti a superare la percezione della loro sofferenza e sono andati oltre, verso gli altri. Ci sono riusciti perché sono state garantite loro certe condizioni. Finché le condizioni delle carceri italiani resteranno quelle attuali, però, sarà difficile che altri riescano a fare un percorso simile».

«Io nella vita non ho mai combinato nulla di buono – dice Max –. Ora non mi sento più un peso, ma una risorsa»

www.casadellacarita.org

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L’ETICA HA MESSO RADICI FORTI NON MANDARE IN FUMO

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latitudine como In via Tatti le suore Vincenziane fronteggiano gli effetti della crisi

Mensa sempre più affollata: «Siamo preoccupati per il futuro» di Salvatore Couchoud

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ER MISURARE L’INCIDENZA DELLA CRISI NELLA VITA DI TUTTI I GIORNI, i cittadini comaschi di-

spongono di uno strumento infallibile: fare un giro all’interno della Città Murata e controllare l’incremento delle persone senza dimora e l’incessante andirivieni di uomini e donne in condizioni di estremo disagio che si svolge nei dintorni di via Primo Tatti. Al civico 7 sorge, infatti, l’antico palazzo che dal 1925 ospita la mensa dei poveri gestita dalle Suore Vincenziane, la quale in tempi recenti ha visto dilatarsi in modo parossistico il suo raggio d’azione. Ciò è accaduto da quando – era il 2007– la responsabilità della mensa, l’unica che a Como copre la fascia diurna, è stata affidata a suor Giglia Tassis (nella foto a lato), personaggio che incarna uno strano connubio di carità evangelica e disciplina prussiana. Sempre premurosa e disponibile verso tutte (o quasi) le richieste, ma non meno energica e tempestiva quando c’è da reprimere qualche turbolenza tra gli ospiti, come del resto fa anche la sua collaboratrice, suor Graziella Peretti. «Nel 2007 la mensa accoglieva non più di venti-trenta persone in un unico turno, dalle 11 a mezzogiorno – ricorda suor Giglia – . Poi siamo passati a due turni, a tre, e attualmente copriamo ben quattro turni giornalieri, per una presenza complessiva di utenti che supera le 120 unità. L’emergenza è in forte espansione e non accenna a calare neppure nei mesi estivi, tradizionalmente più “leggeri”. Siamo preoccupate per il futuro del servizio: disponiamo di locali dalle limitate dimensioni, non più adatti a fronteggiare un tale aumento del numero di soggetti in difficoltà. Di questo passo saremo costretti ad aggiungere ancora qualche turno ai quattro già operativi, che pure creano non pochi disagi ai volontari che lavorano nelle cucine». Volontari che, a quanto risulta dall’indice di gradimento degli ospiti, se la cavano egregiamente ai fornelli, se è vero che tutte le persone interrogate in materia hanno risposto che in via Tatti si mangia benissimo, «quasi come al ristorante». «Non è solo per la bravura delle cuoche che si alternano nei turni – osserva suor Giglia –, ma anche per la freschezza e la genuinità degli alimenti che utilizziamo, forniti da Banco Alimentare, Siticibo e dai numerosi negozianti privati che non smetteremo mai di ringraziare per la generosità. Ogni giorno consumiamo 10-12 chili di pasta, 10 di pane e altrettanti di frutta fresca, a cui si aggiungono un secondo e un contorno, un bicchiere di tè caldo e acqua naturale e gasata, oltre al dolce e al cioccolato nelle ricorrenze particolari. Se la quantità e la qualità sono eccellenti, il merito è di tutti coloro – e non sono pochi – che ci aiutano a svolgere il servizio. Ma se non si troverà uno sbocco alla crisi, sarà impossibile mantenere gli attuali livelli. Ogni mese doniamo un pacco viveri alle famiglie italiane in difficoltà. Finora ce la siamo cavata ma, dato che il numero delle richieste aumenta di giorno in giorno, sarà sempre più arduo far fronte a tutte le emergenze».

«Nel 2007 la mensa accoglieva non più di venti persone al giorno: oggi superiamo spesso le 120 presenze su quattro turni»

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Tetraedro


torino Innovativo progetto alla “Barriera di Milano”: tra le bancarelle del Foroni, le merci invendute diventano volano di relazioni

“Fa Bene” al mercato, fa bene al quartiere di Vito Sciacca Dal 20 maggio il cibo invenduto del mercato torinese di Piazza Cerignola, noto anche come mercato Foroni, non viene più gettato: raccolto e selezionato, è ridistribuito alle famiglie in difficoltà. Ad esso si aggiungono le merci che i clienti del mercato sono invitati ad acquistare per donarle a persone bisognose, individuate dai servizi sociali della VI circoscrizione e da Caritas Torino. L’iniziativa è stata ideata dall’associazione culturale torinese Plug e inserita tra gli eventi Smart City, con la cooperazione della Caritas diocesana, di cooperativa Liberitutti, Circoscrizione VI, le associazione Gpl uniti per il quartiere, La piazza Foroni, Muovi Equilibri e Urban Barriera (programma di sviluppo urbano per il miglioramento dell’area cittadina “Barriera di Milano”, in cui sorge il mercato). Insomma, siamo di fronte a una siattuali: non riguarda più solo l’invennergia tra organizzazioni laiche e reliduto, ma anche il donato e, coinvolgengiose e istituzioni cittadine, per far arrido altre realtà locali, prevede la reciprovare le eccedenze alimentari e le donacità. In particolare va rimarcato il ruolo zioni degli acquirenti del mercato di di Caritas, che finanzia le borse lavoro, e piazza Foroni sulla tavola degli abitanti della Circoscrizione. Muovi Equilibri ha del quartiere che si trovano in difficoltà, fornito la bici per le consegne e sta cutrasformando lo spreco in beneficio sorando la pianificazione dei percorsi, ciale. In cambio, alle famiglie destinatamentre Plug ha curato la comunicaziorie viene richiesto un contributo attivo ne dell’iniziativa. Senza la cooperazionelle attività di quartiere: la piazza e il ne di tutti questi soggetti, sociali e non, mercato diventano luogo di scambio, il progetto “Fa bene” non sarebbe stato generosità e collaborazione, ben al di là possibile». del mero concetto di elemosina. Il valore aggiunto del progetto, sotIl progetto, denominato “Fa Bene”, tolineano i promotori, è la restituzione: dà anche lavoro a due persone a cui è non si tratta di mera elemosina, ma c’è stata assegnata una borsa lavoro dalla l’impegno dei fruitori a restituire qualCaritas di Torino: si occupano della locosa, sotto forma d’aiuto su vari fronti: gistica relativa alla distribuzione degli sostegno ai vicini di casa, in particolare alimenti e di consegnare i pacchi viveri. agli anziani soli, collaborazione ad eventi pubblici nel quartiere, e altre atProgetto partito “per caso” tività di interesse pubblico. «Qualcuno «Tutto è cominciato quasi per caso – ci potrebbe pensare che questa filosofia racconta Deana Panzarino di Liberi tutdel do ut des sia finalizzata a dare dignità ti, associazione che opera sullo sviluppo all’atto di ricevere un aiuto, ma non è locale –. Nell’ambito di un corso di forquesto l’obiettivo. Una famiglia in diffimazione tenuto agli operatori del mercoltà non ha alcun bisogno di ritrovare cato venne invitato il responsabile di la propria dignità, dal momento che Plug per tenere lezioni sulla comunicanon l’ha mai perduta: il vero scopo è zione, e fu proprio in quest’occasione creare e rinsaldare i rapporti tra le perche nacque l’idea di raccogliere l’invensone nel e con il quartiere. Vi sono state duto. Successivamente il progetto si è famiglie che si sono sentite spiazzate evoluto fino ad avere le caratteristiche

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quando è stata posta loro questa condizione, segno evidente che questa mentalità, un tempo implicita nella vita in comune, è andata perduta e va ricostruita». Il progetto procederà sperimentalmente per tre mesi, ma si sta già pensando di prolungarlo per tutto il 2014: «L’ideale sarebbe che esso potesse in futuro reggersi con le proprie gambe, – speiga ancora Panzarino –, senza più bisogno del nostro supporto». Ma quale è stato l’impatto di questa novità su gli operatori mercatali? Ci sono state resistenze o difficoltà? «Assolutamente no – racconta Enzo Torrato, titolare di un banco al mercato –. Da sempre gli invenduti si regalano a chi ha bisogno, e purtroppo capita sempre più spesso di assistere a severe contra-


scarptorino I protagonisti

Beniamino prepara i pacchi: «La gente comprende e aiuta»

zioni della possibilità d’acquisto da parte di clienti abituali, che fino a poco tempo fa non avevano problemi. Gli acquisti di merce destinata a essere donata sono stati una novità, e devo dire che contribuiscono a incrementare, anche se di poco, il volume degli affari. La crisi, in questo che è un quartiere popolare, ha colpito duro, e il fatturato negli ultimi anni è andato riducendosi sempre più, mentre le spese hanno continuato a salire. Ma è bello contribuire a un’iniziativa che dà una mano a chi più ne ha bisogno».

Iniziativa che viene dal basso Tiziana Ciampolini è la responsabile dell’Osservatorio povertà e risorse della Caritas cittadina: «Ciò che più mi piace di questo progetto è che parte da una

Bancarella solidale Buon inizio per il progetto “Fa Bene” al mercato di Piazza Foroni

Beniamino, da due anni membro della redazione di Scarp Torino, e saltuariamente anche venditore, è impegnato da circa tre settimane nel progetto “Fa Bene”: in particolare, gestisce una postazione al mercato di piazza Cerignola. Come si svolge la tua giornata lavorativa? La prima cosa che io e il mio collega facciamo è montare il gazebo, che è ormai un punto di riferimento all’interno del mercato, poi iniziamo il lavoro di promozione. Devo dire che ormai siamo abbastanza conosciuti, almeno dai frequentatori abituali. Poi raccogliamo le offerte del pubblico e le mettiamo insieme alle provviste da consegnare più tardi, insieme agli invenduti consegnateci dai mercatali. Da ultimo prepariamo i pacchi, ognuno destinato a uno specifico utente, sia esso una famiglia o un singolo. Come mai questa differenziazione? Innanzitutto la quantità delle merci da consegnare varia in base al numero di componenti della famiglia destinataria. Poi dobbiamo valutare diverse situazioni: se la persona ha problemi di salute, ad esempio, oppure se il destinatario di un pacco viveri è di religione islamica. In tal caso dobbiamo fare attenzione a non consegnare cibi che contrastano con il suo credo. E per le consegne? Quello è compito del mio collega, anche lui in borsa lavoro: quando tutto è pronto, provvede a effettuare le consegne in bicicletta, mentre io mi occupo dello smontaggio del banchetto. Come è stata l’accoglienza che i clienti del mercato e gli operatori hanno riservato al progetto? Ottima. Questo non è un quartiere ricco, la gente sa cosa significa faticare per arrivare a fine mese. C’è tanta solidarietà. Per quanto riguarda i gestori dei banchi, la novità è stata accolta benissimo, tra l’altro incrementa le loro vendite... Basti pensare che, a tutt’oggi, ormai sono 54 i commercianti della piazza che hanno aderito, ovvero quasi tutti. E riguardo a te e al tuo collega, come pensate si evolverà questa esperienza? Tutto dipenderà dalla continuità o meno del progetto, o se si estenderà ad altri mercati: dipende da molti fattori, non ultimo il nostro impegno. Mister X comunità: è un progetto nato dal basso. Alcuni creativi hanno avuto quest’idea e l’hanno innestata in un tessuto che era già pronto,che aveva bisogno di un catalizzatore; lo dimostra l’adesione quasi immediata degli operatori del mercato e delle organizzazioni presenti nel territorio. Una delle caratteristiche del progetto è la capacità organizzativa diffusa, con condivisione delle responsabilità. Queste sono condizioni essenziali per fare ripartire lo sviluppo, dato che i due vantaggi di questo progetto sono l’aumento della solidarietà e l’incremento delle vendite per i mercatali». In questo quadro come s’inserisce

Caritas? «Affiancando il progetto e favorendo l’inserimento lavorativo di persone in difficoltà: abbiamo fatto una integrazione al reddito, pagando la sperimentazione per due persone, una legata a Scarp de’ tenis e un'altra che si è trovata senza lavoro e con una famiglia a carico. Caritas, d’intesa con i servizi sociali della VI circoscrizione, ha poi individuato i destinatari del progetto, persone che stanno provando a farcela, non semplicemente questuanti, ma individui o famiglie che non ce la fanno ad andare avanti in questo momento. Ma hanno volontà e capacità per ripartire».

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genova Il comune ha deciso di ridurre contributi e convenzioni per 900 mila euro. Sono a rischio servizi, diritti e posti di lavoro

Ma i senza dimora sono “comprimibili”? di Mirco Mazzoli

Dentro me Ho nascosto la mia vita, in una botola di legno. Ma è stata aperta. Così l’ho nascosta in una botola di ferro, con punte spinate. Ma ugualmente, è stata aperta. Poi l’ho nascosta in un pozzo, ma è stata tirata su, con dell’acqua. Così ho pensato, di nasconderla nel tuo cuore, pensavo fosse un posto sicuro. Ma tu l’hai gettata in un fiume che porta al mare, e il mare l’ha portata a riva. Così, decisi di prenderla e dirle: poiché non c’è un posto sicuro, tanto vale che soffri dentro me. Fabio Schioppa

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La crisi si abbatte sulle persone senza dimora a Genova. Sembra un paradosso, a meno che non lo si guardi dal punto di vista delle casse comunali. Le cose stanno così: per il secondo semestre 2013 il comune di Genova ridurrà i contributi e le convenzioni per i servizi espressi dalla Rete genovese per le persone senza dimora (cui aderiscono Fondazione Auxilium, associazione San Marcellino, associazione Massoero 2000, Veneranda Compagnia della Misericordia, Ceis – Centro di Solidarietà Genova, Afet Aquilone). Potenzialmente, il taglio può ammontare a 900 mila euro in meno, anche se si cercherà di non arrivare a tanto. In ogni caso, non una bella prospettiva: in gioco ci sono sia i diritti delle persone senza dimora sia la stabilità di posti di lavoro sociale. Solo un mese fa, tuttavia, era anche peggio. Ripercorriamo i fatti. A giugno il comune di Genova avanzò l’ipotesi di tamissione welfare del consiglio comunagliare per le persone senza dimora tutle concesse agli enti della Rete genoveto il 2013, 1 milione 800 mila euro, metse, lo scorso 3 giugno. «Il taglio alla spetendo in forse persino i servizi già resi sa sociale è inevitabile, i numeri parlano dalla Rete fino a giugno. L’annuncio trachiaro», affermò l’assessore, suscitando pelò dai corridoi, suscitando profonda forti critiche per un approccio giudicapreoccupazione. Del resto, nel budget to come esclusivamente contabile. comunale, ordinariamente 800 milioni «È penoso – replicarono in quei di euro all’anno, c’è un buco di circa 40 giorni gli enti della Rete, in un comunimilioni, soprattutto mancati trasfericato di protesta – dover ragionare di solmenti da parte dello stato: per farvi di sulla testa di quanti non hanno nulla fronte, bisogna che anche la spesa soe dover constatare il paradosso per cui il ciale, considerata tra le voci di bilancio comune paventa di chiudere servizi “comprimibili”, abbia una decurtazione che, diversi anni fa, decise di esternaliztra i 4 e gli 8 milioni di euro. zare ottenendo, nei fatti, risparmio e Con questi conti alla mano, l’assesqualità: per ogni euro messo dal comusore al welfare, Paola Dameri – pur rine, infatti, le organizzazioni della Rete cordando di essere volontaria di una ne impegnano da 2 a 4. In questi primi mensa cittadina per le persone senza sei mesi del 2013 il comune, pur non dimora e di comprendere il problema –, contribuendo più alle spese, ha contisi presentò all’audizione che la comnuato a usufruire del lavoro svolto dagli operatori del terzo settore, inviando persone e ricevendo servizi che non era in grado di garantire altrimenti. Come Rete, denunciamo l’atteggiamento e l’intenzione dell’amministrazione comunale come lesivi dei diritti di chi già patisce l’esclusione e la grave emarginazione e come fattore di precarietà occupazionale per gli operatori sociali che affiancano i volontari nei centri di ascolto, nelle mense, nelle docce, nei


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dormitori cittadini, con professionalità specifiche ed esperienza».

Modello di intervento a rischio In gioco, in buona sostanza, c’è il mantenimento di un modello di intervento che integra volontariato e professionalità. «In realtà – fece notare la Rete – l’intervento del privato sociale a favore delle persone in condizione di fragilità estrema, oltre che contribuire a un dovere di civiltà, costituisce un risparmio per la collettività: ricordiamo infatti che il costo di un giorno di carcerazione (e sappiamo bene che molti reati sono causati dall’indigenza) equivale a un anno di sostegno di una persona in un alloggio privato e che un giorno di ospedale (e sappiamo altresì che molti ricoveri vengono prolungati o giustificati da motivi umanitari) equivale a un mese in una struttura alloggiativa protetta». Alla preoccupazione degli addetti ai lavori, del resto, si aggiunse fin da subito la contrarietà della stessa commissione welfare: non solo l’opposizione, ma anche la maggioranza di centro-sinistra che sostiene la giunta, denunciò la mancanza di una visione politica a difesa dei più deboli. Tutto questo fino all’incontro che la Rete genovese per le persone senza dimora ha avuto con il sindaco Marco Doria, venerdì 21 giugno. Quel Marco Doria che aveva inserito con decisione la tutela delle persone emarginate nel suo programma elettorale. Poi però la crisi ha stretto davvero d’assedio Genova – con numerosi comparti in sofferenza – e il sindaco ha dovuto confrontarsi con uno dei periodi più complessi della storia economica della città, tanto che ogni settimana una qualche rap-

presentanza di categoria siede sugli spalti del consiglio comunale per manifestare la propria radicale contrarietà a tagli e ridimensionamenti.

Si può comprimere il welfare? L’assessore Dameri del resto lo aveva detto: «Ogni settore ha bisogno di una risposta. Se al sociale non tagliamo nulla, a chi altri dovremo tagliare tutto?». Nell’incontro con la Rete, tuttavia, Doria ha aperto uno spiraglio e riaffermato una visione di politica sociale: «Il sindaco – riferisce Alberto Mortara, uno dei rappresentanti della Rete e consigliere nazionale Fio.psd (Federazione italiana organismi persone senza dimora) – ha assicurato che il comune pagherà i servizi già resi nei primi sei mesi dell’anno, attraverso lo strumento del bando, per una cifra pari a 900 mila euro, e che la linea di pensiero della giunta sugli interventi a favore delle persone senza dimora resta improntata a una forte attenzione alla relazione e alla sollecitudine per l’inclusione sociale, ap-

proccio che non può basarsi solo sull’azione volontaristica di pronta accoglienza e di riduzione del degrado, ma che ha bisogno anche dell’apporto professionale di operatori preparati». Il taglio di 1 milione 800 mila euro si è dunque dimezzato, ma sui prossimi sei mesi resta una pesante ipoteca: «Doria ha ribadito che non è pensabile una conferma del budget dell’anno precedente: stante la crisi, non ci sono alternative, se non la riduzione dell’esborso pubblico per tutta la partita del welfare locale. Ma ci ha assicurato che non ci sarà una particolare penalizzazione dei servizi per le persone senza dimora». In questo senso si sta muovendo anche il consiglio comunale, con una proposta bipartisan di “deliberazione a sostegno del sistema di welfare” che chiede alla giunta di evitare la contrazione delle risorse destinate a questa voce di spesa. Tradotta, la domanda suona diretta e drammatica: ma è ammissibile che il welfare sia considerato una voce di bilancio comprimibile?

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vicenza Era ludopate. Ha perso la famiglia. È finito in strada. É passato per una baita. E ha imparato a non disprezzare i “perditempo”

Il gioco, il freddo Birillo e Bandito di Carlo Mantoan Dopo quasi 14 anni, ho deciso di scrivere di me stesso e della ludopatia, un cancro che mi ha attanagliato, senza lasciarmi via di scampo. Se ne parla tanto di questa dipendenza, ma io credo che pochissimi conoscano veramente cosa sia: una brutta bestia, orribile. Si comincia per gioco, e quando si vince si è felici: un invito a procedere, dunque. Così è stato per me. Tempo, denaro e pura follia, o stupidità: buttavo nella macchinetta cinquantamila lire, vincevo ed ero felice. Avanti così, fino a che le cose sono andate bene, e la fortuna mi ha sorriso per qualche tempo. Intanto però quel “cancro” mi prendeva sempre di più. Per tre anni ho sempre giocato, vinto e perso, non mi importava di nient’altro, bastava giocare. Poi sono finiti i soldi e sono arrivate la delusione e l’amarezza che mi hanno portato alla distruzione morale. Più volte mi sono chiesto perché, cesse perché al gioco avevo perso un senza mai trovare una risposta. Alla fisacco di soldi, e mia moglie non me lo ne mi sono dovuto arrendere, la rispoperdonò. Così fui costretto ad andarsta stava dentro di me e mi sono deciso mene, ad abbandonare le mie tre dona ritrovare me stesso. Con forza e cone, e la ripicca del destino non finì lì: sto raggio ho iniziato un nuovo percorso, ancora pagando. Mi trasferii a casa di non è stato facile perché non ho voluto mia madre, ed ecco la crisi: cassa intel’aiuto di nessuno: io avevo sbagliato e grazione, riduzione del lavoro, fallimenio dovevo pagare il mio errore. Dal to della ditta. Intanto mia madre si am2002 non gioco più, ma ancora adesso, malò e poi morì, e io restai senza casa e quando vedo le macchinette mi vensenz’auto. Mi stavo piangendo addosso, gono i brividi. Liberarmi da questo quando un vecchio signore mi offrì la cancro che si chiama ludopatia ha sisua baita in montagna, a 1500 metri di gnificato riconoscere la mia forza e altezza. Una stanza con annessi stalla e credere in me stesso. un piccolo fienile, niente bagno, né luce *** elettrica, per arrivare ci sono cinque chiI senza tetto li ho sempre considerati lometri di mulattiera da percorrere a nullità, gente con poca voglia di fare e piedi. Quando arrivai la prima sera, c’econ nessuna voglia di lavorare. Io, granra tanta neve, mi arrivava al ginocchio, de uomo, prima di una burrascosa sema a me quella “casa” sembrò una regparazione dalla famiglia, li incontravo gia. ovunque, per la strada, davanti ai negozi, sui gradini delle chiese. I classici perUn mulo per amico ditempo. «Resta finché vuoi – mi aveva detto il A 45 anni ne avevo accumulati 27 di vecchio –. Ma devi sistemarla, altrimenlavoro in fonderia e tre negli scavi di una ti la buttano giù come rudere». Per prigalleria, cinque chilometri nella roccia. ma cosa spalai via la neve dal tetto e siIl primo colpo lo ricevetti quando mi sestemai le lose, lastre di pietra usate a coparai da mia moglie, la donna che amapertura. Quando rientrai per la notte acvo e che amo ancora. Mi lasciavo alle cesi la stufa e mi cucinai un brodo, poi spalle una famiglia splendida, due figlie, mi preparai il giaciglio: due balle di fieElisa, 20 anni, e Laura, 16. Questo sucno con una coperta sopra, per fortuna

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ne avevo un’altra per coprirmi, ma quanto freddo ho patito quella prima notte! Il giorno seguente scesi in paese e per la strada notai un cascinale con asini e cavalli, appresi dopo che li usavano per una terapia contro malattie di cui non ricordo il nome. C’era anche un vecchio mulo, ancora abile per il lavoro, ma con un caratteraccio: non si lasciava avvicinare da nessuno, non si lasciava

ferrare e mordeva i cavalli che gli passavano troppo vicino. Chiesi di acquistare il mulo, ma dovetti insistere perché me lo lasciassero portar via, in compromesso, naturalmente, perché non avevo un soldo. In cambio avrei dovuto procurare ai proprietari venti quintali di legna all’anno.


scarpvicenza

tre anni «hoPersempre giocato, vinto e perso: non mi importava di nient’altro, bastava giocare. Poi sono finiti i soldi e sono arrivate la delusione e l’amarezza. Poi un’offerta inaspettata. E due amici speciali

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me. Ma avevo anche un pollaio, sei galline ovaiole che mi permettevano di prepararmi la pasta, oltre al pane. Non andava male, ma ancora stavo sopravvivendo. Erano gli anni Cinquanta Un mattino, mentre salivo e la povertà era schiacciante. per accatastare legna, vidi sulla neve delle macchie rosse, e Per prendere un minestrina seguendole trovai una lupa al Cottolengo morente con due cuccioli, uno triste e magro, l’altro ognuno doveva avere un barattolo. talmente vispo che apLa latta di pomodori da cinque chili pena cercai di prenderlo mi morse un dito fino a era quella giusta. farlo sanguinare. Con la A quei tempi Cirio lupa, a distanza di pochi giorni, morì anche il lucostruì una fabbrica. pacchiotto sparuto, ma Le latte blu con i pomodori rossi. mi rimase Bandito. È così che chiamai l’amico che Cirio è diventato molto famoso. mi riportò la gioia di viveBastava chiedere re. Occuparmi di lui, crescerlo a latte e pane, dia un ristorante la latta ventare inseparabili come poi mettervi un filo di acciaio pagni riaccese in me la speranza.

Brigata Cirio

Un amico non c’è più

Portai il mulo alla baita, e la seconda notte sentii meno freddo: ora avevo un amico. Dopo due mesi cominciavo a passarmela un po’ meglio, avevo accumulato legna per me, ma anche da vendere. Comprai fieno per Birillo, il mio mulo, e farina, zucchero, latte e lievito per

Con Birillo e Bandito ci alzavamo alle 4 di mattina e partivamo per raccogliere legna che poi spaccavo fino all’arrivo del buio, ma la sera la mia cena a lume di candela mi lasciava pienamente soddisfatto. Ora avevo anche salumi e formaggi, e piatti e bicchieri, ma soprattutto, quando di notte si spegneva la stufa e cominciavo a battere i denti, Bandito saltava sul giaciglio e si sdraiava accanto a me riscaldandomi. Una storia bellissima, che finì in maniera straziante, quando – morto il padrone della baita – dovetti andarmene, riportando Birillo ai suoi padroni. Allora finii di nuovo in strada, alla Caritas, dove ho imparato che le persone che consideravo perditempo sono uomini e donne con tanti problemi. Ciascuno con una storia da raccontare e lo stesso sangue che scorre nelle vene. Non mi lamento, ma ora porto nel cuore una tristezza in più. So che Bandito sta bene, l’ho sistemato da una signora che aveva un grande parco attorno alla casa. Un pezzo del mio cuore rimane in quel parco, quando mi sono sentito il peggiore dei traditori, costretto ad abbandonare un amico così prezioso.

come manico. Così dotati, si andava al Cottolengo. E ci si metteva in fila, tutti con la latta Cirio. Il frate ti dava la minestrina e un pezzo di pane. Poi ognuno cercava un posto al parco per mangiare e se pioveva la minestrina aumentava. In tutti i parchi vicino al Cottolengo vedevi solo un nome: “Cirio”. Un povero spiritoso un giorno ha detto: «Dove mangio il pranzo? Al Cottolengo. Sono della Brigata Cirio!»

Gheorghe Mateciuc

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modena Bilancio sociale 2008-2012 dell’associazione: bisogni in sensibile aumento, la solidarietà ai tempi delle crisi

Porta Aperta, sempre più di Laura Solieri Il Centro di accoglienza della Caritas diocesana modenese Porta Aperta ha appena pubblicato il bilancio sociale relativo al periodo 2008-2012 (il documento è scaricabile dalla homepage del sito www.porta-aperta.org): questo strumento è stato redatto dall’associazione per rendere conto, a tutti coloro che danno vita alla comunità di Porta Aperta, delle iniziative e dei progetti da essa realizzati e delle risorse impiegate. Il periodo preso in esame dal bilancio sociale conferma la volontà del centro di passare a una nuova fase del proprio percorso, raccogliendo le sfide rappresentate dai mutati contesti sociali, culturali ed economici. Trentacinque anni fa, “Porta Aperta” nasceva in una situazione sociale in cui la povertà e l’esclusione sociale, a differenza di oggi, erano considerate, in un contesto di benessere come quello modenese, per lo più un’eccezione. Attraverso questo bilancio sociale, Porta Aperta intende invece porre all’attenzione dei propri portatoche a partire dal 2008 ha manifestato i ri di interesse una realtà associativa di suoi effetti nel nostro paese, ha avuto volontariato particolarmente complesovviamente riflessi anche sui servizi di sa, per il tipo di servizi offerti, per le perPorta Aperta, che hanno registrato un sone coinvolte e per la fitta rete sociale e radicale cambiamento degli utenti e soistituzionale in cui si inserisce. prattutto dei bisogni da essi manifestati. Un primo impatto lo si è avuto sul Intercettare nuovi bisogni numero di utenti. Dal 2008 si è assistito Nella sua esperienza pluridecennale, a un continuo aumento, fino a raggiunPorta Aperta si è sempre caratterizzata gere un picco di affluenza nel 2011, doper la sua capacità di intercettare in anvuto alla cosiddetta “Emergenza Nord ticipo l’insorgere di nuovi bisogni e proAfrica”, che ha generato l’afflusso di un blematiche sociali. La crisi economica consistente numero di profughi nel ter-

ritorio modenese. Nel 2012 i numeri si sono ridotti rispetto all’anno precedente, fino a riavvicinarsi a quelli degli anni precedenti, nella direzione di una stabilizzazione per nulla rassicurante. Il servizio docce e igiene personale, fino al 2008 del tutto residuale, è diventato in questi anni quello che ha avuto il mag-

Pieno di utenti, impennata nel quinquennio Il raffronto tra i dati 2012 e quelli relativi al 2008 fotografa l’evoluzione, in termini quantitativi, dei bisogni che affluiscono a Porta Aperta • Totale utenti 1.745 (1.179 nel 2008) • Servizio di prima accoglienza 15.546 (11.656 nel 2008) • Docce 332 utenti e 2.163 accessi (193 utenti e 1.118 accessi nel 2008) • Mensa 938 utenti e 14.804 accessi (784 utenti e 12.917 utenti nel ’08) • Ambulatorio 882 utenti e 2.318 visite (830 utenti e 1.852 visite nel ’08) • Avvocati di strada 65 pratiche (53 nel 2008) • Dormitorio 70 utenti (75 nel 2008) • Pronto intervento minori 42 casi (77 nel 2008) • Emergenza freddo 45 ingressi nel 2012-’13 (11 nel 2008-’09) • Sostegno alle famiglie 920 nuclei seguiti, con 2.094 adulti e 583 minori (493 nuclei con 430 adulti e 173 minori nel 2008)

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gior aumento di utenti, fino a raggiungere gli oltre 300 all’anno (fatta eccezione per il 2011, in occasione dell’Emergenza Nord Africa), con incrementi di nuovi utenti di diverse centinaia ogni anno. La necessità della doccia calda, in una città medio-piccola come Modena, segnala un diffuso disagio abitativo, che ormai non investe più solamente le persone di passaggio ma anche chi, vivendo a Modena, ha perso la casa o non ha


scarpmodena I servizi

Oltre 400 i volontari attivi, servono più avvocati di strada

un alloggio stabile. Anche la mensa è cambiata profondamente. Dall’essere un servizio rivolto per lo più a immigrati impiegati in lavori di basso livello (edilizia, agricoltura, ristorazione, pulizie ecc…) ad andamento stagionale, negli ultimi anni ha fatto registrare un accesso costante durante tutto l’arco dell’an-

Oltre alle persone che usufruiscono dei servizi offerti da Porta Aperta, il bilancio sociale 2008-’12 considera anche chi si presta gratuitamente per svolgere mansioni, le più varie, nell’associazione. Sono oltre 400 i volontari che affiancano i collaboratori e il personale di Porta Aperta. Il servizio di volontariato, che prende origine dal principio evangelico della solidarietà, è aperto a tutti coloro che condividono il valore del primato della persona umana e, lungi dall’essere risparmio economico, è un momento di formazione e auto-formazione personale e di gruppo alla solidarietà. Le proposte di volontariato sono articolate per andare incontro alle molteplici e diverse disponibilità delle persone, offrendo possibilità di impegno per tutte le età, sia in attività pratiche o concettuali, sempre e comunque in contesti relazionali. Il volontariato a Porta Aperta si esplica in tre grandi ambiti: ascolto e segretariato sociale (per informazione e orientamento ai servizi), servizi alla persona (gruppi mensa, volontari della cucina, ambulatorio medico, catalogazione farmaci, sportello avvocato di strada, distribuzione e approvvigionamento alimentari, raccolta e distribuzione indumenti e oggettistica), accoglienza (animazione e condivisione, cura della casa e delle attrezzature). I donatori che sostengono “Porta Aperta”, invece, si distinguono in tre categorie: privati che donano indumenti e oggetti, con frequenza pressoché quotidiana; aziende che donano alimentari e oggetti; privati e aziende che donano denaro. Si segnalano alcuni donatori particolari: un consigliere provinciale dona regolarmente il proprio gettone di presenza, una fondazione privata eroga un contributo annuale e una scuola elementare fa una donazione annuale. Per le donazioni di indumenti e oggetti, invece, non è possibile riportare dati certi, in quanto molte persone preferiscono rimanere anonime. Porta Aperta è anche sede operativa di progetti di servizio civile nazionale e regionale realizzati dalla Caritas diocesana modenese. Nel periodo considerato (2008-’12) hanno svolto servizio civile 12 giovani. Nel presentare all’inizio di giugno i dati sull’attività di avvocato di strada, che a Modena conta 12 avvocati volontari, i referenti dello sportello modenese, Francesca Pecorari e Gianpaolo Ronsisvalle, hanno rilevato come a causa della crisi economica gli utenti del servizio sono raddoppiati ed è cambiata la tipologia dell’utenza. «A Modena – spiegano – farebbe comodo un aiuto in più, magari di avvocati esperti di diritto dell’immigrazione».

richiesta di cibo anche a pranzo (la mensa è solo serale), ulteriore segnale di difficoltà presenti nel territorio.

Più aiuti alle famiglie no, segno che le persone che vi accedono trovano in essa l’unico pasto completo della giornata. È cambiata anche la composizione degli utenti: da una prevalenza di stranieri (anche se in numeri assoluti relativamente bassi), gli italiani sono diventati, nel periodo analizzato dal bilancio sociale, la seconda nazionalità che accede al centro. Un altro aspetto di discontinuità, rispetto agli anni precedenti il 2008, è la

Sul versante dell’accoglienza, specialmente in relazione al periodo invernale, cambiano le cause delle richieste di accesso, motivate non più dal lavoro (ricerca o mantenimento), ma spesso da motivi di salute avanzati da persone che da molto tempo vivono per strada e hanno conosciuto un pesante peggioramento della propria condizione sanitaria, a volte anche psicologica. Anche nell’ambulatorio medico si

misura un aumento degli accessi in generale e dei nuovi accessi in particolare. Complice anche la legislazione vigente, persone che diventano irregolari si vedono costrette a rivolgersi all’ambulatorio per motivi di salute. Un’ultima considerazione sul servizio di distribuzione di alimentari alle famiglie in difficoltà, inviate dalla Caritas diocesana modenese: a fronte del moltiplicarsi in città di centri parrocchiali di distribuzione di generi alimentari, ci si sarebbe aspettati una riduzione degli accessi a Porta Aperta. Al contrario, le famiglie inviate nel periodo 2008-’12 sono costantemente aumentate.

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rimini Rispettare almeno le festività più importanti, dodici giorni l’anno: il comune di Savignano sul Rubicone guida l’iniziativa

Shopping continuo? Riprendiamoci le feste di Paolo Guiducci

Acqua di mare L’acqua del mare trasporta i detriti dell’animo che nuocciono al nostro amore. Diventa chiara limpida, trasparente, azzurrina, cristallina come i tuoi occhi che sono due pietre preziose della collana che indosso. La vita è uno stagno, pieno di rospi. Chissà che baciandoli si trasformino in principesse.

Michele

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«Rimini ha attuato politiche economiche che hanno scatenato la concorrenza e le aperture domenicali». Non si nasconde dietro un dito Nazzareno Mainardi, assessore alle politiche economiche del vicino comune di Savignano. Anzi, il dito lo punta anche su quella riviera troppo ansiosa di poter contare sul commercio libero, sempre e comunque. «Riprendiamoci almeno le festività importanti», è l’idea del comune di Savignano sul Rubicone, quello del cesareo “dado è tratto”, territorio segnato dalla presenza di un Iper Rubicone, aperto dal 1992 e (con 37.400 metri quadri di superficie coperta) il più grande di tutta la regione. L’assessore Mainardi, insieme al collega al centro storico, Piero Garattoni, ha redatto una proposta portata e votata a maggioranza in consiglio comunale: basta negozi aperti tutto l’anno, ma chiusure mondo economico e tutto il mondo almeno nelle dodici festività considepolitico e sociale. Con un occhio alla rirate più importanti: Natale e Santo Steviera. fano, ad esempio, ma anche 1 e 6 genVerrebbe da dire: da che pulpito naio, Pasqua e Lunedì dell’Angelo, 15 viene la predica. Di recente Savignano agosto, 1 novembre e 8 dicembre, oltre aveva infatti lottato – in primis ingaga ricorrenze civili come 25 aprile, 1 giando battaglia contro le associazioni maggio e 2 giugno. «Queste date vanno del commercio – per ricevere la definirispettate perché rappresentano la stozione di “Città turistica”, qualifica che ria e i fondamenti del nostro stare ingarantiva l’apertura dei negozi 23 dosieme, civile, sociale e religioso –spiega Mainardi –. Con grande senso di responsabilità e rispetto per la persona, chiediamo la chiusura di dodici giornate all’anno. Basta inginocchiarsi allo strapotere dell’economia!». All’idea di riprendere in mano la domenica ha però voltato le spalle la minoranza (quattro consiglieri, tranne Antonio Urbini, che ha detto sì). «Evidentemente non hanno compreso i principi guida della proposta: in primis il valore umano e il rispetto per le persone e i lavoratori dipendenti», rilancia Mainardi. A sostegno dell’iniziativa del comune di Savignano si sono schierate Confcommercio, Confesercenti e sindacati, da sempre contrari, nel Rubicone, alle aperture nei giorni festivi. E ora l’assessore promuoverà l’idea della chiusura nelle festività presso tutti i comuni limitrofi della Valle del Rubicone, presso associazioni di categoria, sindacati,


scarprimini meniche all’anno, concordate con associazioni, sindacati e imprese. Poi il decreto “Salva Italia” del governo Monti ha liberalizzato senza limiti e distinzioni aperture e orari. Ora l’amministrazione chiede di rivedere il calendario. Una netta inversione di tendenza. «Le aperture nei festivi ledono il diritto alla festività domenicale, alla possibilità di frequentare le proprie famiglie, i figli – rilancia Mainardi –. Andare sempre di corsa senza un attimo di respiro ci fa perdere umanità». La questione è anche economica: «Le aperture domenicali non portano benefici neppure alla grande distribuzione: nei grandi centri commerciali i dipendenti vanno pagati il doppio e a conti fatti il gioco non vale quasi mai la candela».

Devono decidere le regioni L’assessore fa i conti in tasca alla categoria? Un commerciante del centro storico di Savignano non teme il confronto. «I negozianti di Savignano hanno testa e cuore – afferma l’assessore Garattoni –. Quando la prima domenica del mese la città ospita il mercatino dell’antiquariato, solo due-tre negozi del centro alzano la saracinesca. Tutti gli altri restano chiusi per rispettare la festività; non contano solo quei due soldi guadagnati in più, ma anche il riposo, la famiglia e la socialità». Garattoni mette sul tavolo un ulteriore elemento di discussione. «È bene

Il vescovo

«La domenica, valore grande»: l’appello di monsignor Lambiasi «La domenica è un tesoro che non possiamo lasciarci scippare da questioni economiche. Ci sono aspetti tecnici da considerare, una città non può fermarsi, il pronto soccorso deve funzionare, ma sulla domenica ci giochiamo la fede. È la festa che il Signore fa all’uomo, non il contrario: un tesoro che Dio dà ai suoi figli». Sul tema della domenica e del lavoro festivo, il vescovo Francesco Lambiasi (nella foto) è stato esplicito in più occasioni, dal suo arrivo a Rimini. Si è inserito insomma nel solco tracciato dal predecessore, monsignor Mariano De Nicolò, che in molte occasioni aveva toccato l’argomento, assai delicato in un territorio ad alta vocazione turistica. Il pensiero dei vescovi si rintraccia in modo chiaro anche in alcuni documenti ufficiali della diocesi di Rimini. A partire da Chiesa riminese, turismo e sviluppo economico, prodotto dal Consiglio pastorale diocesano già nel 1991, fino al più recente Dare un’anima al turismo, contributo al Convegno ecclesiale nazionale: «La qualità della vita di chi lavora nel turismo incide inevitabilmente sul lavoro stesso e di conseguenza sul modello di turismo offerto», vi si legge. Per questo è necessario, dunque, che siano rispettati i tempi di riposo e di recupero e le esigenze sia corporali che spirituali. In particolare, deve essere garantito il rispetto del riposo domenicale. La questione è delicata, ne conviene anche monsignor Lambiasi, il quale ritiene «necessario un pronunciamento del Consiglio presbiterale». Chi si è speso a più riprese in questa direzione è l’Ufficio diocesano per la pastorale sociale, il quale ha per anni sostenuto, in varie occasioni, «l’importanza del riposo festivo e di un tempo libero che permetta alle persone di curare la vita familiare, culturale e religiosa». Ma per difendere un bene così prezioso come la domenica ci si potrebbe spingere fino a boicottare gli acquisti? «La domenica è un valore grande – prosegue il vescovo Lambiasi –. Perché certi appelli non restino inascoltati o lettera morta, si può arrivare fino a decisioni drastiche». Il vescovo sul tema della festa lancia anche una premurosa sollecitazione. «Quanto sono disposte a perdere le nostre comunità perché la festa torni a brillare?». Un interrogativo è indirizzato anche alle comunità ecclesiali. «Se consideriamo la domenica un precetto, l’apprezzamento scade, come nel caso del medico che impone al paziente ammalato di mangiare. Ma il cibo è un piacere, non un’imposizione. Interroghiamoci allora: come viviamo la domenica?».

restituire alle regioni la competenza di regolamentare la disciplina degli orari e delle aperture nei gironi festivi nell’ambito del commercio – spiega –. Non deve essere lo stato centrale a decidere,

ma il territorio locale con le sue componenti sociali, economiche e istituzionali». Da qui la richiesta inviata alla regione: stop alle aperture festive indiscriminate.

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firenze Vivace meeting di “persone in povertà” tra i monti dell’Austria. Protagonisti lo Scarp viennese e l’Ufficio Statistiche Assurde

Il coraggio di Michi, Jens e di altri Pep... di Veronica Guida

Parrocchie di scarp Le parrocchie di Scarp sono porte aperte in cui entrare, ti accolgono e ti sono vicine, ti sottendono senza fartelo pesare, la gente sorride e ha una parola buona. Le parrocchie di Scarp, sono isole felici, emergono nell'immenso mare dell'indifferenza, sono oasi che saziano l'arsura, nel deserto infuocato dell'ignoranza. Le parrocchie di Scarp, sono un cordone ombelicale, ti tengono in vita, nutrendoti con la loro vicinanza, all'inizio sembrano diffidenti, ma poi attraverso la conoscenza, ti apprezzano e ti sostengono. facendoti sentire finalmente a casa, quella che tu non hai.. Tony Bergarelli

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Come altre volte nel 2012 e 2013, l’associazione Solidarietà Caritas onlus di Firenze ha preso parte a scambi a livello europeo grazie al programma Grundtvig, che prevede l’incontro di diverse realtà associative e cooperative europee per la circolazione di buone prassi, in diversi ambiti. L’ultimo viaggio, a fine giugno, ha avuto come meta l’Austria, per la seconda tappa del progetto Increasing Citizenship and Participation in Europe (ovvero, “Accrescere la cittadinanza e la partecipazione in Europa”): partner non solo austriaci, ma anche olandesi, incontrati nei Paesi Bassi in aprile, ungheresi e i compagni di viaggio italiani del Cilap (Collegamento italiano lotta anti-povertà). Uno degli eventi collaterali dell’incontro, svoltosi a Vienna, ha avuto luogo a Raach, una località di montagna: l’ottavo “Meeting austriaco delle persone che i giornali di strada sono molto diffuin povertà” è stato ravvivato da un’insi, tanto in Austria quanto in Germania, credibile varietà umana, nuova e famie che avremmo molto da imparare: Augliare ad un tempo. Vogliamo raccongustin è diffuso solo a Vienna e dichiara tarla a partire da un’esperienza che ci è di diffondere circa 70 mila copie a numolto vicina. mero grazie a una squadra di circa 400 venditori (nel corso della sua storia se ne Augustin è il protagonista di una canzosono succeduti 4 mila!). ne popolare tedesca: è un medico ubriaL’idea di base è molto simile a quelco che cura i malati di peste senza mai contrarre il morbo, può andare nelle loColleghi di strada ro case, affondare nei fossi dove gallegUna venditrice di Augustin, il principale giornale di strada austriaco. giano i corpi e rimanere immune. In alto parte della redazione Augustin è anche il nome della rivista di strada più diffusa in Austria, perché si può vivere in strada o in contesti legati alla marginalità senza per questo dover soccombere al morbo della povertà e della perdita della speranza: proprio come Scarp, rappresenta per le persone che vi collaborano una base, un punto da cui ripartire, o un’area in cui sostare per un po’. Il numero in vendita in questi giorni è il 347, un traguardo raggiunto dopo 18 anni di lavoro e di pubblicazioni quindicinali. A parlarcene è Michi, un simpaticissimo signore tedesco, ma che vive in Austria da molti anni, tra i protagonisti a Raach del “Meeting delle persone in povertà”. Proprio a Raach abbiamo scoperto


scarpfirenze la che conoscono bene i venditori di Scarp: si tratta di dare voce a chi non ne ha e spazio a temi che non si trattano sui media ufficiali; però la nascita della rivista è legata a un comitato studentesco che aveva l’intenzione di sostenere, attraverso il volontariato, il reinserimento sociale delle persone in povertà. Il comitato si è poi trasformato nell’associazione Sand und Zeit (Sabbia e Tempo) che oggi ha una bellissima sede di due piani nel centro di Vienna, all’interno della quale ospita non solo la redazione del giornale ma anche una radio, una televisione, le prove del coro Augustin, il punto di ritrovo della omonima squadra di calcio e molte altre iniziative culturali, tra cui spicca il gruppo teatrale “11% No Teatro”. L’associazione non riceve alcun finanziamento pubblico («Non ne vogliamo», dice Michi ridendo) e vive esclusivamente grazie alle vendite e al contributo dei soci sostenitori, che pagano una piccola quota mensile.

Acerbo, con potenzialità Un amico di Michi, Jens, ci introduce meglio al meeting dei cosiddetti Pep (People Experiencing Poverty, persone esperte, con esperienza di povertà), ormai una figura chiave dei programmi europei di lotta alla povertà, che sta cercando di diventare realtà in molti paesi dell’Unione, tra cui l’Austria. Jens, con la sua associazione, ha fon-

dato un Ufficio per le Statistiche Assurde, che si occupa di monitorare tutte le statistiche, e i loro risultati, che il governo austriaco e quello europeo pubblicano più per “fare numero” che per vera attenzione nei confronti dei cittadini. Appena incontrato, Jens ci offre un liquore all’anice, color della nebbia, che ci spaccia per appunto per “nebbia del Mare del Nord”, imbottigliata solo per i veri amici, e si presenta, con tanto di biglietto da visita, come “Presidente dell’Istituto per la Povertà Applicata e il Sussidio Minimo”. Questa atmosfera familiare e un po’ goliardica si respira nei corridoi che ospitano una sessantina di Pep e di membri di varie organizzazioni, in questa sperduta cittadina austriaca di montagna, dove si esprimono orientamenti fondamentali per la partecipazione delle persone in povertà nei processi decisionali del governo. Le persone che vi partecipano sono profondamente consapevoli e preparate, e accolgono la nostra presenza di osservatori esterni come un’opportunità e con orgoglio, perché anche per loro non è difficile immaginare quanto sia distante la realtà italiana, in materia di partecipazione e coinvolgimento delle persone in povertà alle politiche che le riguardano. Quello che si sta facendo a Raach ha

un che di acerbo, e forse un po’ ingenuo, ma porta in sé un carico di potenzialità che sembra assai lontano per noi italiani, burocratizzati e ingessati davanti a ogni forma di cambiamento istituzionale. Anche qui, è chiaro, il cambiamento è solo ai primi passi: a fine maggio una delegazione della Armut Konferenz (la rete austriaca di lotta alla povertà) è stata ricevuta ufficialmente al ministero degli affari sociali, ma l’incontro si è rivelato un fallimento perché nessuna carica istituzionale si è fatta trovare: hanno delegato ai vice dei vice, che si sono subito ritratti, per paura o disinteresse. Tuttavia Jens, Michi e i loro amici, Pep e non Pep, non hanno la benché minima intenzione di arrendersi. E noi abbiamo avuto la fortuna di assistere a una riunione proprio di quella delegazione rifiutata e delusa, che si rimbocca le maniche e affronta i prossimi traguardi, senza sottrarsi all’autocritica. Armut in tedesco significa povertà. Ma Mut vuol dire coraggio. E dunque ne scaturisce uno slogan incisivo, che vale la pena ricordare: “Da Armut a Mut, senza paura”.

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napoli Cosa vuol dire avere quindici anni? Dove dirigere vita e libertà? Pensieri sparsi, intorno a una parola aerea e impegnativa...

Quant’è bella leggerezza... Stesso cielo Siamo sotto lo stesso cielo siamo sulla terra e il cielo ondeggia di maestà pieno di stelle e di nuvole che sembrano fiocchi di neve che il sole non scioglie mai. E la vita padroneggia piena di splendore e il sole nella sua luce ci irradia di calore. Antonio Casella

A ciascuno la sua voce. Anche quando si mette la penna sul foglio. Soprattutto quando si scrive, quella voce interiore bisogna cercarla. Al laboratorio di scrittura narrativa di Scarp Napoli lo si fa ogni settimana. E allora, prima della pausa d’agosto, ci prendiamo questo spazio per noi, per presentare le voci che abbiamo cercato, scrivendo una lettera immaginaria, e rincorso intorno alla parola “leggerezza”. Salutando l’arrivo di Luciano, che pubblica per la prima volta.

Piangerai e ti accorgerai Cara Marianna, la vita è più vera, ma il cinema è meglio, perché è tutto finzione e inizi a fantasticare e nemmeno tu lo sai. A me succede soprattutto con alcuni film che mi fanno emozionare e faccio fatica a trattenere le lacrime. Quando ero ragazza guardavo i film d’amore e mi mettevo al posto della protagonista e mi immedesimavo nelle cose che le capitavano, poi finito il film iniziavo a fantasticare su di me. Anche i sogni che facciamo sono film: la mattina viviamo la realtà ma quando dormiamo siamo protagonisti di incubi o sogni belli come in un film. Cara Marianna, adesso hai solo 15 anni e forse è presto per parlare di futu-

Libero come una piuma, non me lo aspettavo Libero come una piuma. Non me l’aspettavo questa leggerezza, ora che sto volando come una farfalla che mi porta a vedere posti che avevo solo immaginato. Vedo le stelle che non pensavo mai di poter vedere così da vicino. Mi sono sentito come una piuma che, volando di qua e di là, con il vento che mi trascinava così lontano, si è poi ritrovata in un paese che non conosce, pieno zeppo di farfalle di tutti i colori: erano così belle da vedere, che mi sono incantato e mi sono sentito come in paradiso. C’era anche tutta la mia famiglia ed è stata un camminata bellissima, come in un parco pieno di fiori e pieno di allegria. Non me lo aspettavo. Sono tornato a casa tutto contento perché ho passato una giornata bellissima. Ero un po’ stanco ma con tanta contentezza nell’anima, una giornata così bella che non si può dimenticare. Così bella... Umberto D’Amico

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ro, vivi la tua fanciullezza con serenità e spensieratezza: poi quando sarai grande vedrai un mondo diverso e pericoloso. Non fidarti mai di nessuno, solo di te stessa e del tuo istinto, solo dei tuoi cari: loro sapranno cosa consigliarti perché ti vogliono bene. Cerca di prendere un titolo di studio per un cultura personale ma anche per trovare un lavoro ed essere indipendente. Stai attenta, le persone sembrano agnelli ma sono lupi e vipere velenose; non fidarti degli uomini perché voglio-


scarpnapoli no solo una cosa. Non cercare l’uomo ideale perché non esiste. Cerca chi crede nei veri valori e ti rispetta. E ti comprende. Lui sarà l’amore della vita. Non abbassare mai lo sguardo con nessuno, perché nessuno è meglio di un altro; non confidarti con tutti, non tutti potranno capire. Adesso sorridi, la vita è bella anche se ti fa male, anche se un giorno piangerai. Se piangerai per un amore finito, lì ti accorgerai che sei diventata una donna. Maria Esposito

Metti i sogni in un cassetto Marianna è bello avere la tua età, perché si è in una fase della vita dove scopri tante cose, vivi tutto con innocenza, spensieratezza e divertimento. Scopri e osserva. Per tutto c’è tempo, il tempo per ogni cosa, il tempo ti offre delle tappe della vita. Tu vivi, ma prenditi il meglio, perché il male è dietro l’angolo. Sogna Marianna sogna. Metti in un cassetto i tuoi sogni, i tuoi desideri e la sera, prima di andare a letto, aprilo e sogna… Non correre per diventare grande, pensa a studiare che è la cosa più importante, pensa a cosa vorresti essere da grande. La cosa che non devi mai fare è quella di correre per diventare grande, perché fai troppo male. Marianna cresci, ma porta sempre con te i valori che ti hanno insegnato e credi sempre in te stessa. Marianna amati. Marianna Palma

Sopra e sotto il cielo

Siamo meteore e burattini Leggera come una nuvola in cielo; leggiadra come una farfalla che volteggia sui fiori colorati in mezzo a un prato. Vorrei anch’io sentirmi leggera, possedere le ali e come Icaro solcare il firmamento e guardare dall’alto la città, le montagne e l’intera umanità riversa sulle strade. Come sarebbe bello solcare le nuvole, giocare a nascondino su di esse e poi volteggiare per la sfera celeste e scoprire così il sole, la luna, le stelle. Sorvolare le montagne, essere io piccola piccola come Pollicina, volare sui fiori e cibarmi del loro nettare. Ma è ancora più bello aver anche una leggerezza d’animo una purezza di spirito, un’anima tersa, cristallina, pura, senza peccati, e avvicinarmi a Dio con l’animo pulito, nitido, lindo, tale da poter meritare dopo la morte il Paradiso. Questa è la leggerezza che io immagino. Perché siamo tutti sotto lo stesso cielo, siamo delle meteore che lo sorvolano ma nello stesso tempo siamo dei burattini che stanno con i piedi fermi in terra, stiamo sospesi aspettando la manna che venga giù ma non facciamo niente affinché sulla terra ci sia più ordine e progresso. La terra è contaminata e non più come un tempo sana e pulita. Il cielo appare più terso e luminoso: mi piacerebbe diventare una colomba per poter volare e svolazzare nel cielo. Invece siamo stati creati per essere creature della terra, ciascuno con le proprie personalità e attitudini. Mi piacerebbe che il cielo fosse tutt’uno con la terra, ci dobbiamo accontentare di essere persone del cielo e della terra. Siamo uomini e donne, non uccelli, siamo stati creati per fare del bene ma purtroppo facciamo anche del male. Siamo esseri imperfetti, non raggiungeremo mai la perfezione, però respiriamo tutti la stessa aria, guardiamo tutti ammirati lo stesso panorama, godiamo tutti dello stesso clima. Siamo tutti sotto lo stesso cielo. Maria Di Dato

Magari in Siberia

Chissà dove mi poserò... Siamo tutti sotto lo stesso cielo: i buoni i cattivi; i bugiardi, i veri, i falsi; tutti in fila sotto il cielo per prenderci il vento, il mare, l’aria nei polmoni che ci fa sentire vivi e ci fa godere il dono della vita. Sì, la vita: questa fatica che soffia nell’anima e scivola lungo le membra del corpo, fino a toccare il profondo dell’essere uomo libero e diverso dagli altri. Sì, proprio così, anche se siamo sotto lo stesso cielo, ognuno con la propria storia che cerca le sue verità, al di là delle apparenze che ci circondano, e sogna la speranza e l’amore. È questa l’energia che ci regala la vita, che ci sorprende sempre, ogni istante; ogni minuto che passa è un battito di ali, un granello di sabbia senza eco e senza tempo, dove gli uomini nascono e muoiono, si riproducono, crescono, muoiono e costruiscono la lotta per conquistare un posto sotto il cielo. Sotto il cielo mi sento come una piuma trasportata dal vento, chissà in quale posto si poserà la mia vita, forse in Africa o forse in America, magari in Russia, in Siberia immerso nei boschi a sentire il profumo della natura leggera come l’aria. Sono libero di viaggiare senza essere visto, leggero come un uccello, e volteggiare sopra le distese di grano appena maturo; guardare il mondo da qui con i suoi colori: il mare che brilla come un diamante che luccica; leggero come una foglia che cade nella terra arsa e poi bagnata dalla pioggia; leggero come un ramo che scivolando lungo il fiume si placa nel mare dove ci sono altre vite; leggero e fragile come un bambino accarezzato dalle onde e trasportato dalla marea sulla sabbia calda e nuda. Leggero come schegge di sole, che brillano nel cielo e nell’ombra fitta svelano il mistero della santa felicità. Luciano D’Aniello luglio - agosto 2013 scarp de’ tenis

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salerno Un festival che, intorno al cinema, fa incontrare e dialogare i giovani di tutto il mondo. Nato dall’idea del Walt Disney italiano

Giffoni il sogno di un uomo di Antonio Minutolo Il Giffoni Film festival rappresenta la realizzazione di un sogno, quello di un giovane giffonese, di nome Claudio Gubitosi, che nel 1971 decise di concretizzare le sue idee con una caparbietà straordinaria, fondando un festival di cinema per ragazzi in una località allora quasi anonima. Giffoni Valle Piana era un paese di diecimila abitanti nell’entroterra salernitano, che non godeva dell’afflusso turistico tipico delle zone costiere, né possedeva grandi tesori artistici o archeologici. Gubitosi volle credere fermamente al suo sogno: creare una rassegna di film che avesse al centro i ragazzi, destinatari e giurati delle pellicole. Così, dalle prime piccole e difficoltose edizioni degli anni Settanta, il Festival è cresciuto enormemente, grazie alla simpatia e alla buona volontà manifestate da subito dagli abitanti di «Quello di Giffoni è il più necessario tra Giffoni, ma soprattutto grazie alla spini festival». Da allora, la manifestazione è ta vulcanica del suo fondatore. cresciuta senza più fermarsi, grazie alle Momento chiave della trasformaidee meravigliose del suo organizzatozione dell’iniziativa in un evento planere e alla presenza di personaggi sempre tario fu certamente la presenza di Franpiù altisonanti: Alberto Sordi, Sergio cois Truffaut, il grande regista francese Leone, Michelangelo Antonioni, Robert della Nouvelle Vague, che s’innamorò De Niro, Oliver Stone, Meryl Streep, Jeletteralmente di Giffoni, instaurando un remy Irons, John Travolta, Wim Wenrapporto di amicizia con Gubitosi e con ders, Meg Ryan, Kathy Bates, Krzystof la cittadina stessa. Truffaut scrisse: Kieslowsky, Roman Polanski, Danny De

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Uno dei tanti Nicolas Cage, a Giffoni nel 2012: una delle tante star planetarie del cinema che hanno accettato l’invito al festival di Giffoni

Vito, Naomi Watts, Christina Ricci, Winona Ryder, Susan Sarandon, Samuel L. Jackson, Jean Reno, Edward Norton, Nicholas Cage, oltre a tantissimi attori italiani. Gli anni Ottanta hanno visto il festival virare verso tematiche più serie ed educative, con una scelta sicuramente anticommerciale e anticonformista rispetto alle pellicole superficiali per ragazzi che giravano in quegli anni.


scarpsalerno Gli anni Novanta e Duemila hanno visto l’affermarsi di Giffoni in tutto il mondo: la Giffoni experience di luglio è il culmine di un anno intensissimo di tour in tutto il mondo, che portano il festival e la cittadina salernitana nel cuore della cinematografia mondiale.

Giffoni conquista Hollywood Nel 2007 nasce “Giffoni Hollywood”, rassegna dei film di Giffoni proiettata alla mecca del cinema mondiale, il cui testimonial d’eccezione è Will Smith, attore amatissimo dai ragazzi. La manifestazione diventa ancora più grande e meglio organizzata; vengono create vari tipi di giurie, in base alla fascia di età dei ragazzi, e i film in concorso vengono catalogati in base a tali fasce di età. Ma ciò che ancora oggi più contraddistingue il Festival di Giffoni è la meravigliosa esperienza che compiono i ragazzi che, da tutto il mondo, giungono nella cittadina della provincia di Salerno per fare da giurati. Essi sono ospitati nelle case delle famiglie giffonesi, creando un legame particolare con la cittadina, che quasi sempre dura anche dopo la fine della rassegna, negli anni a seguire. Oltre a visionare le pellicole, che trattano di argomenti per ragazzi, ovvero trattano di loro stessi, i piccoli giurati si riuniscono tra loro per confrontare le proprie impressioni sui film in concorso, per esternare le emozioni che pellicole, scenografie, attori hanno suscitato nei loro occhi e nel loro cuore. È un modo per conoscersi, per crescere confrontandosi davanti ad argomenti molto vicini alla propria età; l’arte è il mezzo che consente di sbloccare gli stati emotivi, di “mostrare” sentimenti e gesti dal di dentro di una storia, quella narrata in un film, e così di scuotere l’anima di un giovane giurato.

Grandi scambi culturali Soprattutto, è meraviglioso lo scambio culturale che avviene a Giffoni, dove giovani americani incontrano ragazzi salernitani, giovani asiatici fanno la conoscenza di coetanei del Nord Europa e così via, in uno scambio vicendevole che allarga gli orizzonti di ciascun ragazzo, in un’età decisiva per la formazione della personalità. I ragazzi di tutto il mondo incontrano poi le stelle mondiali del cinema, com’è accaduto, ad esempio, l’anno scorso con Nicholas

L’evento

Giurie, anteprime, musica si resta “per sempre giovani” Il Giffoni Film Festival nasce nel 1971 da un’idea di Claudio Gubitosi, per promuovere e far conoscere il cinema per ragazzi. Protagonisti della manifestazione sono i giovani provenienti da ogni parte del mondo, che si occupano di visionare i film in qualità di “giurati” e discuterne con registi, autori e interpreti: si parla, attraverso la visione delle pellicole, di argomenti di attualità, confrontandosi con celebri personalità del mondo della cultura e dello spettacolo. In particolare, dal 2009, il Giffoni Film Festival è diventato Giffoni Experience, e la giuria del festival è cresciuta, arrivando a comprendere 2.800 ragazzi provenienti da 42 paesi, tra i 3 e i 22 anni. Queste le categorie dei giurati, cui corrispondono i film in concorso: Elements +3 (dove possono partecipare i bambini dai 3 ai 5 anni), Elements +6 (per bambini dai 6 ai 9 anni), Elements +10 (bambini dai 10 ai 12 anni), Generator +13 (ragazzi dai 13 ai 15 anni), Generator +16 (ragazzi dai 16 ai 17 anni), Generator +18 (giuria mista composta da giovani e adulti) e Masterclass (una sezione speciale per i migliori ex giurati delle precedenti edizioni, guidati da artisti e intellettuali celebri in lezioni e conferenze di approfondimento su cinema e dintorni). Quest’anno il Festival si svolge tra il 19 e il 28 luglio e prevede la presenza di ospiti importanti, tra cui Jessica Chastain, attrice di televisione e del grande cinema, candidata all’Oscar, il cabarettista e attore Alessandro Siani, gli attori Alessandro Gassman e Giancarlo Giannini. Tra gli ospiti internazionali, anche Alexandra Daddario, Logan Lerman e la star della famosa serie televisiva Glee, Naya Rivera. Tra le anteprime che verranno proiettate nei giorni del festival c’è Titeuf – il film, lungometraggio tratto dai fumetti del disegnatore svizzero Philippe Chappuis. Al momento della scrittura di quest’articolo, il programma non è ancora definito del tutto: ogni anno, infatti, si lascia spazio a “sorprese”, presenze di stelle del firmamento cinematografico mondiale, rivelate solo negli ultimi giorni antecedenti il festival. Il tema scelto quest’anno è “Forever Young” l’essere sempre giovani, l’essere sempre bambini, ragazzini… Il che incarna alla perfezione quello che è lo spirito di questa grande manifestazione. Particolarmente rilevante, quest’anno, è il programma musicale che ruota attorno al festival, denominato “Giffoni Music Concept”: saranno in concerto a Giffoni, tra gli alri, Elio e le storie tese, Renzo Arbore e l’Orchestra italiana, Max Gazzè, Fiorella Mannoia. Giuliano Sangiorgi, cantante dei Negramaro, incontrerà i ragazzi. La città è, come ogni estate, in fibrillazione per la nuova edizione del festival; le famiglie si preparano a ospitare ragazzi provenienti da tutto il mondo e si comincia a respirare un’aria internazionale. Angelo Pierri

Cage, al quale sono state poste tante domande dalla platea dei ragazzi, molto più profonde e intelligenti dei quesiti posti dai giornalisti. In sintesi, Giffoni dimostra come i sogni possano realizzarsi anche in Campania o nel Mezzogiorno d’Italia,

se ci si crede fermamente. Claudio Gubitosi ha creduto al suo sogno, lotta da 40 anni per far sognare tutti i ragazzi del mondo. Potremmo oggi chiamarlo il Walt Disney italiano, per quanto è riuscito a realizzare per i piccoli di tutto il mondo. Diceva Walt Disney: «Se puoi sognarlo, puoi farlo».

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catania Viaggio per immagini nella quotidianità di persone con malattie neurodegenerative: vite segnate dal dolore, capaci di bellezza

La speranza sofferta ogni giorno di Orazio Di Mauro “La speranza non deve essere mai abbandonata” è un progetto che affronta la delicata tematica delle malattie neurodegenerative, degli stati vegetativi e della disabilità, attraverso il racconto fotografico dedicato a persone che vivono questa condizione e ai familiari che ogni giorno se ne prendono cura. Il reportage è stato realizzato in tre anni in diverse città d’Italia e nasce dall’esigenza di condividere e raccontare una forte esperienza umana, maturata attraverso il rapporto quotidiano con le famiglie dei disabili. Il progetto, attraverso la sensibilità e l’estremo realismo delle immagini, si propone di far conoscere da vicino una realtà difficilmente comprensibile per chi non la vive in prima persona. L’idea è offrire all’osservatore l’occasione per comprendere le difficoltà che molte famiglie di disabili vivono quotidianamente. Le opere mostrano, infatti, un’umanità miglie e gli amici trasmettono al malato. sconosciuta ai più, fatta di momenti di Anche se questo ovviamente non basta: dolore, sconforto e difficoltà, ma anche istituzioni sanitarie e politiche dovrebdi tenerezza, profondo amore, viva spebero mettere a fuoco con maggiore inranza. Le immagini stimolano la solidacisività i problemi che malati e famiglie rietà e fanno comprendere la necessità devono affrontare. di instaurare con i soggetti affetti da graLa mostra fotografica che docuvi malattie relazioni che li aiutino a inmenta la condizione quotidiana di mategrarsi e a sentirsi integrati. lati gravi e famiglie è a disposizione di

La bellezza della diversità

Fotografo sociale Orazio Di Mauro è l’autore del progetto fotografico del quale in queste pagine appaiono alcuni scatti. Nato a Catania nel 1984. Autore di numerosi fotoreportage, si dedica prevalentemente alla fotografia sociale. Insignito di diversi premi, collabora come freelance con alcune testate giornalistiche del catanese Info Orazio di Mauro telefono 329.8197402 mail oradimaurofoto@gmail.com www.oraziodimauro.com

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Quante volte ci è capitato di trovarci davanti a una persona gravemente malata e di provare imbarazzo, di non sapere cosa dire o addirittura di non riuscire a incrociare il suo sguardo? Senza volerlo, con il nostro comportamento facciamo pesare al disabile ancor di più la sua condizione di “diversità”, con la conseguenza che egli avrà maggiori difficoltà a relazionarsi con gli altri. Attraverso le immagini del progetto “La speranza non deve essere mai abbandonata”, vengono illustrati molti aspetti della quotidianità di pazienti che necessitano di cure e assistenza 24 ore su 24 e di famiglie che con sacrificio e sofferenza affrontano le gravi disgrazie che le hanno colpite. In queste situazioni, in assenza di cure scientificamente fondate, a volte attese come un miracolo, la migliore risorsa è l’amore che le fa-


scarpcatania

chiunque (ente o associazione). A Catania, nel cortile Platamone, dall’11 maggio al 2 giugno si è svolta una serie di conferenze dedicate all’argomento: il rapporto tra medici, pazienti e famiglie, l’impatto umano e sociale della malattia, le terapie e le possibili prospettive. Vi

hanno preso parte medici, operatori sanitari, associazioni e fondazioni, famiglie di disabili, docenti universitari, studenti e volontari. L’associazione Humanity onlus ha condotto una raccolta di fondi da destinare alle famiglie dei disabili, attraverso la vendita del volume che

raccoglie il fotoreportage. La speranza è che queste immagini possano raggiungere altre città, per contribuire a vincere la solitudine a cui malati e famiglie spesso si trovano condannati, elemento che contribuisce ad aggravare la lor già difficile condizione.

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poesie di strada

Per te Non so se esisti ancora, è da un po’ che non ti vedo, in te ho creduto. Per te ho amato per te ho perdonato per te ho pianto per te ho riso per te ho fatto sacrifici. Adesso dove sei? Sono stanca ho bisogno di te, dammi la forza ho bisogno di credere che ci sarà un domani e che il sole splenderà e la mia vita bella sarà. Sonila Bleta

Ascolterò Invano i tuoi silenzi aspettava Quando sei triste amore chiudi le porte del tuo cuore, fai entrare solo me. Accarezzerò il tuo dolore. Con pazienza, finchè non svanirà persino l’ombra di quella amarezza e nelle sere in cui non hai nessuno con cui parlare, chiamami… sarò il tuo confidente, saprò ascoltare i tuoi silenzi e ti risponderò con parole o semplici gesti d’amore. In ogni istante della vita cerca nell’immensa folla il mio sguardo, non rimarrai delusa, perché dove sarai tu ci sarò anch’io.. Domenico Casale

Il rastrello Pulisco il mio giardino con un lungo rastrello, e viaggia il mio pensiero verso un ricordo bello. Tira, tira il mio rastrello, prende questo, lascia quello, proprio come il mio pensiero che raccoglie solo il vero. Proprio come la mia vita sceglie il meglio delle cose, proprio come le mie dita che raccolgon solo rose. Mary

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Raccolto per strada, un grazioso cagnolino perché abbandonato, in braccio al suo nuovo padrone rimaneva accoccolato fino all’arrivo alla sua nuova dimora e dalla gioia scodinzolava ancora. Nel seguito dei giorni, il padroncino lo doveva lasciare per andare a lavorare ma esso lo voleva sempre accompagnare per un grande tratto, fino alla stazione dove quatto, quatto, sotto un vagone aspettava sempre il suo ritorno. Così per mesi e mesi, ogni giorno, finchè un brutto giorno il padroncino, purtroppo deceduto, non è più tornato. Nel seguito dei giorni, il cagnolino, ogni giorno, per anni sotto il solito vagone aspettava, ma egli non tornava, aspettava, aspettava, fin quando dal forte dolore il suo cuoricino si fermava. Questo, del piccolo animale è un gesto di grande fedeltà che al mondo qualsiasi essere umano non ha. Mr Armonica


ventuno Ventuno. Come il secolo nel ventunodossier In Bangladesh quale viviamo, come l’agenda l’industria tessile rappresenta per il buon vivere, come quasi l’80% delle esportazioni. l’articolo della Costituzione sulla libertà di espressione. Ma i lavoratori sono vittima Ventuno è la nostra di sfruttamento ed esposti idea di economia. Con qualche proposta per a rischi mortali. Come reagire? agire contro l’ingiustizia e In Italia cresce la “moda etica” l’esclusione sociale nelle scelte di ogni giorno. di Andrea Barolini

21 ventunoeconomia Una risposta concreta alla povertà. Arriva da Acli e Caritas la proposta del Reddito di inclusione sociale. Sarà presentata al governo in luglio

di Cristiano Gori

ventunorighe Riforma del welfare: non si può restare senza diritti

di Francesco Marsico vicedirettore di Caritas Italiana

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21ventunodossier Sfruttamento e storie tragiche, dietro gli abiti che indossiamo. In Bangladesh si muore per il tessile. Ma serve boicottare?

Jeans griffato, diritti negati... testi e foto di Marta Zanella

La recente tragedia del Rana Plaza ha provocato più di 1.100 morti. Operai impiegati nell’industria tessile, che rappresenta quasi l’80% dell’export del Bangladesh. E ha contribuito ad abbattere la povertà nel paese asiatico. Ma sfrutta i lavoratori. Li espone a rischi mortali. E assicura loro salari da fame. Come opporsi a questa tendenza, comune a tanti paesi in via di sviluppo? Campagne internazionali e sindacati praticano sempre più la strada della pressione sulle grandi case dell’abbigliamento

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Il caso del Bangladesh

I forzati dei telai, spremuti ed emancipati La tragedia del Rana Plaza, nella sua immensa drammaticità, potrebbe avere per lo meno un’utilità. Quella di accendere – finalmente – i riflettori sulle condizioni di lavoro di coloro che fabbricano una buona parte degli indumenti che noi, nel mondo occidentale, indossiamo. Per chi non avesse seguito le cronache internazionali degli ultimi mesi, il Rana Plaza era una sorta di megafabbrica tessile. Ospitava, in una struttura di otto piani, alla periferia di Dacca, capitale del Bangladesh, numerose centinaia di operai. Il 24 aprile scorso è letteralmente collassato, uccidendo più di 1.100 persone. Una tragedia che assume contorni ancor più tetri se la si inquadra nel contesto lavorativo della povera nazione asiatica: fatto di soprusi, di stipendi da fame, di una vera e propria forma di colonizzazione industriale. una dozzina di incendi all’anno, dal 2004 Solamente tra 2006 e 2009 – secondo a oggi. Ma non è tutto: “Le industrie tesquanto riportato dal rapporto “Fatal Fasili in Bangladesh e Pakistan sono note, shion”, redatto dalla campagna internaoltreché per l’insicurezza delle condiziozionale Clean Clothes (“Abiti puliti”) e dal ni di lavoro, anche per i salari estremaCentre for Research on Multinational mente bassi e per la repressione dei diCorporations (Somo) – in Bangladesh ritti sindacali», si legge nell’analisi. Trensono stati 414 gli operai tessili che hantotto dollari al mese di salario minimo no perso la vita sul posto di lavoro, in non non possono che costituire infatti «il meno di 213 fabbriche (altri 165 sono prezzo della schiavitù», come ha tuonamorti a partire dal 2009). Dopo un tragito di recente papa Francesco, facendo rico incendio che ha colpito il 24 novemferimento alla tragedia del Rana Plaza. bre 2012 l’azienda Tazreen Fashions, quasi 600 persone sono rimaste ferite in L’esempio da non seguire altri 28 roghi nel paese, mentre 8 non soD’altra parte, l’industria tessile è a dir pono sopravvissute. Un quadro a tinte foco fondamentale per l’economia del sche che, riferisce l’International labor riBangladesh. E per questo l’intreccio perghts forum (Ilrf) risulta identico in altri verso tra la necessità di sopravvivenza paesi dell’area: in Pakistan, ad esempio, della popolazione, da un lato, e gli intesi sono registrati in media non meno di ressi delle multinazionali della porzione


moda etica

più ricca del pianeta, dall’altro, rende la soluzione alla questione ben più difficile di quanto si potrebbe immaginare. Il comparto rappresenta infatti qualcosa come il 78% delle esportazioni nazionali del paese asiatico (grafico 1) e contribuisce a generare il 17% del prodotto interno lordo del paese. Di questa enorme massa di produzione, il 59% è destinato ai mercati europei, il 26% finisce negli Stati Uniti. Il che deve senz’altro interrogare ciascuno di noi: come comportarci nei confronti dei prodotti che vengono fabbricati al prezzo di vessazioni e ingiustizie al solo fine di consentire alle griffe di massimizzare i loro profitti? La risposta più semplice potrebbe essere quella che indica il boicottaggio come soluzione al problema: rifiutando di acquistare capi provenienti da paesi che non garantiscono il rispetto dei diritti di base dei lavoratori, si potrebbe imporre un cambiamento ai grandi marchi. Un principio sulla carta corretto, ma che rischia di rivelarsi in realtà un’arma a doppio taglio. Il mensile economico francese Alternatives Economiques ha recentemente sollevato la questione, chiedendosi se sia davvero utile reagire in tale modo. Infliggere un duro colpo al tessile della povera nazione asiatica, in effetti,

Grafico 1

Esportazioni del Bangladesh per produzione altro (prodotti agricoli, juta, prodotti chimici...)

22,9%

77,1%

tessile

potrebbe rivelarsi soprattutto una condanna per la popolazione: malgrado le pessime condizioni di lavoro e i salari da fame, il comparto ha trasformato in pochi decenni la società locale, contribuendo in modo determinante soprattutto all’emancipazione delle donne. Sebbene nel contesto di uno dei paesi più poveri della terra (il prodotto interno lordo per abitante non superava i 743

dollari nel 2011), il settore occupa oggi 4 milioni di persone, su un totale di 150 milioni di abitanti (grafico 2). E dal momento che i sindacati, pur tra mille difficoltà, esistono, le fabbriche rappresentano un motore per le rivendicazioni sociali. «Gli operai che accettano queste condizioni di lavoro e questi salari – osserva il giornale francese – lo fanno per una sola ragione: le alternative sarebbero peggiori. L’agricoltura, benché occupi circa i due terzi della popolazione, genera appena il 18% del Pil. E la povertà continua a causare ogni anno 125 mila morti tra i bambini di età inferiore ai 5 anni. Si tratta di un tasso del 4,6%: altissimo, certo, ma che nel 1980, prima del boom del tessile, era al 19,3%». Cosa fare, dunque? All’indomani della catastrofe di Dacca il commissario Ue al commercio, Karel De Gucht, e la responsabile della politica estera comunitaria, Catherine Ashton, hanno annunciato la volontà di imporre sanzioni commerciali al Bangladesh. Una pressione internazionale potrebbe essere benefica, nell’ottica dello sforzo per imporre un cambiamento. Ma va ricordato che una quindicina di anni fa, in seguito a un vasto movimento di boicottaggio dei prodotti provenienti dalle fabbriche di luglio - agosto 2013 scarp de’ tenis

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ventunodossier

L’esperta

La moda “etica”? «Sta sfondando, ma attenzione...» Carla Lunghi, ricercatore di sociologia all’Università Cattolica di Milano, animatrice del centro Modacult, riconosce miglioramenti, negli ultimi anni, nella filiera del tessile. Ma c’è ancora molto lavoro da fare. Ancora oggi, facciamo spesso shopping in modo superficiale... È vero. Ma rispetto a cinque, sei anni fa le cose sono cambiate. Inizialmente, un problema era il lato estetico: molti prodotti “etici” non erano attenti al design. Nella moda è in ogni caso indispensabile creare capi che possano corrispondere ai gusti delle persone, altrimenti la scelta del consumatore si riduce a una beneficenza. L’obiettivo è invece contaminare le coscienze, aprire le menti. In modo che chi compra in un negozio un capo socialmente responsabile poi sia invogliato a cercare le stesse caratteristiche anche altrove. La moda sostenibile riuscirà a “sfondare” nel mercato? Già oggi esistono prodotti, ad esempio linee basate su materiali riciclati e perfino su scarti industriali, venduti nella gamma di lusso. Certo, alcune griffe sono sinceramente impegnate, mentre altre lo fanno per ripulirsi l’immagine... In ogni caso, è bene che si cambi strada, quale che sia la motivazione... Certamente. Occorre però fare attenzione: da H&M ad esempio si trovano collezioni in cotone bio, rispettose dell’ambiente. Ma a quei prezzi è difficile immaginare che i diritti dei lavoratori siano davvero tutelati. Imporre per legge un controllo sulla filiera potrebbe aiutare? La filiera del tessile è una delle più complesse. Se si affida parte della produzione, ad esempio, a un’azienda cinese, questa può a sua volta demandare parte del lavoro ad altre. E così via. Perciò una legge può aiutare, ma ciò che è indispensabile è un cambiamento culturale. A cominciare dalla rinuncia a guadagni esagerati e alla massimizzazione dei profitti ad ogni costo.

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Pakistan e Bangladesh, nelle quali erano impiegati bambini, numerosi di loro furono licenziati. Una vittoria? Non proprio, dato che, nel tentativo di rintracciarli, l’Unesco ha successivamente constatato che la maggior parte di loro erano stati riassunti da altre aziende. In condizioni ancora peggiori. Altri ancora erano stati “assorbiti” dalle fabbriche di mattoni, e numerose bambine erano state avviate alla prostituzione. Sono dunque probabilmente più utili altre forme di lotta. A cominciare dalle iniziative della campagna mondiale Clean Clothes e da quelle della federazione sindacale internazionale del tessile (la IndustriALL), che hanno imposto a una serie di grandi marchi il controllo sull’intera catena di approvvigionamento dei materiali e di produzione. Così, 31 griffe – tra le quali marchi noti anche in Italia come H&M, Zara e C&A – hanno accettato di sottoscrivere impegni giuridicamente vincolanti. Grazie alla pressione esercitata dalle associazioni internazionali – tra le quali Fair Trade e Oxfam International – alcune multinazionali han-

no deciso di adottare codici di condotta ad hoc. È il caso – riferisce un rapporto intitolato Corporate Social Responsibility in the Textile Industry International overview della società di consulenza sulla sostenibilità olandese Ivam – di Nike, Adidas, Reebok, Mattel, Levi’s e Gap. Anche alcuni sindacati occidentali si sono impegnati nel tentativo di esercitare pressioni affinché le multinazionali vigilino sulle violazioni dei diritti dei lavoratori, soprattutto in alcuni paesi. Uno sforzo profuso ad esempio in Cina e Vietnam, dove i governi non hanno ancora riconosciuto le convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro. Per la stessa ragione, numerose sigle occidentali non riconoscono la All China Federation of Trade Unions (Acftu), che risulta controllata dal governo di Pechino. Va detto che in Cina le leggi che tutelano i diritti dei lavoratori, così come l’ambiente, esistono. Ma restano spesso lettera morta: a livello provinciale e comunale in molti casi le norme non vengono applicate, per mancanza di controlli e a causa della corruzione.

Da Padova alla Locride

Tessuti, scarpe, feltro: l’eleganza è sostenibile Non più soltanto esperienze sporadiche e “alternative”. La moda sostenibile, equa e solidale è una realtà radicata nel territorio italiano. Certo, imparagonabile alle grandi griffe, in termini di risultati economici. Ma viva e dinamica. E, soprattutto, capace di porsi al servizio della società, sia rispettando l’ambiente e i diritti dei lavoratori, sia in molti casi dando spazio (e lavoro) a persone disagiate. Da anni, ad esempio, è impegnato in un progetto di tessile sostenibile il Consorzio Goel, che combatte la ’ndrangheta nella Locride. Un’esperienza di successo, che è riuscita persino a varcare le soglie dei templi dell’alta moda. Si chiama Cangiari (cambiare, in dialetto calabrese): le procine e le hanno trasposte su una matrice, duzioni sono basate su materiali “bio” e ricreando i primi modelli basati sull’anaffidate alla tessitura delle donne, recutica tradizione grecanica e bizantina». Il perando l’uso del telaio a mano. «Ci siarisultato è costituito da capi raffinati e di mo rivolti alle anziane magistre che erano in grado di programmare i duemila fiottima fattura, in vendita nelle boutique li del telaio calabrese», ha raccontato al più prestigiose. mensile Valori,Vincenzo Linarello, fonIn provincia di Padova lavora invece datore di Goel. Non si tratta di un lavoro Kyo Cashmere, azienda nata nel 2004, facile, bensì di una complessa proceducon l’obiettivo di ridurre al minimo l’imra matematica che le magistre, spesso patto ambientale delle lavorazioni. Sceanalfabete, ricordavano grazie alle cangliendo cotone biologico, sottoponendo tilene. «Le socie della cooperativa – prola filiera a controlli rigorosi e riducendo segue Linarello – ne hanno registrate del’utilizzo di acqua. Sempre in Veneto, è


moda eticaDobbiamo rilanciare il welfare tradizionale

Foreste e prodotti chimici Ma le campagne non sono solo in favore del riconoscimento dei diritti. Il settore tessile rappresenta un terreno di lotta anche dal punto di vista ambientale. Le modalità di approvvigionamento delle materie prime, i processi produttivi, l’impatto sulla deforestazione e l’inquinamento delle riserve idriche a causa dell’uso di prodotti chimici rappresentano infatti problemi estremamente seri nella filiera dell’abbigliamento. Per questo l’associazione Greenpeace ha lanciato la campagna The Fashion Duel, chiedendo a quindici case d’alta moda di rispondere a un questionario di venticinque domande “scomode”, da quelle sulle politiche per gli acquisti della pelle (per scoprire se quella usata dalle multinazionali proviene dagli allevamenti di bestiame che deforestano l’Amazzonia) a quelle sull’utilizzo di carta (per capire se quella usata per il confezionamento proviene ad esempio dalle foreste pluviali indonesiane, indispensabili per l’habitat naturale delle tigri di Sumatra). O ancora domande sulla produ-

buoni anche i risultati raggiunti da Armani, ChriFonte: Alternatives Economiques stian Dior, Luis Vuitton e Gucci: quest’ultima «si è da tempo impegnata ad attuare politiche di acquisto della pelle e della carta che garantiscono la sostenibilità, e dal 2009 ha attivamente sostenuto la moratoria sull’espansione dell’allevamento bovino in zione, finalizzate a comprendere qual è Amazzonia». il grado di controllo sulla lavorazione dei Pollice verso, invece, per numerose tessuti e l’eventuale utilizzo di sostanze marche: Roberto Cavalli, Alberta Ferrettossiche dannose per l’ambiente. ti, Chanel, Dolce&Gabbana, Hermes, Il risultato del “test” di Greenpeace Prada e Trussardi, che nella maggior parpremia Valentino: la griffe, spiega l’assote dei casi, «nonostante le nostre molteciazione ambientalista, «sì è impegnata plici richieste – conclude Greenpeace – a seguire politiche di acquisto e produnon hanno mai risposto, dimostrandosi zione a “Deforestazione Zero” per la pelnon disponibili al dialogo e irresponsale e il packaging, nonché a “Scarichi Zebili nei confronti dei consumatori». ro” nella propria filiera tessile». Piuttosto

Grafico 2

Lavoratori nel tessile in Bangladesh

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A Trieste la coop “Confini impresa sociale” ha una serigrafia nell’ex ospedale psichiatrico. Produce tessuti bio, colorati senza solventi chimici, per i negozi del commercio equo attivo dal 2009 EcoGeco, lanciato all’interno dei Gruppi di acquisto solidale (Gas), che propone jeans tinti grazie all’indaco vegetale. Ma la moda sostenibile non è solo tutela dell’ambiente. Può rappresentare anche il volano di una seconda chance. È il caso della cooperativa Alice, che da vent’anni lavora nelle sezioni femminili dei penitenziari di Bollate e San Vittore. Tra le produzioni delle detenute, abiti di scena per il Teatro alla Scala e il Regio di Parma, nonché toghe per i magistrati della procura di Milano e una linea di abiti da sposa. Similmente, la coop Opera in Fiore ha fondato la linea “Borseggi”, laboratorio di detenuti ed ex detenuti del carcere di Opera che produce borse in stoffa e seta. O, ancora, la cooperativa FiloDritto ha recuperato, grazie al lavoro dei detenuti della prigione di Enna, la lavorazione tradizionale del feltro, confe-

zionando cappelli, coperte, giacche, sciarpe e tessuti per arredo (distribuiti in Italia, tra gli altri, da Libera).

Esperienze in comune A Trieste, l’inserimento sociale è il principale obiettivo della cooperativa di tipo B “Confini impresa sociale”, che ha aperto una serigrafia all’interno dell’ex ospedale psichiatrico di Trieste. Il progetto è attivo da anni e vive grazie al commercio equo e alla distribuzione in alcuni negozi della zona, dove vengono venduti capi artigianali in tessuti “bio”, certificati fair trade e stampati con colori a base di acqua, senza utilizzo di solventi chimici. In alcuni casi, le iniziative riescono a raggiungere perfino un respiro marcatamente internazionale. Equostyle, progetto nato di recente a Brescia per iniziativa della coop Solidarietà, utilizza accessori provenienti dalla Bolivia e stoffe che arri-

vano dalla cooperativa Aargon del Bangladesh. Il tutto viene poi affidato alla fantasia della sartoria della cooperativa bresciana Aesse, che cuce secondo le indicazioni di due giovani stiliste italiane. L’idea è creare un percorso equo e solidale: i prezzi delle stoffe li fanno i produttori e non vengono toccati. I progetti e le iniziative, insomma, sono moltissimi. E per cercare di mettere in comune tutte queste esperienze e promuovere la sostenibilità nell’industria tessile e nella moda nel loro complesso, è nato Sustainability-Lab, piattaforma digitale progettata da Blumine, che conta più di 500 utenti registrati. L’obiettivo è raccogliere, coltivare e dare voce a un modo diverso di intendere l’abbigliamento: nelle pratiche etiche, nella tutela degli animali, nella tracciabilità della filiera, nella gestione dei rifiuti, dell’acqua e delle emissioni inquinanti.

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21ventunoeconomia Con la Grecia, siamo l’unico paese della Ue “storica” senza reddito minimo. Un gruppo di esperti, sostenuto da Acli e Caritas, presenta una proposta rivoluzionaria per l’Italia

Un Patto per l’inclusione di Cristiano Gori coordinatore gruppo di lavoro per il Reis

L’Italia soffre l’assenza di una misura per famiglie in povertà assoluta: universale, misto, attivante, graduale e sostenibile, ecco il Reddito di inclusione sociale 64. scarp de’ tenis luglio - agosto 2013

L’Italia è l’unico paese europeo – insieme alla Grecia – privo di una misura a sostegno delle famiglie in povertà assoluta, perlopiù denominata “reddito minimo”. Questa mancanza può essere superata introducendo il Reis, un “reddito minimo 2.0”, cioè una nuova proposta elaborata in questi mesi da un gruppo di esperti “convocati” dalle Acli, in collaborazione con Caritas Italiana. Il Reis (Reddito d’inclusione sociale) sarà presentato in estate al presidente del consiglio, Gianni Letta. Cerca di fare tesoro dell’esperienza degli ultimi vent’anni (interventi locali, proposte presentate, sperimentazioni nazionali, misure degli altri paesi). Ma è disegnato avendo in mente la società italiana di oggi e di domani. Per lungo tempo ha prevalso l’ipotesi che, grazie a un proprio equilibrio, distorto ma funzionale, il welfare italiano potesse prescindere da una misura contro la povertà assoluta. Lo si soste-

neva sulla base di una certa tenuta del quadro occupazionale, del supporto offerto dalle reti familiari e informali e dell’utilizzo – spesso improprio rispetto agli obiettivi primari – di altre politiche pubbliche (pensioni, invalidità, vari interventi per l’occupazione) in funzione anti-povertà. Non sappiamo se ciò fosse vero in passato; di certo non è vero oggi. Le persone in povertà assoluta sono infatti aumentate del 39% tra 2005 e 2011 (ultimo dato disponibile, fonte Istat). E il protrarsi dell’assenza di un reddito minimo rischia di produrre conseguenze letali sulla coesione sociale del paese. I destinatari del Reis sono le famiglie in povertà assoluta, la forma più dura di disagio. Hanno il diritto di accedere alla misura, in presenza dei requisiti reddituali previsti, tutti i cittadini di qualsiasi nazionalità, in possesso di un valido titolo di legittimazione alla presenza sul territorio italiano.


reddito di inclusione sociale Poveri “assoluti”, spesa inadeguata 5,2% le famiglie italiane in povertà assoluta nel 2010 (8% al sud, 4,1% al centro, 3,7% al nord). Vive la povertà assoluta una famiglia che non disponga di beni e servizi necessari a raggiungere un livello di vita “minimamente accettabile”, definito dall’Istat: standard nutrizionali, abitazione con un minimo di acqua calda ed energia, potersi vestire decentemente, ecc.

0,1% la percentuale del Pil destinata, nel 2010, alla lotta alla povertà in Italia; la media, nell’Europa a 15, era 0,4% (superiore del 75% alla spesa italiana)

Fonti: Istat ed Eurostat

Il Reis si contraddistingue per essere una misura composta da un mix di denaro e di servizi e per comportare un insieme di diritti e doveri. Oltre al trasferimento economico, comprende percorsi di attivazione sociale e lavorativa mirati ad alleviare le situazioni di povertà, sia migliorando per quanto possibile le condizioni di vita, sia agendo sui comportamenti che le hanno provocate (logica dell’inclusione attiva). Il percorso d’inclusione viene realizzato mediante una presa in carico e una relazione stabile con i servizi sociali e le organizzazioni del terzo settore territoriali. La regia applicativa nel territorio è del comune, che agisce in stretta partnership con i soggetti del terzo settore, la cui valorizzazione rappresenta un fattore fondamentale.

Il percorso attuativo L’introduzione del Reis dovrebbe realizzarsi attraverso un percorso attuati-

vo di quattro annualità. Ipotizzando di iniziare nel 2014, la transizione continuerà sino al 2017, primo anno a pieno regime, quando il Reis sarà rivolto a tutte le famiglie in povertà assoluta. Il percorso di transizione prevede che la spesa complessiva della misura – a regime – sia intorno ai 5,5 miliardi di euro. In ogni anno della transizione, la spesa sarà incrementata di 1,375 miliardi rispetto al precedente: nel primo sarà di 1,375 miliardi, nel secondo di 2,75, nel terzo di 4,125 e a partire dal quarto di 5,5 miliardi. L’utenza verrà ampliata progressivamente, partendo da quella con le peggiori condizioni e incrementando ogni anno la sua dimensione, compatibilmente con le risorse stanziate. Detto altrimenti: si comincia da chi sta peggio – tra le famiglie in povertà assoluta – e progressivamente si copre anche chi sta “un po’ meno peggio”, sino ad arrivare a tutte le famiglie in povertà assoluta.

Il consenso degli esperti Il Reis è coerente con il maggior numero delle proposte avanzate negli ultimi anni per combattere la povertà assoluta in Italia. Il dibattito in merito, infatti, presenta un aspetto peculiare, assente nelle altre aree del welfare: al di là delle dichiarazioni di principio, gran parte degli esperti concorda circa i punti chiave delle risposte da mettere in campo. Universalismo dell’utenza, mix di prestazione monetaria e servizi alla persona, diritti accompagnati a doveri, partnership tra enti locali e terzo settore, definizione di un livello essenziale sociale e altri tratti di fondo sono condivisi. Nel nostro paese, detto altrimenti, tutti sanno cosa bisognerebbe fare contro la povertà, ma il problema è riuscirci. Il valore aggiunto del Reis si esprime proprio nel promuovere il passaggio dal consenso dichiarato all’effettiva realizzazione. Da una parte, i soggetti proponenti lanciano l’idea di dar vita a luglio - agosto 2013 scarp de’ tenis

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ventunoeconomia

Le caratteristiche del Reis

Costa 5,5 miliardi all’anno, in luglio presentato al governo

La proposta del Reddito d’inclusione sociale verrà presentata in luglio dalle Acli, con il sostegno di Caritas Italiana, in occasione di un evento pubblico al quale parteciperà il ministro del lavoro e del welfare, Enrico Giovannini, che se ne farà tramite presso il presidente del consiglio, Enrico Letta. Il gruppo di studio ha messo a punto una proposta consapevole degli attuali vincoli di finanza pubblica. Ecco gli elementi salienti. UTENTI. Famiglie in condizione di povertà assoluta, di qualsiasi nazionalità, legittimate alla presenza sul territorio italiano, residenti nel comune nel quale fanno richiesta della misura e ivi domiciliati da almeno dodici mesi IMPORTI. Ammissibile chi è sotto la soglia di povertà assoluta stabilita dall’Istat. L’importo corrisponde alla differenza tra il reddito familiare disponibile e la soglia stessa EQUITÀ TERRITORIALE. La soglia di povertà assoluta Istat, punto di riferimento per l’accesso e per la determinazione dell’importo, varia in base alla macroarea (nord, centro, sud) e alla dimensione del comune (piccolo, medio, grande). Così si tiene conto delle notevoli differenze del costo della vita: l’obiettivo è garantire a tutti il medesimo potere d’acquisto SERVIZI ALLA PERSONA. Mix di denaro e servizi: il comune ha la regia del welfare locale. I vari attori coinvolti, pubblici e del terzo settore, hanno compiti diversi e integrati nelle varie fasi dell’erogazione e della presa in carico TERZO SETTORE. Co-progetta gli interventi, fornisce servizi e avvicina le famiglie povere al Reis. Si può occupare anche della presa in carico LAVORO. I beneficiari e tutti i membri del nucleo famigliare tra 18 e 59 anni ritenuti abili al lavoro devono attivarsi nella ricerca di un’occupazione, dare disponibilità a iniziare un’occupazione offerta dai Centri per l’impiego e a frequentare attività di formazione o riqualificazione professionale COSTO. La spesa complessiva della misura – a regime – sarà intorno a 5,5 miliardi di euro. Prevista una fase di quattro annualità: nel primo anno la spesa sarà di 1,375 miliardi, nel secondo 2,75, nel terzo 4,125, a partire dal quarto 5,5 miliardi.

un “Patto aperto contro la povertà”, costruendo un fronte il più ampio possibile di soggetti impegnati a ottenere l’introduzione del Reis, ognuno portando il proprio specifico contributo. Dall’altra, la proposta aggredisce il nervo scoperto del dibattito italiano. Nel confronto tra esperti, infatti, all’ampia concordanza circa i tratti distintivi dell’intervento da attuare si è sinora accompagnato un ridotto approfondimento su come operare in concreto. Sono stati esaminati solo marginalmente il percorso di transizione dalla situazione attuale al nuovo regime, le strategie per superare le difficoltà che l’implementazione porta naturalmente con sé, i numerosissimi cambiamenti di ordine tecnico legati all’introduzione della misura, e così via. La proposta del Reis, invece, contiene la più approfondita disamina degli aspetti attuativi legati all’introduzione di una misura contro la povertà mai elaborata – a conoscenza di chi scrive – in Italia.

La sostenibilità economica La proposta è costruita per rendere meglio affrontabile economicamente una scelta a favore delle famiglie in povertà. Si concentra, infatti, sui nuclei che ne vivono la forma assoluta (la più grave) e diluisce il necessario incremento di spesa. Esistono varie strade percorribili, nel rispetto delle compatibilità di finanza pubblica, per reperire le risorse necessarie a colmare gradualmente la distanza tra l’attuale sforzo pubblico italiano contro la povertà e la media europea. Lo studio del gruppo di lavoro sul Reis dimostra l’impossibilità di affermare che non vi siano soldi: si può soltanto dire che esistono altre priorità. Fare della lotta alla povertà una priorità è impegnativo (e inusuale), ma volendo è possibile, dipende dalle scelte. Tale impostazione si basa su dati empirici, e i numeri mostrano anche come le politiche contro l’esclusione sociale abbiano un costo contenuto rispetto alle altre voci del bilancio pubblico. Un costo che sarà illustrato nella versione integrale della proposta. E comunque assai meno gravoso di quanto – a causa di un dibattito politico e mediatico indipendente dalla realtà – molti siano portati a credere.

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reddito di inclusione sociale

Il presidente Acli, Gianni Bottalico

«Contributo per un welfare potenziato e giusto, che deve avere al centro la persona umana» Gianni Bottalico, presidente nazionale Acli, illustra senso e obiettivi del “Patto aperto contro la povertà”, iniziativa nata per soffiare vento nelle vele del Reis. E di un welfare, in Italia, più strutturato, giusto, incisivo. Reddito di inclusione sociale, proposta impegnativa e circostanziata: ma in tempi di drammatica restrizione della finanze pubbliche, non è velleitaria, o quantomeno intempestiva? Il discorso della sostenibilità dello stato sociale vale per tutti gli istituti di welfare. Quindi, credo che non dobbiamo vedere il Reis in contrapposizione ad altro. Dobbiamo prendere atto che la politica europea di austerità ha peggiorato la crisi. Il modello sociale europeo non va cancellato, come alcuni vorrebbero, ma finanziato e potenziato come investimento per lo sviluppo, come formidabile leva per la ripresa della domanda interna e dei consumi. Il dibattito politico sul reddito minimo si è fatto vivace, negli ultimi mesi, anche se non sempre rigoroso. Avete fiducia che la politica dia seguito concreto alle tante analisi e promesse? La crisi produce molta disperazione, suicidi, depressione. Le ferite dell’anima sono peggiori di quelle al portafoglio. Non conviene a nessuno lasciare che la situazione sociale del paese continui a peggiorare. Senza un livello accettabile di coesione sociale si mette a rischio la possibilità della ripresa. Ce lo ricorda anche papa Francesco, con la sua critica al cuore del capitalismo finanziario, responsabile della crisi attuale: «Quello che comanda oggi non è l’uomo, è il denaro. Dio nostro Padre ha dato il compito di custodire la terra non ai soldi, ma a noi: agli uomini e alle donne. Invece uomini e donne vengono sacrificati agli idoli del profitto e del consumo: è la “cultura dello scarto”», ha detto lo scorso 5 giugno. Credo che oggi anche nella classe dirigente, composta per lo più da ceti privilegiati, a causa della crisi della rappresentanza, vi sia una maggiore consapevolezza che bisogna combattere questa “cultura dello scarto”, aprendo gli occhi ai problemi dei nostri fratelli e sorelle, finché Dio ci dà il dono della vita terrena, per non fare la fine del ricco Epulone. La proposta del Reis è figlia di un “Patto aperto contro la povertà”. Perché le Acli lo lanciano? E chi, come e con quale finalità vi può aderire? L’Italia soffre oggi l’assenza di adeguate politiche per contrastare la povertà. Stretto tra i ritardi, figli delle mancate riforme del passato, e la crescita di domande dovuta ai processi d’impoverimento in atto, il nostro welfare incontra crescenti difficoltà. Pertanto, le Acli nazionali, in collaborazione con Caritas Italiana, hanno deciso di elaborare la proposta del Reddito d’inclusione sociale, da collocare in un

piano nazionale contro la povertà. Proponiamo un percorso graduale, fattibile e sostenibile economicamente per introdurre la misura. E per promuovere l’introduzione del Reis, si invitano tutti i soggetti interessati a sostenere la proposta e ad aderire al Patto. Si tratta di un’alleanza dentro la quale, nell’ambito di uno sforzo comune per raggiungere l’obiettivo del Reis, ogni realtà coinvolta potrà portare il proprio contributo di idee e di capacità di sensibilizzazione. Ridurre l’area della povertà assoluta attraverso un reddito pubblico: è vero che dobbiamo colmare un gap rispetto all’Europa, ma non c’è il rischio di una misura che ingeneri un nuovo bacino di assistiti, oltre a quelli già esistenti e alimentati da sussidi e ammortizzatori sociali gestiti “all’italiana”? Il rischio vero è un altro. Se non si cambia in modo sostanziale un sistema che si è rivelato in questi anni spogliatore della dignità del lavoro e delle risorse delle famiglie, delle imprese e degli enti pubblici, a favore delle grandi banche d’affari internazionali e delle loro alchimie finanziarie, il reddito di inserimento finisce per essere come rugiada su un grande incendio. Sarebbe illusorio pensare a tale misura come risolutiva della povertà. Anzi, se non si fa molta attenzione, c'è il rischio che diventi funzionale alle attuali disuguaglianze, avvalorando il progetto di coloro che pensano a un’ulteriore precarizzazione del lavoro, in cambio di briciole di welfare per le masse di lavoratori esclusi o estromessi dal mondo del lavoro. Quindi, qual è il senso profondo e realistico della proposta? Il Reis rimane una misura di nicchia: per quanto auspicabile, da non mitizzare. Ciò che conta è creare un sistema nel quale il potere politico possa esprimere una reale politica economica e monetaria; nel quale sia regolata la finanza speculativa e le banche tornino al servizio dell’economia reale; nel quale il lavoro precario rappresenti una rara eccezione e tutto tenda invece alla stabilità del lavoro ed all’incremento delle retribuzioni, in funzione non solo delle competenze, ma anche dell’avanzamento dell’età del lavoratore e dell’aumento dei suoi carichi familiari; nel quale il lavoro sia dignitosamente retribuito; nel quale sia messo al bando il lavoro schiavo, che il papa denuncia con forza e che rovina la vita a milioni di lavoratori e di bambini nel mondo; nel quale il risparmio familiare sia tutelato dalla voracità della speculazione, che espropria i beni dei poveri per salvare i colossi della finanza; nel quale vi sia una vasta gamma di servizi accessibili per fasce di reddito, in modo da attenuare le disuguaglianze sociali. In definitiva, occorre fare in modo che la crisi diventi l’occasione per costruire un sistema economico e sociale con al centro la persona umana. E il Reddito di inclusione sociale può contribuire molto a tale scopo. luglio - agosto 2013 scarp de’ tenis

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ventun righe di Francesco Marsico vicedirettore di Caritas Italiana

Non si può restare senza diritti «Dobbiamo rilanciare il welfare tradizionale europeo. Il nostro modello non basta più, deve essere più universalistico e meno corporativo, aiutando i più bisognosi, migliorando gli ammortizzatori sociali, estendendoli ai precari. E si potranno studiare forme di reddito minimo per le famiglie bisognose con figli». Parole di Enrico Letta, pronunciate nel discorso programmatico alla Camera, lo scorso 29 aprile. È la prima volta che un responsabile dell’esecutivo assume un primo impegno rispetto al reddito minimo. Non basta certo un’affermazione per dare per acquisita una riforma del welfare tanto impegnativa per le finanze pubbliche. Ma serve per cominciare un cammino serio e responsabile. Un paese democratico non può lasciare senza diritti sociali e di cittadinanza effettiva almeno quelli che le statistiche ufficiali definiscono “poveri assoluti”. Sono 8,5 milioni – secondo i dati Eurostat e Istat – le persone appartenenti a famiglie in condizione di grave deprivazione, e tra esse 3 milioni 415 mila le persone che non riescono ad accedere a un paniere di beni considerati essenziali: cibo sufficiente per gli standard di una corretta alimentazione, un’abitazione adeguata e decorosa, risorse per un livello di vita, di relazioni, di mobilità, salute e consumi culturali tale da sentirsi cittadini. Certamente la soluzione strutturale è un mercato del lavoro inclusivo, ma non bisogna celare una responsabilità istituzione e civile urgente e indiscutibile. Occorre mettere al centro dell’affollata agenda politica una misura di contrasto della povertà. La proposta del Reis verrà presentata in estate: si tratta di una misura capace di conciliare sostenibilità economica, definizione puntuale del target dei beneficiari, architettura necessariamente sussidiaria. Ma, soprattutto, il Reis afferma il diritto a una vita dignitosa per quanti vivono oggi situazioni di bisogno, a partire dai minori che vanno strappati al circuito dell’esclusione, fatto di bassa scolarità, minori capacità personali, marginalità occupazionale e reddituale.

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lo scaffale

Le dritte di Yamada La cassetta per l’estate 2013 va a cominciare con un ricordo. Un ricordo invernale e serale dello scorso febbraio, quando buttando fuori il respiro si formava un fumo freddo: i tanti che affrontavano Gianna, figlia Teo, antieroe la scalinata d’ingresso al forum di Assago sembravano attrice meneghino e donna tredicenne comignoli ambulanti. Una volta dentro, un palco era avvolto – su tre lati – da altrettanti teli bianchi. Spente Alla sua prima L'amore, la scuola, le luci, è cominciata le musica, e i teli si sono illuminati regia, la Chiossone l'amicizia, la sfida celando i musicisti, all’opera dentro quella che racconta una di diventare grandi, sembrava una lampada-cubo, sonica e fuori misura. tenera storia raccontate di dipendenza tra da Teo, tredicenne Caduti i teli, mi è prensa la gioia: stavano suonando una donna, attrice milanese, i Sigur Ros, stava cantando Jonsi (foto sotto), venuto di teatro, e una mediante direttamente dal paradiso. Tutto il concerto è stato una madre non più spassose meraviglia continua, ma il pezzo finale – se possibile – autonoma. e coinvolgenti è stato il pane degli angeli. S’intitola The Pop Song, e Un bel quadro vicende di passaggio quotidiane. non l’avevo mai sentita prima. Ero stregata quella sera tra generazioni Un adolescente lì, e sono stregata ogni volta che l’ascolto. Anche ora. al femminile. normale: Al diavolo i tappi di cera nelle orecchie e le funi per Gianna è una figlia, né secchione impedire l’impossibile: comincio a volare. con una madre né lavativo, non È una cosa nuova per me – pesante e terrestre – anziana e molto bullo ma nemmeno ingombrante di cui “santerello”, poter spericolare in un spron battuto anti-gravitazioprendersi cura. Ma imbranato nale. Mi sento azzurra e lucente – Battisti docet – ma è anche un’attrice, il giusto, ma non sono sola in questi voli veloci. Sento le folate di con uno spettacolo interessante qualcuno vicino a me, e non vedo nessuno. teatrale da portare abbastanza da fare Ma c’è qualcuno, e mi devo proprio fermare per in scena. Non colpo sulla da ultimo è una più carina ascoltare meglio, perché stanno parlando a me. Sono donna, con una della scuola. Le Sirene, e la voce che le traduce è di Vinicio Capossela. storia d’amore in Un antieroe Ascolto tutte le parole della canzone che mi commuove punta di piedi cui metropolitano, fin nel midollo. “Nella veglia infinita / cantano tutta è difficile trovare in cui sarà facile la tua vita”. E ancora: “Quello che hai intravisto e non spazio. Tra teatro, per i giovani lettori documentario e immedesimarsi. avrai / loro te lo danno solo col canto”... fiction. Riprende il volo nel buio, e arrivo su una spiaggia Zita Dazzi lontana. La sabbia è lambita da un mare che risacca Laura Chiossone Il mondo di Teo tranquillo. “Qui sono a riva / nella spuma di un’onda”: Produzione rosso Edizioni Castoro in sottofondo Fortuna, di Mario Venuti. Film pagine 190 84 minuti 13,50 euro Mi siedo sulla rena con i piedi a mollo, e il ritmo di Bahia disaccelera il tempo, che si dilata con una cadenza ventosa sulle palme. Sono pronta a entrare in un’altra canzone,e lo scenario cambia. Dal nulla sbuca una scala anti-incendio: sfilo un piede dall’acqua e comincio a salirne i gradini. Non sono solo gradini, è un lego onirico di mattoni rossi e metallo che si compone e diventa una casa nuiorchese. Sento un ticchettio di macchina da scrivere. Mi accovaccio nell’angolo di un balcone e non respiro nemmeno perché vicinissimo a me, seduta a una finestra, c’è Audrey Hepburn: canta Moon River con una piccola chitarra. Chissà quante volte la Hepburn l’ha cantata per scacciare la tristezza, e stasera sono qui io a ricevere questo regalo, così bello da immalinconirmi. Finisce la canzone e senza nulla dire le passo un caffè. Lo beviamo e guardiamo lo stuolo delle case di fronte, le vite degli altri, le luci spettacolari di New York. Mi regala i suoi occhialoni neri e le sorrido. Li indosso, le soffio un bacio e vado verso l’ultimo brano di questo sogno d’estate, ed è un suono di clarino a guidarmi. La melodia la conosco: è You’ve Got a Friend, interpretata da Lucio Dalla e inclusa in Qdisc del 1981, alzi la mano chi se lo ricorda. Alzi la mano chi altresì spera in una buona estate con pizzichi di avventura, fortuna, magia, sorrisi e baci. Tanti, di quelli... Compilation per l’estate 2013

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I legami della tradizione sono forti... Hampstead Garden, nordovest di Londra, dove vive la buona borghesia ebraica. Tutti conoscono tutti. Le tradizioni sono meno visibili ma ancora forti. Rachel e Adam si amano da quando si conoscono, adolescenti. Tutto sembra già scritto, fino a che irrompe sulla scena la cugina americana di Rachel. Ellie, bellissima e infelice, dalla vita anticonformista. Due mondi in opposizione, che faranno scintille e rumore. Ma i legami del tempo e della tradizione sono forti... Francesca Segal La cugina americana Bollati Boringhieri 339 pagine euro 17.50


Pillole senza dimora Apre a Firenze un nuovo sportello di Avvocato di strada È operativa da giugno la nuova sede locale di Avvocato di strada, per la tutela legale delle persone senza dimora. L’iniziativa è promossa dall’associazione nazionale Avvocato di strada onlus insieme alla Comunità delle Piagge di Firenze. Nella sede di via Liguria 3, i legali volontari offriranno tutela legale gratuita ai senza tetto. Tutte le persone senza dimora con problemi legali che vivono in città potranno presentarsi allo sportello senza appuntamento. Firenze è la prima città toscana dove apre Avvocato di strada, mentre salgono a 33 le città italiane (insieme a Bologna, “culla” dell’iniziativa) che ospitano uno sportello della associazione, da Bolzano a Siracusa. Fanno parte dell’Associazione oltre 700 avvocati volontari, che dal 2001 hanno seguito più di ottomila pratiche. Info www.avvocatodistrada.it

Troppi bambini senza tetto a New York A New York sono 21 mila i minori costretti a vivere in strada: l’1% dei bambini della città. Il numero dei senza tetto in totale supera le 50 mila persone. Uomini e donne, single e coppie, bianchi e neri, americani e stranieri, ma anche tante famiglie. E così 21 mila bambini ogni notte, a NYC, cercano ospitalità nelle strutture pubbliche, oppure sotto qualche riparo di fortuna. Da quando c’è il sindaco Michael Bloomberg le percentuali dei senzatetto sono schizzate in alto. Dal 2002 la popolazione homeless è cresciuta del 61%. Perfino il New York Times ha scritto un editoriale chiedendo al prossimo sindaco (le elezioni per eleggere il sindaco della Grande Mela si terranno a novembre) di non scordarsi dei bambini senza dimora. Bloomberg, convinto di dover disincentivare l’assistenzialismo, ha tolto il programma di finanziamento pubblico degli affitti per i meno abbienti. Tutti coloro che lo usavano si sono trovati a dover bussare alle porte dei ricoveri pubblici.

70. scarp de’ tenis luglio - agosto 2013

Miriguarda di Emma Neri

Il saltimbanco Jannacci e la luna, monologhi e canzoni insieme a Scarp Il 27 giugno è andata in scena al Teatro Tieffe Menotti di Milano l’anteprima nazionale di Il Saltimbanco e la Luna, concerto teatrale che rappresenta uno speciale omaggio a Enzo Jannacci. I testi sono scritti e recitati da Andrea Pedrinelli, giornalista free lance esperto di musica, già autore di libri e di un incontro-spettacolo su Gaber; le canzoni sono tratte dal repertorio del grande cantautore milanese morto a marzo e da quello della cantautrice Susanna Parigi, che arrangia ed esegue dal vivo i pezzi di Jannacci. Il Saltimbanco e la Luna ha iniziato un tour in varie località d’Italia, che riapproderà al Menotti a marzo 2014: è una riflessione in parole e musica sull’universo poetico di Jannacci, sul mestiere del giornalista, sulle distorsioni del mondo dello spettacolo. Susanna Parigi esegue dal vivo brani celebri e altri meno noti ma egualmente intensi, da Vincenzina e la fabbrica a Io e te, da La fotografia a Come gli aeroplani, da Natalia a Il cane con i capelli. I monologhi originali di Pedrinelli sono innervati anche dalle parole raccolte in numerosi incontri con Enzo Jannacci. Lo spettacolo, prodotto dalla compagnia Eccentrici Dadarò, ha in Scarp de’ tenis il suo partner sociale: in occasione di ogni replica si terrà la vendita in sala del nostro giornale; ci saranno inoltre rappresentazioni dedicate interamente a Scarp. Intanto il nostro giornale ha intrecciato una partnership sociale, per l’annata 2013-2014, proprio con il teatro Tieffe Menotti: da ottobre molte collaborazioni in cantiere, di cui daremo notizia. INFO pagina facebook “Il saltimbanco e la luna” - www.tieffeteatro.it

Milano

Ringiovanito e remixato, torna il “Caos” classico del teatro-danza Fino al 21 luglio al Teatro Leonardo da Vinci va in scena Caos (remix), spettacolo cult della storica compagnia Quelli di Grock, che sarà anche ospitato al Festival di Asti. A distanza di ventiquattro anni dal debutto del Caos storico, Quelli di Grock hanno affidato a una nuova generazione di attori, tutti giovanissimi, il loro spettacolo più magico, in una versione “remix”. Rinnovato rispetto all’originale, Caos è costruito attingendo alle tecniche del teatro-danza e si sviluppa intrecciando

parole taglienti, pensieri, concetti e dinamiche universali, fuse con gesti catturati alla quotidianità: un’esplosione di energia invade il palcoscenico e dilaga in platea con un torrenziale finale... inaspettato quanto realistico. INFO www.quellidigrock.it

Milano

Un giardino per Anna, giornalista e martire della verità Davanti al figlio Ilya Politkovsky, alla sorella Elena Kudimova, al vicedirettore della Novaja Gazeta, Vitalij Jaroshevskij, e a Nadezhda Prusenkova, giornalista del medesimo giornale moscovita,


caleidoscopio On

a metà giugno sono stati inaugurati a Milano, nella zona di corso Como, i giardini intitolati ad Anna Politkovskaja, giornalista russa assassinata nel 2006 a Mosca. Grazie all’appello di Annaviva, associazione che promuove la libertà di stampa e la tutela dei diritti umani nell’Europa dell’est e il cui nome si ispira proprio alla celebre giornalista russa, Milano ha dedicato uno spazio pubblico alla memoria di Anna Politkovskaja. La giornalista lavorava per la Novaja Gazeta, e nonostante le minacce che ogni giorno riceveva da persone a cui i suoi articoli davano fastidio, è sempre andata avanti nel suo impegno di denuncia. Ha sempre dato ascolto a tutti: profughi ceceni, orfani di Beslan, famiglie sia di soldati che di vittime, a cui la guerra in Cecenia ha portato via tutto, madri di giovani entrati nelle fila dei terroristi. Toccanti, a Milano, le parole di Elena, sorella di Anna: «Io spero che un giorno anche a Mosca le venga intitolato un giardino, una via, un ponte: qualsiasi cosa che la ricordi nella sua città». [Simona Brambilla]

Milano

Video sulla zona 9: premio per giovani filmmaker La Cineteca di Milano organizza un concorso finalizzato alla promozione della creatività giovanile attraverso il linguaggio audiovisivo, e si propone nel contempo di ricreare la memoria – nella sua dimensione storica, culturale e urbanistica – del territorio della zona 9: essa

dovrà essere raccontata attraverso video non più lunghi di 8 minuti. La consegna degli elaborati dovrà avvenire entro il 31 luglio al Museo interattivo del cinema. I video possono essere recitati anche in altre lingue ma devono almeno essere sottotitolati in italiano. INFO mic@cinetecamilano.it

Milano

Torna il Ravizzino, mercato delle meraviglie usate Torna il mercatino Ravizzino – Arti e Mestieri, a due passi dall’Università Bocconi. Per tutta l’estate, fino a settembre, sarà al parco Ravizza la prima e la terza domenica del mese, dalle 9 alle 18. Si tratta di una mostra mercato per collezionisti, hobbisti, spettacoli e attività creative amatoriali, dai libri ai fumetti, dall’arte ai dischi, dal modernariato a design, arredamento, gadget, giochi e curiosità. INFO 393.2124576

Torino

Sul Filo del Circo, artisti internazionali per l’intera estate “Sul Filo del Circo”, il più importante Festival di circo contemporaneo d’Italia è tornato a Grugliasco (To) nel parco culturale Le Serre, fino al 15 settembre. In scena 23 spettacoli e 100 artisti da 14 paesi: Italia, Francia, Svizzera, Argentina, Etiopia, Finlandia, Belgio, Portogallo, Spagna, Venezuela, Brasile, Australia, Stati Uniti e Israele. La 12ª edizione del festival internazionale propone ancora una volta un programma di livello

Berlino visitata con gli occhi dei senza dimora Anche a Berlino gli ex senzatetto si trasformano in guide e offrono tour per mostrare la capitale tedesca dal punto di vista dei clochard. Il progetto è ideato dalla onlus berlinese Stadtsichten: l’obiettivo è sensibilizzare sul tema, contribuire ad abbattere i pregiudizi e presentare angoli e quartieri della città da un’altra prospettiva, quella di chi non ha una dimora. I percorsi sono stati elaborati da quindici volontari dell’associazione insieme a cinque senzatetto ed ex senzatetto. Recentemente, il progetto Querstadtein è stato premiato in cancelleria federale, il governo tedesco, insieme ad altri 24 nell’ambito di “Startsocial”, un concorso nazionale per incentivare iniziative nell’ambito del sociale.

Off Fiducia ai sindaci, che però ammettono di sentirsi impotenti L’81% dei sindaci lombardi ha ammesso in una recente indagine di non riuscire più a dare risposte adeguate alle città governate. L’indagine è stata condotta su mille lombardi e 333 sindaci da Ipsos, per Anci Lombardia. L’unico aspetto positivo della ricerca risiede nel fatto che la popolazione dimostra ancora (una risicata) fiducia nel proprio sindaco. Il 50% degli intervistati sostiene che i sindaci non farebbero parte della casta e il 53% afferma che nei comuni non ci sono sprechi, i quali invece si concentrerebbero nello stato (93% degli intervistati), nelle regioni (85%) e nelle province (79%). Il 96% degli amministratori e il 76% dei cittadini ritengono che la situazione andrà peggiorando a causa di nuovi tagli. I sindaci promettono di non toccare i servizi sociali, mentre taglieranno ancora manutenzione, verde e cultura.

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quattro domande a... Cristina Maurelli di Daniela Palumbo

Cultura, motore di cambiamento. Anche “dentro”... Levarsi la cispa dagli occhi è il film-documentario di Cristina Maurelli e Carlo Concina girato nel carcere di massima sicurezza di Opera-Milano e racconta di un incontro fra detenuti e scrittori e artisti che vengono invitati “dentro” per creare un ponte con il “fuori”. I detenuti cominciano a leggere e scrivere aspettando la libertà. I carcerati ritrovano nel linguaggio poetico e letterario, spazio di confine, un luogo di riflessione e autocoscienza. Per molti, un vero e proprio riscatto: il sogno di un destino diverso. Il film racconta questo viaggio. Cristina Maurelli, perché nasce il documentario? Con questo docu-film vogliamo far cambiare il modo in cui le persone cosiddette libere guardano le persone detenute. Nello stesso tempo vogliamo far cambiare il modo in cui le persone detenute considerano la cultura. La cultura intesa come strumento di cambiamento, di analisi di sé e del mondo, di riscatto rispetto alla propria storia. Frequentare libri e poesie può favorire un percorso di crescita e di scoperta di parti di sé inaspettate. E quando questo avviene in carcere, può contribuire decisamente al reinserimento nella società.

Viaggio nell’autocoscienza Levarsi la cispa dagli occhi è il titolo del film di Cristina Maurelli (a sinistra) e Carlo Concina, girato con i detenuti (sopra, due dei protagonisti) nel carcere di massima sicurezza di Opera

Il carcere: un luogo speciale, nel vostro film... L’esperienza condotta per il docu-film ha rafforzato in noi la convinzione che nei posti di frontiera, nei luoghi di confine, si possono fare incontri speciali. In carcere, in particolare, sarà perché si ha poco tempo, sarà perché la situazione è difficile e disperante, perché non sai se ti potrai incontrare ancora, ma le relazioni diventano subito dirette, senza maschere, senza giri di parole. E in certe condizioni di relazione è possibile trovare un punto di contatto intenso tra esseri umani al di là della cultura, della storia personale, del passato di cui ciascuno è portatore. Il vostro è un film di denuncia sulla situazione delle carceri in Italia? A volte quando parliamo di condizioni dure del carcere la gente ci guarda e ci dice: «Se lo meritano». Ecco, noi siamo partiti da qui. Dal mostrare che le persone detenute sono prima di tutto persone. Mostrando la loro anima, la loro poesia, speriamo di contribuire a modificare la cultura di repressione e vendetta che circola nella società. Una società civile, una società colta, non può farsi prendere dalla paura e dalla rabbia. Da quella stessa rabbia e paura che hanno mosso le persone detenute quando hanno compiuto il loro reato. Le persone detenute prima o poi (salvo i casi di “fine pena mai”) escono. E se non hanno fatto un percorso di cambiamento, beh… ce li ritroveremo nelle strade a delinquere ancora. Dove pensate di promuoverlo? Stiamo organizzando un “Cispa Tour” fuori e dentro le carceri. Vorremmo proporre in varie città italiane una proiezione dentro il carcere di giorno e una proiezione di sera in un cinema della città, per creare un ponte tra il dentro e il fuori e stimolare un dibattito e un confronto su questo tema. Ci piacerebbe che il film diventasse proprio un “pretesto” per parlare di detenzione, non solo in termini di denuncia ma in termini di attività culturali… Per ripartire proprio da quello che si può o si potrebbe fare. I circuiti sociali che volessero ospitare il film sono i benvenuti. INFO E CONTATTI info@eidonfilm.it.

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caleidoscopio eccezionale e lascia anche campo libero ad arte, comicità, spettacoli per le famiglie, esibizioni gioiose e giocose, senza dimenticare di fornire un’occasione ai giovani talenti attraverso il premio internazionale per giovani artisti di circo contemporaneo. Gli spettacoli si tengono al coperto, al teatro Le Serre, nel parco omonimo. INFO www.sulfilodelcirco.com

Vicenza

Festa d’estate ai Ferrovieri con Scarp e altre sigle Domenica 21 luglio alle 15 nella parrocchia S. Antonio ai Ferrovieri si svolgerà la terza Festa d’Estate. A organizzarla è Scarp de’ tenis – sede di Vicenza, con la Caritas diocesana e la collaborazione di tante realtà sociali: Albergo cittadino, Settecà, Casa San Martino, Icaro, centro San Faustino, il Mezzanino e casa Santa Lucia. Tante iniziative per raccontarsi e stare insieme: torneo di calcio, gare di ping pong e calcio balilla, canti e musica con Andrea Bottaro. Poi cena insieme. INFO vicenza@scarpdetenis.net

Street art di Emma Neri

Busker festival, a Ferrara il “verde” della Danimarca il festival internazionale dedicato a questa figura di saggio-sciocco: Giufà è un personaggio eccentrico, spiritoso, strampalato, e tuttavia capace di sottigliezze psicologiche e filosofiche sorprendenti, conosciuto in Medio Oriente e Magreb come Guha, come Nasreddin in Turchia, ma presente anche in Asia e Balcani. In Sicilia è noto, appunto, come Giufà. Simbolo di diversità, saggezza e libertà, Giufà sarà ancora una volta lo spirito guida che condurrà i suoi fedelissimi per le vie, le piazze e i cortili di Noto: tre giorni di cultura, danza, arte e spettacolo, tutto rigorosamente al femminile, con l’attesissimo ritorno della lunga “Notte di musica”. Tutti gli spettacoli e gli incontri sono gratuiti.

Sicilia

Giufà, saggio-sciocco che filosofeggia nella città barocca Dal 1995 a Noto, patria del barocco siciliano, si festeggia La Notte di Giufà. Voci di donne in viaggio, con il patrocinio del comune di Noto. Anche quest’anno torna, dal 12 al 14 luglio,

La ventiseiesima edizione della Rassegna internazionale del musicista di strada, dedicata alla Danimarca, diventa sempre più green. Dal 23 agosto al 1° settembre si svolge il Ferrara Busker Festival, esplosione di musica internazionale con centinaia di artisti dai cinque continenti. Ospite d’onore è il vivace paese nordico, che sarà presente con quattro gruppi di musicisti; ci sarà inoltre molta attenzione per la città di Copenaghen e per il suo ambizioso obiettivo di diventare la prima capitale del mondo CO2 neutral entro il 2025. Il Ferrara Buskers Festival ha un occhio di riguardo per l’ecologia e la riduzione degli sprechi. Dall’avvio del progetto l’uso della carta per il Festival è stato tagliato del 43%, mentre sono diminuiti del 41% i rifiuti indifferenziati raccolti nell’area della rassegna. Per l’iniziativa di beneficenza il “Grande Cappello”, in collaborazione con Ibo Italia, sarà organizzato un campo di lavoro che accoglierà volontari da ogni angolo d’Europa. INFO www.ferrarabuskers.com

pagine a cura di Daniela Palumbo per segnalazioni dpalumbo@coopoltre.it

Tarchiato Tappo - Il sollevatore di pesi

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street of america Rodriguez: homeless a Detroit, cantautore di culto in Sudafrica

Sixto, rigattiere randagio che fu una star (a sua insaputa) di Damiano Beltrami da New York

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Un disco da 500 mila copie Negli anni ’70 le canzoni di Sixto Rodriguez (nella foto) furono la colonna sonora del movimento anti-apartheid in Sudafrica. Il suo disco vendette mezzo milione di copie.

EL SUO QUARTIERE, A DETROIT, LO PENSAVANO SOLO UN VECCHIO ECCENTRICO HOMELESS. Capelli lunghi, occhiali scuri e completo nero, qualcuno lo vedeva spostare ferri arrugginiti, trasportare mobili, tornare a casa sporco di calce. Certo, qualcuno se lo ricordava da giovane, quando Sixto Rodriguez interpretava le sue canzoni nelle bettole della zona, avvolto dalla nebbia della città delle automobili. Ma quelli erano tempi andati, che forse neppure lui ricordava. A migliaia di chilometri di distanza e in un altro continente, però, il cantautore Sixto Rodriguez era un’icona pop, al pari di Elvis Presley e dei Beatles. In Sudafrica, negli anni Settanta, le sue canzoni di protesta erano divenute colonna sonora del movimento anti-apartheid. Tutti, però, lo credevano morto, e le leggende metropolitane su come si fosse tolto la vita erano molte: la più accreditata lo voleva essersi dato fuoco sul palco. Scoperto dal leggendario produttore discografico Dennis Coffey nei tardi anni Sessanta, Rodriguez incise un paio di dischi. Ebbero ottime recensioni, ma sotto il profilo delle vendite furono un flop negli Stati Uniti. In Sud Africa, invece, portato pare da una coppia di sposi che erano stati in viaggio di nozze in America, il disco divenne famosissimo. Vendette ben mezzo milione di copie, delle quali Rodriguez non vide una lira di diritti. Per decenni non ebbe notizia del suo successo in Africa. Poi, una sera del 1998, Rodriguez ricevette una telefonata da Steve Segerman, proprietario del negozio di dischi “Mabu Vinyl” di Cape Town. All’inizio Rodriguez pensava si trattasse di uno scherzo. Segerman gli aveva dato la caccia per 25 anni e finalmente lo aveva scovato grazie a un frammento di una sua canzone in cui parlava di una ragazza di Dearborn, un quartiere di Detroit. Pochi mesi dopo quella conversazione telefonica, quel poeta urbano già avanti con gli anni era in Sudafrica, invitato a esibirsi in concerto. Rodriguez attendeva su per giù una ventina di persone. Invece quando salì sul palco si trovò di fronte a cinquemila fan in estasi. Prima di poter intonare la prima canzone – I Wonder – dovette ascoltare pazientemente un applauso lungo dieci minuti. Per la folla era come se Elvis Presley fosse ritornato in vita e si fosse ripreso il microfono. Finito il concerto, Rodriguez tornò a Detroit riprendendo la sua vita parallela, esattamente dove l’aveva lasciata. Proseguì a lavorare a cottimo, e la gente della zona in cui abita continuò a considerarlo un vecchio eccentrico senza fissa dimora. Cinque anni fa un filmmaker svedese, Malik Bendjelloul, ha sentito l’incredibile storia di Rodriguez e ha deciso di girare un documentario su di lui. Il film, Searching for Sugar Man, ha vinto numerosi premi, tra cui il prestigioso “Sundance Film Festival”. Adesso il mito di Rodriguez si sta velocemente diffondendo negli Stati Uniti e nel mondo. Il redivivo Rodriguez quest’estate è in tour in Europa. A volte l’apparenza inganna: dietro a un quasi homeless si potrebbe nascondere un immenso talento.

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la gente di Jannacci

Quello di soli tredici anni di Stefania Fiorillo

...era il mio di figlio, e forse è tutta colpa mia perché come in certi malgoverni se in famiglia il padre ruba anche il figlio a un certo punto vola via

La fotografia (1991) «Non è vero come dicono alcuni che con gli anni sono diventato più amaro. Sono più consapevole e più speranzoso. Sono dolente, forse cinico, ma non amaro. Sono dolorosamente consapevole. E offro il fianco alla speranza. Se fossi amareggiato non farei più dischi». (la canzone, che parla della morte di un ragazzino di 13 anni in un regolamento tra clan, fu presentata al Festival di Sanremo, dove vinse il Premio della critica)



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