Sdt_182

Page 1

numero 182 anno 19 giugno 2014

300€

Spedizione in abbonamento postale 45% articolo 2, comma 20/B, legge 662/96, Milano

il mensile della strada

de’tenis www.scarpdetenis.it

ventuno La moda rende schiavi

Vite sporcate

dal gioco più bello

I Mondiali di calcio, festa planetaria. Il pallone però ha una faccia in ombra: quella dei minori dei paesi poveri illusi da false promesse. A migliaia finiscono in Europa, abbandonati a se stessi Milano Elena&Spike Como Dispersi, riuniti Torino Social davvero? Genova Voci di città Verona L’isola adesso c’è Vicenza Umar in porto Venezia Giornale per ricominciare Rimini Scrittore dentro Firenze Ironia regalata Napoli Bellezza impossibile Salerno Andarsene sereni Catania Strage e accoglienza


Ferro Comunicazionedesign

Premio Premio Ethic Ethic Award Award per ad per iniziative iniziative a d elevato elevato contenuto contenuto etico. etico.

lla a solidarietà solidarietà h ha au una na c carta piÚ arta iin np iÚ Se paghi la tua spesa alla Coop con car ta Equa dai un contributo corrispondente all’1% del valore della spesa a un fondo gestito da Caritas Ambrosiana, che ser ve ad aiutare persone bisognose. Coop raddoppia il tuo contributo. 8Q JHVWR GL VROLGDULHWj VHPSOLFH PD HI ¿FDFH Richiedi carta Equa nei supermercati e ipermercati di Coop Lombardia

Per maggiori informazioni: numero verde

800.990.000


editoriali

Lo spettacolo più bello, senza senso dell’equità Paolo Brivio

S

gomberiamo subito il campo dagli equivoci: non è questione di snobismo, né di avversione ideologica. Alzi la mano, al contrario, chi riesce a rimanere impermeabile alle tempeste di emozioni sprigionate dallo spettacolo più bello del mondo: i campionati mondiali di pallone. La gente di Scarp (dal venditore al direttore, dal volontario al redattore) si godrà come tutti, in questo giugno, lo show multilingue del gol. Perché nulla è più divertente che appassionarsi a un contropiede colombiano, una veronica bosniaca, un tackle ghanese, un trecinquedue coreano. Lungi da noi sostenere, insomma, che se ne potrebbe fare a meno: toglieteci tutto, ma non la piccola sfera di cuoio che pervicace rotola ovunque, attorno alla grande sfera planetaria a bordo della quale transitiamo spazi e tempi. Non si sa bene in virtù di quale legge fisica, o di quale sortilegio Roberto Davanzo del cuore, questo incessante mulinare di palloni riesca ad avvicinare podirettore Caritas Ambrosiana poli, generazioni e classi sociali per altri versi lontanissimi. Sta di fatto che, viaggiando, si impara a usare dribbling e palleggi come veicolo di relazione oltre le barriere di idiomi incomprensibili. Pallone, “koinè” union vorrei apparire “troppo” femminiversale (e – fatto che a Scarp piace moltissimo – “koinè” di strada, desta (difficile, del resto) stante la mia mocratica e popolare): giusto che l’universo si fermi, ogni quattro anidentità di genere. Ma non ho dubbi nelni, per palpitare e tifare all’unisono. l’affermare che la violenza sulle donne, come la Resta però da stabilire perché noi umani siamo tanto portati prostituzione, è un problema... maschile. a farci (e a fare) del male, anche là dove torna più facile intenNon sono un sociologo, né uno studioso della derci, e volerci bene. Il pallone affratella, aggrega, accomuna: materia. Ma come attento osservatore di ogni fenoma spesso, nelle sue forme agonistiche e professionistiche, si meno che genera sofferenza, mi sento di affermare vende ai demoni della frode, della violenza, del razzismo, perche il ripetersi di inaccettabili episodi di violenza – sino dello schiavismo (come documenta questo numero di specie all’interno delle mura domestiche, specie da Scarp). Si dice sia diventato un’industria, sicuramente è un parte di uomini ben conosciuti dalle donne vittime – ingrande business. Ma non lo è per tutti. E se non siamo codica l’ancora lungo cammino che il mondo maschile desì ingenui da pretendere che due attività umane di portave percorrere in vista di una più matura capacità relaziota globale, come il calcio e il commercio, debbano e posnale con il mondo femminile. Ed evidenzia il permanere sano rimanere galassie separate, lasciateci almeno considi una concezione “padronale” che ancora molti, troppi derare che se è il dio soldo ad arbitrare la partita, non stuuomini hanno nei confronti della donna, magari ammanpisce che essa si concluda con un risultato torbido. tandola in modo blasfemo del linguaggio dell’amore. Avvelenando la magia del gioco. Se poi ci poniamo all’interno di un’area culturale che non perde occasione per reclamare l’identità cristiana delInfine c’è la questione, ormai annosa, del senso delle le proprie radici, tutti intuiamo quanto sia ancora profonproporzioni. Vero che noi italiani siamo gli ultimi a poter dado l’abisso che separa il dire dal fare, le dichiarazioni ufre lezioni, alle prese – come siamo – con un’Expo nata per ficiali dal vissuto quotidiano. Certo, sarà importante afriflettere su un tema nobile (“Nutrire il pianeta”) e rivelatasi finare una vera capacità repressiva da parte delle forze sinora l’ennesimo festival della corruzione, delle infiltrazioni dell’ordine, per difendere le donne che, esasperate, con malavitose, degli sprechi, dei ritardi e delle opere incompiute. coraggio arrivano a denunciare mariti, o fidanzati. Ma Ma ci resta comunque il dubbio che un paese pur in crescita sarà sempre un tentare di vuotare un secchio con un impetuosa, quale è l’odierno Brasile, avrebbe potuto impiegare colabrodo, fino a quando non si svilupperà una divercon maggiore senso di equità sociale una parte, almeno, delle sa coscienza del mondo maschile. faraoniche risorse stanziate per il suo Mondiale. C’è chi sostieDunque, due parole devono risuonare: cultura ed ne che grandi spese per grandi eventi alla fine fruttano grandi rieducazione. Cultura, per dire che non è automatico litorni: ma l’equazione raramente esce col buco. E quando sugli berarci da millenni di dominio maschile sul mondo e stadi-kolossal scenderà l’oblio delle telecamere planetarie, ai sulla storia. Educazione, per concentrare le migliori ragazzini delle favela non resterà che cercare, invano, la scuoenergie sulle generazioni di uomini e donne di domani. letta che potrebbe sottrarli alla vita di strada. Per compagno Perchè imparino da oggi, sin dai banchi di scuola e nelle resterà loro un pallone di stracci: quello, almeno, non illurealtà aggregative, modi nuovi di riconoscersi e rispettarsi. de, non discrimina, non tradisce.

Un problema maschile

N

.

.


Un sereno soggiorno nel cuore della natura piÚ bella, da oltre mezzo secolo al vostro servizio AC Costa osta Valle Va Valle Imagna Bergamo Imagna, in provincia di Bergamo (950 m s.l.m.) ai piedi del monte Resegone, circondato dal verde e dall’incantevole scenario Prealpi O robie, si trova, in posizione Orobie delle Prealpi splendidamente panoramica e tranquilla, Residence H otel PPrimula rimula. Hotel il Residence L’hotel, dotato di ampi spazi comuni, sala ristorante interna tipica, sala lettura con caminetto, bar caffetteria, solarium al quarto piano e pineta, vi offre il meglio per le vostre vacanze. Dispone di camere doppie, singole e suite con servizi, TV-sat, cassaforte, telefono diretto, phon, ascensore, biblioteca, servizio lavanderia, SDUUXFFKLHUD ÀVLRWHUDSLVWD H EXV QDYYHWWD

Solarium

Residence Hotel Primula

Via XXIV maggio, 104 24030 Costa Valle Imagna Imag (Bergamo) Per informazioni: tel. e fax 035.865.277 cell. 3487814942 info@primulahotel.it www.primulahotel.it

CA R M I N T I STA M PATOR E A LM Ăˆ BG 035541662 R I PRODUZ ION E V I ETATA

33HU OD WHU]D HWj DXWRVXIĂ€FLHQWL H SDU]LDOPHQWH HU OD WHU]D HWj DXWRVXIĂ€FLHQWL H SDU]LDOPHQWH QQRQ DXWRVXIĂ€FLHQWL RQ DXWRVXIĂ€FLHQWL A ssistenza aalla lla pe rsona 2244 ore ore su su 2244 Assistenza persona

L’hotel è gestito direttamente dalla famiglia Brumana; mamma Pia, che si occupa dellla cucina vi vizierĂ con i suoi deliziosi manicaretti. Alla reception Sara vi accoglierĂ al vostro arrivo in hotel. Andrea, laureato in scienze infermieristiche, responsabile del servizio di assistenza, sempre a disposizione per qualsiasi vostra necessitĂ . Marta, la piccola di casa, iscritta all’istituto alberghiero, addetta al servizio bar e ad organizzare farvi ammirare le bellezze della passeggiate per fa nostra natura. Il tutto sapientemente diretto da papĂ Mario. Tutta la ffaamiglia ed il personale saranno costantemente impegnati perchĂŠ vi sentiate a vostro agio, protetti, in un clima caloroso e sereno.


sommario 71

Fotoreportage Moldova, dietro l’assenza p.6

Scarp Italia

Cos’è È un giornale di strada non profit. È un’impresa sociale che vuole dar voce e opportunità di reinserimento a persone senza dimora o emarginate. È un’occasione di lavoro e un progetto di comunicazione. È il primo passo per recuperare la dignità. In vendita agli inizi del mese. Scarp de’ tenis è una tribuna per i pensieri e i racconti di chi vive sulla strada. È uno strumento di analisi delle questioni sociali e dei fenomeni di povertà. Nella prima parte, articoli e storie di portata nazionale. Nella sezione Scarp città, spazio alle redazioni locali. Ventuno si occupa di economia solidale, stili di vita e globalizzazione. Infine, Caleidoscopio: vetrina di appuntamenti, recensioni e rubriche... di strada!

dove vanno i vostri 3 euro Vendere il giornale significa lavorare, non fare accattonaggio. Il venditore trattiene una quota sul prezzo di copertina. Contributi e ritenute fiscali li prende in carico l’editore. Quanto resta è destinato a progetti di solidarietà.

Redazione centrale - milano cooperativa Oltre, via degli Olivetani 3, tel. 02.67.47.90.17 fax 02.67.38.91.12 scarp@coopoltre.it Redazione torino Casa Mangrovia corso Novara 77, tel. 011.2475608 scarptorino@casamangrovia.it Redazione Genova Fondazione Auxilium, via Bozzano 12, tel. 010.52.99.528/544 comunicazione@fondazioneauxilium.it Redazione Vicenza Caritas Vicenza, Contrà Torretti 38, tel. 0444.304986 - vicenza@scarpdetenis.net Redazione rimini Settimanale Il Ponte, via Cairoli 69, tel 0541.780666 - rimini@scarpdetenis.net Redazione Firenze Caritas Firenze, via De Pucci 2, tel.055.267701 scarp@caritasfirenze.it Redazione napoli cooperativa sociale La Locomotiva largo Donnaregina 12, tel. 081.44.15.07 scarp@lalocomotivaonlus.org Redazione Catania Help center Caritas Catania piazza Giovanni XXIII, tel. 095.434495 redazione@telestrada.it

L’approfondimento Non sono mostri ma odiano le donne p.18

Il reportage

Come leggerci

Per contattarci e chiedere di vendere

L’inchiesta La tratta dei piccoli aspiranti Drogba p.18

Repubblica Ceca: Gli affanni del cuore d’acciaio p.22

Testimoni Carlin Petrini: «Il cibo etico combatte la fame» p.26

Scarp città Milano Elena & Spike: due vite, una strada p.28 Refettorio: la cucina stellata al servizio dei poveri p.32

Como Riunire le famiglie disperse sulla porta verso l’Europa p.38

Torino Nuova card: è davvero social? p.40

Genova Voci dalla città senza più panchine p.42

Vicenza E finalmente entrammo in porto p.44

Verona L’isola che non c’era adesso invece c’è p.46

Rimini Uno scrittore dietro le sbarre p.48

Firenze Mi venne regalata l’ironia p.50

Napoli La bellezza dell’impossibile p.52

Salerno Un Giardino, per andarsene sereni p.54

Venezia Un giornale per ricominciare p.53

Catania La strage e l’accoglienza p.54

Scarp ventuno Dossier La moda? Rende schiavi p.60

Economia Povertà, a quando misure strutturali? p.64

Caleidoscopio Rubriche e notizie in breve p.69

scarp de’ tenis Il mensile della strada Da un’idea di Pietro Greppi e da un paio di scarpe - anno 19 n. 182 giugno 2014 costo di una copia: 3 euro

Per abbonarsi a un anno di Scarp: versamento di 30 € c/c postale 37696200 (causale AbbonAmento SCArP de’ tenIS) Redazione di strada e giornalistica via degli Olivetani 3, 20123 Milano (lunedì-giovedì 8-12.30 e 14-16.30, venerdì 8-12.30), tel. 02.67.47.90.17, fax 02.67.38.91.12 Direttore responsabile Paolo Brivio Redazione Stefano Lampertico, Ettore Sutti, Francesco Chiavarini Segretaria di redazione Sabrina Montanarella Responsabile commerciale Max Montecorboli Redazione di strada Antonio Mininni, Lorenzo De Angelis, Roberto Guaglianone, Alessandro Pezzoni Sito web Roberto Monevi Foto di copertina Romano Siciliani Foto Archivio Scarp, Stefano Merlini, Disegni Luigi Zetti, Elio, Silva Nesi Progetto grafico Francesco Camagna e Simona Corvaia Editore Oltre Soc. Coop., via S. Bernardino 4, 20122 Milano Presidente Luciano Gualzetti Registrazione Tribunale di Milano n. 177 del 16 marzo 1996 Stampa Tiber, via della Volta 179, 24124 Brescia. Consentita la riproduzione di testi, foto e grafici citando la fonte e inviandoci copia. Questo numero è in vendita dal 15 giugno al 12 luglio 2014


Dietro l’assenza Nel paese più povero dell’Europa orientale, la Repubblica Moldova, più di centomila bambini stanno crescendo senza genitori. Sono i cosiddetti “orfani bianchi”: orfani sociali, figli di uomini e donne emigrati in cerca di un lavoro che garantisca sopravvivenza alla famiglia e speranza di un futuro migliore ai propri bambini. Le rimesse mandate a casa dagli emigrati, circa 500 milioni di dollari all’anno, sono la forza che alimenta i consumi interni in Moldova. Ma il lato oscuro della medaglia è rappresentato dalle profonde spaccature nel tessuto sociale del paese. In villaggi abbandonati o disabitati, rimangono solo vecchi e bambini: migliaia di minori, troppo piccoli per restare soli, vengono cresciuti dai nonni, i quali d’altra parte sono spesso troppo vecchi per questo ruolo. E poi ci sono le migliaia di bambini costretti a crescere in orfanotrofi costruiti per gli orfani della seconda guerra mondiale. Il dramma degli “orfani bianchi” vive nelle foto di una giovane italiana, vincitrice con il lavoro “Dietro l’assenza” di un prestigioso premio internazionale. Myriam Meloni Myriam Meloni è nata a Cagliari nel 1980. Ha studiato giurisprudenza a Bologna e criminologia a Barcellona, prima di scoprire di voler raccontare le realtà sociali più difficili da dietro un obiettivo. Dopo tre anni di formazione al Fotografic Institut de Catalunya (Iefc) si è trasferita in Argentina, dove si è specializzata in fotogiornalismo e ha realizzato i suoi primi lavori di denuncia sociale. Con il lavoro “Behind the Absence”, realizzato in Moldova e del quale pubblichiamo due straordinari scatti, ha vinto il primo premio nella categoria “Lifestyle” al Sony World Photography Awards 2014, concorso fotografico tra i più prestigiosi al mondo, con oltre 70 mila candidati, giunto alla settima edizione.

6. scarp de’ tenis giugno 2014


Š Myriam Meloni, Italy, Winner, Lifestyle, Professional Competition, 2014 Sony World Photography Awards

fotoreportage

giugno 2014 scarp de’ tenis

.7


Dietro l’assenza

8. scarp de’ tenis giugno 2014


Š Myriam Meloni, Italy, Winner, Lifestyle, Professional Competition, 2014 Sony World Photography Awards

fotoreportage

giugno 2014 scarp de’ tenis

.9


ph. uezzo.com reclam.com

Il 5x1000 non ti costa niente. Devolvendo il 5x1000 del tuo reddito a Opera San Francesco, puoi contribuire a offrire ogni anno oltre 850.000 pasti caldi, 66.500 ingressi alle docce e 40.000 visite mediche a donne e uomini

poveri e bisognosi. Da piĂš di 50 anni, con il lavoro di oltre 700 volontari, le donazioni di beni e danaro e i lasciti testamentari, Opera San Francesco assiste e dona una speranza a chi non ha nulla.

Basta indicare il nostro codice nella dichiarazione dei redditi:

97051510150

Viale Piave, 2 - 20129 Milano ccp n. 456202 Tel. 02.77.122.400

www.operasanfrancesco.it

Ringraziamo:

Opera San Francesco per i Poveri Una mano all’uomo. Tutti i giorni.


anticamera Aforismi di Merafina

Non cambiano mai

IL CANE Il cane a volte si arrabbia, a volte è dispettoso. Il cane è come l’uomo: prima o dopo morde

Non parlo male di nessuno,

IL DENTISTA Il dentista è un uomo incisivo e ai suoi pazienti promette mare e ponti

solo del risentimento.

UN LUNGO ADDIO Vacanze separate aumentano per sempre la distanza

non critico gli altri, ciò mi produce Parlo sempre bene di chi conosco e non do giudizi affrettati. Aspetto fino alla fine, la critica può uccidere

Non sorride più Ha combattuto per riprendersi l’amore. Anche se quest’amore l’ha deluso, regalandogli il dolore. Lui l’ha sempre amata e mai smetterà di farlo. È chiuso, non può uscire, non ha più porte che può aprire. Soffre ancora lontano da lei, non vuole perderla mai. Non vuole più opinioni da scontare, non ha più mete da raggiungere ne’ sogni da realizzare. Quest’uomo non sorride più.

Fabio Schioppa

il desiderio di migliorare. In un certo senso tutti sono meglio di me. Quindi posso imparare da tutti. Silvia Giavarotti

Volevo Volevo vivere con te un vero amore. Ti ho scritto delle poesie, dei sinceri discorsi volevo toccare i tuoi sentimenti, accarezzare il tuo sorriso, muovere il tuo cuore, farti vivere un bel desiderio. Ti ho dato il mio cuore e tutto il mio essere, ti rispetto come se fossi il mio maestro. Se vuoi la mia vita, te la do senza dubbio la metterò in un mazzo di fiori e la poserò sul tuo cammino. Non ti dirò che ti offrirò la luna o il sole, ti dirò solo che ti amerò di un eterno amore. Non sapevo che non ti bastasse quest’amore, che vuoi avere altre cose. Non ho trovato niente da dire, è la disperazione, non ho creduto che la mia speranza mi deluderà. Credimi, non sei colpevole anche se giocherai il ruolo della fuggitiva per sempre. Arrivederci tenerezza, dolcezza, amore, vi lascio il mio indirizzo per trovarmi un giorno.

Samih el Mansouri giugno 2014 scarp de’ tenis

.11


Baby calciatori La tratta dei piccoli aspiranti Drogba Approdano in Europa da Africa o Sudamerica, con la speranza di diventare calciatori professionisti. Ma spesso finiscono preda di “procuratori” senza scrupoli, che truffano loro e le loro famiglie. E si ritrovano abbandonati su una strada, in paesi sconosciuti. D’altronde, le norme internazionali che vietano i trasferimenti di minori sono facilmente aggirabili. E se alcune storie finiscono bene, sono migliaia i giovani calciatori di cui ogni anno si perdono le tracce...

12. scarp de’ tenis giugno 2014

di Ettore Sutti Doko, 17 anni, per lungo tempo è stato la stella dei Rangers Ebanshindi Minna, nel nord della Nigeria. Poi, nel 2011, la svolta: un talent scout gli offre un provino per un club della Premier league maltese. Doko si organizza, si paga il viaggio, supera il provino. Ma dopo aver giocato qualche partita, senza essere mai pagato e senza aver mai visto un contratto da firmare, è stato escluso dalla squadra, perché considerato “sub-standard”. Un’esclusione sospetta, dato che è arrivata solo dopo la richiesta di un normale contratto di lavoro. «Se fossi stato davvero un cattivo giocatore mi avrebbero buttato fuori subito – racconta Doko –. La verità è che non volevano pagare nulla». no aiutato: mi hanno portato all’ospeDoko non ha avuto un centesimo ed dale, e da li mi hanno trasferito in una è rimasto bloccato a Malta, con il visto comunità. Credevo che mi avrebbero scaduto, obbligato a fare lavori umili e fatto tornare in Camerun. Invece ho fatsottopagati per tirare avanti. Per sua forto diversi provini e oggi sono qui. Sono tuna è stato intercettato da Foot Solistato fortunato». daire, ong con sede a Parigi, fondata da Molto fortunato. Perchè se è vero Jean-Claude Mbvoumin. «Le truffe ai che in Europa ci sono circa 2 mila giodanni dei giocatori africani sono in concatori africani professionisti, è altrettinuo aumento – spiega l’ex calciatore tanto vero che sono circa 4 mila i giovacamerunense –. La storia di Doko, che è ni calciatori “attirati” in Europa ogni anstato aiutato a rientrare in Nigeria e ogno, di molti dei quali si perdono poi le gi ha un contratto con una squadra di tracce. E ai figli d’Africa bisogna aggiunCipro, è solo una delle tante. Questo nogere quelli provenienti dai tanti barrios nostante le campagne lanciate nel cordel sud e centro America. Foot Solidaiso degli anni e le informazioni che si re ha aiutato centinaia di ragazzi abpossono trovare collegandosi al nostro bandonati a tornare a casa, ma Mbvousito internet». min stima che di truffe e raggiri ai danni di giovani calciatori stranieri ce ne Minala, lasciato in stazione siano almeno una ventina a settimana. É storia recente quella del camerunenTutti ragazzi di cui non rimane tracce se Joseph Marie Minala, grande protanelle statistiche ufficiali. gonista della Lazio Primavera, salito agli «Nel nostro studio demografico su onori della cronaca per il sospetto di es31 campionati di massima serie eurosere molto più adulto dei 17 anni dipea per la stagione appena conclusa – chiarati. «Mi avevano contattato in Caracconta Raffaele Poli, responsabile delmerun promettendomi un provino al l’Osservatorio del calcio presso il CenMilan – racconta –. Poi, però, la persona tro internazionale di studio dello sport che, ovviamente a pagamento, mi ha (Cies) a Neuchâtel, in Svizzera –, abbiaaccompagnato in Italia mi ha lasciato mo cartografato l’origine dei giocatori da solo alla stazione Termini. Per fortuche giocano al di fuori del loro paese na ho incontrato persone che mi han-


l’inchiesta promettente che non abbia già un agente è ormai diventato quasi impossibile. Come racconta il giornalista Cileno Juan Pablo Meneses nel suo libro Ninos futbolistas il giro di soldi è vertiginoso: per il numero di telefono della famiglia di un bambino si arriva a sborsare fino a 500 euro, mentre molti giornalisti sono a libro paga delle società per segnalare giovani promesse. La concorrenza tra i 5 mila agenti Fifa autorizzati nel cercare il nuovo Lionel Messi (acquistato a 12 anni per 10 mila euro, oggi vale oltre 100 milioni) è spietata. Meneses, per raccontare il lato oscuro del calcio giovanile, ha acquistato un giocatore cileno di 10 anni per la modica cifra di 200 dollari, poi ha documentato le forzature di un mondo assurdo, in cui i bambini sono sempre e solo vittime.

Regole fumose

d’origine. Gli “stranieri” in generale aumentano (37% delle rose europee), anche se il numero di giocatori provenienti dal Sudamerica e dall’Africa è sostanzialmente stabile, o addirittura in diminuzione (accade, per esempio, per Brasile e Argentina). Va detto che Asia e Golfo Persico sono diventate, a loro volta, destinazioni molto ambite e possibili per giocatori africani e sudamericani.

In aumento, soprattutto, sono le migrazioni di giocatori spagnoli, portoghesi, francesi, tedeschi e olandesi, paesi che hanno sviluppato sistemi di formazione molto performanti». Ma anche, aggiungiamo noi, paesi in grado di attivare processi di naturalizzazione in tempi molto rapidi per giocatori provenienti dalle ex colonie. In Sudamerica trovare un ragazzino

Oggi, per sborsare meno soldi, l’eta di reclutamento dei giocatori sta scendendo sempre di più anche se, formalmente, per la Fifa ciò sarebbe vietato. Infatti in virtù del Transfer Marching System (Tms), sistema che registra elettronicamente i dati dei calciatori giovanissimi, il trasferimento di minori da una squadra all’altra senza essere accompagnati dai genitori è vietato. Addirittura, secondo il regolamento della Federazione mondiale, i trasferimenti internazionali dei calciatori sarebbero consentiti solo quando il calciatore ha superato il 18° anno di età. Ma non sono poche le eccezioni previste dallo stesso regolamento. Ad esempio, in virtù della sentenza Bosman sulla liberalizzazione del calcio europeo, l’età dei trasferimenti si abgiugno 2014 scarp de’ tenis

.13


La tratta dei piccoli aspiranti Drogba bassa a 16 anni. Oppure il trasferimento è possibile se i genitori del giovane calciatore si sono trasferiti nel paese della nuova società per motivi indipendenti dal calcio (e così decine di padri di giovani promesse sono stati assunti tutti dalle stesse aziende). Dopo la stretta anche su queste attività, i club più grandi si sono attrezzati, creando sedi in Africa o America Latina, per seguire le giovani promesse sul posto. Malgrado ciò, nel 2012 il 57% dei bambini arrivati in Italia per giocare in club professionistici aveva meno di 12 anni. Il problema è che quando girano così tanti soldi con-

trollare tutto diventa impossibile. E allora ecco spuntare falsi attestati in cui risulta che i genitori lavorano in Europa oppure, molto più semplicemente, si fanno tesserare i giocatori da squadre amatoriali (in Africa la quasi totalità) i cui giocatori non necessitano del Tms. Se si considera infine che solo lo 0,1% dei bambini che si affacciano al mondo del calcio diventano calciatori professionisti, è facile intuire quante storie di sfruttamento e disperazione ci siano dietro lo scintillante mondo del pallone...

.

Collins sognava la serie A Giunto in Italia dalla Nigeria, è finito prima in strada, poi in un centro di accoglienza di Paolo Riva Collins, a differenza di molti migranti che salgono su un barcone, il suo viaggio della speranza l’ha fatto in aereo, ma non per questo con un bagaglio meno carico di aspettattive e responsabilità. Anzi. In lui erano state riposte tutte le speranze di cambiare vita della sua famiglia. E nei suoi piedi erano stati investiti i risparmi sudati dai genitori. Ancora minorenne, ha lasciato la nativa Nigeria, con l’ingenua certezza di diventare un calciatore famoso. A sentire lui, a garantirgli un radioso futuro sportivo ed economico sarebbe stato un calciatore affermato, che all’epoca del suo arrivo in Italia militava in una squadra della nostra serie A. Lui fa anche il nome, ma verificare con certezza che dica il vero è praticamente impossibile. Piuttosto, potrebbe essere entrato in contatto con persone che millantavano di conoscere il calciatore in questione. Ma anche questa è solo un’ipotesi. Quel che è certo, è che in «L’inchiesta – si legge sul sito dell’enAfrica e in tanti paesi in via di sviluppo te, con sede in Qatar – ha scoperto che i sono numerosi allenatori e procuratori, giovani giocatori vengono avvicinati non intermediari e agenti che sfruttano, per solo tramite i social network, come Faarricchirsi, i sogni di tanti giovani sporticebook e LinkedIn, ma anche attraverso vi e delle loro famiglie. E ora, rivela un resiti di scouting, dove i giocatori stessi cacente studio del Centro internazionale ricano video delle loro performance. per la sicurezza sportiva (Icss), lo fanno Dopo aver stabilito un contatto, il anche attraverso la rete. finto agente o lo scout che millanta di lavorare per un grande club inizia solitamente chiedendo circa 500 euro, al fine di “registrare l’interesse del giocatore” e per i “visti” necessari al viaggio. Poi pre-

14. scarp de’ tenis giugno 2014

tende altri soldi per viaggi cosiddetti “copertura”, per le spese mediche o per le assicurazioni. Alcune truffe possono arrivare fino a 3 mila dollari». Tanti soldi, per una famiglia italiana. Un’enormità, per chi sta nelle fasce più povere della popolazione di molti paesi africani. Eppure il mercato è fiorente. In contesti di indigenza, il calcio è visto come un mezzo di riscatto, i giovani talenti sono considerati investimenti dai rendimenti potenzialmente altissimi e i viaggi all’estero occasioni da non lasciarsi scappare. A qualsiasi prezzo.

Poca fama e tanti guai Lo spiega la sorella di un giovane calciatore che ha lasciato Abidjan, capitale della Costa d’Avorio, trovando parecchi guai e nessuna fama. «Ci hanno ficcato un sogno in testa e non ho avuto abbastanza buon senso per distinguere il male che c’era dietro. Forse perché la mia famiglia aveva tanto sofferto, abbiamo pensato che potesse essere l’occasione della vita per tutti noi. Dobbiamo coglierla, ci siamo detti». La donna parla all’inizio del documentario Black Diamond: Fool’s Gold, di Pascale Lamche. La regista francese, che ha indagato il tema insieme a tre giornalisti africani in Ghana e Costa d’Avorio, ha definito il fenomeno del traffico dei


l’inchiesta

Buone pratiche

Pallone per forza malato? Ecco chi costruisce futuro Certo, i delinquenti non mancano. Ma nel calcio non esistono solo mediatori senza scrupoli e sfruttatori. Sono tantissime le iniziative, portate avanti anche da società blasonate, che lavorano per garantire un futuro a tanti bambini che amano il calcio. A Milano, ed esempio, sono nati gli Inter Campus, attivi (dal 1997) in 21 nazioni del mondo. Essi lavorano con strutture operanti nel paese (missionari, onlus, ong, gruppi medici) per impostare, tramite la forza aggregante del calcio, un lavoro pedagogico e sportivo. Per evitare possibili storture, la scelta è lavorare con ragazzi dagli 8 ai 14 anni, lontani quindi dall’area del professionismo.

Patrick Vieira, ex giocatore di Arsenal, Juventus e Inter, insieme a Bernard Lama, ex portiere della Francia, ha invece fondato Diambars, la scuola dei “guerrieri”, progetto da 7 milioni di euro, realizzato in Senegal e sostenuto anche dal ministero degli esteri francese e dall’Unesco: l’obiettivo è formare uomini, prima che calciatori. Nell’istituto si insegna calcio, accanto alla scuola tradizionale sui banchi, con orari e materie, ma anche lezioni professionali, per evitare che un giorno, senza calcio, i ragazzi si trovino spiazzati. E che il calcio possa essere un formidabile strumento educativo lo sa bene anche padre Kizito Sesana, missionario comboniano a Nairobi, in Kenya, che in maniera informale ha dato vita a una squadretta di calcio, per togliere i ragazzini dalla strada e insegnare loro qualche regola di convivenza, attraverso un gioco popolarissimo e molto amato. Solo che, un po’ alla volta, lo Yassets Football Club (questo il nome della squadra) ha iniziato a vincere, sino ad aggiudicarsi il campionato di serie B kenyota. «Avremmo potuto andare in prima divisione – dice padre Kizito –, ma abbiamo deciso di fermarci: si rischiava di perdere il senso di un’esperienza che voleva essere anzitutto educativa».

prosegue Monetti – non è stata un’accoglienza facile. L’abbiamo incoraggiato a trovare un lavoro, come facciamo con tutti i nostri ospiti, ma non ha sfruttato fino in fondo le opportunità che gli si sono state prospettate. In alcuni momenti sembrava gli interessasse solo il calcio, che ha continuato a praticare, anche a buon livello. Giocando d’estate o in Promozione, però, non si possono fare progetti a lungo termine». giovani calciatori «una vecchia storia con una nuova piega. Ieri era conosciuta come la tratta degli schiavi. Oggi la chiamano solo business». Secondo Jean-Claude Mbvoumin, ex calciatore camerunense con esperienze nel campionato transalpino, questo giro d’affari coinvolge almeno 15 mila minori che ogni anno lasciano l’Africa a causa di false promesse, con tariffe che vanno dai 3 mila ai 10 mila euro. Una vera e propria fuga di talenti, che non solo impoverisce il calcio locale, ma lascia anche molti aspiranti campioni soli e smarriti, alla mercè di personaggi senza scrupoli, quando le cose non vanno per il verso giusto. E siccome capita spesso, Mbvoumin ha fondato in Francia Foot Solidaire, associazione che si occupa delle giovani vittime di questi traffici. Collins, suo malgrado, è diventato

una di queste vittime. E, poco dopo lo sbarco in Italia, si è ritrovato a calcare ben altri campi rispetto a quelli che immaginava prima della partenza. «Forte, era forte. Lo abbiamo visto subito quando l’abbiamo schierato per la prima volta con noi – ricorda oggi Peppe Monetti, responsabile progetti di accoglienza della Casa della carità e allenatore della squadra degli ospiti della struttura milanese. È qui che Collins, quando si è ritrovato senza squadra e senza abitazione, è stato accolto –. Quando è arrivato era già maggiorenne, ma ci ha raccontato che il primo provino che gli era stato promesso non è mai avvenuto e che, in quanto minore straniero non accompagnato, era stato affidato a una comunità». Nonostante alcuni infortuni, Collins il pallone non l’ha mai mollato. «La sua –

Spesso i bambini spariscono «Troppo spesso i bambini non tornano più a casa – ha spiegato Jean-Claude Mbvoumin alla Reuters – perché si vergognano, perché la famiglia ha speso molto per pagare l’intermediario cui si è affidata. Meglio star lontani. Addirittura far perdere le proprie tracce». Monetti concorda e aggiunge: «Quasi tutti i giovani migranti che accogliamo hanno grosse responsabilità nei confronti delle famiglie. Le hanno gli idraulici, gli elettricisti, i muratori: devono assolutamente trovare un lavoro per mandare i soldi a casa, pur non avendo stipendi elevati. Immaginate quali possano essere le pressioni su un giovane che parte con l’idea di diventare il nuovo Eto’o o il nuovo Drogba. E poi si ritrova da solo, in strada, in un paese che non conosce...».

.

giugno 2014 scarp de’ tenis

..15


La tratta dei piccoli aspiranti Drogba

«Si può credere al calcio nonostante le ombre» Il presidente di Assocalciatori, Damiano Tommasi: «Nel nostro mondo ci sono tante storture. Ma si può lottare per rafforzare le energie di integrazione e fair play»

di Alberto Rizzardi Damiano Tommasi, 40 anni, ex centrocampista, tra le altre, di Verona, Roma e Levante (con 25 presenze e due gol in Nazionale) è dal 2011 presidente dell’Associazione italiana calciatori (il “sindacato” di categoria). Da sempre attivo in iniziative di solidarietà, nel 2001 ha ricevuto il Premio Altropallone per il suo impegno sociale e i progetti a sostegno dell’ex Jugoslavia; nel 2004 ha partecipato alle iniziative promosse da Faitrade Italia per promuovere un consumo consapevole nei paesi del Sud del mondo. Parliamo di calcio giovanile. Ogni anno circa 4 mila giocatori vengono attirati in Europa con la promessa di diventare calciatori professionisti, ma molti di essi vengono poi abbandonati da procuratori o presunti tali. Come giudica questo fenomeno? Purtroppo, non solo in Italia, si assiste a un vero e proprio “mercato di ragazzi” che non fa onore al mondo sportivo. Per tanti il calcio italiano è un sogno e si è disposti a tutto pur di tentare la sorte. Uno dei lati oscuri di questo fenomeno sono le academy, che sorgono nei paesi d’origine, dove i vari club europei fanno selezione e, lavorando sulla quantità, tentano il colpo dell’anno. Tutto questo senza la dovuta attenzione per la storia di tanti ragazzi, che finiscono spesso illusi e beffati. Assocalciatori porta avanti da tempo una battaglia contro il vincolo sportivo. Di che cosa si tratta? Ci sono novità in merito al superamento di questo ostacolo? Dal 2000 l’Aic rappresenta anche il mondo dilettantistico e da allora il tema del vincolo sportivo è all’ordine del giorno dell’associazione. Dal 2004 si è riusciti a portare la durata del vincolo a 25 anni (prima non aveva scadenza) e ora stiamo lavorando per portarlo a

16. scarp de’ tenis giugno 2014

18 anni. In pratica un calciatore o calciatrice fino ai 14 anni firma annualmente il tesseramento e, dopo i 14 anni, può firmare il vincolo pluriennale (fino a 25), che dai 16 anni diventa l’unico modo per tesserarsi alla Figc. I genitori dei ragazzi hanno l’unica possibilità di trovare un accordo con le società e ottenere lo svincolo annuale, ma questo genera ricatti e forzature, che sono storture in un mondo che si definisce dilettantistico e tale dovrebbe rimanere. Il nostro obiettivo è che, al compimento dei 18 anni, ognuno sia libero di scegliersi la società per la quale tesserarsi e non trovarsi vincolato fino a 25 anni per una firma dei genitori. Oggi siamo fermi all’intenzione, manifestata dalla Lega Dilettanti e dal-

la Figc, di parlarne. A rilento, ma qualcosa si muove. Dietro lo scintillio della Serie A esiste un dark side, un lato oscuro del calcio italiano: riguarda giocatori che, specie nelle categorie inferiori, non vengono pagati o faticano ad arrivare a fine mese. Che cosa può fare Assocalciatori? Il calcio nell’ombra è fatto da tanti ragazzi che sperano nel grande salto e da tanti che non sono riusciti a raggiungere la serie A o lo hanno fatto di sfuggita. È un’area di intervento di Aic sia da un punto di vista sindacale, sia sul versante formativo, perché comunque prepararsi con competenze al di fuori del campo di gioco è la base sulla quale impiantare poi il proprio futuro. Spesso si abusa dei luoghi comuni legati alla parola “calciatori”, e altrettanto spesso si è fuorviati nella descrizione del nostro ambiente. In Calabria e Lombardia sono state lanciate iniziative che avvicinano calcio e sociale, coinvolgendo ragazzi che sui campi da gioco si sono resi protagonisti di gesti violenti in attività di volontariato. Come giudica queste iniziative? Ritiene possano diventare una buona prassi da esportare anche in altre realtà? Cercare di coinvolgere ragazzi che si sono resi colpevoli di gesti antisportivi e poco educativi in progetti rivolti agli altri, al sociale e al territorio è senz’altro un modo “diverso” di intendere anche la sanzione. Non sempre, purtroppo, il sistema sanzionatorio e le aspettative comuni attorno alle condanne hanno


l’inchiesta cio deviato allo sport viene dagli adulti, che poi sono convinti che certi comportamenti facciano parte del gioco e non ci si può fare niente. Sarebbe invece molto utile imparare dai bambini, dalla loro sportività e dalla loro gioia espressa nel gioco. Cosa possono fare le istituzioni del mondo del calcio italiano per concorrere a formare una cultura sportiva? Si potrebbe fare molto e non ci si dovrebbe abbattere di fronte alle sconfitte. Una sana lotta all’assuefazione a questi effetti collaterali non sarebbe un cattivo inizio. lo spirito riabilitativo. Dallo sport si potrebbe ricominciare, per diffondere sempre più l’idea che la riabilitazione è possibile. Cosa pensa, sia da presidente dell’Associazione italiana calciatori, sia da ex calciatore, quando vede episodi di violenza, offese o discriminazione che arrivano dai campi in cui giocano i più giovani? È solo emulazione, o c’è dell’altro? C’è un episodio che l’ha colpita più di altri? Il mio sogno da bambino non è mai stato quello di diventare un calciatore professionista, ma senz’altro il primo obbiettivo della mia vita sportiva è sempre stato misurarmi con i più bravi del settore. E ci sono riuscito. Anche lo sport vissuto da tifoso e appassionato è da sempre insito nella mia esistenza. Mi fanno dunque assai male tutti gli episodi violenti e di cronaca nera, che distorcono l’immagine del calcio come sport inclusivo e aggregante. Mi fanno male sia come calciatore che come dirigente sportivo: coltivo però in modo costante l’obbiettivo di esaltare gli episodi positivi, per non far credere che va tutto così male. Gesti o fatti in particolare non ne evidenzierei, perché sempre, quando il rumore del negativo si fa assordante, tendo a esaltare il fair play o gli esempi di integrazione, che mi rendono le giornate molto più soddisfacenti.

In prima fila contro lo sfruttamento Damiano Tommasi, ex calciatore, nonchè attuale presidente dell’Associazione italiana calciatori (il “sindacato” di categoria di professionisti e dilettanti)

Lo sport è il terzo grande pilastro educativo su cui poggia la formazione di bambini e ragazzi, dopo la famiglia e la scuola. Il calcio ha spesso offerto esempi negativi, portati sia da chi lo pratica, sia da parte di chi lo segue. Il nostro paese soffre di un’assenza di cultura sportiva e di un abbassamento del sistema valoriale che coinvolge anche lo sport? Esiste un solco tra l’Italia e altri paesi europei? Non so se si può parlare di solco, tra noi e il resto del mondo. O se semplicemente di un diverso punto di vista, insito in culture e costumi molto diversi. Di certo la frase “Non siamo mica allo stadio!” la dice lunga sulla percezione che si ha di cosa si va a fare dentro uno stadio e di cosa ci si può “permettere” durante una partita di calcio. Sicuramente l’approc-

Qual è l’impegno concreto di Assocalciatori per la promozione del valore educativo del calcio? Come i calciatori professionisti possono influenzare bambini e ragazzi che iniziano a praticare questo sport? Dalla scorsa estate come Aic abbiamo avviato il progetto del “Dipartimento Junior”: attraverso il coinvolgimento di ex calciatori, ma in futuro anche di calciatori in attività, il progetto cerca di diffondere l’idea di un calcio portatore di valori. I Camp, che si svolgono in varie città italiane, si propongono di unire attività sportiva, attività di laboratorio e riflessione mediata, per fondere in un’unica esperienza la crescita sportiva in sé e la crescita umana che ne può trarre beneficio. Oltre a questo, voglio segnalare che, come Aic, da quest’anno abbiamo avviato il nostro Osservatorio “Calciatori sotto tiro” per segnalare e analizzare tutti gli episodi di intimidazione, violenza, insulti e minacce ricevuti per il semplice fatto di svolgere la propria attività sporttiva con risultati non sufficienti. Purtroppo dobbiamo prima di tutto combattere la convinzione collettiva che questi fatti siano “parte del mestiere” o “effetti collaterali minori”. Accendere il faro su queste assurde notizie di cronaca nera è anche accendere un faro sul diverso livello di cultura sportiva tra noi e altri paesi calcisticamente evoluti.

.

giugno 2014 scarp de’ tenis

.17


Sono tanti: il nostro vicino tanto simpatico, il barista così gentile. Per questo è difficile stanare chi compie violenza. E condurlo a cambiare...

Non sono mostri, ma odiano le donne servizi di Marta Zanella Il mostro non esiste. Quello che, a guardarlo in faccia, identifichi subito come un bruto, un uomo violento, senza rispetto per la compagna. Quello che, nelle pubblicità progresso, è l'uomo cattivo che alza le mani su una donna sempre succube, rappresentata come debole, indifesa, sottomessa, non è l'identikit dell'uomo che commette violenza sulle donne. Ecco, quello non esiste. Un'immagine che non solo non facilita l'identificazione, ma è addirittura fuorviante per Giuditta Creazzo, fra le coordinatrici del progetto europeo Muvi (Men using violence in intimate relashionships) e coautrice del libro Uomini che maltrattano le donne: che fare?: «Nella realtà uomini e donne coinvolti in quelogie sociali o personali». Uomini norste violenze sono perlopiù persone normali, insomma, che incontriamo tutti i mali: donne che non vivono problemi giorni. Non c'è un uomo tipo, alcuni soparticolari o mancano di risorse e capano i classici “bravi ragazzi”, come raccità, uomini che non soffrono di pato-

Gli spot in tv che parlano agli uomini? «Il modello del bruto non funziona...» Secondo chi opera per combattere la violenza sulle donne, spesso i media e le stesse campagne di informazione non fanno loro un favore. Negli spot viene quasi sempre rappresentata come vittima di violenza una donna debole, in casa, con la testa bassa e spesso accucciata in un angolo in posizione difensiva. Per contro, l’uomo che le picchia appare sempre come un bruto, fuori di sé, quasi un mostro. È difficile che chi commette violenza, che spesso è il classico “uomo normale”, quello della porta accanto, si identifichi con il mostro e riconosca di essere in quella situazione. Alcune campagne informative hanno provato a ribaltare la prospettiva. Uno spot presentato in occasione dell'ultima giornata contro la violenza sulle donne, il 25 novembre scorso, si vantava di essere il primo spot che parla direttamente all’uomo che commette violenza. “La violenza non si cancella: fermati” è stato realizzato dall’associazione Svs Donna aiuta Donna, rappresenta uomini normali con vite e professioni normali (impiegati, baristi, tassisti, professionisti con la ventiquattr’ore, giardinieri...) e alla fine del video da indicazioni dei numeri da contattare dedicati agli uomini che decidono di farsi aiutare. L’anno precedente dall'Emilia Romagna era partita invece NoiNo.org, campagna in cui erano gli uomini a parlare agli uomini. Attraverso alcuni testimonial maschili famosi (da Claudio Bisio a Cesare Prandelli, da Alessandro Gassman a Daniele Silvestri) si voleva far passare il messaggio che violenza non è solo picchiare, stuprare, uccidere, ma anche e molto prima controllare, isolare, mortificare, costringere, punire, terrorizzare. Per far capire che alcuni atteggiamenti non sono “tratti del carattere”, “equilibrio di coppia”, “cultura”, ma vera e propria violenza.

18. scarp de’ tenis giugno 2014


l’approfondimento contano dai centri di ascolto. «Abbiamo accolto operai, avvocati, medici, banchieri, disoccupati, studenti, addirittura esponenti delle forze dell'ordine – enumera Mario De Maglie, coordinatore del Cam, il Centro di ascolto per uomini maltrattanti di Firenze –. Facile da capire se consideriamo i numeri: se tre donne su dieci sono vittime di violenza (ed è una stima al ribasso), vuol dire che un terzo della popolazione maschile agisce una forma di violenza. Non possono essere tutti “mostri”: abbiamo piuttosto di fronte un problema culturale».

Lavorare sulla cultura È proprio l'aspetto culturale quello fondamentale. Il progetto europeo Muvi, nato a Oslo alla fine degli anni ‘80 proprio per lavorare con gli uomini che commettono violenza sulle partner e a cui ha collaborato Giuditta Creazzo, ha studiato negli anni scorsi gli interventi già adottati in diversi Paesi europei nei confronti di uomini che agiscono vio-

Firenze

In ascolto dei maltrattanti: «A loro volta, figli della violenza» Loro, a Firenze, sono stati i primi in Italia ad aprire un servizio dedicato agli uomini che agiscono violenza sulle donne. Sono attivi ormai da cinque anni e nel frattempo hanno aperto un servizio analogo anche a Ferrara. Oggi fanno parte anche di un coordinamento nazionale con chi è arrivato dopo, una rete che unisce, oltre a Firenze e Ferrara, anche Torino, Milano e Modena. Si tratta del Cam, Centro di ascolto uomini maltrattanti, nato da una costola di Artemisia, il centro antiviolenza della provincia di Firenze, e dal 2009 soni stati 255 gli uomini che si sono rivolti al servizio. «Per il 90% arrivano volontariamente – così dice Mario De Maglie, psicologo psicoterapeuta e coordinatore del Cam – dove volontariamente intendiamo sia coloro che chiamano in autonomia, perché si rendono conto di aver superato un limite, oppure quando per la prima volta interviene la polizia o la compagna viene messa in protezione esterna». Il percorso che il Cam propone si articola in tre tappe: una prima parte di colloqui individuali, che si svolgono nell'arco di un mese, poi una seconda fase di partecipazione a incontri di gruppo, per almeno un anno di frequenza. I gruppi sono formati da un minimo di otto a un massimo di dodici “maltrattanti” gestiti da due psicologi, si partecipa a dibattiti “liberi” che ovviamente ruotano sempre attorno al tema dei maltrattamenti. Poi si passa ai gruppi “percorso”: parte della discussione è sempre destinata alla violenza ma, con il passare del tempo, lo spazio dedicato al confronto “libero” aumenta e ai partecipanti si comincia a chiedere come è andata la settimana, per esempio. Oppure anche di descrivere il proprio umore o lo stato dei rapporti con le partner. Al termine di questo periodo viene fatta una valutazione del percorso e, in caso, si continua con appuntamenti mensili nel gruppo di follow up. «Un primo buon risultato, quasi immediato, è l’interruzione della violenza fisica – spiega ancora De Maglie –; la parte più lunga e difficile, invece, è il superamento della violenza psicologica. Noi cerchiamo di dare strumenti perché gli uomini possano capire quando si sta avvicinando un momento critico, a rischio, e sappiano gestirlo, anche chiedendo aiuto. Uno degli obiettivi è migliorare la loro capacità di comunicazione». In questi percorsi si lavora molto anche sulla genitorialità e sulla comunicazione coi figli. È un argomento che punge sul vivo gli uomini, che soffrono molto per questo aspetto, ed è anche una delle motivazioni che li spinge a iniziare il percorso. Il rapporto padri-figli è stato delicato anche nella loro storia personale: non sono pochi gli uomini violenti che hanno visto o addirittura subito violenza in famiglia nell’infanzia. «Un uomo è arrivato a raccontare un episodio dell'infanzia, quando il padre, per punirlo, lo cacciò nella cuccia del cane legandolo con la catena – racconta De Maglie –. Ma, al di là del caso eclatante, la metà degli uomini che agisce violenza ha subìto violenza, e spesso non riconosce coscientemente che lo schiaffo del papà fosse un problema, per lui era una modalità educativa. Questo ovviamente non è una scusante per il loro comportamento. È però una spia, che parla della violenza come modello culturale che pervade la nostra società. Ed è quello che cerchiamo di combattere». giugno 2014 scarp de’ tenis

.19


Non sono mostri ma odiano le donne lenza, per valutare se era opportuno promuovere questo tipo di esperienze anche in Italia. «Intanto è importante dal punto vista culturale e simbolico che esistano iniziative dedicate agli uomini, intanto perché ribadiscono che il problema della violenza sulle donne è un problema degli uomini e non delle donne stesse, e non è così scontato oggi dirlo – ribadisce Creazzo –. Secondo, il fatto che esista la possibilità per gli uomini di ottenere aiuto li incentiva a farlo. Se non ci fossero luoghi e modi per farlo, nessuno lo penserebbe possibile».

Percorsi efficaci ma complessi Il funzionamento di questi percorsi non è scontato. «Un percorso ha successo se viene portato fino alla fine, allora la possibilità di recidiva è più bassa. Se invece l'uomo abbandona in corsa, la probabilità che le violenze si ripetano sono molto più alte». Proprio l'abbandono frequente è uno dei punti critici di questi programmi. L’atteggiamento più comune fra gli uomini è negare di avere un problema, minimizzarlo. Oppure non vogliono mettersi in gioco, costa troppo impegno e troppa fatica guardarsi dentro davvero, e lasciano perdere.

È poi importante che questi interventi non siano isolati sul territorio, ma esista una rete di altri centri e servizi che si occupino di violenza sulle donne, come i centri antiviolenza. Sono progetti che devono andare di pari passo con il sistema di sicurezza e protezione delle vittime. E soprattutto, ci dice Creazzo, il lavoro fatto con gli uomini deve essere di tipo sociale e culturale, e non solo trattamentale. «Sappiamo che la maggioranza di questi uomini non ha patologie psicologiche o sociali, si tratta dunque di intervenire su un problema che è culturale e attiene alle dinamiche della relazione tra uomini e donne». Si deve lavorare sulla necessità di riconoscere la violenza e di assumersene la responsabilità. Di capire che la violenza non è una malattia o una patologia da cui l'uomo è affetto, ma è una scelta ben precisa che l'uomo compie, e che può decidere se agire o meno. «Miracoli non ne facciamo – chiude De Maglie dal Cam di Firenze – cerchiamo di dare agli uomini degli strumenti perché possano scegliere di cambiare il loro comportamento, perché sappiano anche quando è il caso di chiedere aiuto, perché capiscano quando fermarsi e decidano di farlo».

.

La relazione non c’entra, il problema è individuale La violenza, comportamento che riguarda il singolo. Per questo l’associazione Lou Salomé Tra i primi ad aver capito che anche gli uomini violenti hanno bisogno di aiuto, a Milano, ci sono le donne. E che proprio per questo la violenza sulle donne è un problema anche degli uomini. Sono le psicanaliste dell'associazione Lou Salomè, che dal settembre del 2012 hanno attivato il progetto “Uomini non più violenti”, volto ad accompagnare gli uomini a prendere coscienza del proprio comportamento e ad aiutarli a trovarne di alternativi. Il tutto, ovviamente, con lo sguardo alle donne: perché l'obiettivo ultimo è quello di fare prevenzione e garantire la sicurezza in famiglia. «Da due anni lavoriamo senza alcun finanziamento pubblico – a parlare è Chantal Podio, psicanalista e coordinatrice del progetto –, perché non c'è la considerazione che questo sia un lato della medaglia fondamentale su cui

20. scarp de’ tenis giugno 2014

lavorare. Si pensa che sia impossibile che un uomo violento possa volontariamente seguire un percorso di questo tipo. In questo contesto in cui il nostro lavoro non è affatto facilitato, aver seguito per un lungo tempo 15 uomini è per noi un buon risultato». Uomini che hanno chiesto aiuto perché si sono resi conto che per fermarsi avevano bisogno di una mano esterna. «Questa mano gliela diamo subito ed è piuttosto efficace: il nostro primo, immediato obiettivo, è che la violenza fisica non si ripeta più, e in effetti di solito si interrompe subito. Ottenuto questo “time out”, poi ci prendiamo il tempo con l'uomo per capire cosa sta succedendo». Lo fanno affiancando un percorso individuale di psicoterapia, in cui si analizzano le dinamiche relazionali con la compagna, alla partecipazione al gruppo di con-

fronto, in cui si lavora invece sulla ricostruzione degli episodi di violenza e sull'individuazione, insieme, di modalità alternative di comportamento che avrebbero potuto e dovuto esserci in quei casi. «Se possibile sentiamo anche la versione della compagna, perché non è raro che i due partner abbiano una visione molto diversa della violenza in atto. Ci sono stati casi in cui entrambi hanno chiesto di fare un percorso di coppia, che però viene sconsigliato perché la violenza è un comportamento individuale, dell'uomo, che deve risolvere, non è un problema di coppia, non c'è corresponsabilità. Questo deve essere chiaro». Anzi, a volte le operatrici del progetto chiedono che i due partner restino separati per un certo periodo, perché la distanza aiuta a lavorarci sopra e,


l’approfondimento

Torino

Nel “Cerchio degli uomini” si lavora sulla consapevolezza Anche Torino ha il suo sportello di ascolto per gli uomini che commettono violenza. Lo ha inaugurato cinque anni fa “Il Cerchio degli uomini”, associazione che lavora per un’identità maschile serena e consapevole. Oltre alla linea telefonica dedicata hanno affiancato anche dei percorsi individuali e di gruppo per quegli uomini autori di violenza in famiglia che vogliono lasciarsi i maltrattamenti alle spalle. I dati stimano che i casi di violenza domestica sulle donne denunciati siano tra il 5 e il 10% di quelli che realmente accadono, e gli uomini che arrivano allo sportello torinese provengono invece da quella stragrande maggioranza di violenza sommersa. «E comunque quello che noi vediamo è solo una piccolissima parte di questo enorme e pervasivo fenomeno – commenta Domenico Matarozzo dell’associazione –. In questi cinque anni abbiamo ricevuto 170 telefonate di uomini che chiedevano un aiuto. Di questi un centinaio hanno poi fatto i primi colloqui. Una trentina di loro sono stati inseriti nei percorsi o nei gruppi ordinari, altri 40 invece li abbiamo rimandati ad altri tipi di servizi, ad esempio quelli dedicati alle dipendenze». Nella maggior parte dei casi negli uomini scatta qualcosa quando va in crisi l’immagine di famiglia che si erano costruiti, il ruolo di marito e padre che credevano di avere. Quando viene allontanata la compagna, oppure è lei stessa che, spaventata dalla violenza e per paura che possa toccare anche i figli, se ne va portandoli via, «allora lui va in pallone e reagisce con violenza. Viene toccata la patria potestà, e questa cosa non viene accettata – racconta ancora Matarozzo –. È la storia più comune che arriva da noi, e di solito coinvolge uomini tra i 40 e i 60 anni».

non effettua percorsi di coppia se possibile farlo, a recuperare il rapporto con più serenità. Se la terapia di coppia non ha senso, non è escluso che i due possano seguire due percorsi diversi di lavoro su se stessi, e che anche la donna abbia bisogno di aiuto per elaborare il vissuto e imparare ad essere più forte. A volte con risultati incoraggianti. Giovanni e Stefania, entrambi 35enni, stavano insieme da quattordici anni, erano sposati da cinque e stavano per separarsi proprio per i litigi frequenti che finivano in violenza, quando lui ha deciso di chiedere aiuto. Mentre Giovanni seguiva gli incontri di gruppo, anche Stefania ha scelto di farsi seguire da un terapeuta e di fare un percorso personale. Oggi stanno ancora insieme, non ci sono più stati episodi di sopraffazione fisica né psicologica, lui continua a seguire il gruppo di

Il percorso prevede un incontro esplorativo che segue subito la telefonata, e da lì l’uomo viene reindirizzato ad altri servizi oppure inserito nei loro “gruppi ordinari di consapevolezza”. Il lavoro che fanno è in gran parte culturale, viene messo in discussione il modello comportamentale, si parla di violenza fisica, ma anche economica e psicologica, si lavora sulle gestione della rabbia, delle emozioni e del proprio corpo, vengono affrontate pratiche di risoluzione dei conflitti e proposti modelli positivi. «Puntiamo molto su questo approccio culturale: l’uomo non deve sentirsi in diritto di usare la violenza come modalità di relazione. E poi sulla continuità, altrimenti il rischio di recidiva è alto – spiega Matarozzo –. Non è sufficiente qualche colloquio, ci vuole un percorso almeno di un anno: è un tempo che consideriamo il minimo perché si possano avere risultati positivi, anche se spesso proponiamo la formula “sei mesi rinnovabili” per evitare che la persona di spaventi all'idea di affrontare un cammino tanto lungo e rinunci subito». Ma per chi arriva fino in fondo, i successi sembrano buoni. «Nei casi che abbiamo seguito non ci sono stati più – per quello che abbiamo potuto vedere noi nel tempo – casi di violenza fisica. Gli uomini dichiarano di essere più tranquilli e hanno imparato a relazionarsi in un modo alternativo alla violenza».

monitoraggio e si sente “meno arrabbiato in generale, più in grado di gestire le situazioni negative, comprese quelle sul lavoro, con calma e senza sfociare nella rabbia».

.

Info: telefono 02 87168243 mail uomininonpiuviolenti.mi@gmail.com giugno 2014 scarp de’ tenis

.21


La regione delle miniere, in Repubblica Ceca, vive una profonda crisi di trasformazione. Caritas “inventa” lavoro a chi non l’ha

Gli affanni del cuore d’acciaio di Francesco Chiavarini Gustav Michalec, 50 anni, ha passato metà della sua vita nella miniera di Dul Odra vicino a Ostrava, Repubblica Ceca. Oggi smonta vecchie tv e radio nel laboratorio per il riciclo di rifiuti elettronici aperto dalla Caritas cittadina di Sant’Alessandro. «La miniera – racconta – mi ha pagato bene, più di quanto qualsiasi altra impresa avrebbe fatto. Mi ha dato un ruolo sociale, perché durante il comunismo i minatori, in questo paese, erano qualcuno. E mi ha rovinato i polmoni...». Sei anni fa il medico ha diagnosticato al signor Michalec una silicosi. La malattia non è tanto grave da costringerlo a girare con una mascherina sulla bocca, come accaduto ad altri colleghi, ma è stata sufficiente a metterlo definitivamente fuori dal mercato del lavoro. «Una persona non più giovane e malata chi vuoi che si dai tempi di Maria Teresa d’Austria. Con prenda la briga di assumerla? Meno le sue torri di ferro e gli svettanti comimale che ho trovato questo posto in Cagnoli di cemento, gli altiforni di Vitkoviritas. Con la pensione di invalidità e lo ce dominano ancora lo skyline della citstipendio che prendo qui guadagno tadina. Ma è solo il simbolo di un’epomolto meno di un tempo; ma se non alca che volge al tramonto, un gioiello di tro, riesco ancora a mantenere la famiarcheologia industriale riconosciuto glia, a sentirmi utile. E anche a farmi dall’Unesco e che il comune intelligenqualche birra ogni tanto», conclude sortemente sta trasformando in museo. Le ridendo. miniere che alimentavano il “Castello di A Ostrava, 300 mila abitanti, al conOstrava” e le altre industrie siderurgiche fine con la Polonia, si estrae il carbone che valsero alla regione nel Novecento

22. scarp de’ tenis giugno 2014

l’appellativo di “cuore d’acciaio” della Repubblica Ceca, sono chiuse. L’attività mineraria ha resisto all’occupazione nazista, al regime comunista, ma non all’economia di mercato. Con la caduta del regime, è crollata l’estrazione del combustibile fossile che ha dato origine allo sviluppo economico della regione: la produzione di carbone è passata da 26,4 milioni di tonnellate nel 1985 a 14, 9 milioni nel 2000.

Miniere in crisi nera Dopo l’adesione del governo di Praga alla Comunità europea nel 2004, a causa del sempre più basso prezzo di mercato, il declino di questo settore è stato ancora più precipitoso. I 113 mila lavoratori impiegati nel settore nel 1990 sono diventati 47 mila nel 2005. Oggi l’ultima miniera rimasta nel distretto, che impiega ancora 13 mila persone, naviga


il reportage

Ristrutturare uno storico tessuto industriale oggi non più competitivo: sfida epocale, per la nobile Slesia ceca. I costi sociali, tra Ostrava e Opava, sono elevatissimi. Ma c’è chi prova con laboratori: imprese sociali, non progetti assistenziali

in cattivissime acque: la proprietà, la Okd, appartenente al più grande gruppo privato del settore, la Nwr, ha annunciato che chiuderà l’impianto se non riceverà aiuti di stato. Ipotesi contro la quale si è sempre opposto il partito social-democratico, che nell’ottobre scorso ha vinto le elezioni. Il premier Bohuslav Sobotka, convinto europeista, sa che la Ue considererebbe una violazione delle regole della libera concorrenza un eventuale finanziamento pubblico a un’impresa privata e aprirebbe certamente una procedura di infrazione contro il suo governo se dovesse decidere di autorizzarla. Il crollo del prezzo del carbone e la difficile conversione industriale di questo ex distretto minerario sono all’origine di una difficile situazione sociale. Oggi il 10% degli abitanti di Ostrava, il capoluogo, non ha lavoro. Una condi-

La storia

lvan, tornato il contadino: «Troppo vecchio per fare altro...» Ivan Nawrat (nella foto) la mattina si sveglia presto. Va nel pollaio a prendere le uova, libera le capre, dà da mangiare ai maiali. Poi prende il falcetto e l’ascia e va nel bosco. Taglia e sfalcia: tiene puliti i sentieri. Prima che diventi buio, passa con il trattore a raccogliere le ramaglie che serviranno a produrre pellet. «Sono tornato a fare il mestiere di mio padre: il contadino», sorride amaro. Dalla vita sperava in qualcosa di meglio, Ivan. Purtroppo il titolare della falegnameria dove lavorava, a Chlebicov, non aveva figli, e quando ha deciso di ritirarsi nessuno ha voluto prendere il suo posto. Così, quattro anni fa, ha chiuso lasciando tutti a casa. Nell’antica e nobile Slesia ceca non è facile trovare lavoro. Il capoluogo, Opava, 50 mila abitanti, ha un’università, una rinomata accademia scientifica, ma la sua attività industriale è legata soprattutto alle miniere della vicina Ostrava, che versano oggi in una profondissima crisi. Così i livelli di disoccupazione sono diventati tra i più alti del paese. «Qualcuno dei miei colleghi è riuscito a trovare un altro posto – commenta Ivan –. Ma io ho 48 anni, non sono più giovane e non rappresento più un buon investimento per nessuno». Così per l’ex falegname Nawrat c’è stata prima la strada, poi il dormitorio. Fino a quando, dieci mesi fa, l’ufficio dell’impiego lo ha indirizzato in una piccola fattoria, gestita dall’Esercito della Salvezza. Qui ha trovato qualcosa da fare e una casa: una piccola stanza nella foresteria, dove vivono in condivisione altre cinque persone. «Il comune ci ha commissionato il servizio di pulizia dei boschi. Da questa attività traiamo le risorse per sostenere il progetto: il commercio di pellet che ricaviamo trasformando gli scarti di legno – racconta Lucia Bafilowa, responsabile dell’organizzazione –. La carne e il formaggio che produciamo dai nostri animali vengono invece consumati all’interno della fattoria: non abbiamo le licenze per vederli e non ci interessa farlo, per il momento. Non siamo impresa agricola, ma un luogo di risocializzazione: i nostri ospiti, nel tempo che passano da noi, reimparano a rispettare gli orari, i ritmi di lavoro, a ridarsi delle motivazioni. Il nostro compito è farli sentire ancora utili, impedire che si scoraggino, metterli nelle condizioni perché possano trovare un impiego da qualche altra parte». Nawrat è un tipo preciso, non sgarra di un minuto, dicono i responsabili del progetto. Ma una soluzione al suo problema tutti sanno che è difficile trovarla. Troppo giovane per la pensione, troppo vecchio per il libero mercato. Ora può contare sul sussidio e, per ancora qualche mese (il termine non è tassativo) sull’ospitalità della fattoria. «Per ora va bene così, qui mi piace. Poi si vedrà...». giugno 2014 scarp de’ tenis

.23


L’ETICA HA MESSO RADICI FORTI NON MANDARE IN FUMO

I TUOI RISPARMI

Da oltre 10 anni hai la possibilità di investire i tuoi risparmi nel rispetto dell’ambiente e dei diritti umani, senza rinunciare alle opportunità di rendimento. Con i fondi comuni di Etica Sgr. I fondi Valori Responsabili promossi da Etica Sgr sono distribuiti in tutta Italia da oltre 200 collocatori tra banche, reti di promotori e collocatori online, come Banca Popolare Etica, Gruppo Banca Popolare di Milano, Gruppo Banca popolare dell’Emilia Romagna, Banca Popolare di Sondrio, Casse Rurali Trentine, Banca Popolare dell’Alto Adige, Banca di Piacenza, Banca Carim, Valori e Finanza Investimenti SIM, un ampio numero di Banche di Credito Cooperativo, WeBank e Online Sim. L’elenco completo dei collocatori è disponibile sul sito www.eticasgr.it


il reportage

zione migliore di molte regioni italiane, ma che fa della Moravia-Slesia la quarta provincia, tra le 77 della Repubblica Ceca, ad avere il più alto tasso di disoccupazione.

Caritas attiva sul lavoro Proprio sul lavoro ha concentrato tutte le sue energie la Caritas di Sant’Alessandro. Dal quartiere generale, in una ex miniera ristrutturata, il direttore, Pavel Folta, dirige quattro laboratori che danno lavoro a invalidi, disoccupati di lungo corso, disabili: falegnameria, produzioni tessili, ceramica, recupero e riciclaggio dei rifiuti elettrici. Il termine laboratorio è fuorviante: fa venire in mente un luogo di assistenza e non di lavoro. Queste invece sono piccole imprese. Dove si entra e si esce timbrando il cartellino. Dove si rispettano le scadenze fissate dai clienti come in qualsiasi altra azienda. Dove a chi è in visita si mostrano con orgoglio i macchinari che servono, ad esempio, a lavare dalle sostanze inquinanti i vetri dei televisori, o per tagliare il legno con precisione. Anche qui, accanto all’attività produttiva, c’è quella risocializzante. Ma i due concetti sono tenuti distin-

Archeologia industriale Gli altiforni di Vitkovice sono un monumento culturale nazionale, parte del patrimonio culturale europeo, candidato per l’Unesco. Il sito comprende l’ampia area industriale delle acciaierie di Vítkovice, formate da tre blocchi, chiamate “il Castello di Ostrava”

ti, senza ipocrisie. Chi non potrebbe fare altro lavora al telaio manuale ascoltando la musica affiancato dagli operatori sociali; tutti gli altri stanno alle macchine, come da qualsiasi altra parte. Il fatturato proviene per il 46% dalle commesse, per il 18% dai sussidi pubblici, il resto dalle donazioni. Sono un centinaio i lavoratori assunti. Lo stipendio medio è di 414 euro, la metà di quello che un lavoratore prenderebbe da queste parti in un’azienda sul libero mercato. A Opava, una cittadina più piccola della stessa regione, la Caritas locale ha riprodotto lo stesso modello. Lavoro, dignità e orgoglio. Accanto al laboratorio

tessile hanno aperto anche un negozio. Si vende ai clienti quello che si produce: soprattutto articoli per la casa (tovaglie, grembiuli, sottopentole).

Ilona si sente ancora utile Ilona Michalcikova è alla macchina da cucire. «Prima lavoravo in un’azienda tessile qui nella zona – racconta –; poi, 15 anni fa, il proprietario è fallito e siamo state tutte licenziate. Ho cercato un altro posto per tanto tempo, ma non ho trovato nulla. Per un po’ ho lavorato come sarta da casa. Poi sono arrivata qui. L’ambiente è sereno, non si guadagna molto, ma si sta bene». I laboratori delle Caritas di Ostrava e Opava sono due esempi di buone prassi, selezionate dal progetto europeo SeeLight sull’economia sociale e integrazione lavorativa di soggetti deboli. «Quando siamo nati – spiega il direttore dei laboratori di Caritas Opava, Tomas Schaffartzik – avevamo di fronte due problemi: i disoccupati delle aziende di stato chiuse dopo la caduta del comunismo e i disabili che non avrebbero trovato impiego nel libero mercato. Abbiamo deciso di dare una risposta agli uni e agli altri».

.

giugno 2014 scarp de’ tenis

.25


«Il cibo “etico” combatte la fame» Carlo Petrini ha fondato Slow Food. Alla vigilia di Expo, parla di “gastronomia liberata”

di Danilo Angelelli

Un cibo è etico quando rispetta i territori, è coltivato senza pesticidi e quando il lavoro di chi lo coltiva è riconosciuto e valorizzato. Il cibo etico rispetta tutte e tre queste condizioni 26. scarp de’ tenis giugno 2014

Se oggi più di qualcuno nella società civile ha iniziato a considerare tutto del cibo – le persone, i luoghi, i processi, le implicazioni –, una mano l’ha data certamente Slow Food, l’associazione non profit che dal 1986 cerca di promuovere in tutto il mondo il cibo “buono, giusto e pulito”. Da Slow Food è nato anche il progetto Terra Madre, per dare voce a contadini, pescatori e allevatori di ogni parte del pianeta. Dietro e prima di Slow Food e Terra Madre, lui, Carlo (Carlin) Petrini. Che oggi è in libreria con Cibo e libertà. Slow Food: storie di gastronomia per la liberazione (Ed. Giunti – Slow Food). Quando il cibo è etico? In che misura oggi il cibo può essere Parlare di gastronomia, e soprattutto di strumento di liberazione? gastronomia per la liberazione, significa parlare di terra. Non solo per l’ovvio Il cibo diventa strumento di liberazione motivo che la realizzazione di un cibo quando riesce a risvegliare i popoli, parte sempre da un prodotto della terra, quando stimola la fantasia e aiuta a rima perché il cibo “buono, pulito e giuscoprire le ricchezze del proprio territosto” ha bisogno di un’equa gestione delrio. È la liberazione dai gioghi e dalle la terra e del rispetto per chi la lavora. Ho gabbie più scandalose: le disuguagliansempre sostenuto che “buono, pulito e ze, le oppressioni, gli scempi che si pergiusto” non è un dogma, ma un’aspirapetrano sull’ambiente e sulle persone, zione a cui devono tendere contadini, la fame e la malnutrizione. La nostra cuochi, produttori, cittadini. Un trittico “gastronomia liberata” (dal solo concetsu cui costruire un’alleanza. Un cibo è to di degustazione e prodotto da consuetico quando rispetta i territori, è coltimare), con un processo parallelo e di revato senza l’uso di pesticidi e quando il ciproca influenza, è diventata strumenlavoro di chi lo coltiva è riconosciuto e to di liberazione dalla povertà, dal libero mercato, dai condizionamenti valorizzato. Il cibo etico è quello che riculturali di stampo post-coloniale, da spetta tutte e tre le parole sopra citate. imposizioni, vincoli e gravi difetti del sistema globale del cibo; e, in alcuni casi, Possono contribuire gli chef della si comincia anche a intravedere una litv, ormai vere e proprie star, a senberazione concreta dalla fame e dalla sibilizzare in questo senso? malnutrizione. Il centro di questa nuova Gli chef hanno un ruolo educativo fonrivoluzione è il continente sudamericadamentale, tanto più oggi che godono no, in cui la “gastronomia per la liberadi un’attenzione mediatica senza precezione” sta prendendo piede grazie alla denti. Sono gli ambasciatori del buon sensibilità degli chef emergenti, sempre cibo e con i loro racconti possono sotpiù interessati a progetti come gli orti tolineare i principi che li guidano, o doscolastici, alla riscoperta del cibo e delvrebbero guidarli, in cucina. Moltissimi le tradizioni popolari, in contrasto con lo fanno già, e i risultati si vedono. Penla gastronomia imposta dal vecchio siamo solo agli chef che partecipano al continente, spesso incapace di intercetprogetto dell’Alleanza tra i cuochi e i tare la portata politica del cibo, di come Presìdi Slow Food, la rete che difende la lo si produce e trasforma. biodiversità in tutto il mondo valoriz-


testimoni spesa, prendiamo delle decisioni importanti e non ce ne rendiamo conto, accecati dalla ricerca del “3x2”, dove spesso il “tre” finisce nella pattumiera. Ricominciamo a dare valore al cibo e a rispettarlo. Nel momento della spesa noi decidiamo che agricoltura favorire, che filiera della distribuzione privilegiare, che industria della trasformazione stimolare. Quale ambiente vogliamo e quale futuro vogliamo dare ai nostri figli. Non ce ne rendiamo conto ma abbiamo un potere grandissimo.

zando i prodotti del territorio. Purtroppo però la maggior parte delle trasmissioni televisive vedono solo la spettacolarizzazione di una situazione che invece è molto importante e complessa. Oggi è tutta una gara ai fornelli, mentre trasmissioni di una volta come quelle di Mario Soldati, lo scrittore, giornalista, regista che inventò il “reportage enogastronomico”, o di Luigi Veronelli, enologo, gastronomo e scrittore, farebbero un servizio importante all’economia, all’agricoltura, alla salute e alla ristorazione. Il recente ritorno alla terra, e anche le esperienza dell’agricoltura sociale e degli orti urbani, rendono automatica una maggiore comprensione del significato del cibo? Sicuramente. Quanto è bello assistere alla nascita di orti nelle grandi metropoli, nelle scuole o sui balconi. Il ritorno alla terra è un fenomeno da sostenere e da rispettare, non mi stancherò mai di dirlo. Cosa saremmo senza i nostri contadini? Chi coltiverebbe le nostre verdure e chi si prenderebbe cura dei nostri territori? A volte diamo troppe cose per scontate, senza rifletterci. Bisogna sostenere il crescente numero di giovani che si avvicinano all’agricoltura perché

Gastronomo per la liberazione “Carlin” Petrini, 64 anni, piemontese di Bra, è fondatore di Slow Food e del progetto, ormai di portata planetaria, “Terra Madre”. A fianco, la copertina del suo recente libro Cibo e libertà (Giunti – Slow Food), che ricostruisce storia e battaglie del movimento

sono fondamentali per il nostro futuro. Sostenere e non ostacolare come succede da noi con una burocrazia vecchia e irresponsabile, con difficoltà al credito spaventose e una Pac, la Politica agricola comune, che sino ad oggi ha facilitato e aiutato i grandi proprietari terrieri. In Cibo e libertà ricorda che anche se nel mondo si soffre la fame, ogni anno cinque miliardi di tonnellate di cibo vengono buttati; che il Messico importa in grande percentuale il mais e l’Indonesia il riso. Ci sono comportamenti quotidiani che ciascuno di noi può adottare per dare il proprio contributo affinché le cose vadano diversamente? I comportamenti quotidiani sono fondamentali, ma soprattutto è importante puntare sull’educazione alimentare. Noi tutti i giorni, quando facciamo la

Cosa ha determinato il successo della campagna “Mille orti in Africa” tanto da farvi “rilanciare” con 10 mila orti in Africa? Il progetto funziona grazie agli africani. Noi di Slow Food ci limitiamo a dare loro gli strumenti e ad accompagnarli, ma poi sono essi stessi gli artefici del proprio destino. Con questa nuova fase del progetto vogliamo aiutarli a creare una leadership di giovani, affinché possano cambiare il loro futuro. Ci saranno borse di studio all’Università degli studi di Scienze gastronomiche di Pollenzo, in Piemonte, incontri della rete africana, viaggi per partecipare al Salone del Gusto e Terra Madre. Saranno loro a salvare la straordinaria biodiversità dell’Africa, a valorizzare i saperi e le gastronomie tradizionali e promuovere l’agricoltura familiare e di piccola scala. “Una sola famiglia umana, cibo per tutti: è compito nostro” è la Campagna di sensibilizzazione e formazione elaborata dagli enti cattolici italiani per rispondere unitariamente all’appello del Papa «a dare voce a tutte le persone che soffrono silenziosamente la fame»… Il punto sollevato dal Papa è fondamentale: la fame è una vergogna risolvibile e cancellabile dalla storia in tempi brevi se c’è la volontà politica per farlo. L’attuale sistema alimentare mostra i suoi limiti, i suoi lati oscuri. L’obiettivo della sconfitta della fame deve essere prioritario per ognuno di noi, non solo per fratellanza universale, quanto per il proprio benessere personale. Non possiamo essere felici se non lo sono anche gli altri, quindi non potremo essere realizzati fino a quando questo flagello non sarà debellato. Ecco, senza cibo non c’è parola di salvezza che tenga.

.

giugno 2014 scarp de’ tenis

.27


milano Persone senza dimora e cani: connubio frequente, ma sono rare le strutture di accoglienza che accolgono anche animali

Elena & Spike: due vite, una strada Como Riunire le famiglie disperse sulla porta verso l’Europa Torino Nuova Card, è davvero social? Genova Voci dalla città senza più panchine Vicenza E finalmente entrammo in porto Verona L’isola non c’era, invece adesso c’è Rimini Uno scrittore dietro le sbarre Firenze Mi venne regalata l’ironia Napoli La bellezza dell’impossibile Salerno Un Giardino, per andarsene sereni Venezia Un giornale per ricominciare Catania La strage e l’accoglienza

28. scarp de’ tenis giugno 2014

di Alberto Rizzardi foto di Stefano Merlini Elena è una giovane senzatetto di Milano. Non corrisponde allo stereotipo medio che si ha in materia. Ma è una senzatetto. Da oltre due anni. La sua casa è una tenda montata di sera e smontata la mattina a Porta Genova. Solo di rado, quando gli spiccioli lo consentono, ci sono il dormitorio o la pensione. Elena è ancora giovanissima ma alle spalle, anzi sulle spalle ha già tanta sofferenza che le vela di tanto in tanto gli occhi. I suoi genitori sono morti quand’era ancora piccola. Affidata a una casa famiglia, ne esce a 18 anni, un po’ perché fatta andare via, un po’ per il suo desiderio di rendersi indipendente. Cosa che puntualmente avviene. Dopo il diploma a indirizzo socio-pedagogico, inizia ben presto a darsi da fare. Elena è bella. Di quelle bellezze acqua e sapone che sanno innocentemente affascinare, più di quelle artefatte e prive di difetti. forma di artrite reumatoide che la obÈ colta, curiosa e dai modi gentili. Inizia bliga a lunghe e costose terapie con a lavorare come ragazza immagine per conseguenze a cascata: perde i capelli e, una società milanese che recluta giovacon essi, a causa di una clausola sul ni per fiere, eventi sportivi e convegni. contratto che impone il bell’aspetto, an«La paga era molto buona – racconche il lavoro. Si ritrova con sei mesi d’afta oggi, seduta sulla sua coperta vista uscita-varco della metropolitana della stazione di Cadorna – e l’impegno, in termini di ore, abbastanza contenuto. Ciò mi consentiva di dedicare buona parte della settimana al volontariato». Durante una ronda caritatevole in zona Lampugnano, Elena si imbatte in una casa dove venivano addestrati cani alla lotta. Alcuni erano usati come cavie per formare all’aggressività gli altri quattro zampe: tra questi c’era Spike, un enorme e bonario cucciolo, metà sanbernardo, metà boxer. «Gli avevano incollato le palpebre e raschiato i polpastrelli delle zampe – ricorda Elena –. È albino e può nutrirsi solo con un particolare tipo di croccantini. Lo adottai e lo portai a vivere con me nel mio apCompagni inseparabili partamento». Da quel momento le vite Elena e Spike al loro di Elena e Spike hanno viaggiato in paposto, in Cadorna. rallelo. Sono diventate, insomma, una Per i senza dimora con amici famiglia, anche se sui generis. a quattro zampe, Fin qui, nonostante qualche spallatrovare luoghi ta importante già inflitta dal destino, la accoglienti è ancora vita di Elena sembra procedere regolarpiù difficile mente. Poi, però, arriva la malattia: una


scarpmilano fitto in arretrato e viene sfrattata, trovandosi da un giorno all’altro per strada. Non da sola, certo. C’è Spike. Ma proprio per questo per lei non si possono aprire le porte della normale (e ricca) rete d’accoglienza milanese. Perché gli animali – ed è questione annosa, a Milano come nel resto d’Italia – non sono di norma ammessi nei dormitori pubblici, principalmente per motivi igienici e logistici. E, dal canto loro, in molti casi sono gli stessi senza dimora a rifiutare l’accesso nelle strutture d’accoglienza, per non doversi separare dai loro compagni di viaggio. Come accadde lo scorso anno a Voghera, nel mezzo di un gelido inverno, quando Rita, una homeless cinquantenne che faceva la spola tra Milano, Asti e la provincia di Pavia, rifiutò di farsi ricoverare in ospedale per le cure di cui necessitava per non separarsi dall’amato Bobo.

Il cane spesso è un alibi «Non c’è solo il problema della mancanza di strutture adeguate – spiega Lorenzo Marasco della Comunità Progetto, cooperativa sociale che dal 1991 si occupa a Milano di povertà e marginalità sociali –, ma anche, spesso, della mancata disponibilità dei senza dimora a entrare nelle strutture esistenti. Perché questo vorrebbe dire separarsi dal

Il progetto

Casa Silvana, luogo accogliente anche per i “quattro zampe” È una questione di cui si dibatte da tempo, quella dell’accoglienza dei senza tetto che vivono con un cane. E a cui si cerca di dare una risposta con iniziative isolate dei vari comuni, specie durante l’inverno, quando tali iniziative viaggiano in parallelo ai “piani antifreddo”. Esempi ce ne sono a Roma e Bologna, come a Torino e Milano. Due città, queste ultime, in cui si è provato a fare qualcosa di più. Ha cominciato Torino, dove nel 2011, da un’idea di varie realtà del territorio, tra cui i City Angels, è nata l’associazione “Homeless non Dogless” con l’obiettivo di aiutare i quattro zampe e i loro padroni in difficoltà, tra cui detenuti e senza dimora. A Milano, lo scorso marzo, “Casa Silvana”, la struttura di via Esterle di proprietà del comune, data in comodato d’uso gratuito nel 2007 ai City Angels, ha aperto le sue porte anche ai senza tetto con cane: «Abbiamo allestito inizialmente 15 posti letto con altrettante cucce, intensificando poi le attività perché abbiamo avuto molte richieste e siamo stati spesso costretti a ospitare anche due cani per cuccia», spiega Mario Furlan, fondatore dei City Angels. Nel nuovo regolamento comunale sugli animali dovrebbe trovare posto anche un capitolo dedicato a chi non ha casa e dorme per strada con un animale, da cui non vuole separarsi perché unico compagno contro la solitudine. Come nel caso di Elena e Spike. Come nel caso di Matteo, che staziona con il suo cane Black all’incrocio tra via De Amicis e via San Vittore. Come nel caso dei tanti altri senza tetto che trascorrono le notti con i propri cani sotto i porticati davanti al cinema Arlecchino, vicino a corso Vittorio Emanuele, in pieno centro. «Andiamo spesso a parlare con quel gruppo di giovani, spiegando loro che, se vogliono, da noi c’è posto anche per gli animali – spiega Furlan –. Nel nostro dormitorio abbiamo un grande turn over: alcuni ospiti si fermano qualche settimana, ma, specie durante l’inverno, cambiano molto. Diversi ci vengono segnalati dal comune. E noi apriamo le porte a tutti. Non credo che la mancata accoglienza dei cani nelle strutture assistenziali tradizionali sia dovuta solo a questioni igieniche od organizzative: sempre più spesso vediamo alberghi, spiagge e ristoranti aprire le loro porte ai cani. Parlerei piuttosto di una mentalità da cambiare. Se c’è la volontà di fare, le cose si fanno. E l’esperienza di Casa Silvana, nel suo piccolo, è lì a dimostrarlo». Non solo: i City Angels stanno anche lavorando con l’assessore ai servizi sociali, Pierfrancesco Majorino, a una sorta di banco alimentare per raccogliere cibo per cani. Nel frattempo Elena è lì che aspetta, come quasi tutti i giorni, tra Porta Genova e Cadorna.

loro cane o perché, in alcuni casi, è lo stesso animale a non “gradire” il dover stare con altri cani, dopo mesi passati solo con il proprio padrone. Ci sono varie tipologie di resistenze, così come ci sono varie tipologie di senza dimora: ci sono persone che sono solo in difficoltà e che sono in cerca di un’opportunità; ci sono altri che magari sono già fuoriusciti da percorsi di assistenza e che non vogliono riprendere un cammino di reinserimento sociale, usando il cane come scusa per rimanere per strada; ci sono altri ancora che hanno problemi

psichiatrici maturati prima o durante il periodo passato per strada». Arricchisce l’analisi Andrea Gazziero, coordinatore dell’associazione Cena dell’Amicizia: «In base alla mia esperienza, posso dire che in certi casi il cane è “usato” come un perfetto scudo dal senza tetto per evitare di affrontare la drammaticità della situazione in cui si trova. Ma altre volte la persona senza dimora riesce a tenersi a galla, più o meno consapevole della propria condizione, proprio grazie alla relazione affettiva con l’animale. Nel primo caso ogni sogiugno 2014 scarp de’ tenis

.29



scarpmilano luzione di accoglienza proposta viene ovviamente rifiutata, mentre nel secondo caso togliere il cane al senza tetto vorrebbe dire privarlo dell’unico elemento di normalità che lui associa alla sua condizione. In questo secondo caso c’è qualche possibilità in più di aiutare la persona a trovare una soluzione che possa andare bene all’animale, senza però dimenticare che, per quanto sia importante l’animale, non ci si può disinteressare di se stessi». Occorre, in effetti, fare un distinguo. Ci sono molteplici sfaccettature entro il rigido steccato terminologico di “senza dimora”. Così come molteplici sono le sfaccettature di chi ha per casa una strada e un animale come unico compagno di vita. Alcune di queste persone i cani li sfruttano semplicemente, spesso maltrattandoli o strappando i cuccioli alle madri, al solo fine d’impietosire i passanti. Altre rientrano nella categoria dei cosiddetti “punkabbestia”, dei quali si fatica a delineare con esattezza le caretteristiche, ma di cui certamente si sa che non sono tanto amati dalla popolazione. Altri homeless ancora (e sono tanti) vivono per strada con un cane, perché semplicemente non possono fare altrimenti. Separarsi vorrebbe dire lasciare un pezzo della propria vita, della propria famiglia, del proprio io. Quest’ultimo è appunto il caso di Elena. Che in questi due anni ha spesso dovuto fare i conti con la visione distorta che la gente, non tutta ma buona parte, ha di chi vive per strada con un quattro zampe: «Le forze dell’ordine sono convinte, per esempio, che io sia una “punkabbestia” e che spacci droga. Mi hanno portata in questura molte volte, perquisendomi e sequestrando i pochi denari che avevo con me. Qualche volta hanno addirittura requisito le medicine comprate per Spike, perché, a loro dire, le avrei spacciate».

Basterebbe poco per ricominciare La vita per strada è difficile. Lo è ancora di più se sei una ragazza di trent’anni, bella, curata, gentile. Elena e Spike sembrano soli nella loro dura quotidianità. Ma, in qualche modo, in realtà, non lo sono. Ad aiutarli, quasi ogni giorno a Cadorna, dove nel tardo pomeriggio si recano in cerca di un aiuto, c’è infatti un nutrito numero di persone, tra residenti e lavoratori della zona, pronti a porta-

re chi dei croccantini o dei medicinali per Spike, chi qualcosa da mangiare per Elena, chi solo una carezza, un abbraccio o una parola di conforto. C’è anche chi lascia qualche soldo nella cassetta accanto al cartello scritto a mano. «Ci sono tante persone che si interessano a me e Spike. Alcune le conosco ormai da anni. Ma c’è anche, di contro, chi passa e, incuriosito dall’aspetto curato di Spike, fingendo di scrivere sms, scatta in realtà foto con il telefonino. E questo un po’ mi dà fastidio perché sembra quasi che non si interessino a quello che io e Spike stiamo realmente vivendo, ma siano solo in cerca di una bella immagine, una cartolina». Elena intanto aspetta un regalo, anche piccolo, dal presente, che possa aprirle le porte verso un futuro meno amaro. Aspetta una po’ di benzina, che possa rimettere in moto una macchina che è pronta a ripartire. L’impressione è che basti davvero poco, una scintilla, nella forma di una sistemazione dignitosa per lei e per Spike, da cui potranno poi nascere un

lavoro, un cibo sicuro ogni giorno e una ritrovata integrazione sociale in quella Milano che Elena sente sua. Le basi, d’altronde, ci sono: Elena parla cinque lingue, non è affatto schizzinosa per quanto riguarda il lavoro, e qualche offerta è anche già arrivata. Ma prima bisogna pensare a rimettersi in sesto. Intanto si avvicina l’estate; e, con essa, nuove preoccupazioni: «Fino a qualche anno fa aspettavo con impazienza questa stagione, perché voleva dire fine della scuola, vacanze, stare all’aperto. Oggi, invece, mi fa paura, perché la città si svuota e ci sono anche meno possibilità di avere qualche aiuto. Io amo Milano. La amo tanto e amo i milanesi. Mi sento parte di questa città, ma non so sinceramente come guarderò gli altri in futuro, quando tutto questo sarò finito». Gli occhi le si velano nuovamente. Ma basta che Spike appoggi la testa sulle sue gambe e tutto è già passato. Con Spike, grazie a Spike, anche la più tetra delle giornate assume il sapore di una bella storia ancora tutta da scrivere. Possibilmente con un lieto fine.

.

giugno 2014 scarp de’ tenis

.31


Accoglienza e bellezza: “Refettorio Ambrosiano” è la mensa che Caritas aprirà per l’Expo in un vecchio teatro di Greco

La cucina stellata al servizio dei poveri dalla redazione Si chiamerà “Refettorio Ambrosiano”. Un nome evocativo, per un “segno” che caratterizzerà la partecipazione di Caritas Ambrosiana a Expo 2015 e che sarò poi donato alla città. Refettorio: un luogo in cui una comunità consuma i pasti insieme e condivide un pezzo di strada. E un progetto promosso dall’arcidiocesi di Milano, che ha sposato l’idea degli chef Massimo Bottura e Davide Rampello, promotori di un progetto che intende raccogliere le eccellenze della cucina, dell’arte e del design, per farle confluire in un’azione di solidarietà ed educazione alla carità. L’idea è semplice: aprire una mensa da 90 posti, in cui i maggiori chef del mondo, per 30 giorni, cucineranno per le persone senza dimora e i nuovi poveri che popolano la città. Il tutto, in un contesto in cui la “bellezza” diventa protagonista, grazie al supporto di designer e artisti di livello internazionale. era il vecchio teatro, ormai chiuso da Il Refettorio, che sarà uno ma non qualche anno, della parrocchia di San l’unico segno che la partecipazione di Martino a Greco, nel cuore di una MilaCaritas all’Expo lascerà alla città, vuole no che sta via via scomparendo. La sua essere un tramite del messaggio che Castoria, e la scelta di allestire il Refettorio ritas porterà in Expo: il cibo è un diritto con la collaborazione generosa di chef, fondamentale, perchè l’uomo non può artisti e designer, rinforza l’intenzione vivere senza cibo e il cibo è un elemendi farne anche un progetto culturale. to identitario fondamentale per ogni Le parole chiave del progetto sono comunità umana. quelle di sempre per Caritas: dignità della persona, giustizia sociale, promozione delle risorse individuali, educaTra cibo e cultura zione e coinvolgimento della comunità, Il Refettorio sarà ospitato in quello che in un’ottica di responsabilità e partecipazione attiva. Ma non solo. Il Refettorio Ambrosiano sarà anzitutto una mensa da 90 posti che resterà al servizio della città e che, nelle intenzioni di Caritas, sarà destinata ad accogliere ospiti di provenienza diversa: prioritariamente, ma non solo, persone che stanno facendo un percorso nei servizi, nei luoghi di accoglienza o presso i centri d’ascolto Caritas. La mensa sarà aperta poi anche ad altre categorie di persone: persone che lo sceglieranno per svolgere un servizio di volontariato, o interessate a un’offerta di tipo culturale. Il refettorio sarà infatti anche uno spazio per formarsi, dibattere, incontrarsi, condividere riflessioni, esperienze ed emozioni. E un luo-

32. scarp de’ tenis giugno 2014

go di espressione artistica: ospiterà infatti opere realizzate appositamente e donate da celebri artisti.

Un dono per tutta la città Nonostante l’offerta di “mense dei poveri” a Milano sia già buona, il Refettorio Ambrosiano consentirà di completare la “filiera” degli interventi e dei servizi Caritas a favore di persone senza dimora e in stato di disagio. Il Refettorio, infatti, è pensato come luogo ad accesso prioritario per uomini e donne intercettati e seguiti da altri servizi e centri Caritas, quali l’accoglienza notturna “Il Rifugio” della stazione Centrale, il centro diurno “La Piazzetta”, i servizi Sam (Servizio accoglienza milanese, centro di ascolto per cittadini italiani senza di-


scarpmilano La presentazione

“Bella e Gustavo” al Rifugio, chi sono oggi i senza dimora?

mora e gravi emarginati), Sai (Servizio accoglienza immigrati) e l’unità mobile “Strada facendo”. L’utenza del Refettorio sarà dunque già conosciuta e seguita dagli altri servizi, ma sarà comunque previsto un segretariato sociale in loco, sia per l’accoglienza delle persone inviate dagli altri servizi sia per persone non conosciute. A integrazione del Refettorio, infine, Caritas Ambrosiana amplierà la struttura del Rifugio Caritas della Stazione Centrale con la ristrutturazione di un terzo tunnel che le Ferrovie dello Stato hanno concesso. Lo spazio ospiterà un centro diurno e servizi per le emergenze dei profughi (sia singoli uomini che donne e famiglie), che sempre più spesso arrivano in Centrale.

.

Cucina più arte Il vecchio teatro di Greco ospiterà il Refettorio Ambrosiano, voluto da Caritas per Expo 2015

Pomeriggio d’eccezione, il 7 maggio, al Rifugio Caritas di via Sammartini. La struttura per senza dimora ha infatti ospitato la presentazione di Bella e Gustavo (edizioni Il Castoro), ultima fatica letteraria di Zita Dazzi, giornalista di Repubblica, da sempre attenta ai temi della solidarietà e del disagio a Milano. Insieme all’autrice hanno dialogato Gad Lerner, Giacomo Poretti del trio Aldo Giovanni e Giacomo e il direttore di Scarp de’ tenis, Paolo Brivio. La scelta del rifugio Caritas non è stata casuale: protagonisti del libro di Zita Dazzi sono, infatti, Gustavo, un anziano senza dimora, e il suo cane Bella. Il loro inatteso incontro con due ragazzi, Nino e Petra, cambierà il destino di tutti. La storia, che si ispira a un fatto di cronaca avvenuto un paio di anni fa a Milano, e cioè l'aggressione a un senza dimora a cui si era contrapposta la spontanea e solidale reazione di un intero quartiere, è servita per fare una riflessione più generale su chi sono oggi i senza dimora che si incontrano nella città: persone ben lontane dagli stereotipi del disperato senza speranza o del romantico clochard per scelta. E proprio il Rifugio Caritas, per molti, è diventato un luogo dove poter ricominciare. giugno 2014 scarp de’ tenis

.33


storie di via brambilla Sono migliaia: in fuga dalla Siria, puntano a raggiungere il nord Europa

Youssef, Adila e gli altri profughi: dalla guerra al futuro via Milano di Paolo Riva

Y

oussef accarezza la testa di suo figlio Ahmad e poi, scostando i capelli, mostra le cicatrici sul cuoio capelluto del bambino di 5 anni. «Stava giocando nella sua cameretta, quando la nostra casa è stata colpita da una bomba – racconta, grazie alla traduzione di un ragazzo marocchino della Casa della carità, ricordando quando, circa un anno fa, lui e la famiglia vivevano ad Hama, nel sud della Siria –. È stato in ospedale per parecchio tempo e ancora adesso non riesce a camminare perfettamente». Tra i profughi arrivati in via Brambilla i minori sono tanti. Il primo giorno erano 31 su 76 persone. Complessivamente, sono circa un terzo delle 274 persone accolte in emergenza nell’auditorium dalla Casa della carità a partire dal 3 maggio. Ora i più piccoli giocano nel giardino della fondazione, con i giocattoli donati da molti milanesi, ma solo alcuni mesi fa guardavano con i loro occhi il conflitto che dilania la Siria. E, dopo esserselo lasciato alle spalle, hanno anche dovuto affrontare un viaggio pericoloso e traumatizzante. Come ha fatto Adila, che per le prime ventiquattro ore alla Casa non riusciva nemmeno a camminare. Era stata per troppo immobile e schiacciata contro le persone che, come lei e la sua famiglia, sono salite sull'imbarcazione che le ha portate dalla Libia alle coste italiane. Eppure il viaggio della speranza sui barconi che solcano il canale di Sicilia è l'unica soluzione per chi arriva nel paese che una volta fu sotto il comando del colonnello Gheddafi. «In Libia succedono cose orrende. Ci siamo stati due mesi – racconta Ahmed, un uomo di mezza età in viaggio con la famiglia –. Insulti e e violenze, anche sulle donne. Ci tenevano in specie di prigioni, stipati in pochissimo spazio. Speravamo nella solidarietà tra musulmani e invece le condizioni del paese erano talmente pessime che ci hanno dato il coraggio per salire sui barconi». Molti dei quali non erano nemmeno in grado di compiere la traversata. Non sono pochi, infatti, i profughi che dicono di essere stati portati in salvo sulle coste della Sicilia nell'ambito dell'operazione Mare Nostrum. Del nostro paese sanno poco. «Dell’Italia non conosco molto. Non so come ci si viva, come sia trovare un lavoro – spiega candidamente Mohamed, venticinquenne ex studente di economia a Latakia, sulla costa siriana –. Voglio andare in Danimarca, lì c’è la mia famiglia: io e mio fratello stiamo raggiungendo i nostri genitori che sono fuggiti oltre un anno fa. Non siamo partiti prima perché ho continuato a studiare, fino a che la situazione è diventata troppo grave e anche noi siamo scappati», conclude prima di rimettersi ad armeggiare con il suo smartphone, controllando su Google Maps quale sia la strada meno controllata per ricongiungersi con i suoi cari. Nawal invece non ha nessuno ad aspettarla. È sola con il suo bambino di pochi anni. «Dove? – chiede –. Dove posso andare per stare finalmente in pace e poter dare un futuro a mio figlio?». È palestinese e viene dal campo di Yarmouk, vicino a Da-

Il comune di Milano ha preparato un piano di accoglienza: molti di loro, però, finiscono per doversi affidare a persone senza scrupoli...

www.casadellacarita.org

34. scarp de’ tenis giugno 2014


Accolte quasi 8 mila persone in otto mesi: «Ma il comune è solo davanti all’emergenza»

masco, uno dei più colpiti durante la guerra. Sta viaggiando con un'amica, anche lei sola con un bambino piccolo. Chiedono informazioni sui paesi verso cui sia meglio partire. Lo chiedono agli operatori, ai volontari, agli altri ospiti della Casa e, a volte, perfino ai giornalisti che sono venuti in visita per raccontare le loro storie. Alla fine, dopo qualche giorno di accoglienza, hanno deciso di partire anche loro, con i loro pochi averi chiusi in un borsone nemmeno troppo grande, e i piccoli in braccio. Sono andati in stazione Centrale e hanno preso con i loro risparmi un biglietto per la Francia, sperando di non venire rispediti indietro alla frontiera di Ventimiglia. Hanno scelto di non mettersi nelle mani dei trafficanti. Non volevano, o forse non potevano pagare il prezzo – salato – del viaggio, che invece molti dei loro connazionali hanno deciso di affrontare.

.

Dallo scorso 18 ottobre, data di inizio del progetto di assistenza, sono stati 7.257 i profughi siriani accolti nelle strutture convenzionate con il comune di Milano grazie alla disponibilità della prefettura, la cui presenza garantisce la necessaria copertura finanziaria. La stretta collaborazione tra i due enti ha permesso di mettere a disposizione 500 posti di prima accoglienza, grazie alle convenzioni siglate con Fondazione Arca, Consorzio Farsi Prossimo, Fondazione Fratelli di San Francesco, Casa della Carità e Fondazione Don Gnocchi. «Non sempre le strutture sono ai massimi – spiegano dal comune –, mediamente sono piene per tre quarti, anche se in alcune occasioni siamo riusciti a prediscporre l’accoglienza per oltre 800 persone». Mancando una programmazione a livello nazionale, diventa difficile gestire i flussi di persone che passano per Milano. «Operiamo sulla base di informazioni aleatorie – spiegano ancora dall’assessorato ai servizi sociali –: all’indomani di ogni sbarco a Lampedusa ci prepariamo a nuovi arrivi. Si tratta in massima parte di famiglie, anche con bambini molto piccoli, e di uomini soli. Come comune abbiamo organizzato un presidio stabile in stazione Centrale (formalmente attivo dalle 14 alle 20, ma con orari molto elestici) per registrare le persone anche grazie a mediatori culturali messi a disposizione dalle associazioni convenzionate. Le persone arrivano spesso in condizioni critiche, perchè ancora provate dalla traversata in mare e, grazie ad Areu (ex 118), possiamo garantire personale sanitario molto spesso di lingua araba per provvedere alle prime necessità. Dopo di che siamo pronti, grazie alla protezione civile, a trasferirle nelle strutture di accoglienza». Nei centri di prima accoglienza il turn over è molto elevato, anche perchè il nostro paese è solo un punto di passaggio per queste persone, che puntano a raggiungere parenti o conoscenti che vivono soprattutto nel nord Europa. Formalmente le persone si fermano meno degli otto giorni richiesti dalla legge italiana prima di registrarsi nel nostro paese, sperando così di non cadere nelle maglie del regolamento “Dublino II” – che prevede che i richiedenti asilo debbano essere rispediti nel paese in cui hanno fatto richiesta –, anche se sono in aumento i “respingimenti” in Italia di queste persone. Resta il rammarico per l’assenza di un politica nazionale in grado di gestire il fenomeno: la gestione del post-accoglienza di queste persone, disposte a tutto pur di lasciare il nostro paese, è lasciata nelle mani di catene criminali. Ettore Sutti giugno 2014 scarp de’ tenis

.35


l’altra Milano Da rape, zucchine e carote crea animali fantastici. Che vende in strada

Shan lo scultore di verdure «Mi rilasso e “ritorno” in Cina» di Tony Meraviglia

P

ASSEGGIANDO PER LE VIE DEL CENTRO ci si imbatte spesso in artisti di strada di vario genere. Ma quest’uomo accovacciato in piazza Cordusio, che in silenzio ritaglia dalle verdure dei meravigliosi animali, è un vero maestro. Si tratta di un signore asiatico di mezza età che, con precisione chirurgica, trasforma gli ortaggi più variegati del paniere del contadino. Con il suo taglierino, da una carota riesce a tirar fuori gamberi, pesci, addirittura dei fiori. Quello che ci colpisce di questo artista è che sta immobile, lavora per ore senza alzare lo sguardo dalle sue creazioni. Solo se lo chiami, con gesti lenti e misurati alza il capo per risponderti e per poi immediatamente tornare all’opera: con pazienza e maestria maneggia arnesi da incisione e da taglio, scolpendo svariati boccioli e animali. Lo incontriamo in un pomeriggio di primavera nelle vie del centro, come al solito all’opera circondato da curiosi e acquirenti. Riusciamo a interromperlo per qualche minuto. «Creare questi manufatti è per me una missione – racconta –, mi rilassa moltissimo, quando non sono qua mi trovate in zona Paolo Sarpi a lavorare con i miei connazionali cinesi. Mi chiamo Shan (nella foto a lato) e la passione per quest’arte l’ho avuta fin da piccolo. Per me questo è puro piacere. Quando finisco di lavorare e voglio passare qualche ora a divertirmi prendo carote, rape di vario colore, foglie di alloro e la mia collezione di coltelli per intagliare. Salgo sul tram e scendo proprio qui davanti. Le sculture durano fino a dieci giorni, basta bagnarle, e poi, nel caso ci si stufi a guardarle, si può sempre mangiarle...». Shan ha poca dimestichezza con la nostra lingua ma si fa capire molto bene, accompagnando le poche parole con i gesti. «Non ho studiato arte e tutte le mie creazioni nascono dalla mia immaginazione – racconta –: cerco sempre di inserire un preciso richiamo alla mia adorata Cina. Qui in Italia mi trovo benissimo, sia chiaro, ma le mie radici sono a oriente...». Intagliare verdure, insomma, per Shan è un modo per evadere dalla vita di tutti i giorni e raccogliere qualche soldino extra, ma anche per ricordare le proprie origini. Con le mance che raccoglie, Shan riesce ad acquistare, oltre alle verdure per realizzare altre “sculture”, anche qualcosa per la casa. Ora c’è un nutrito gruppo di visitatori attorno al lui, curiosi che fotografano lui e le suo creazioni. Ma lui sembra non accorgersi di nulla. Shan è lontano. Laggiù. Nella sua amata Cina.

«Non ho mai studiato arte: tutto quello che faccio nasce dalla mia immaginazione. Lo trovo un bel modo per passare il tempo»

.

36. scarp de’ tenis giugno 2014


.

Tetraedro


latitudine como A Como apre l’Ufficio regionale ricerche della Croce Rossa

Riunire le famiglie disperse sulla porta verso l’Europa di Salvatore Couchoud

Q

UANDO LA FAMIGLIA È RIUNITA, L’ANIMA È AL SUO POSTO,

recita un antico adagio popolare russo. E se l’unità familiare è sacra e inviolabile, il ricongiungimento dei suoi elementi frantumati o dispersi si propone come uno dei nodi cruciali del nostro tempo. Tanto più – come attestato dalle ondate migratorie prodotte da calamità naturali o dai nuovi conflitti in corso, non ultimo quello siriano – quando si propone la necessità di ripristinare i contatti tra il profugo o il semplice migrante e la famiglia d’origine. Maestra in questo delicato teatro di operazioni è da sempre la Croce Rossa, che nei suoi 155 anni di vita ha saputo costruire una rete internazionale che ha fatto incetta di allori nel settore dell’assistenza ai popoli e alle singole persone, e che agisce, dagli anni del secondo dopoguerra, con un proprio Ufficio ricerche centrale, coordinato dal Servizio affari del Comitato centrale. È un modello che funziona e che viene ora riprodotto in Lombardia con l’istituzione a Como, da parte della Croce Rossa, dell’Ufficio regionale ricerche, Restoring family links e protezione, che avrà appunto il compito di assicurare un punto di riferimento per chiunque avesse bisogno di confrontarsi con la perdita di informazioni su un congiunto e con le incombenze che ne discendono, come le richieste dei permessi di soggiorno, le pratiche per ottenere l’asilo politico e il ricongiungimento familiare tout court. «L’attività consiste nell’aiutare le persone che hanno subito una separazione, a causa di conflitti armati o disastri naturali, a riallacciare i contatti con i familiari – spiega il delegato provinciale Area 4 di Como, Daniele Cortesi – sfruttando quel formidabile strumento logistico e organizzativo che è rappresentato dalla rete della Croce Rossa Internazionale, che lavora in stretta collaborazione con le altre strutture umanitarie presenti nei diversi paesi e con le autorità nazionali». Le ragioni dell’allestimento di un centro di questo genere proprio nella città di Como sono facilmente spiegabili. «Nel solo 2013 – conclude Daniele Cortesi – sono stati 232 milioni le persone nel mondo che, a cuasa di conflitti o altri fattori, sono state costrette a lasciare la propria terra. Se a ciò si aggiunge che l’Italia è al terzo posto nella graduatoria dei paesi maggiormente toccati dai fenomeni migratori e che, in questo sentiero ininterrotto da Sud a Nord, Como è un punto di passaggio obbligato verso la Svizzera e l’Europa continentale, è dunque comprendibile come la nostra città debba sentire come propria la responsabilità di contribuire il più possibile alla ricostituzione di realtà coniugali e domestiche lacerate o dissolte dagli eventi contrari».

Como è un punto di passaggio fondamentale verso l’Europa per chi viene dal Sud del mondo. Da qui la scelta della Croce Rossa

.

38. scarp de’ tenis giugno 2014


Tetraedro


40_58@scarpdetenis182_scarp 18/06/14 15:18 Pagina 40

torino Solo 900, su 3 mila domande avanzate, le carte acquisti che saranno distribuite in città. Da rivedere i criteri di assegnazione

Nuova card: è davvero social? di Vito Sciacca

La sperimentazione della nuova social card (o carta acquisti) per persone in forti difficoltà economiche ha preso il via nel gennaio 2013 in dodici grandi città italiane, tra le quali Torino. Nonostante non sia ancora entrata nella fase operativa (a tutt’oggi nessun cittadino ha ancora potuto usufruirne), già fa discutere. Sul banco degli imputati i criteri per l’assegnazione, giudicati troppo stringenti, l’eccessiva lentezza della burocrazia e la difficoltosa gestione da parte dei comuni, costretti a utilizzare risorse umane e logistiche interne per la selezione dei beneficiari. A Torino sono state presentate circa tremila domande, delle quali solo 900 accolte. Elide Tisi, vicesindaco con delega all’assessorato per le politiche sociali, conferma che le prime 350 carte sono appena state consegnate ai destinatari, mentre le restanti 550 saranno inviate entro l’inizio di giugno. partimento di culture, politica e società Il suo giudizio non è però esente da dell’università di Torino. critiche: pur considerando con favore il «Si tratta – sostiene – di una misura coinvolgimento dell’amministrazione categoriale: non di una iniziativa rivollocale nell’attuazione del progetto, non ta a tutti i poveri, ma soltanto a una manca di notare come la nuova card specifica categoria, con l’esclusione di abbia costituito un aggravio di lavoro e di costi per il Comune. «Per il futuro – spiega l’assessore Tisi – è auspicabile un alleggerimento della procedura: non è possibile fare attendere per mesi e mesi un sostegno economico fondamentale a famiglie che versano in condizioni di bisogno estremo. Torino è stata una delle città più efficienti nell’istruire ed avadere le procedure, grazie alla sinergia, attiva da anni, tra amministrazione e organizzazioni del terzo settore. Ma la sofferenza rimane. Resta poi qualche perplessità riguardo al futuro di questa sperimentazione: nel malaugurato caso dovesse concludersi sarebbe un duro colpo, per una città nella quale si è registrato, rispetto all’anno scorso, un incremento del 25% di richieste d’aiuto economico».

Escluse molte categorie Ulteriori criticità del progetto vengono evidenziate anche da Antonella Meo, ricercatrice in sociologia presso il di-

40. scarp de’ tenis giugno 2014

molte altre. Questo, d’altronde, rispecchia l’ennesima incapacità di porre in atto misure d’intervento che non siano frammentarie. Anche l’attuazione della parte relativa al reinserimento lavorativo delle famiglie è demandata interamente ai comuni ed è facile prevedere una forte disomogeneità territoriale, anche solo per meri motivi economici». Anche sulle restrizioni all’utilizzo della carta stessa sorge qualche dubbio: «Viene spontaneo chiedersi perché siano stati imposti vincoli al suo utilizzo, peraltro non ancora ben specificati. Perché ad esempio, potrà venire impiegata nella grande distribuzio-

Una card per pochi Critici i soggetti del terzo settore riguardo ai criteri di assegnazione delle nuove carte acquisti


40_58@scarpdetenis182_scarp 18/06/14 15:18 Pagina 41

scarptorino ne ma non in un mercato rionale dove, tra l’altro, i prezzi sono molto inferiori? Sembra quasi che si ritenga la persona povera incapace di gestire in maniera autonoma il proprio denaro…».

Troppe le restrizioni Anche sulle restrizioni d’accesso il giudizio di Antonella Meo è netto: «Si tratta di una misura assolutamente insufficiente. Basti pensare che, quando il progetto venne pianificato, il ministero aveva previsto, per Torino, circa 11 mila domande, mentre il comune circa 9 mila. Il fatto che complessivamente ne siano state presentate 3.300 dimostra quanto severi siano stati i criteri d’esclusione». Molto interessante invece, potrebbe risultare la duplice funzione della nuova social card, che dovrebbe essere non semplicemente una modalità di erogazione economica ma anche una strumento in grado di promuovere politiche attive socio-lavorative. «In realtà, però – conclude Antonella Meo – senza poter contare su risorse ulteriori questo valore aggiunto rischia di essere del tutto vanificato».

.

Lo strumento

Sostegno a famiglie in povertà, ma criteri d’accesso restrittivi Le principali differenze tra la nuova social card e quella varata nel 2008 riguardano i diversi destinatari del beneficio economico previsto: non i pensionati ultrasessantacinquenni, bensì le famiglie. L’obiettivo di questa nuova carta acquisti, infatti, è aiutare i nuclei familiari che versano in condizioni di estremo disagio lavorativo, con conseguente rischio di povertà per i minori. Tra i punti salienti vi sono infatti, oltre all’aumento dell’importo messo a disposizione (variabile da un minimo di 231 euro mensili per nuclei familiari composti da due persone, fino a 404 euro mensili per nuclei con cinque o più componenti), l’inderogabile presenza nel nucleo familiare di almeno un componente minore di 18 anni e la perdita del lavoro entro gli ultimi 36 mesi. È inoltre richiesta l’adesione dei richiedenti a un piano personalizzato di interventi di accompagnamento che ne favorisca l’inclusione sociale e il reinserimento lavorativo. Inoltre costituiscono condizioni ostative il possesso un’abitazione di valore Ici superiore ai 30 mila euro e l’avere acquistato un veicolo negli ultimi 24 mesi. Di fatto, ed è questa la critica avanzata da più parti (Save the children e Caritas, a livello nazionale), le norme riguardanti l’abitazione e i veicoli rischiano di togliere possibilità d’accesso a tanti nuclei in difficoltà; nello stesso tempo, il criterio della perdita del lavoro in tempi recenti esclude anche chi si trova in una condizione di bisogno estremo da tempo.

Dai una mano a chi ti dà una mano. Saf Acli ti segue nell’assunzione e gestione del rapporto di lavoro con la tua colf, badante o baby-sitter. Professionalità e attenzione a prezzi contenuti.

Numero Verde

800 184 900 www.safacli.com

Il nostro servizio comprende anche la consulenza, l’orientamento legale e il costante aggiornamento interpretativo in merito a previdenza e fiscalità del rapporto di lavoro domestico.

Seguici su:


40_58@scarpdetenis182_scarp 18/06/14 15:18 Pagina 42

genova Si chiama “Quando la città soffre”: è un progetto di ricerca che ha cercato di comprendere il vissuto dei senza dimora

Voci dalla città senza più panchine di Stefano Neri Non ci sono più panchine. La città inesorabilmente si spoglia di punti di appoggio e si lascia ammaliare da una folle smania di ordine e sicurezza. Con lo sguardo basso, a tratti assente, non ci si guarda intorno. Ubriacati da immagini vuote e stereotipate. Dove è assente il contatto. La relazione. Si assiste ad una vera e propria sospensione, un vuoto pneumatico. Che nasconde il disagio urbano, la sofferenza sociale. «La sofferenza umana – scriveva Franco Basaglia (padre della riforma della disciplina psichiatrica in Italia, ndr) – non si può eliminare. Sta nella vita, sta nell’uomo. Il problema della vita è la contraddizione fra ciò che è l’organizzazione sociale e la sofferenza che si esprime in ciascuno di noi». C’è però chi, con questa frase in testa, con uno sguardo che sa cogliere la poesia nel reale, è andato in strada, al di là di me l’andare insieme alla spiaggia. In ruoli e professioni. Decidendo di anacostume nessuno viene riconosciuto, lizzare questa distanza. Cercando con né etichettato. Con la crisi i confini sospontaneità di intessere relazioni con no sempre più attraversabili, sempre chi in strada vive e ogni giorno lotta. più persone finiscono in strada». Dare voce a chi non l’ha, offrire una Alle persone che vivono in condivisibilità rispettosa. E interpellare la zioni di disagio estremo si accostano città, la comunità civile, stimolando sempre più le nuove forme di povertà: una riflessione; spingendo questa stespersone che fino a poco tempo fa avesa città ad accogliere le persone ai marvano un lavoro, una casa. E che in bregini. Questi gli obiettivi che si sono pove sono state catapultate in una situasti Giacomo, Carla e Marco, con il prozione di forte difficoltà, trovandosi così getto di ricerca “Quando la città soffre”. costrette a rivolgersi a enti e strutture Progetto che nasce da una tesi di ansociali di assistenza. tropologia culturale di Giacomo ToriGiacomo, Carla e Marco sono stati celli, operatore sociale che per anni ha insieme alle persone. «Il documentalavorato con le persone senza dimora rio – precisa Marco – non è stato perciò presso la Fondazione Auxilium. E si è scritto, ma direttamente girato in strasviluppato attraverso le riprese video di da. La troupe si è completamente adeMarco Bertora e Carla Grippa, che colguata ai ritmi delle persone, lasciando laborano già da alcuni anni alla realiztutta la libertà del caso. D’altra parte zazione di documenti audio-visivi, leabbiamo trovato grande disponibilità gati dalla comune passione per l’arte nelle persone stesse, con cui siamo ricinematografica. masti ore e ore, giorno e notte. La telecamera a un certo punto non è più avEntrare in relazione. In strada vertita; non c’è più invasione dell’intiAndare in strada. Stabilire un contatto, mità». conoscere le persone, cercare di entrare in relazione. Così nasce un film sulla gente di strada, o meglio sulla quotiRiflessioni sul disagio umano dianità della gente di strada. Chi è più integrato solitamente ha più «Abbiamo vissuto momenti di asvergogna, ha dei legami forti con la sisoluta normalità – esordisce Carla –, cotuazione e la condizione precedenti.

42. scarp de’ tenis giugno 2014

Chi invece è in strada da tempo ha meno paura che qualcuno lo veda, lo riconosca. Si è ormai ritagliato il proprio spazio all’interno della città. Aggiunge Giacomo: «Ne emerge un ampio quadro di riflessione sul disagio urbano, sulla sofferenza sociale. Le persone rendono casa dei non-luoghi, umanizzandoli. Noi ormai viviamo più in luoghi virtuali, internet, facebook... Conosce meglio la città chi sta in strada». Una risorsa che andrebbe utilizzata. Le ricerche sociologiche sono infatti sempre calate dall’alto, prodotte da politici, tecnici, accademici. L’idea base del progetto ribalta invece questa proCittà dimenticata La città, quella vera, la conosce meglio chi la vive, ogni giorno, per la strada


40_58@scarpdetenis182_scarp 18/06/14 15:18 Pagina 43

spettiva. Non si tratta, perciò, di un documentario legato a una ricerca antropologica, dove si va a dimostrare delle tesi, e non è neppure una video-inchiesta: al contrario, la parte scritta e la documentazione video partono proprio da chi racconta la propria storia e il proprio vivere quotidiano. Che solo successivamente vengono fatti oggetto di riflessione. I momenti scelti per la documentazione video sono sei o sette. Il resto del materiale, in un anno di riprese, verrà montato in un film e quanto resterà fuori potrebbe costituire una sorta di archivio. In questi mesi, oltre che all’ultimazione del montaggio, si sta lavorando anche alla costruzione di possibili canali di diffusione tra rassegne, festival, incontri a tema sociale e iniziative ecclesiali. Tra i sostenitori dell’iniziativa figurano anche Caritas Italiana e Caritas diocesana di Genova, Fio.psd – Federazione italiana organismi per le persone senza dimora, Scarp de’ Tenis. Si può seguire il progetto sul sito www.quandolacittasoffredoc.wordpress.com. Vale davvero la pena di fermarcisi un po’ su. Fermarsi. Perché nel logorio della vita quotidiana manca il fermarsi e il guardare. Del resto, non ci sono più panchine.

Vi aspettiamo

.

L’albergo Villa Rosella è situato nel cuore delle Dolomiti: è la casa ideale per trascorrere le vacanze immersi in un suggestivo panorama montano di rara bellezza, circondati da boschi, bagnati dalle acque del torrente Avisio e a 60 metri dalle Funivie del Ciampac, dove iniziano i famosi sentieri escursionistici per la Val Contrin, per la Marmolada e il suo lago Fedaia, il Pordoi e la comoda pista pedonale eciclabile che in 10 minuti di passeggiata collega il Centro di Canazei e lo Stadio del ghiaccio di Alba, escursioni con paesaggi incantevoli e naturalistici adatti per Adulti e Bambini L’albergo dispone di 25 camere, doppie/matrimoniali, singole, triple e quadruple, alcune in confortevoli mansarde e altre con balcone con vista panoramica, tutte provviste di bagno con doccia, telefono, TV Sat, cassaforte e asciugacapelli. Sono a disposizione degli ospiti: sala bar, sala lettura, ascensori ai piani, tavernetta con TV, cappella, parcheggio interno custodito, campo da bocce e vasto parco/giardino con giochi per bambini, ping pong, sdraio con ombrelloni e spiaggia privata sul fiume. L’ottima cucina è curata dallo chef gestore A. Leonetti, che è lieto di favorire famiglie, sacerdoti, gruppi parrocchiali, comitive e single. E’ predisposto per accogliere persone portatrici di handicap. L’Albergo è inoltre dotato di un Centro Wellness, con sauna finlandese, bagno turco al vapore, vasca idromassaggio, docce emozionali e zona relax. !

!

Strada Pian Trevisan 6, 38032 Alba/Penia di Canazei (TN) Tel. 0462/602632 – Fax 0462/606329 www.villarosella.it – info@villarosella.it

Nei mesi di Giugno, Luglio e Settembre sconto 10% aprile 2014 scarp de’ tenis .43 per i lettori di Scarp, gruppi parrocchiali e oratori apile 2014 scarp de’ tenis

.43


40_58@scarpdetenis182_scarp 18/06/14 15:18 Pagina 44

vicenza Umar Alì non voleva venire in Italia. É stato costretto dagli eventi: ha rischiato più volte di morire in mare. Ora vuole vivere in pace

E finalmente entrammo in porto di Umar Alì Umar Alì è a Vicenza dal 2011, arrivato con gli altri profughi del progetto Sprar. Ancora non è riuscito a trovare lavoro e attualmente è ospite di Casa San Martino, il ricovero notturno della Caritas di Vicenza. È qui che ha conosciuto Scarp de’ Tenis ed è diventato uno dei venditori della redazione di Vicenza. *** Scoppia la guerra in Libia e io, Umar Alì della Nigeria, abito proprio lì, a Tripoli nel quartiere di Salahadin. In questa zona c’è una caserma militare che viene presa di mira tra gli obiettivi da distruggere. Quando viene colpita esplode, tirandosi dietro tutto il quartiere, compresa la mia casa. Vetri dappertutto, muri che crollano, tetti che si aprono, è mezzanotte, e come tutti non so dove andare. Mi precipito dal padrone di casa e gli chiedo di darmi un alRiparto per la mia città, tro alloggio dove poter passare la notte, ma lui sta scappando, Tripoli non è più vecchia e nuova esperienza, un posto sicuro neanche per chi, come sempre la mia, sempre la stessa. lui, ci è nato. Dappertutto c’è gente che Eppure le gambe raccoglie le proprie cose e si affretta per mi tremano un poco andare via. Anch’io preparo quel po’ di e ho bisogno di vestiti di troppo bagaglio che riesco a strappare alle maper coprire uno strano freddo. cerie e a piedi mi avvio verso il porto. Ho È sempre difficile camminato tutta la notte e solo verso le trovarsi per strada sei di mattina un tassista mi dà un pase non occorre essere saggio.

Homeless di me

I militari sparano su chi non sale Al porto ci sono i militari che smistano le persone, diversi casermoni lungo il molo, dove si attende un passaggio per l’Italia o per altri posti. Vengo scelto tra quelli che partiranno subito e la notte seguente salgo su un camion che ci porta vicino alla barca, un peschereccio con due ponti. La gente comincia a salire, 300 persone sotto e 400 persone sopra, tutti stipati, incastrati, fianco a fianco uno con l’altro e tra i piedi e tra le ginocchia, altre persone. L’uomo al timone si lamenta: «Sono troppi, questa barca può portare al massimo 400 persone, così affonderà».

44. scarp de’ tenis giugno 2014

senza fissa dimora nel momento in cui la strada sempre ci spiazza perché espone la pelle al contatto col vivere. Così, homeless, rigiro un mozzicone tra le dita. Senza fissa dimora di me stessa, forse è questa la mia vita. Federica Tescaro

«Taci – gli dicono – chiudi la bocca». Il carico di uomini, donne, bambini, vecchi dura parecchie ore, sono le tre del mattino e ancora sale gente, settecentocinquanta persone, e la barca comincia a sprofondare. A un certo punto arriva un graduato, un militare anziano che deve controllare quello che i giovani soldati stanno facendo. Guarda il peschereccio strapieno e poi fa: «Volete ucciderli tutti?». Poi


40_58@scarpdetenis182_scarp 18/06/14 15:18 Pagina 45

scarpvicenza dà ordine di farci scendere. Stanotte non si andrà da nessuna parte. Ma quei giovani soldati non hanno intenzione di mollare, e la notte seguente, si ripete, tutto daccapo. Stavolta sono sul secondo camion e mentre aspetto il mio turno vedo di nuovo la gente salire e venire inghiottita dal peschereccio, lo stesso di ieri notte. Un gruppo di persone a un certo punto si ribella, ha paura, e non vuole salire. Si comincia a sparare, tre persone vengono colpite alle gambe e in un attimo succede di tutto. Gente che urla, bambini che piangono, tutti scappano, ma non possono che girare intorno come animali braccati dentro un recinto, siamo in gabbia e non possiamo andarcene. Quando i fucili riescono a ristabilire la calma arriva l’ordine, il timoniere accende i motori e immediatamente vengono tagliate le cime, la barca non potrà ritornare per nessun motivo, e se succede qualcosa, non si recupererà niente e nessuno. E poi accade. Proprio come l’anziano militare aveva predetto la scorsa notte. Dopo 100 metri il peschereccio affonda, noi che siamo fuori, vediamo la gente in mare, sentiamo le urla, il pian-

to di donne e bambini, le richieste di aiuto. Nessuno fa niente, nessuno interviene e piano piano vediamo le teste sparire negli abissi. Di tutte quelle persone non ce n’era una che sapesse nuotare, alla fine si salva solo il pilota. A noi, che siamo rimasti lì impotenti, rimane un solo pensiero, non è arrivata la nostra ora. È questo un buon segno? Significa che il nostro viaggio andrà meglio?

Capitani coraggiosi Passa qualche giorno e in un’altra notte arriva anche il mio turno. Stavolta la barca è più piccola, ci caricano in 380, le cose non sono cambiate, di nuovo mi ritrovo stipato come un pesce in scatola. Non c’è lo scafista e uno di noi, un ghanese, si offre di guidare. I militari ci salutano: «O arrivate in Italia o morite nel mare, se tornate in Liba vi spariamo noi». Siamo partiti all’una di notte, per fare il tratto di mare che ci separa da Lampedusa ci vogliono 10-12 ore, ma il nostro viaggio sarà molto più lungo. Navighiamo per alcune ore, siamo ancora in mezzo al mare, tutto è nero, l’acqua, il cielo. All’improvviso sentiamo i piedi bagnati, c’è una falla nella chiglia e comincia a entrare acqua, a fiotti. Ecco di nuovo le urla, i pianti, lo spavento, stavolta tocca a noi, finire in fondo al mare. Le persone prendono le coperte e si coprono la faccia, non vogliono vedere la morte che arriva. Anche il nostro nocchiero si copre il viso, lascia il timone e si mette a dormire. Io faccio parte di un

manipolo di persone che non vuole mollare, organizziamo delle squadre, tre persone alla volta si danno il turno per svuotare la barca, muniti di un secchio e di un sacco per la spazzatura. Quando saranno stanchi altri tre daranno il cambio, e così via. Bisogna riprendere il timone, e anche qui improvvisiamo, come veri marinai ci diamo il turno alla barra. Ma dove andare? Qual è la direzione giusta? È qui che cominciamo a discutere, c’è chi vuole tornare in Libia e chi preferisce ancora rischiare, meglio la morte in mare che i fucili. E proseguiamo il viaggio, girovagando alla cieca. Finalmente incrociamo una barca di militari. No, no, non sono italiani, sono tunisini e ci spiegano che stiamo sbagliando direzione, mostrandoci la strada giusta. A bordo c’è uno strumento, una bussola che ci aiuta a tenere la rotta, ma è uno strano aggeggio e quando giri il timone la lancetta si sposta con te… non si capisce più dove devi andare… A un certo punto scorgiamo una luce rossa in mezzo al mare, è un faro. Di benvenuto? Cosa significa luce rossa? Di nuovo ci mettiamo a discutere e alla fine l’hanno vinta quelli che preferiscono girare al largo anche se la lancetta della bussola tornerà a impazzire con la virata. Abbiamo imparato dopo, che quel faro rosso significa pericolo, scogli, girare al largo. Forse davvero la morte di tutte quelle persone al porto ci sta proteggendo. Passano ancora le ore, due, forse tre ed ecco un altro faro, stavolta è bianco e il fascio di luce si allarga e si stringe, si allarga e si stringe. Un altro segnale di pericolo? Un avvertimento? Non capiamo più niente e decidiamo di fermarci. Stavolta siamo davvero vicino a Lampedusa e i militari italiani ci stanno venendo incontro, ma non possono avvicinarsi troppo perché il nostro peschereccio rischia di rovesciarsi. Tra noi e loro comincia una specie di balletto, avanziamo un po’ ed ecco di nuovo il faro che si ingrandisce, allora ci fermiamo di botto. Avanzano un po’ gli italiani e poi si fermano, ma cosa sta succedendo? Cosa ci vogliono dire? Andiamo avanti così per un sacco di tempo, non so per quanto, so solo che alla fine vediamo uno di loro salire sulla nostra barca. L’uomo prende il timone e finalmente entriamo in porto, a Lampedusa.

.

giugno 2014 scarp de’ tenis

.45


40_58@scarpdetenis182_scarp 18/06/14 15:18 Pagina 46

verona Metti un parco e volontari (di Legambiente) che credono molto in un progetto di aggregazione. E tutto diventa più accogliente

L’isola non c’era invece adesso c’è di Elisa Rossignoli foto di Binyam Lungo le strade di Verona, in quell‘ angolo di pianura padana da sempre crocevia di passaggi fra nord e sud, est ed ovest, si snoda il “Parco delle Mura”. Frammentato eppure continuo, esteso e allo stesso tempo “invisibile”, è costituito da una serie di aree verdi cresciute lungo i bastioni delle fortificazioni di varia matrice erette in diverse epoche storiche. Nel cuore di questo luogo multiforme, che in queste settimane letteralmente esplode in tutte le possibili sfumature di verde e dei colori della primavera, incontriamo una realtà che incarna proprio questa “vocazione” a punto d’incontro della città di Romeo e Giulietta. Incontro di cammini, di persone, di relazioni. È l’“Isola che non c’era”, uno spazio aggregativo creato e gestito da Legambiente, che da 20 anni si occupa della manutenzione del parco. È nata circa un anno e mezzo fa in uno dei suoi angoli più suggestivi, l’area dei bastioni di San Zeno.

dei famosi "punti della patente di guida". Ciò porta una "buona notizia" per tutti noi: la relazione crea, apre strade inattese e possibilità nuove mai considerate prima. Dall’essere aiutato all’aiutare, dall’essere accompagnato ad accompagnare è un salto non indifferente, che può portare con sè molte sorprese, tutte al di là delle “etichette“. «Per molti dei nostri volontari – conti-

Il pranzo del mercoledì Mercoledì, (uno qualunque), ore 12,30. La casetta al centro dell’Isola si anima di vita propria. Chi prepara il pranzo, chi apparecchia la tavola sotto la tettoia, chi, arrivando dai bastoni, depone gli attrezzi e la tuta da lavoro, chi giunge in auto o in bicicletta, chi, ormai “di casa”, accoglie amici e colleghi che sono qui per la prima volta. Un brulicare di volti e di percorsi che si intrecciano e si ritrovano per la condivisione del pranzo, ormai divenuto un momento rituale per tutti. «Il pranzo del mercoledì è nato in modo spontaneo – spiega Paolo Zampieri, coordinatore dei volontari di Legambiente e responsabile dell’iniziativa –. Abbiamo iniziato a incontrarci con le persone che lavoravano con noi per mangiare insieme, ciascuno con quello che aveva, e a utilizzare questi locali perchè fuori faceva freddo. Presto ci siamo accorti che in questo spazio conviviale e informale cominciavamo a conoscerci in modo più rilassato, a gustarci la reciproca compagnia. E la cosa è diventata un appuntamento fisso». Capiamo subito che l’Isola è un luo-

46. scarp de’ tenis giugno 2014

go d’incontro in cui confluiscono persone a diverso titolo impegnate nella manutenzione del Parco. Insieme ai volontari di Legambiente vi sono impegnati Parco alcuni volontari in Snc (Servizio civile nazionale), tirocinanti provenienti da vari corsi formativi e percorsi di inserimento socio- lavorativo, da comunità di recupero e dalla realtà del carcere, nonchè persone che svolgono attività volontarie per il recupero

nua Paolo – avvicinarsi al mondo del sociale per obbligo di legge ha rappresentato l'opportunità di occare con mano realtà che non conoscevano, più remote dell’ “Isola che non c’è” della fiaba di Peter Pan, eppure dietro l’angolo. Entrando in questa nuova dimensione vi hanno trovato un loro posto, si sono scoperti risorse. Mi viene da dire allora che le soluzioni ai problemi vengono dall'interno, non da chissà dove».


40_58@scarpdetenis182_scarp 18/06/14 15:18 Pagina 47

scarpverona Un parco da condividere Uno scorcio del Parco delle Mura. Nella pagina a fianco, alcuni volontari di Legambiente. Sotto, il simbolo dell’Isola che non c’era

Il confine, luogo di incontro Un microcosmo di relazioni che fa capo ad altrettanti enti pubblici e del privato sociale impegnati nel recupero sociale di persone in condizioni di marginalità sociale o di disabilità, che lavora in rete ed opera in un luogo sensibile della città. «Un luogo non di frontiera, ma di confine sì – dice ancora Paolo –. Il parco delle Mura, come tutti i parchi, è frequentato da un’umanita variegata, ma è anche, purtroppo, uno dei luoghi in cui si ritrovano a passare le loro giornate molti di coloro che vivono ai margini. Noi li incontriamo ogni giorno, nella loro umanità. Può essere l'accesso all'acqua quando serve, una cicca (una sigaretta, ndr) al momento giusto, può essere un saluto la mattina, di quei “Ciao” che fanno sentire che ci sei. Nulla di complicato. Ma in questo modo, giorno per giorno, ci accorgiamo di essere un tramite con la comunità, muovendoci in questo spazio flessi-

bile, che come tutti i confini, è vero, delimita ma anche e soprattutto mette in contatto».

Tutto arriva, tutto c’è «Non è certo una novità che il lavoro con la terra, con la natura, sia di per sè riabilitante, terapeutico. Il fatto che quello che facciamo qui sia un servizio anche a tutta la comunità è un elemento motivante in più. Nel nostro piccolo, cerchiamo di valorizzare il più possibile le attitudini e le capacità di ciascuno, e vediamo che ciò genera una continua attivazione di risorse. Quando ti senti valorizzato come persona, al di là del motivo che ti ha portato qui, da persona rispondi. E questo vale per tutti. C'è V., saldatore di professione, che ci dà una mano e che ci ha messo a disposizione la maschera che ci mancava, M. che ci ha regalato gli attrezzi che ci servivano. Di recente ci è arrivato in dono un decespugliatore, un pò da sistemare ma che ora

funziona benissimo, grazie alle mani esperte che gratuitamente l'hanno aggiustato. Stiamo sperimentando che tramite le relazioni nessuno di noi è povero, tutti possiamo dare qualcosa. E arriva tutto, perchè tutto c'è, alla fine».

Lavori fatti in comunità Visto che l’Isola ha il nome di una fiaba, Paolo ci tiene anche a raccontare una piccola storia vissuta qui. «Una delle ultime imprese in cui ci siamo cimentati è stata la sistemazione delle panchine del parco qui nell’area dei bastioni di San Bernardino. L'abbiamo gestita insieme ad alcuni fra i principali fruitori dell'area: le persone che vi portano a spasso i loro cani. Loro si sono autotassati per finanziare l'iniziativa, Amia (Azienda multiservizi di igiene ambientale) ha dato un suo contributo, noi ci abbiamo messo la manodopera. Abbiamo poi acquistato la vernice e gli utensili che ci mancavano nei negozi del quartiere, perchè la comunità fosse a conoscenza di ciò che facevamo e si sentisse coinvolta. Stimolare il senso di appartenenza ci radica ed è, probabilmente, il modo più efficace per sentirci davvero tutti più “sicuri”».

.

giugno 2014 scarp de’ tenis

.47


40_58@scarpdetenis182_scarp 18/06/14 15:18 Pagina 48

rimini Marco Missiroli protagonista di un intenso incontro coi detenuti del carcere di Rimini. «Dentro non puoi fingere. Sei tu. Solo tu»

Uno scrittore dietro le sbarre di Valentina Ghini Si è parlato di solitudini e possibilità di riscatto, ma anche di donne, libri e speranza nell’intenso incontro tra Marco Missiroli (nella foto a destra) e i detenuti della casa circondariale di Rimini. L’incontro rientra tra le attività realizzate dal Laboratorio di lettura e scrittura che ogni martedì mattina si tiene in istituto e che lavora alla realizzazione di Liberi Dentro, giornale amatoriale realizzato dai detenuti con la collaborazione degli operatori dell’associazione “Madonna della Carità”, che da più di un anno conduce attività e iniziative all’interno del carcere. Lo scrittore riminese è stato uno degli ospiti del calendario di “Incontri con l’autore” organizzato dall’associazione, con l’obiettivo di condividere l’esperienza di vita di autori o personalità del nostro territorio per offrire ai detenuti uno spazio di riflessione e un’occasione di confronto positivo con la realtà che li circonda. Marco Missiroli, classe 1981, è nato a molto bassa perché molto spesso vanRimini ma vive e lavora a Milano. Il suo no a questi incontri per passare il temprimo romanzo, Senza coda, è stato po e bisogna trovare il modo di agganpubblicato da Fanucci nel 2005 e ha ciarli, di attirare il loro interesse attravinto il Premio Campiello opera prima. verso dei film o uno stile comunicativo Ha poi pubblicato altri tre libri con accattivante o attraverso se stessi. Che è Guanda: Il buio addosso (2007), Bianco quello che ho fatto a Rimini: mi sono (2009), e Il Senso dell’Elefante (2012). mostrato per quello che sono e che soL’incontro è stato molto partecipato dai no stato, per il mio percorso – a volte detenuti che hanno fatto molte dofragile – che mi ha portato a scrivere. Io mande a Marco sulla sua vita e sul meho iniziato a scrivere molto tardi, prima stiere di scrittore. ero un po’ un’anima in pena. È la tua prima esperienza a contatto con la realtà del carcere? Come ti sei Molti dei detenuti stanno frequensentito? tando un laboratorio di scrittura e realizzando un giornalino con articoli Ho avuto modo di visitare anche altre carceri negli ultimi mesi, ma questa e storie sulle loro esperienze. Pensi esperienza riminese è stata molto sipossa esserci un ruolo, un'utilità delgnificativa per me. Non si può dire che la scrittura in un contesto del genesia materiale per il mio nuovo romanre? zo, perché non accade mai una raccolPiù che di scrittura parlerei di narraziota d’informazioni così in presa diretta, ne, delle storie di vita. Quando ho acanche se è vero che ci sto lavorando. È cettato di partecipare a questo inconstato molto interessante il contatto con tro, non pensavo certamente di fare un i detenuti, perché sono persone autencorso di scrittura, a loro non interessa. tiche e se davanti a loro tu non sei auA loro interessa come mai la vita può tentico, loro non ti ascoltano, non ti sediventare una storia da raccontare e guono. Alcuni di loro addirittura avevaqueste persone di storie ne hanno tanno letto il mio libro, altri mi hanno dette. Abbiamo parlato di quello che è la to in faccia che non ci avevano capito resilienza (in psicologia è la capacità di niente. Hanno una soglia di attenzione far fronte agli eventi traumatici e rior-

48. scarp de’ tenis giugno 2014

ganizzare positivamente la propria vita davanti alle difficoltà), abbiamo discusso della possibilità di riscatto in letteratura e nei libri che hanno letto, abbiamo parlato addirittura di donne e di storie d’amore. È stato un incontro davvero molto profondo, mi hanno subissato di domande su come si diventa scrittori e su come questo può darti la possibilità di riscatto. Mi hanno chiesto come ci si può tirar fuori da quella che è la palude nella quale ci si può trovare. Ho raccontato di come è stato per me, il percorso che ho fatto e che mi ha portato a diventare uno scrittore: ci vuole a volte incoscienza, un po’ di azzardo e molta volontà nello scrivere storie. Io scrivo una pagina tutti i giorni, tutte le mattine, anche se non ne ho voglia o mi


40_58@scarpdetenis182_scarp 18/06/14 15:18 Pagina 49

scarprimini L’iniziativa

Da Laboratorio Solidale un aiuto ai bambini nelle carceri boliviane

fa schifo. Hanno visto che dietro la patina del mestiere di scrittore c’è la vita vera. Nel tuo modo di scrivere usi tecniche quasi cinematografiche: montaggio alternato e descrizione di gesti e piccoli dettagli – più che discorso diretto – per raccontare le emozioni dei personaggi. C’è un autore o un libro a cui sei particolarmente legato? Sono due. Uno italiano, Il Deserto dei Tartari di Dino Buzzati: ne abbiamo parlato anche con i detenuti, la fortezza del romanzo è come una prigione per il protagonista; il secondo romanzo è Il Commesso di Bernard Malamud, che parla di solitudini, tema a me caro.

Laboratorio Solidale è un’Associazione di volontariato nata a Rimini nel 2009 con l’obiettivo di sostenere il centro educativo “Alegrìa” situato in Bolivia all’interno del carcere San Pedro di La Paz per i figli dei detenuti che vivono insieme ai loro padri all'interno della struttura. La Bolivia è uno dei paesi più poveri dell’America Latina e la situazione penitenziaria ne rispecchia la gravità. Il sistema sociosanitario non è in grado di sopperire alle necessità dei suoi utenti, tanto meno ai bisogni di coloro che si trovano in situazione detentiva. È per questo motivo che molti bambini sono costretti a seguire uno dei genitori all'interno del carcere, non avendo nessun altro familiare che si possa prendere cura di loro all'esterno. La situazione in cui questi bambini sono costretti a vivere è molto grave: oltre al fatto di dover vivere in carcere senza averne colpa, è evidente che una prigione (una istituzione totale, dove l'aggressività, le tensioni e le conflittualità sono all'ordine del giorno) non è un luogo adeguato ad un armonico sviluppo della persona, tanto meno quello di un bambino. Il centro Alegrìa è stato attivato nel 2002 attraverso donazioni di privati e l’impegno di personale volontario italiano e locale, tra cui Barbara Magalotti, psicologa riminese, coordinatrice del Centro e Presidente dell'Associazione Laboratorio Solidale, con la volontà di rispondere al bisogno di uno spazio all'interno del carcere per garantire ai 250-300 bambini che vi risiedono, seppur minimamente, una infanzia serena, un’attenzione educativa e una giusta proposta ludico-ricreativa accompagnata da attività che promuovano l'inclusione sociale. Il centro, che si inserisce nell'ambito di un accordo di collaborazione istituzionale tra l’associazione di volontariato Laboratorio Solidale e il Ministerio de gobierno – Direcciòn nacional regimen penitenciario, è uno luogo protetto di attenzione all’infanzia e all’adolescenza, uno spazio educativo di stimolazione cognitiva (attraverso giochi di gruppo, giochi didattici, dinamiche di gruppo, ecc.) e sostegno scolastico quotidiano, di promozione di attività creative e di laboratorio (pittura, lavorazione di creta, pasta di sale, utilizzo di materiale riciclabile ecc.), di attenzione ad uno stile educativo collaborativo e partecipativo attraverso il quale i bambini interiorizzino una modalità responsabile e democratica dell'uso degli spazi e delle relazioni interpersonali con il gruppo dei pari. L’attenzione del centro educativo Alegrìa è inoltre rivolta anche ai padri detenuti: attraverso corsi, dibattiti, incontri con padri e figli insieme si vuole coinvolgerli e farli sentire partecipi nella cura e nell'educazione dei loro figli. Riminisocial

Hai qualcosa in cantiere? Sto scrivendo un nuovo romanzo, probabilmente è il più azzardato di quelli scritti finora. Penso che la gente non se lo aspetti perché è un libro felice, pieno di energie ed è in prima persona, ambientato tra Parigi e Milano. Dopo Il senso dell'elefante ero consapevole del

fatto che avrei chiuso con la scrittura per un po' perché è stato un romanzo faticoso, che mi ha devastato: infatti sono stato due anni senza scrivere. Poi è arrivata questa storia, una storia molto potente e molto diversa dalle altre e per certi versi sconvolgente, staremo a vedere cosa ne verrà fuori.

.

giugno 2014 scarp de’ tenis

.49


40_58@scarpdetenis182_scarp 18/06/14 15:19 Pagina 50

firenze Nelio, in carcere, ha pensato di aver perso la dignità. Poi ha scalato le sbarre da scimmia. E ha conosciuto il Samaritano...

Mi venne regalata l’ironia di Nélio Marques Soares Il mio nome è Nélio Marques Soares, sono in Italia da tre anni e sono stanco: dopo tante fatiche, ho bisogno di un po’ di riposo e quindi ho deciso di tornare a casa. Prima di affrontare questo grande passo però, ho pensato di lasciare qui, per chi vorrà, una piccola eredità: un po’ di me. Sono nato in Brasile e, venuto in Italia, per una serie di eventi sono stato recluso nelle carceri italiane per tre anni. Nel momento in cui ho messo piede per la prima volta in un istituto penitenziario un solo pensiero è passato nella mia testa: «Ho perso la dignità, ho perso la vita». Dormire per me era un incubo e un atto di codardia. Che mi stava succedendo? Ero lontano da casa, lontano dal mio paese. Tutto era finito per me. Mi chiedevo cosa mi fosse accaduto, cosa avrei dovuto fare, non avevo risposte da darmi. Non riuscivo a scapto negato e ringraziare sempre colui che pare dall’ovvio, sono rimasto così per veniva pagato per disturbare la mia palungo tempo, ma sapevo che non potezienza, come se fossi io colpevole della vo mollare, avevo bisogno di uno scudo. sua frustrazione. Chi è Dovevo cercare senza peccato, scagli qualcosa di straordinala prima pietra. Non rio: qualcosa di straorsono un santo, ma dinario nella mia vita. neanche il diavolo. Ero stato messo alla Tutto ciò che di bello prova, una sfida: non ho costruito in precedovevo lasciarmi andadenza mi ha portato re. Nei tratti in cui, sulle allo sbaglio che ho strade pietose della mia fatto? Devo dimenticare tutto quelangoscia, non incontralo che ho vissuto con i miei cari? E il temvo nessuno, il mio stato d’animo doveva po dall’adolescenza all’uomo responsamutare per rendermi potente e capace bile, non conta? di sopportare il massacro, anziché svegliarmi in quella brutta realtà. E così, con un colpo di fortuna, mi venne regalata Parlo e nessuno ascolta l’ironia. Avevo trovato il mio scudo. Quando qualcuno mi parla è solo per Dall’ironia veniva il sarcasmo, acido dirmi: «Tu sei scemo. Lascia perdere. ingrediente che ho sperimentato in ocQuesto non è posto per fare amicizia». Il casione di una comitiva in visita. Forse silenzio frenava il mio impulso. Così un gruppo di volontari o di politici: era ascoltavo me stesso e trattavo intimala loro prima volta in carcere. Dal loro mente con belle metafore, che mi hansguardo emergeva sofferenza nel vedere no permesso di vivere questo percorso me oltre le sbarre, come fossi un animadentro la scommessa del destino. Dale, tenuto sotto controllo, sorvegliato e vanti alla detenzione ho intravisto due pericoloso. Non ho resistito: ho scalato strade: potevo diventare un saggio o un le sbarre della mia cella e ho imitato una pazzo. Ho fatto la prima scelta. Così voscimmia. È stato terapeutico; con tutto levo pensare, dovevo convincermene il rispetto. per avere forza a sufficienza e superare Dovevo ridere a fianco del mio dirittutto quello che stavo vivendo. In que-

50. scarp de’ tenis giugno 2014

ste esperienze si manifesta il mistero dell’alchimia: «Cambiare la maledizione in benedizione». Risorse invisibili, che vengono da dentro, fanno emergere un sentimento rinnovato e tutto questo, seppur difficile, è però possibile se hai volontà. Questo tempo ha fatto emergere in me uno sconosciuto, uno sconosciuto messo alla prova. Sono rimasto sorpreso perché ho scoperto che l’anima umana può essere modellata con cura e bellezza, un’anima capace di alimentarsi di una forza straordinaria, imperativa: come luce di Dio, che nasce, cresce dentro senza dolore, senza risentimento, è una gioia inimmaginabile. Unico presupposto: essere disponibili e fare attenzione,


40_58@scarpdetenis182_scarp 18/06/14 15:19 Pagina 51

perché il silenzio risponde a qualsiasi domanda e la difficoltà è solamente un ostacolo da superare. Tutto ciò che ho vissuto vorrei ridonarlo in emozioni e spero di conservare a lungo questa sensazione di purezza, poiché ancora per molte cose mi sento come un bambino che scopre un mondo nuovo. Vi racconto questo ora e devo prendermene cura adesso, finché questa novità perdura, perché nel tempo sarò solo un pallido ricordo nella memoria di tutti voi. Perdonate il mio essere sincero, ma preferisco dire le cose così come le vivo. La magia di questi momenti, infatti, se ne va in un attimo, quell’attimo in cui la realtà bussa al mio cervello chiedendomi di andare avanti.

Luogo accogliente Nelio mentre scrive al Samaritano

Ho cambiato atmosfera L’ultimo capitolo di questa avventurosa giornata, infatti, è iniziato con due permessi premio. Cercavo un rapporto umano dentro al carcere: prima con gli agenti, poi con l’educatore (che ho incontrato solo dopo due anni di detenzione), ma quando ho avuto l’opportunità di uscire in permesso ho trovato la casa di accoglienza “Il Samaritano”. Questa non era solo una possibilità di uscire, ma era a tutti gli effetti una nuova famiglia. Qui ho trovato dignità e rispetto umano, un’oasi in mezzo al deserto, un’accoglienza familiare, il primo

vero rapporto umano da quando sono in Italia. Adesso sono in detenzione domiciliare al Samaritano: mi sto mettendo alla prova e sono sostenuto in un reinserimento graduale in società. Questo è un percorso che ho intrapreso attraverso attività laboratoriali e di volontariato, che mi permettono di esprimermi e informare l’opinione pubblica su ciò che mi sta a cuore. Sarà però un tempo breve perché tra non molto tornerò in Brasile. L’idea di mettersi in viaggio non è solo un desiderio, ma fa parte di un accordo diplomatico che prevede un progetto di rimpatrio. Un tempo per me di cambiamento e scambio di esperienze, poiché tra Brasile e Italia, due culture e realtà diverse, esiste già un rapporto di amicizia e ammirazione, tanto che sono molti i migranti italiani in Terra Nostra. Ad ogni modo, quando non sarò più qui avrò tanto da raccontare e internet mi permetterà di aprire una finestra di comunicazione che avvicinerà il Brasile all’Italia: in questo modo sarò sempre presente. A casa mia la notte trascorrerà serena, sono sicuro, e al matti-

no avrò pregato Dio per tutti quelli che sono nel mio pensiero e che mi hanno colpito veramente il cuore.

Finalmente torno a casa Perché quando si parte prima o poi si arriva, anche. Purtroppo gli incidenti accadono anche per la pietosa condizione della vita che abbiamo vissuto e, posso dirlo, il mio reato è quasi un malinteso. Non dico tutto questo con una nota di pessimismo, perché non voglio portarmi dietro l’amaro, bensì per puro realismo. E con la testa alta e fiero di essere vivo, io cambio con la promessa di lasciare un ricordo positivo e farmi eterno nella ragione e sensibilità di tutti voi. Ironia o no, sono stato lontano dalle mie radici e ho vissuto l’esperienza più bella della mia vita: un’esperienza che mi ha fatto trovare me stesso e cambiare vita. Ringrazio tutte le persone conosciute, che mi hanno dato la possibilità di intraprendere un bel percorso di rinserimento sociale e poter così cercare una strada assai diversa. Auguri a tutti voi e arrivederci.

.

giugno 2014 scarp de’ tenis

.51


40_58@scarpdetenis182_scarp 18/06/14 15:19 Pagina 52

napoli Riproduzioni digitali illuminate. Di opere di tre grandi maestri: Leonardo, Raffaello, Caravaggio. L’arte scatena l’immaginazione

La bellezza dell’impossibile di Giuseppe Del Giudice Si chiama “La Mostra Impossibile”. E un motivo c’è. Con il supporto della tecnologia, gli organizzatori sono riusciti a creare qualcosa di eccezionale: 117 opere di tre grandi autori – Raffaello, Leonardo e Caravaggio – riunite in un’esposizione senza precedenti. Riproduzioni digitali retroilluminate in dimensione reale, questa la tecnica utilizzata per realizzare la mostra in scena al Convento di San Domenico Maggiore in pieno centro storico e organizzata da Rai, comune di Napoli e associazione Pietrasanta sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica. Anche il visitatore più distaccato e lontano dall’interesse per l’arte viene subito colpito dall’enorme impatto visivo e emotivo delle opere. Sembra di essere veramente davanti ai dipinti originali: fotografie diobiettivo di una fotocamera, forse angitali in grado di trasmettere le stesse che meglio. emozioni che vive chi osserva una tela. Il mio pensiero, più che sulla differenza tra i criteri espressivi dei tre artisti, si è Era un folle, un trasgressivo soffermato sul passato, quando il cerNon mi sento di poter dare un giudizio vello e la creatività venivano usate di sui tre autori, però ho notato alcuni volpiù e meglio. ti velati di tristezza in Leonardo, inseriti I sentimenti umani fuoriescono leta volte in paesaggi di rara bellezza. In teralmente dai dipinti riprodotti, come Raffaello ho visto più serenità e accettain uno schermo a tre dimensioni. L’imzione della vita. Caravaggio, invece, era pronta netta, inconfondibile dei tre auun folle, un trasgressivo sotto vari aspettori, suggestiona e fa riflettere. Immagiti. Malvisto dalla chiesa probabilmente, ni di vita, di sensazioni, di stati d'animo, salvo qualche eccezione. Dei tre è quelrealizzati con indescrivibile armonia, lo che mi è piaciuto di più. Io sono un precisione dei dettagli – come fa un ribelle: non mi è mai piaciuto cammi-

Mondo senz’arte, pasta senza sugo Se provo a immaginare un mondo senza arte, mi viene in mente 1984, il libro di Orwell. Una serie di città piene di uomini in serie, in file ordinate, che fanno lavori in serie, senza alti né bassi, senza picchi né abissi, senza voli pindarici né depressioni suicide. Senza colori, in bianco e nero, anzi, in grigiopomeriggio. Senza musica, mamma mia, ma con un eterno rumore metallico in sottofondo, una terra di ferro senza piante, che sono le opere d’arte della natura, senza mare, con i suoi fondali luminosi e sorprendenti. Come un piatto di pasta senza sugo, una pizza senza pummarola o, ancora peggio, infinitamente peggio, come una chitarra senza corde, un inutile pezzo di legno. Senza arte cavami pure gli occhi, senza musica otturami pure le orecchie, e poi tagliami le mani, altrimenti… tamburello. Insomma, fammi il favore: nun me fa nascere, che è meglio. Bruno Limone

52. scarp de’ tenis giugno 2014

nare seguendo un binario imposto chissà da chi. La “Mostra Impossibile” mi ha trasmesso l’amore per l’arte pittorica, che non mi aveva mai attratto. Ho avuto e ho due grandi passioni:la musica e la fotografia, che sono anch’esse due forme di arte. La pittura non mi aveva conquistato, eppure in questa occasione ho scoperto un nuovo interesse. Un fatto che non ha riguardato solo me perché questa nei primi quattro mesi ha realizzato più di 50 mila visitatori sia perché in città si è rivelata essere un vero e proprio evento alla portata di tutti, sia perché nell’ambito dell’esposizione vengo-


40_58@scarpdetenis182_scarp 18/06/14 15:19 Pagina 53

scarpnapoli Il racconto / 1

Tre magnifici maestri

no organizzati tanti eventi interessanti compresi in un biglietto unico che dà l’occasione di ammirare i quadri e di assistere a presentazioni di libri importanti, a spettacoli teatrali, o di ammirare per tutta l’estate le macchine di Leonardo da Vinci. Io per esempio un sera ho partecipato insieme al mio collega Bruno alla presentazione del libro di Steve Hackett, il chitarrista dei Genesis, ed è stata un serata speciale per me che sono un amante appassionato della musica rock. Visto l’enorme successo che ha avuto, la “Mostra Impossibile” è stata prorogata fino al prossimo 31 agosto, vi consiglio di non perdervela.

.

Mostrare l’impossibile Il convento di San Domenico Maggiore ospita “La Mostra Impossibile”

Tre altissimi esponenti della pittura italiana tutti insieme: Leonardo, Raffaello e Caravaggio. All’inizio del percorso c’era Leonardo, che mi ha colpito per la sua precisione e pulizia nel definire i personaggi nei dettagli come nel quadro “La Dama con l’ermellino”, che mi è sembrata una magica poesia su tela. Poi il percorso prosegue con le opere di Raffaello, in cui ho visto un giovane pieno di gioia per la vita, lo si nota nella sua pennellata così dolce e delicata che mostra una grande sensibilità. Poi c’era la sezione dedicata al Caravaggio, il mio preferito: quando ho visto San Tommaso che metteva la mano nella ferita ho sentito come un brivido dentro; quel dito sembra rappresentare la nostra umanità ferita. Michelangelo da Caravaggio ci ha lasciato un linguaggio nuovo e ha raccontato attraverso i suoi colori intensi e penetranti la debolezza dell’uomo. Il buio e la luce delle sue tele ti arrivano addosso come un fuoco e ti lasciano come un marchio dentro e l’oscurità ti travolge come l’ombra della notte e mette in risalto l’inquietudine e le contraddizioni dell’artista, che attraverso la pittura ha manifestato la sua solitudine. Luciano D’Aniello

Il racconto / 2

Bel concetto, ma che vuol dire? Bellezza è un bel concetto, ma cosa vuol dire? Vuol dire che quello che stai guardando è piacevole, quindi bello. Ma una cosa deve essere bella per tutti? Io non credo che quello che è bello per me sia necessariamente bello per un altro, o anche l’opposto. Insomma, non è bello quello che è bello ma è bello quello che piace. Ad esempio, i dipinti del Caravaggio, presenti alla Mostra Impossibile, molti li giudicano belli, ma altri li trovano inquietanti e scuri – come il suo animo. Io, ed esempio, in quanto ad arte e tecnica, lo apprezzo molto, aveva una pennellata magica, sapeva esprimere tutto il suo essere e il suo universo in un dipinto, e anche mandare messaggi. Forse ho compreso molto dopo che il Caravaggio era un rivoluzionario. Molti si sono domandati perché dipingesse così, con queste immagini inquietanti, come la testa mozzata di Medusa, che è un suo autoritratto: io credo lo facesse perché conduceva una vita dissoluta, non normale. Era accusato di omicidio, era un latitante, un bevitore, un rissoso. Non aveva un animo solare, e questo lo trasmetteva nelle sue opere; per questo motivo è ammirato ancora oggi. Raffaello era più solare, amava molto la luce e la bellezza ambigua. Dipingeva con molto azzurro e con colori chiari, e anche se era un discepolo di Leonardo, era molto più solare. Massimo de Filippis

Il racconto / 3

Quel quadro a Procida Ogni volta che vado a Procida rimango meravigliato dai dipinti di una piccola chiesetta. Quando entro rimango incantato da tanta bellezza, tanti colori, e mi sembra di vedere persone viventi che mi guardano quando entro per pregare, e pregano insieme a me, e mi sento leggero come una farfalla. A Procida ci vado una volta all’anno, per vendere i giornali nelle parrocchie dell’isola, e sono contento di andarci, sapendo che vedo ancora quel quadro che mi incanta così tanto: è il mio preferito, quello che vado sempre a trovare per primo, e rappresenta una bellissima Madonna delle Grazie. Luciano D’Aniello giugno 2014 scarp de’ tenis

.53


40_58@scarpdetenis182_scarp 18/06/14 15:19 Pagina 54

salerno “Il Giardino dei Girasoli”, hospice di Eboli che assicura cure palliative ai malati terminali. L’eccellenza, nei giorni del dolore

Un Giardino, per andarsene sereni di Michele Piastrella Il “Giardino dei Girasoli” di Eboli è una splendida struttura, diretta dal dottor Armando De Martino. Si tratta di un hospice in cui vengono erogate cure palliative da medici e infermieri altamente specializzati. In un territorio, quello campano, che molto lentamente sta provando a uscire da situazioni diffuse di malasanità e carenze di vario genere negli ospedali, la struttura di Eboli rifulge come esempio di eccellenza. Eccellenza determinata dalla grande professionalità, ma soprattutto dalla grande carica di umanità che pervade la struttura. E non poteva essere altrimenti, quando si ha che fare con persone vicine al riposo eterno, il cui “mondo” talvolta si riduce a quei medici e infermieri incontrati negli ultimi giorni. “Il Giardino dei girasoli” è la realizzazione del sogno di De Martino e dei suoi collaboratori. Sin dal 1996, infatti, De Martino ha praticato cure palliative a l’ospedale Maria SS. Addolorata di Ebodomicilio; in quel periodo lavorava per li. De Martino ha poi fondato il comita-

Cure palliative: dolore celato, vita migliorata Gli ultimi mesi di una malattia grave, quale può essere un tumore o una leucemia, sono caratterizzati da numerosi disagi; primo fra tutti il forte dolore fisico, talvolta chiamato “dolore totale”, la perdita di autonomia fisica, eventuali disturbi psichici e una crisi generalizzata della vita del paziente che coinvolge anche i suoi familiari e tutti coloro che gli sono vicini. Accettare di essere entrati nello stadio finale di una malattia mortale rappresenta un difficile percorso psicologico, ed è solo una delle problematiche. Le cure palliative si occupano di tutti i disagi che incorrono nell’ultimo periodo della vita dell’individuo. E, visto che in Italia sono ben 143 mila l’anno gli ammalati che muoiono dopo aver attraversato la fase conclusiva di un tumore (se aggiungiamo le malattie degenerative e di altro genere, il numero dei pazienti sale), possiamo immaginare quanto grande sia il bisogno di attenzioni mediche e spirituali per queste persone. Il significato letterale della parola “palliativo”, dal verbo palliare, è “celare”, “coprire”: chiaramente queste cure non guariscono, non agendo sulla causa della malattia, ma alleviano il dolore e in qualche caso lo annullano completamente, migliorando gli ultimi periodi di vita del paziente. Non si tratta solo di cure farmacologiche: vi sono un importante supporto psicologico, momenti ricreativi e di condivisione, in sintesi si cerca di migliorare la vita interiore del paziente. Nel 2002 l’Organizzazione mondiale della sanità ha confermato l’importanza delle cure palliative, ritenendo che esse siano “un ottimale trattamento del dolore e delle altre problematiche di natura fisica, psicosociale e spirituale”. Lo stato italiano ha sancito il diritto dei cittadini a ricevere le cure palliative soltanto di recente, attraverso la legge n. 38 del 15 marzo 2010. E “Il Giardino dei Girasoli” rappresenta un’eccellenza in questo senso.. Antonio Minutolo

54. scarp de’ tenis giugno 2014

to “un hospice per Eboli e Amici dell’ospedale Maria SS. Addolorata”, da cui è nato l’hospice “Il Giardino dei Girasoli”.

Anche più economiche Gli ammalati non più guaribili, qui ricoverati, sono aiutati anche da volontari e dei loro familiari. La presenza dei familiari è di fondamentale importanza per ricreare il clima domestico e per fornire il necessario supporto affettivo in momenti così difficili. Nel 2013 il “Giardino” ha assistito 190 pazienti; 82 di questi sono stati ricoverati nella struttura. Gli altri sono stati curati a domicilio. Infatti, in alcuni casi è possibile erogare tali servizi sanitari lasciando l’ammalato accanto ai suoi affetti: una scelta ottimale che, purtroppo, non sempre può essere effettuata, data la complessità delle situazioni seguite. Le domiciliari, inoltre, sono preferibili da un punto di vista economico: il costo giornaliero di un ricovero in hospice è di 300 euro, erogando le cure a domicilio lo Stato risparmia fondi e riesce, così, a garantire la terapia del dolore a più pazienti. Per questi motivi, gli hospice oggi esistenti in Italia possono avere al massimo 30 posti letto. Ciascuna camera solitamente ha a disposizione un altro letto, in cui può rimanere a dormire un familiare dell’ammalato, tutte le volte che voglia. “Il Giardino dei Girasoli” si avvale anche dell’opera di volontari, che sostengono gli ammalati attraverso attività ricreative e culturali. Per questo motivo, spesso si tengono corsi di formazione per questa tipologia così particolare e di volontariatoper garantire informazioni sia mediche che comportamentali ai candidati volontari, sia per operare nell’hospice che a domicilio.

.


40_58@scarpdetenis182_scarp 18/06/14 15:19 Pagina 55

venezia Scarp sbarca in laguna! Cominciate le vendite nel capoluogo veneto: «Risposte oltre le aspettative. Ed è soltanto l’inizio...»

Un giornale per ricominciare di Michele Trabucco Un giornale per cominciare a intrecciare nuove relazioni e frequentare nuovi ambienti. È questo lo spirito che ha spinto la Caritas diocesana di Venezia ad abbracciare il progetto Scarp de’ tenis. Fin dall’inizio si è voluto portare avanti un’idea condivisa e da condividere. Abbiamo così iniziato coinvolgendo i diversi responsabili delle strutture di accoglienza e dei servizi di Caritas, per ascoltare la loro opinioni e le loro indicazioni, poi abbiamo incontrato e ascoltato alcuni parroci del Patriarcato, per sondare la loro disponibilità; alla fine abbiamo deciso di lanciarci in questa avventura, per dare uno strumento in più ai nostri amici-ospiti delle strutture Caritas, affinché interagiscano con nuove persone, nuovi ambienti e nuove responsabilità. La risposta è stata entusiasta: cinque di loro pronti a partire e diffondere sul ci ha messo in contatto con tante perterritorio le notizie di Scarp. Questo ensone nuove. È un modo diverso di intusiasmo ci ha fatto superare le paure di contrare gli altri». partenza e così i cinque venditori – Francesco, Issa, Loris, Nassau e VincenSpirito di squadra zo – si sono organizzati per vendere il L’onestà e la schiettezza dei venditori ha giornale nelle prime cinque parrocchie, rivelato che il vero primo motivo per initutte situate a Venezia. Le parrocchie del ziare questa avventura è stato il denaro. centro storico sono piccole, storica«Non ci nascondiamo dietro un dito – mente antiche e molto belle, ma ormai ha confessato Vincenzo –: diciamo che la popolazione si sta assottigliando e la la possibilità di guadagnare qualche solpartecipazione alle messe è sempre più do in più ci ha spinto a diventare vendibassa. Per questo avevamo timore che tori. Ma poi l’incontro con bravi parroci la prima uscita di vendita risentisse di e persone per bene ci ha dato una monumeri bassi, con una ripercussione sul morale dei venditori, e una forte delusione nei nostri amici. Invece la risposta della gente è stata bellissima e ampia. Parroci che hanno invitato gli amici-venditori a bere un caffè, a farsi raccontare la loro storia, a dialogare con i parrocchiani, positivamente sorpresi e contenti di vedere i venditori vestiti di rosso offrire un bel prodotto. Così la prima esperienza è stata positiva e ha dato lo slancio e l’entusiasmo giusto per continuare la sfida. Domenica dopo domenica le vendite sono continuate molto bene e ogni setRedazione nuova di zecca timana è stata una esperienza nuova Foto di gruppo per tre dei cinque per tutti noi. «Siamo stati davvero felici venditori di Scarp a Venezia di questa opportunità – spiega Loris –,

tivazione in più». Gli amici di Scarp provengono da esperienze di vita diversissime, ma tutti hanno accettato di collaborare al progetto. In un’occasione hanno venduto insieme, dividendosi equamente il ricavato. Un bel gesto di collaborazione e una prova di “spirito di squadra”. Ora abbiamo il calendario delle parrocchie, che a rotazione ospitano i venditori. Ma è solo l’inizio. Vogliamo aumentare venditori e vendite, ci piacerebbe che il giornale diventasse una voce qualificata e nuova rispetto ai soliti media. Un grazie anzitutto al direttore Caritas, don Dino Pistolato, che ha appoggiato fin dall’inizio il progetto, abbonando tutte le parrocchie della diocesi al giornale, per farlo conoscere; ai responsabili Caritas, che si sono resi disponibili a sostenere progetto e venditori; ai parroci che hanno accolto quest’altra iniziativa di carità e solidarietà. E naturalmente ai venditori-pionieri che hanno aperto la strada.

.

giugno 2014 scarp de’ tenis

.55


40_58@scarpdetenis182_scarp 18/06/14 15:19 Pagina 56

catania Continua, incessante, lo sbarco di migranti sulle coste siciliane. L’operazione “Mare Nostrum” non riesce ad evitare le vittime

La strage e l’accoglienza di Emiliano Abramo Il 14 maggio, la città di Catania e la Sicilia intera si sono piegate di fronte allo sbarco di 206 migranti sopravvissuti al tragico naufragio dell’ennesimo “barcone della speranza”, grazie all’intervento di Mare Nostrum (operazione militare e umanitaria che fronteggia l’emergenza-migranti anche nello Stretto siciliano). La Comunità di Sant'Egidio era presente al porto di Catania e ha sentito l'esigenza di aiutare chi è meno fortunato, chi ha bisogno di ritrovare la speranza o soltanto un’amicizia. Alle 18 del pomeriggio, abbiamo visto approdare al porto di Catania la nave Grecale, che trasportava persone distrutte, malconce, “amici che vengono dal mare” a cui rivolgere un gesto di conforto, una parola delicata, un dolce welcome. Perché chi arriva porta con sé una valigia di speranze, sogni e preocnave, ognuno coperto dal proprio lencupazioni. Ma ha accumulato paure e zuolo bianco. Eravamo lì anche per lodolori, che un’accoglienza gentile può ro: per rivolgere il nostro saluto comalmeno provare a intaccare. mosso nel modo più semplice e modeAl porto abbiamo osservato uno per sto possibile: pregando e porgendo un uno i volti dei 206 sopravvissuti, con l’afiore sui loro corpi. mara consapevolezza che su quella nave non hanno viaggiato solo loro: 17 soGenerazione non perduta no state le vittime del mare, 12 uomini, Abbiamo sentito la stessa tristezza che 3 donne e 2 bambini. I loro corpi sono si prova quando si perde una persona stati composti insieme nella stiva della cara, abbiamo compiuto un gesto pic-

54. scarp de’ tenis giugno 2014

Lutti e salvataggi Nella pagina a fianco, l’ultimo saluto sulla nave Grecale a uno dei migranti morti in mare a metà maggio. A sinistra, la nave della Marina italiana nel porto di Catania

colo ma umano, dinnanzi alla furia di un mare assassino e della speranza di popoli che vanno a morire dimenticati da molti: non dobbiamo smettere di aiutare. I giovani siciliani, considerati da tanti “la generazione perduta”, hanno dimostrato una grande cultura dell’accoglienza e dell’umanità, contagiando il mondo degli adulti in un tam tam di solidarietà che ha coinvolto la cittadi-


40_58@scarpdetenis182_scarp 18/06/14 15:19 Pagina 57

scarpcatania nanza intera nel reperimento di generi alimentari, di vestiti e di beni di prima necessità. Su quella nave viaggiavano siriani, eritrei e nigeriani. Viaggiavano insieme, sono morti insieme. Noi allora dobbiamo lavorare insieme per accogliere chi è straniero. Abbattere i confini, anche della semantica: non chiamiamoli più “clandestini, stranieri, immigrati”, iniziamoli a chiamare “nuovi europei”, perchè sono il nuovo futuro del vecchio continente. Il 14 maggio la Comunità di Sant’Egidio ha pianto, porgendo un fiore su quei corpi inermi: oggi con la commozione nel cuore è il momento di sostenere chi è arrivato ed è per questo che condividiamo con voi l’appello lanciato alla cittadinanza di Catania. Vogliamo costruire un paese di pace, perché il mondo è abitato da genti di pace.

.

COME AIUTARE: é possibile aiutare portando Generi di prima necessità (cibi in scatola, latte a lunga conservazione, pasta, riso, biscotti, sughi pronti a lunga conservazione, succhi di frutta) Materiale per l’igiene intima e personale (shampo, bagnoschiuma, assorbenti, carta igienica) Generi per bambini (Pappe, latte in polvere, pannolini). CONTATTI E INFORMAZIONI santegidiosicilia@gmail.com tel. 349.5004154 – 346.0056669

L’esperimento

“Social street” in via Etnea: incontri virtuali con vicini reali

Il fenomeno del social street sbarca anche in Sicilia. A parlarcene è Antonello Ferrara, responsabile dell’Ufficio Migrantes della Caritas diocesana di Siracusa ma residente a Catania, dove svolge diverse attività di volontariato. «Ho voluto creare un gruppo su Facebook – racconta Antonello – che riunisse i residenti della strada principale di Catania, via Etnea, per socializzare con nuova gente e organizzare incontri ed eventi man mano che si ampliano le conoscenze. Ma il social street è anche un modo per aiutarsi a vicenda. Come? Per esempio se qualcuno di noi ha un problema con l’auto mentre si trova in città, può contare sui vari amici che si interesseranno a risolverlo entro breve tempo». Ma vi sono altre forme di solidarietà più mirata, verso chi vive nel disagio o chi, magari, avendo una certa età, è impossibilitato a “muoversi” nell’ambito medico o burocratico. «La nostra speranza è che il social street possa espandersi anche in altri quartieri – continua Antonello – e per questo bisogna sensibilzzare le autorità e pubblicizzare a 360 gradi questo nuovo fenomeno. Potrebbe tornare utile proprio per rendersi disponibili ad aiutare le persone che davvero hanno bisogno di un sostegno, coinvolgendo gli abitanti del quartiere, come già accade in alcune città italiane». Su Facebook, il gruppo creato da Antonello è così descritto: "Questo gruppo vuole riunire i residenti di via Etnea a Catania, per socializzare, creare eventi, avere un punto di riferimento dove condividere idee, necessità, progetti, iniziative. Possono aderire tutti coloro che abitano in questa meravigliosa via, non possono aderire associazioni, gruppi, partiti politici. Accettiamo le persone, con le loro storie e idee, con i loro bisogni e voglia di confrontarsi. Questo gruppo non è un luogo di protesta ma di proposta, un gruppo dove chiedere aiuto e confronto, semplicemente per socializzare e conoscersi”. «La parte più interessante del social street – conclude Antonello – è che nasce in ambito virtuale, perché fisicamente è impossibile conoscere tutte le persone che abitano vicine a noi, ma poi è possibile trasformare questi contatti dal virtuale al reale. All’interno del gruppo Facebook è possibile creare eventi. Non servono spazi pubblici o sale da affittare: esistono le piazze, i giardini o le case delle persone. Per portare avanti il social street non servono investimenti finanziari: serve la volontà di interagire con i propri vicini di casa». Roberto De Cervo giugno 2014 scarp de’ tenis

.57


40_58@scarpdetenis182_scarp 18/06/14 15:19 Pagina 58


ventuno Ventuno. Come il secolo nel ventunodossier Il settore tessile dà quale viviamo, come l’agenda lavoro a quasi venti milioni di persone per il buon vivere, come tra Europa e Asia. Ma oggi i lavoratori l’articolo della Costituzione sulla libertà di espressione. di alcuni paesi poveri reclamano diritti. Ventuno è la nostra E il capitalismo prêt-à-porter cerca idea di economia. Con qualche proposta per nuovi orizzonti: i colossi del tessile agire contro l’ingiustizia e delocalizzano ulteriormente l’esclusione sociale nelle scelte di ogni giorno. la produzione, là dove la mandopera

costa sempre di meno.

21 di Andrea Barolini

Ventunoeconomia La povertà assoluta in Italia è in espansione. Ma le misure strutturale per contrastarla continuano a latitare. L’Alleanza contro la povertà in luglio presenterà un Piano anti-povertà al governo

di Daniela Palumbo

giugno 2014 scarp de’ tenis

.59


21ventunodossier Rana Plaza, un anno dopo. I grandi marchi della moda pronti a lasciare l’Asia. Perché i lavoratori iniziano a rivendicare diritti

La moda? Rende schiavi... di Andrea Barolini

La protesta degli operai cinesi e bangladesi dei grandi marchi del prêt-à-porter internazionale non arriva a scalfire i consumatori occidentali. Così, mentre in Asia si rivendicano diritti e condizioni di lavoro dignitose, i colossi del tessile delocalizzano. In altre parti di mondo: quelle dove ancora si può sfruttare “al meglio” la manodopera

60. scarp de’ tenis giugno 2014

Il caso H&M

Etiopia, nuova frontiera delle paghe da fame Nei mesi scorsi l’eco delle proteste degli operai asiatici dei grandi marchi del tessile è tornata a scuotere il mondo occidentale. Per diversi giorni i lavoratori cinesi della Yue Yuen, fabbrica che produce scarpe che noi indossiamo abitualmente – firmate da Nike, Adidas, Puma e Asics – ha indetto uno sciopero che ha portato migliaia di addetti (30 mila su 40 mila, secondo fonti interne ai lavoratori, riferite dalla stampa internazionale) a incrociare le braccia. Obiettivo dell’agitazione: chiedere un aumento dello stipendio del 30%, al fine di rendere le paghe accettabili per i lavoratori e le loro famiglie. Ad aprile l’intera produzione è stata interrotta. La polizia era stata schierata attorno alla fabbrica e i proprietari (cinesi e taiwanesi) avevano minacciato di operare licenziamenti se gli impianti non fossero stati riavviati alla tica, fatto di soprusi, di stipendi da fasvelta. Poche settimane dopo, altri grupme, e di una vera e propria forma di copi di lavoratori cinesi, nella provincia di lonizzazione industriale. Jiangxi, avevano emulato i colleghi della Ma di fronte a tale situazione, che orYue Yuen. È il caso degli operai dello stamai non è più una novità per le opinioni bilimento di Jian, nel quale in duemila pubbliche dei paesi occidentali, come avevano incrociato le braccia. reagiscono i colossi del settore? Un dosMa la Cina non è il solo paese nel sier pubblicato dal Wall Street Journal ha quale si diffonde il movimento di proteindagato ad esempio sul caso della mulsta degli addetti del settore. In Banglatinazionale americana Nike. Il quotidiadesh, ad esempio, il malessere è sempre no ha scoperto che all’interno dell’azienpiù diffuso, dopo i tragici eventi di più da era sorto un dibattito sull’opportunità di un anno fa, quando la mega fabbrica di continuare a produrre in Cina. E, standel Rana Plaza, ospitata in una struttudo alle informazioni raccolte, la possibira di otto piani, alla periferia di Dacca, lità di chiudere le fabbriche e andare alcollassò uccidendo 1.129 persone. Una trove non è affatto esclusa: i vertici del tragedia da inquadrare nel tetro contegruppo, infatti, riterrebbero di non essesto lavorativo della povera nazione asiare in grado di vedere soddisfatti i requisi-


La moda? Rende schiavi

ti necessari per garantire condizioni di lavoro e di remunerazione accettabili. Ma ancora più eclatante è il caso di un’altro grande marchio occidentale, Hennez & Mauritz (meglio noto con l’abbreviazione H&M), che dalle parole è già passato ai fatti, secondo quella che potrebbe diventare la nuova delocalizzazione del settore. Benché infatti moltissimi marchi continuino ad appoggiarsi ad imprese presenti nel continente asiatico per le loro produzioni, la geografia globale di jeans, giacche e t-shirt potrebbe cambiare radicalmente nei prossimi anni. A restare identico, invece, sarà l’obiettivo: massimizzare ad ogni costi i profitti, secondo quello che è ormai da tempo il catastrofico leit motiv delle strategie di business delle multinazionali.

Giù il costo della manodopera La multinazionale svedese H&M, presente pressoché ovunque nel mondo con 104 mila impiegati e quasi 2.800 negozi, non si è accontentata infatti dei 16 miliardi di euro di vendite registrati nel 2012. Né dei profitti netti raggiunti nello stesso anno, pari alla cifra astronomi-

I lavoratori del sud-est asiatico rivendicano diritti? Si sposta tutto in Africa! ca di 1,92 miliardi di euro. E allora, cosa fare per incrementare ancora i guadagni? Semplice: abbassare ulteriormente il costo della manodopera. Ovvero gli stipendi dei lavoratori. E, nell’impossibilità di farlo in luoghi che ormai sono al centro dell’attenzione internazionale, la scelta è stata quella di cambiare aria, traslocando dove il costo del lavoro è ancora più basso. Meta prescelta dal colosso scandinavo, l’Etiopia. Così, se in Cina i lavoratori reclamano una decisa estensione dei loro diritti e perfino (pensate un po’ che assurdità!) salari decenti, in Africa si vive ancora una fase in qualche modo “antecedente”. Ovvero quella per la quale, di fronte all’alternativa (morire di fame), ci si accontenta anche di un tozzo di pane. Ecco, in rapida sequenza, i conti che de-

vono essersi fatti ai piani alti di H&M: le paghe dei lavoratori cinesi sono aumentate del 17,1%, in media, nel 2012. L’incremento segue quello dell’anno precedente, quando era stato registrato un +18,3%. Una crescita che era necessaria per avvicinarsi a livelli accettabili: dinamica che, evidentemente, non piaceva alla multinazionale europea. D’altra parte, morto un paradiso industriale, se ne fa un altro: «Siamo una grande impresa – ha dichiarato il gruppo in un comunicato – e cerchiamo costantemente nuovi mercati per garantirci la capacità di distribuire i prodotti in tutti i negozi». Qualunque cosa, dunque, pur di continuare a (sovra)produrre. Ma soprattutto a (s)vendere. Sì, perché ciò di cui noi consumatori occidentali dovremmo renderci conto è che se alcuni prodotti vengono proposti a determinati prezzi, dietro non può che esserci qualcosa che non torna. Basta fare un giro in qualsiasi negozio, ma anche nello store online di H&M, per rendersi conto che i costi sono oggettivamente troppo bassi. Per le donne, top e gonna a 4,95 euro ciascuno, abiti a 9,95. Per gli uomini, camicie allo stesgiugno 2014 scarp de’ tenis

.61


ventunodossier

I numeri di H&M Nazionalità Svedese Anno di fondazione 1947 Manager Stefan Persson (presidente) Rolf Erikssn (a.d.) Impiegati 104.000 Negozi 2.776 Vendite (2012) 16 miliardi di euro Profitti netti (2012) 1,92 miliardi di euro

so prezzo e scarpe a 14,95. D’altra parte, è ovvio che far comprendere ai consumatori che occorrerebbe pagare qualcosa in più per garantire un tenore di vita dignitoso a chi quei capi li ha fabbricati non è una cosa facile. Molto più facile, invece, è mantenere gli occidentali felici e contenti, di poter fare shopping low cost, inconsapevoli delle conseguenze. Del fatto, cioè, che ad Addis Abeba, capitale dell’Etiopia, oggi si lavora per 45 euro in media. Al mese, ovviamente. Cinque euro in meno rispetto al Bangladesh: pochi “spiccioli” che moltiplicati per i “grandi numeri” delle linee di produzione di una multinazionale, fanno la differenza nei bilanci. Ma soprattutto, è la Cina ad essere ormai quasi completamente fuori mercato: per il salario di un operaio occorre sborsare “ben” 300 euro al mese (e il governo si è perfino permesso di aumentare il salario minimo, con l’obiettivo di incentivare i consumi domestici: «Roba da pazzi!», devono aver pensato alla sede centrale di H&M, a Stoccolma). Tenuto conto anche dei trasporti e degli altri costi, secondo un articolo ap-

parso sul Wall Street Journal nello scorso agosto, per la produzione di un abito in Etiopia è necessario sborsare la metà rispetto a quello che occorreva affrontare nel 2011 in Cina. Non è un caso che ad accogliere la multinazionale svedese in terra d’Africa ci sia stata una nutrita presenza di “colleghi” del settore: dalla britannica Tesco alla cinese Huajian (eh sì, ormai anche i cinesi delocalizzano).

Dopo la Cina, Dukem Quest’ultima, fornitrice di griffe ultra-note come Guess e Tommy Hilfiger, si è installata a Dukem, 30 chilometri a sud della capitale etiope. L’area, infatti, è stata negli ultimi tempi protagonista di un ampio sviluppo, trainato soprattutto dai fortissimi incentivi concessi dal governo. Qualche esempio: chi arriva qui, non soltanto può permettersi di pagare ai lavoratori le cifre che abbiamo visto, ma può avvalersi di quattro anni di produzione quasi gratuita. Non costa nulla, ad esempio, l’energia elettrica. E anche le tasse, per i primi 48 mesi di attività, sono azzerate. Eppure basta uno sguardo ai “fondamentali” economici dell’Etiopia per

Le iniquità dell’industria globale del tessile

La maglietta comprata a 10 euro frutta solo 30 centesimi di stipendio... Un’analisi della Clean Clothes Campaign fornisce i “numeri” dell’immensa industria globale del tessile. Lo studio, intitolato I salari nell’industria mondiale dell’abbigliamento, fotografa il comparto a livello globale: il settore dà lavoro complessivamente a 15 milioni di persone in Asia e a 4 milioni in Europa. Si tratta delle due aree che producono la stragrande maggioranza dei capi di abbigliamento che indossiamo. La preponderanza asiatica è dunque evidente, ma le produzioni del Vecchio continente non vanno sottovalutate: a trainare la nostra macro-regione sono soprattutto Turchia, Romania, Bulgaria e paesi baltici. revoli, sprovvisti di acqua e di fognature. In generale, sono i paesi che garanIn Europa si vive invece senza riscaldatiscono manodopera a basso costo ad mento. I problemi più comuni sono la essere i più gettonati dai grandi marchi, malnutrizione, gli interminabili turni lache così possono centrare profitti stravorativi determinati dalla necessità di tosferici. Secondo il rapporto, infatti, «in integrare il salario con lo straordinario alcuni paesi europei i livelli salariali per o gli incentivi, l’assenza di ferie e di percirca 2,5 milioni di addetti si collocano messi per malattia». D’altra parte, proben al di sotto della linea di povertà desegue il rapporto, «una delle ragioni che fece salire il numero delle vittime nel finita dall’Unione europea». Un problecrollo dell’edificio Rana Plaza in Banglama che si aggrava in Asia: «Le basse redesh nell’aprile 2013, nonostante fosse tribuzioni obbligano i lavoratori asiatici evidente che si erano aperte delle crepe e le loro famiglie a vivere in alloggi mise-

62. scarp de’ tenis giugno 2014

nei muri, fu che i lavoratori accettarono di entrare comunque in fabbrica pur di non perdere la propria paga».

Solo il tre per cento Il commercio di prodotti di abbigliamento fabbricati fuori e dentro l’Europa in queste condizioni costituisce dunque una forma di “dumping sociale” perpetrato su scala mondiale. Grazie infatti allo sfruttamento di tali mercati del lavoro, del costo totale medio di un bene in vendita nei negozi europei, soltanto il 3% del prezzo finisce nelle tasche dei lavoratori. Mentre il 75% è rappresentato da tasse, costi e profitti del marchio e di chi si è occupato della distribuzione. Per una maglietta che compriamo a 10 euro, dunque, soltanto 30 centesimi sono legati allo stipendio degli operai che l’hanno fabbricata...

.


La moda? Rende schiavi...

porsi la più banale delle domande: come si fa ad accettare il “regalo” delle autorità locali? Il paese africano, pur protagonista di una rapida crescita negli ultimi anni, è al 211˚ posto nel mondo in termini di prodotto interno lordo pro capite (dati del Cia Factbook). La quota di popolazione che risulta al di sotto della soglia di povertà è pari al 39%, l’aspettativa di vita alla nascita è pari a 60,75 anni (dato che pone il paese al 193˚ posto nel mondo), il tasso di bambini denutriti sfiora il 30% e metà della popolazione non ha a disposizione una fonte di acqua potabile. In un mondo ideale, la popolazione etiope non vivrebbe in queste condizioni. Ma nel nostro mondo, possiamo almeno chiedere che le aziende occidentali, quando delocalizzano nel terzo mondo, rispondano all’offerta del governo locale di non pagare tasse per quattro anni con un: «Grazie, ma ne basta uno solo: con le imposte dei successivi tre avviate dei programmi contro la povertà?». Eh no, questo non

grafico 1

Composizione del prezzo di una maglietta prodotta in Asia e venduta nell’Unione europea 3%

3%

Costo della manodopera

5%

Dazi e trasporti

6%

Costi generali di produzione

5% 6%

11% 60%

11% Materiali 15% 15% Costi e profitto del marchio

60% Tasse, costi e profitti del distributore

coincide con gli interessi degli azionisti. Dei bilanci, delle trimestrali, dei mercati. Un mondo diverso, nel capitalismo prêt-à-porter, sembra per ora impossibile.

.

tabella 1

I salari effettivi e i salari dignitosi in Asia Paese

Bangladesh Cambogia**** Cina India**** Indonesia**** Malaysia Sri Lanka****

Salario minimo legale in moneta locale*

Salario minimo legale in euro**

Salario dignitoso in moneta locale***

Salario minimo legale in % del salario dignitoso

5300 taka 399.503 riel 1.270 yuan 4.370 rupie 1.356.780 rupie 885 ringgit 8.890 rupie

50 euro 73 euro 150 euro 53 euro 87 euro 197 euro 50 euro

25.687 taka 1.582.668 riel 3.132 yuan 16.240 rupie 4.048.226 rupie 1.556 ringgit 46.168 rupie

21% 25% 41% 27% 34% 57% 19%

*

Nei paesi dove il salario minimo varia da regione a regione: il salario minimo legale a livello mensile è stato ottenuto calcolando la media salariale delle maggiori regioni o province produttrici

**

Tasso di cambio calcolato al 28 marzo 2014

***

I dati relativi al salario dignitoso sono stati calcolati dalla Asia Floor Wage Agency, una coalizione di sindacati asiatici e di gruppi a difesa dei diritti dei lavoratori, che ha messo a punto una formula per la stima del “salario vivibile” per l’Asia. L’Agenzia svolge regolari indagini sui consumi nelle regioni asiatiche per aggiornare la composizione del paniere alla base del calcolo del salario adeguato alle necessità della vita. Info: www.asiafloorwage.org

**** Paesi dove è in corso un processo per promuovere un meccanismo di fissazione dell’Asia Floor Wage a livello nazionale

giugno 2014 scarp de’ tenis

.63


21ventunoeconomia La povertà assoluta sempre più diffusa in Italia. Gli esperimenti attuati non sono incisivi. Serve un organico piano di contrasto

Povertà, a quando misure strutturali? di Daniela Palumbo La povertà in Italia dilaga. Nonostante qualche osservatore poco illuminato intraveda la crescita all’orizzonte, chi lavora sul terreno delle disuguaglianze e dell’esclusione sociale non può non essere preoccupato per i segnali che indicano all’8% (dato del 2012) la povertà assoluta, misurata in riferimento a un paniere di beni e servizi essenziali che sono venuti drammaticamente a mancare a un totale di 4 milioni 814 mila persone, il 6,8% delle famiglie. L’8%, appunto, se si guarda all’intera popolazione. E il dato dal 2012 non può che essere peggiorato. Inoltre, nel 2007 i poveri erano il 4,1% della popolazione: in proporzione, in cinque anni sono raddoppiati. E fino al 2011 il numero di famiglie in situazione di povertà assoluta era il 33% in meno. Questa frenetica progressione ci racconta fa apparire ancora più grave il fatto che, nel frattempo, la politica non ha saputo mettere a punto innovative e incisive misure di contrasto a questo drammatico fenomeno.

Agli ultimi posti in Europa I dati negativi non sono comunque esauriti. Se guardiamo al bisogno primario del cibo, le indagini fotografano un paese in cui c’è stato nel 2012 un au-

64. scarp de’ tenis giugno 2014

mento del 9% delle famiglie che hanno chiesto aiuto per mangiare, con un totale di 3,7 milioni di persone assistite con pacchi alimentari o pasti gratuiti presso le mense. Inutile girarci intorno, insomma: dopo la Grecia siamo noi a soffrire di più, in Europa, la crisi economica. L’annuario regionale di Eurostat, ovvero l’ufficio statistico dell’Unione europea, segnala d’altronde, elaborando dati relativi al 2011, che il 27,6% della popolazione italiana che vive nelle aree densamente popolate è a rischio di povertà o di esclusione sociale. Percentuale che pone l’Italia al di sopra della media Ue (23,3%). Peggio di noi solo Grecia, Bulgaria e Lettonia, e anche se ci si concentra sulle aree meno popolate del paese ci si scopre sopra la media europea, sebbene con uno scarto minore: il rischio esclusione sociale, in questo caso, riguarda il 31,7% della popolazione, contro una media Ue del 29,3%. Di fronte e questo desolante scenario, quali sono gli strumenti di contrasto alla povertà, attuati o promessi? La nuova social card è stata il cavallo di battaglia del governo Letta. Caritas Italiana, in collaborazione con altri partner, ha stilato un Rapporto di valutazione delle politiche di contrasto alla povertà nel

2013, che da quest’anno avrà cadenza annuale. La nuova social card è stata studiata a fondo nei suoi effetti: sperimentata nei 12 comuni con più di 250 mila abitanti (Bari, Bologna, Catania, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino, Venezia e Verona), prevedeva un contributo mensile da 230 a 404 euro, a seconda dell’ampiezza del nucleo familiare, e percorsi personalizzati di inserimento sociale. Secondo il Rapporto Caritas, anzitutto l’entità dell’importo resta insufficiente per sostenere coloro che si trovano al di sotto della soglia di povertà; inoltre utilizza vincoli di assegnazione – che riguardano la condizione economica e lavorativa – troppo stringenti. In sostanza, non entrano nella sfera di assegnazione della social card tantissime famiglie con bisogni essenziali. Inoltre, la nuova card non può essere considerata una misura strutturale, perché richiede un rifinanziamento annuale.

Detrazioni per pochi (poveri) E veniamo al governo Renzi. La misura promessa per le famiglie è la variazione della detrazione Irpef a favore dei lavoratori dipendenti. Su quest’ultimo fronte si prevede l’incremento della detrazione per lavoro dipendente (esclusi autono-


Lotta alla povertà Alleanza contro la povertà

«A luglio la proposta di un Patto: servizi, non soltanto sussidi» ll professor Cristiano Gori, è docente di politica sociale all’Università Cattolica e consulente scientifico dell’Istituto per la Ricerca Sociale, a Milano. Gori è anche il coordinatore e l’anima dell’Alleanza contro la povertà. Dopo un anno di lavoro per proporre un nuovo assetto di welfare da sottoporre al nuovo governo, cosa è cambiato nel disegno dell’Alleanza contro la povertà? Il macrodisegno resta lo stesso presentato a luglio 2013, ma grazie al lavoro degli esperti e dei tecnici delle associazioni implicate, è emerso tutto il sapere che deriva dall’esperienza del terzo settore. In sostanza, una serie di fattori applicativi sono stati meglio declinati: ad esempio, abbiamo lavorato su una migliore suddivisione delle responsabilità fra stato e comuni nella spesa e nella gestione dei servizi. Poi c’è stato il rafforzamento della parte sociale, con l’inserimento dei senza dimora, altro nodo importante nell’attivazione di percorsi di autonomia per le persone più povere. Quali saranno le prossime mosse dell’Alleanza? Entro luglio verrà presentato il nuovo Reis e lanceremo la nostra proposta di patto contro la povertà. Poi entro il 30 settembre ci sarà la presentazione del disegno di legge di stabilità da parte del governo, noi vogliamo esserci. Non ci si sta muovendo un po’ tardi? Questa impostazione di welfare è pane quotidiano in Nord Europa da millenni... In Italia c’è innegabilmente un ritardo nelle politiche sociali. Le ragioni sono diverse. Innanzitutto, fino al 2007 molti pensavano che in Italia si potesse fare senza le politiche contro la povertà perché, in fondo, la povertà vera, cioè quella assoluta, era al 4% – adesso è già schizzata all’8 – e poi c’erano tutta una serie di reti che proteggevano le persone: reti sociali improprie, a cui in Italia si è delegato il welfare, dalla famiglia, alle pensioni di invalidità di un genitore o dei nonni, alle infinite casse integrazioni in deroga. Ma da allora la povertà è cresciuta. E anche tutte le reti sociali improprie che funzionavano, oggi sono sfocate e insufficienti. Dall’altra parte c’è il tema delle culture politiche. Le due più grandi culture politiche italiane interessate al sociale, quella cattolica e quella di sinistra, non si sono mai occupate di povertà nel nostro paese. La sinistra ha sempre preso in carico i lavoratori, con l’approccio marxista, quindi si occupava di chi il lavoro ce l’ha o l’ha avuto. E i cattolici? Fino all’ultimo pontefice il mondo cattolico si muoveva sui cosiddetti “punti non negoziabili”, famiglia e fine vita: tutta l’attenzione sul sociale degli schieramenti politici di orientamento cattolico si convogliava su quei temi. Adesso cosa è cambiato? Da una parte, la crisi è fortissima e i bisogni sociali sono talmente cambiati nel breve periodo che i due schieramenti non possono fare a meno di occuparsi di povertà. Dall’altra, cambia anche la cultura politica e in

questo senso papa Francesco è stato fenomenale, perché dice che i punti non negoziabili – famiglia, fine vita – restano fondamentali nella dottrina cattolica, il punto è non farne un’ossessione politica. Inoltre, sostiene che la povertà va combattuta, anche con scelte politiche. Coordinatore dell’Alleanza Però chi lavora su Cristiano Gori insegna politica sociale alla Cattolica di Milano disagio e marginalità ed è consulente dell’Istituto la povertà l’ha sempre per la Ricerca Sociale combattuta... Vero. Gran parte del nostro terzo settore può ben dire «ma io mi sono sempre occupato di povertà». E la stessa cosa possono dire piccoli comuni della sinistra, dove le politiche sociali hanno sempre guardato a mantenere basso il livello degli esclusi dalla società. Ma purtroppo queste due anime, per così dire “operative”, non hanno mai influenzato la politica dello stato. È indubbio, invece, che papa Francesco abbia messo in primo piano la povertà, divenuta un tema politico ineludibile. Per tutti.

Quale potrebbe essere il punto debole della vostra proposta? Agisci sulla povertà quando questa è già arrivata, mentre dovresti impedire alle persone di scivolare in povertà. Però io penso che intanto si debba fare una scelta di civiltà: tutti non possiamo scendere sotto una minimo soglia di povertà. Naturalmente in questo discorso non c’è solo la povertà estrema; non pensiamo solo ai senza dimora, ad esempio, ma anche a chi aveva un lavoro, l’ha perso e adesso la famiglia resta senza reddito e non riesce ad andare avanti. Nel “Patto contro la povertà” la persona è al centro della proposta. Cosa vuol dire? Al centro c’è la famiglia e quindi la persona. Noi sosteniamo la necessità di offrire non solo l’opportunità di schivare il disagio, ma anche gli strumenti per riorganizzarsi la vita; le persone devono essere protagoniste del proprio progetto di vita. Ciò vuol dire dare servizi e non solo sostegni economici: servizi di orientamento al lavoro; servizi dedicati ai minori, per non far abbandonare la scuola e per avere un luogo dove crescere; servizi legati alle situazioni di disagio, anche psicologico, che si possono creare nelle famiglie proprio a causa dell’insorgenza della povertà o della perdita del lavoro. Bisogna mettere in condizione il terzo settore e il welfare locale di attuarli: lo si può fare solo se lo stato dà i soldi per garantire tali servizi al cittadino che ne ha necessità.

.

giugno 2014 scarp de’ tenis

.65


ventunoeconomia

Risultati ancora nulli

La nuova social card? Resta ferma al palo...

muni decideranno di applicare (dall’1 per mille al 3,3 per mille), la Tasi non solo non colpirà maggiormente i redditi più alti, ma, in assenza di detrazioni per i redditi più bassi, penalizzerà le famiglie povere. Siamo, insomma, ancora lontani da un disegno strategico di contrasto, reale, alla povertà e all’esclusione sociale. Si continuano ad applicare logiche di sperimentazioni episodiche, che non danno prospettive significative sul medio e lungo periodo: questa la conclusione del Rapporto, che invece ribadisce la necessità di orientare la spesa sociale verso misure che consentano di raggiungere un duplice obiettivo: ridurre il rischio di caduta in povertà e migliorare le condizioni di vita delle famiglie più disagiate.

La nuova social card, varata nel febbraio 2012 dal governo Monti con uno stanziamento di 50 milioni di euro per i 12 comuni più popolosi d’Italia, a più di due anni dal varo stenta ad arrivare alla fase operativa, quella dell’erogazione alle famiglie in difficoltà, nonostante la sperimentazione sia stata allargata su scala nazionale con il Sostegno all’inclusione attiva varato dal governo Letta nella legge di stabilità 2014. La nuova social card affianca la sard ordinaria, senza possibilità di sovrapposizione, e l’attivazione si inserisce in uno schema di welfare mix implementato dai comuni che uniscono (o dovrebbero) l’accesso alla carta all’avvio di percorsi personalizzati di inserimento, formativo o lavorativo. La nuova social card è una carta acquisti finanziata dall’Inps, con un importo fino a 404 euro, per nuclei familiari con minori in situazione di povertà. I criteri per l’assegnazione sono alquanto stringenti (indicatore Isee sotto i 3 mila euro, valore Ici dell’abitazione sotto i 30 mila euro, assenza di rapporti di lavoro e presenza di almeno un componente del nucleo famigliare che abbia perso il lavoro nei precedenti 36 mesi o, in alternativa, con un reddito inferiore a 4 mila euro): anche essi hanno contributo a frenarne, sinora, la diffusione.

Pronto il piano dell’Alleanza

mi e pensionati) per i redditi individuali più bassi; però, secondo le previsioni del Rapporto Caritas, chi percepisce redditi inferiori a 8 mila euro non ottiene beneficio dalle maggiori detrazioni. In media, le famiglie italiane dovrebbero ottenere uno sgravio Irpef di 61 euro all’anno (il 44% delle famiglie otterrà una riduzione di imposta, il 14% vedrà aumentare l’Irpef, per il restante 4% non vi saranno mutamenti). Dato che negli ultimi dieci anni le riforme dell’Irpef che si sono susseguite hanno via via esonerato i poveri dal pagamento dell’imposta sul reddito, di fatto poche famiglie in povertà assoluta sono interessate al provvedimento promesso del governo Renzi. E veniamo a due provvedimenti che

Con questi obiettivi, un gruppo di enti e associazioni – che va sotto il nome di Alleanza contro la povertà – sono ormai pronti a presentare il Patto contro la povertà, a luglio, al nuovo governo. L’alleanza è costituita da Caritas Italiana, Acli, Fondazione Banco Alimentare, Save the children, Fio.psd, Action Aid, Anci, Azione Cattolica Italiana, Cgil Cisl Uil, Cnca, Comunità di S. Egidio, Confcooperative, Conferenza delle regioni e delle provincie autonome, Forum nazionale del terzo settore, Lega delle Autonomie, Federazione San Vincenzo de Paoli. L’alleanza nasce con l’obiettivo di costruire un’articolata proposta di welfare, che solleciti il governo a mettere in campo una misura nazionale a sostegno di chi si trova in povertà assoluta. Il programma prevede misure già assunte da tutti i paesi Ue: alla base c’è il Reddito di inclusione sociale (Reis), ovvero un contributo economico che permetta alle famiglie di affrontare le spese primarie. Ma il contributo dovrà essere accompagnato da una serie di servizi alla persona (sociali, educativi, per l’impiego). L’Alleanza prevede che il Piano contro la povertà vada a regime in quattro anni, ma con investimenti sicuri a partire dal 2014. Il programma persegue una logica diversa dalle misure attuate finora: basta assistenzialismo, attraverso le riforme viene sollecitato un atteggiamento attivo dei beneficiari degli interventi. La spesa complessiva dell’operazione è di 5,5 miliardi di euro.

66. scarp de’ tenis giugno 2014

graveranno sulle famiglie italiane: l’aumento dell’aliquota ordinaria Iva dal 21% al 22% e i cambiamenti nella tassazione degli immobili (Tasi). La prima costerà alle famiglie italiane lo 0,2% del reddito, ma il 5% più povero pagherà lo 0,25% in più del proprio reddito, mentre il 5% più ricco solo lo 0,16% in più. Il Rapporto Caritas ci dice che anche se non si è intervenuti sulle due aliquote ridotte (4% e 10%), che colpiscono soprattutto i beni di prima necessità, il solo aumento dell’aliquota ordinaria produce effetti negativi sulle famiglie povere, peggiorandone le condizioni economiche. Infine, le simulazioni fatte sulla tassazione degli immobili si sono rivelate altrettanto deludenti: hanno dimostrato che qualunque sia l’aliquota che i co-

.


Lotta alla povertà

Presidente Acli

Bottalico: «Nella società italiana manca l’idea della fraternità» Le Acli sono protagoniste dell’Alleanza contro la povertà, esercitando un ruolo di coordinamento, e il presidente nazionale Gianni Bottalico è un sostenitore convinto di questo patto. A Scarp, Bottalico spiega perché non si può fare a meno di dotarsi del Reis, il reddito di inclusione sociale. Nell’Europa storica dei 15 l’Italia è la sola, insieme alla Grecia, a non essersi dotata del Reis. Perché? Non è una questione solo di risorse, ma di cultura e di visione dell’uomo. Nella nostra società, e nella classe politica (con sempre minore distinzione tra le forze politiche) è trascurata l’idea di fraternità: l’idea che le persone sono affidate le une alle altre e si devono custodire vicendevolmente. Occorre invece riscoprire una nuova sensibilità. Come procede il percorso dell’Alleanza contro la povertà e cosa riterrete inaccettabile quando presenterete la proposta di welfare al governo? Il percorso procede secondo due livelli, quello politico e quello tecnico. Il tavolo tecnico si riunisce periodicamente per approfondire tutti gli aspetti relativi al Reddito di inclusione. Sul piano politico speravamo in un segnale già da parte del precedente governo e continuiamo a fare pressione sul governo attuale perché si dia più risalto al tema della povertà, dopo che questo capitolo non ha trovato riscontro nel recente Documento di economia e finanza. Sarebbe inaccettabile scartare preventivamente la possibilità di reperire risorse contro la povertà nella prossima legge di stabilità. Nel programma dell’Alleanza è specificato che destinatarie delle misure di contrasto devono essere le famiglie in condizione di povertà assoluta. Le persone che hanno perso il lavoro avrebbero accesso alle misure di inclusione attiva? Noi rivendichiamo l’accortezza con la quale procede l’Alleanza contro la povertà, nell’evitare anche solo il minimo rischio di innescare guerre fra poveri. Chi perde il lavoro deve beneficiare anzitutto dei vari ammortizzatori sociali esistenti e rientrare nelle politiche attive del lavoro, contro la disoccupazione e per la riqualificazione professionale. Ciò non esclude che nel novero delle persone in povertà assoluta possano trovarsi anche disoccupati, magari di lungo corso, e altri soggetti. Anche questi dovrebbero rientrare nel Piano nazionale contro la povertà. Ma l’esperienza tedesca (dove il mix tra sussidi contro la povertà e lavoretti malpagati – mini job – ha prodotto una spaccatura in due del mercato del lavoro) insegna che bisogna tener distinti i due piani. L’ambizione del progetto Reis è un’altra: produrre da subito misure contro la povertà con un minimo di risorse iniziali, nell’ordine delle centinaia di milioni di euro, partendo da chi sta peggio nella scala della povertà assoluta, per poi arrivare a un costo di qualche miliardo una volta a regime, per coprire l’intera fascia di persone in povertà assoluta, quindi compresi

coloro caduti in questa situazione a causa della perdita del lavoro. Presidente nazionale Lei ha detto che le risorse Gianni Bottalico, numero uno per il Reis non dovranno Acli, soggetto che coordina l’Alleanza anti-povertà essere tolte a chi è già in difficoltà. Da qualche parte i soldi andranno trovati. Proposte? Le risorse per il Reis non possono ovviamente essere reperite attraverso l’imposizione di nuove tasse, bensì attraverso risparmi da altri capitoli di spesa e da tagli. Questi ultimi devono riguardare innanzitutto le spese militari. Siamo quarti in Europa e all’undicesimo posto nel mondo per spese militari, con una spesa stimata in 32,7 miliardi di dollari nel 2013. Su un bilancio di 32 miliardi, si potrà pur tagliare, magari rinunciare al costosissimo programma di acquisto dei cacciabombardieri F35... Le altre risorse si possono recuperare dai risparmi nella pubblica amministrazione, rendendola più efficiente e eliminando sprechi e doppioni.

Insieme al reddito inclusivo il vostro programma comprende anche un sistema locale di servizi che supportino il cittadino nel percorso di inclusione. Che ruolo avrebbe il terzo settore? L’idea è aiutare la persona in difficoltà a ritrovare la sua autonomia, almeno nei casi in cui ciò risulta possibile, e rafforzare reti di protezione attraverso cui nessuno venga lasciato solo. Il terzo settore dovrebbe giocare un ruolo da protagonista non solo nell’erogazione dei servizi, ma prima ancora nella definizione delle priorità di intervento e nella programmazione del welfare locale, insieme ai soggetti pubblici. Auspichiamo che la riforma del terzo settore messa in cantiere del governo valorizzi questi aspetti. Le misure “sperimentali” contro la povertà (social card su tutte) sono state un fallimento? Anche le misure di cui si parla al futuro – taglio Irpef, l’una tantum di 80 euro nella busta paga – sono figlie di una concezione di welfare vecchia? Il merito maggiore della social card è stato far vedere l’ampiezza dei bisogni, più che offrire risposte. Così le riduzioni Irpef: è giusto il principio di cominciare la riduzione fiscale dal lavoro. Si tratta di capire se è l’inizio di un piano articolato ed estendibile ad altre categorie o un’iniziativa estemporanea e azzerata nei suoi effetti da tagli e nuove tasse. La base della crisi sono le diseguaglianze. A chi fanno gioco? Cui prodest? Più di ogni altro ce lo dice papa Francesco, nella Evangelii Gaudium: “Mentre i guadagni di pochi crescono esponenzialmente, quelli della maggioranza si collocano sempre più distanti dal benessere (...). Tale squilibrio procede da ideologie che difendono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria”. Più chiaro di così!

.

giugno 2014 scarp de’ tenis

.67


50 personaggi illustrati dalle canzoni di Jannacci

La mostra riproduce le tavole disegnate in esclusiva per Scarp de’ tenis dai piÚ grandi fumettisti italiani. (Bozzetto, Silver, Cavazzano, Villa e tanti altri) Disponibile per fiere, feste, convegni

per informazioni 02 67479017 mail: ufficiostampa@coopoltre.it


lo scaffale

Le dritte di Yamada “Una giornata al mare / solo e con mille lire...”: così cantava Paolo Conte e a ben pensarci sembra il sottofondo ideale per una delle scene da ricordare dell’ultimo film di Spike Jonze, Her / “Lei”, uscito nel Lampedusa Omaggio ad marzo scorso e benedetto con l’Oscar alla miglior sceAnna, martire e il turismo responsabile di un regime neggiatura originale, firmata dallo stesso Jonze. I protagonisti di questa pellicola struggente – con Una guida insolita La dittatura del cui il regista doveva assolutamente far centro, dato l’inper un’isola governo Putin, successo di un suo film precedente, tenuto a braccetto speciale, la strage di da grandi aspettative e pessimi incassi – sono due: il Lampedusa. Beslan, le Per raccontarne minoranze violate, superbravo Joaquin Phoenix (coi suoi killer eyes contorla bellezza, l'anima, l'informazione nati da una montatura seriosa) e la voce seducente di le persone manipolata dagli Scarlett Johansson (nella versione italiana doppiata da e spiegare come interessi delle Micaela Ramazzotti). conoscerla e grandi potenze La trama: siamo in un futuro non lontano, in una viverla in modo economiche. responsabile. Un omaggio a megalopoli (un incrocio tra Los Angeles e Shangai) e in Lampedusa, l'isola fumetti una casa, dentro un grattacielo. Lì abita Theodore (Joache possiede la all'impegno di una quin Phoenix), che è in un periodo buio della sua vita: spiaggia più bella donna, Anna ha rotto con l’amata moglie (Rooney Mara) e la solitudel mondo, Politkovskaja, il cui dine, per benino, gli sta alzando attorno un bozzolo candidata con desiderio di verità i suoi abitanti al e di giustizia è che, alla fine, non gli dispiace neppure tanto. Per di più Nobel per la Pace, diventato un ha un lavoro bizzarro che lo mette a contatto con l’arappresenta la simbolo mondiale. more (degli altri): scrive con bravura lettere porta tra Nord e La giornalista, sentimentali su commissione, trasformando stralci di Sud del mondo. grade oppositrice vita vissuta, che gli giungono via mail, in componimenti Il progetto è di di Putin, venne Associazione assassinata a pieni di misura per anniversari e ricorrenze importanti. Italiana Turismo Mosca il 7 ottobre Sua moglie – scrittrice a sua volta – gli manca tanto: creResponsabile, Arci 2006. sciuti insieme, lui è sempre stato il primo lettore, e Legambiente. qualsiasi cosa lei scrivesse. È una figura triste,Theodore: Anna Politkovskaja vive in un’immensa città che lo ingloba al pari degli Ivanna Rossi Sceneggiatura Lampedusa. Francesco altri, dentro giorni tutti uguali che lo fanno arrivare Guida per un Matteuzzi all’alba da insonne, come qualsiasi altro insonne dietro turismo umano Disegni a una delle lillipuziane finestre che lui guarda dalle sue, e responsabile Elisabetta Benfatto enormi nella soggettiva che condividiamo. Edizioni Editrice Se non che, T. un giorno s’imbatte nella pubblicità di Altreconomia BeccoGiallo euro 14,50 euro 14 un nuovo sistema operativo di intelligenza artificiale: decide di acquistarlo per implementare il suo minicomputer-telefono a comandi vocali. La scusa che si racconta è che ha bisogno di fare un po’ di pulizia nell’hard disk, ma ben presto Samantha, il suo nuovo e formidabile OS – una voce empatica, con una sua personalità e infinite potenzialità – diventa per lui indispensabile nelle cose di ogni giorno: corregge bozze, prenota ristoranti, spedisce financo i documenti firmati per il divorzio di Theodore. Lei fa tutto. Per dire: ci mette un niente a leggere un manuale per suonare il piano e, subito dopo, comporre qualcosa per T. che s’intitoli Photograph: una specie di foto sonora di loro due, insieme. Fa questa cosa pazzesca: gli regala la musica della foto che non potranno mai avere. Theodore s’innamora, di nuovo.«Non ho mai amato nessuno come amo te», le dice, e forse non gl’importa neppure che S. sia incorporea, perché anche lei lo ama. La voce di S. (o è la voce di Theodore stesso?) ridesta Theodore, che riagguanta il filo rosso della sua esistenza. A sorpresa, anche Samantha farà lo stesso. Sarebbe stato bello dare un Oscar anche alla colonna sonora: ad aggiungere magia sonica a questo film dolce –in cui è bello perdersi un po’ – gli Arcade Fire, con la solita immensa bravura. Her/Lei di Spike Jonze, 2014

.

Donne vere, senza troppi stereotipi Lazy Book propone, in formato digitale, un viaggio divertente tra gli stereotipi femminili. Testi, filastrocche e bizzarri disegni, affrontano il tema con un tocco di dolcezza e di leggerezza, scrollandosi di dosso la serietà che spesso distingue l’argomento. Il focus è su donne coraggiose, temerarie, timide, belle, brutte, con le curve, senza curve, alte, basse, normali, vecchie, innamorate... Ylenia Mariotti e Giulia Greco La danza delle donne Lazy Book editore Formato: Pdf per tablet o PC euro 4,99


Street art di Emma Neri

Il murales di Paulo contro la Coppa sprecona I Mondiali di calcio sono appena iniziati, ma ben prima del calcio d’inizio avevano provocato forti proteste nel cuore del Brasile. Sotto accusa, lo spreco di denaro pubblico investito nel gioco più bello del mondo, ma stridente con la grande povertà ancora diffusa nelle città del grande paese latinoamericano. Alle proteste di piazza si sono poi aggiunte quelle degli street artist brasiliani. Fra questi c’è Paulo Ito che ha disegnato un’immagine iconica per protestare contro gli sprechi. L’immagine è sul cancello di una scuola, nel quartiere Pompeia nella città di San Paolo. Il murales raffigura un bambino in lacrime, seduto davanti a un piatto riempito da un pallone di calcio. La Coppa del mondo è costata al Brasile milioni di dollari, che i cittadini avrebbero preferito vedere investiti in interventi di politica sociale. In poco tempo quest’immagine ha fatto il giro dei social network, suscitando consensi in tutto il mondo.

Milano

I luoghi del cibo a Milano, per Expo un concorso audiovisivo Dal 9 al 12 ottobre 2014 torna la seconda edizione di Milano Design Film Festival, all’Anteo SpazioCinema, iniziativa patrocinata e promossa, oltre che dal Comune di Milano, anche da Expo 2015. Il Milano Design Film Festival quest'anno si arricchisce di una sezione nuova, lo short Film Mdff Award 2014. Un concorso finalizzato alla selezione di story board inediti per la realizzazione di un audiovisivo di massimo 10 minuti. Scadenza: 30 giugno 2014. Il tema riprende l'Expo e la sua città: “Milano. I luoghi dove mangiamo”, il contest intende abbracciare design, architettura e abitudini alimentari. I luoghi milanesi scelti dedicati al consumo del cibo possono essere sia pubblici sia privati e dovranno raccontare i comportamenti a tavola e il rapporto con il cibo. Il concorso è rivolto a registi, videomaker, scenografi e a tutti coloro che, italiani e stranieri, vorrebbero cimentarsi con un'opera audiovisiva. I partecipanti dovranno però presentare non un video ma uno storyboard: chi vincerà avrà la possibilità (questo è appunto il premio) di realizzare un cortometraggio a partire dal proprio soggetto. Il concorso è un’iniziativa che vuole rafforzare la vocazione didattica del festival, nato allo scopo di promuovere la cultura del design e dell’architettura attraverso il linguaggio audiovisivo. Intanto il Mdff si prepara per la sua prima tournée internazionale: a giugno sarà all’Istituto Italiano di Cultura a Parigi, a luglio al Maxxi di Roma e poi Pechino a fine settembre per la Beijing Design Week. I vincitori del concorso milanese saranno annunciati nel corso del MDFF di ottobre. INFO www. milano designfilmfestival.com

Milano

“Ri-scatti”, le foto per esprimersi e trovare lavoro Il comune di Milano e l’associazione Terza Settimana, attiva a Torino e Milano con una

70. scarp de’ tenis giugno 2014

Pillole senza dimora Vite in strada, le persone ci sono ma nessuno le “vede” più Un esperimento condotto negli Stati Uniti, dal titolo Make them visible (Rendili visibili), ha visto persone comuni accettare di essere clochard per un giorno, per dimostrare l’indifferenza che circonda i senza dimora. I finti homeless si sono accovacciati sui marciapiedi delle strade frequentate dai propri familiari nella speranza, e nella convinzione, che i propri parenti li notassero. Ma il risultato è stato che solo una persona ha riconosciuto il proprio caro. Nel video realizzato sull’esperimento si vede un marito che non riconosce la moglie o, ancora, una donna che non riconosce la sorella. Le reazioni, una volta visto il filmato, sono sempre di avvilimento. A organizzare l’esperimento è stata un'organizzazione filantropica americama, chiamata New York City Rescue Mission, fondata nel 1872: l’organizzazione presta aiuto alle persone senzadimora. «Non guardiamo neanche i senza tetto, non dedichiamo loro nemmeno un secondo, ecco qual è la verità», ha detto il direttore delle relazioni pubbliche del New York City Rescue Mission, Michelle Tolson. INFO www.makethemvisible.com

rete di Social Market, in collaborazione con Sgp Stefano Guindani Photo ed Echo Photo Agency, hanno progettato e realizzato un concorso fotografico dedicato ai senza dimora. L’iniziativa, partita lo scorso marzo, ha offerto a tredici adulti in difficoltà la possibilità di partecipare a un corso di formazione professionale per apprendere la tecniche fotografiche di base. Oltre alle lezioni in aula, realizzate in uno spazio messo a disposizione dalla Fondazione Mike Bongiorno, gli aspiranti fotografi sperimentano sul campo, guidati da fotogiornalisti professionisti, quanto imparato in teoria. Il corso di formazione terminerà nel prossimo agosto. A tutti i partecipanti è stato chiesto di raccontare attraverso la fotografia la loro vita: dove trascorrono la giornata, cosa fanno, dove dormono,


caleidoscopio come si procurano i vestiti, dove si lavano chi sono i loro “compagni di viaggio”. Ma anche i loro sogni, le loro aspettative, la loro voglia di riscatto. L’iniziativa prevede per i partecipanti anche un concorso finale per vincere una borsa lavoro di sei mesi (rinnovabili) presso l’agenzia fotografica Sgp Stefano Guindani Photo. “Ri-Scatti” è una iniziativa nata con la doppia finalità di favorire da un lato l’inclusione sociale di chi si trova in temporanea difficoltà, dall’altro di sensibilizzare la città al tema della povertà, raccontata attraverso gli scatti di persone senza dimora. Le fotografie realizzate saranno oggetto di una mostra in programma a Milano al Pac, il Padiglione di arte contemporanea, a partire dal 19 gennaio 2015. INFO www.terzasettimana.org

Web

Oratori in gita: un sito per organizzare le estati dei ragazzi Nasce OinG-Oratori in Gita (www.oing.it): il portale dedicato a oratori e centri estivi per la scelta delle vacanze. Con pochi clic è possibile consultare, richiedere preventivi e organizzare vacanze e gite in giornata. Finite le scuole, le famiglie spesso non sanno come sistemare in modo sano e intelligente i propri figli. Per molti una soluzione sono i Grest e le vacanze organizzate dai tanti oratori presenti in tutto il territorio italiano (oltre 6 mila strutture, che coinvolgono annualmente un milione e mezzo di giovani e 200 mila educatori). Il portale è a consultazione gratuita e si presenta come un valido aiuto per oratori e centri

Miriguarda di Emma Neri

Bambini in fuga dalla guerra, in Siria una generazione perduta

Passaggio in Siria è il titolo dell’ebook, gratuito, realizzato e distribuito da Unicef Italia per documentare i tre anni di guerra in Siria. Un percorso che si percorre, dolorosamente, tra le tante narrazioni personali, sono le persone colpite dalla guerra a raccontare le storie e le esperienze, il loro vissuto dentro il dramma di quella che è considerata la più grave emergenza umanitaria degli ultimi decenni. All'interno del libro si trovano anche le testimonianze inedite dei protagonisti Unicef che sono stati testimoni della guerra siriana. Accanto ai racconti del Direttore Generale dell'Unicef Italia, Davide Usai e del Portavoce dell'Unicef, Andrea Iacomini, entrambi coinvolti in missioni di aiuto in Kurdistan e Giordania, l'ebook contiene anche due resoconti di Adriano Sofri che ha seguito l'Unicef recandosi in missione nello scorso autunno nei campi profughi di Arbat, Kawergosk, Sulemanye e Domiz in Iraq e Zaatari e Jordan Valley in Giordania. L'ebook narra come la vita di 5,5 milioni di bambini siriani risulti distrutta. Oltre 2,4 milioni di persone sono fuggite dal paese, rifugiandosi nelle nazioni limitrofe: la metà sono bambini. Nel libro digitale sono le foto, un vero racconto nel racconto, che fanno da sfondo lungo tutto il percorso del libro e sono a firma della fotografa e scrittrice Neige De Benedetti che le ha scattate durante le missioni Unicef Italia, in Irak e in Kurdistan. sono scattate proprio nelle recenti missioni in Iraq e Kurdistan al seguito dell'Unicef Italia. L'ebook può essere sfogliato online e scaricato (in vari formati). INFO www.unicef.it/passaggioinsiria

estivi, per la scelta e l’organizzazione delle uscite estive. “OinG - Oratori in gita” è consultabile anche da telefono mobile ed è suddiviso in tre sezioni principali: “Gite in giornata”, “Soggiorni estivi” e “Mezzi di trasporto”. Si tratta di uno spazio digitale che consente di trovare numerose proposte ludicoricreative, culturali e naturalistiche divise per regione, oltre a un elenco aggiornato e geolocalizzato delle principali strutture per i soggiorni estivi e l’elenco dei vettori per il trasporto. INFO abenenti@lafabbrica.net

Genova

Torna il Suq Festival, le culture del mondo in scena al Porto Antico Fino al 24 giugno riparte il Festival Suq di Genova. Suq in arabo vuol dire mercato, inteso anche come luogo di incontro e scambio: e infatti il Festival è un luogo ideale dove ogni manifestazione, teatro o evento diventa un simbolico bazar dei popoli, dove vince la voglia di conoscere gli altri e incontrare tradizioni e culture differenti. Un teatromercato mediterraneo, allestito ogni anno a giugno per una decina giorni al Porto Antico, con una quarantina di botteghe di artigianato dal mondo e quindici cucine diverse da assaggiare. Sono 70mila le presenze medie registrate ogni anno nei giorni di festival, che da 16 anni segna puntualmente l’estate genovese (dall’edizione 2011 ha il Patrocinio Unesco e dal 2013 è inserito tra le best practices europee per l'intercultura). Personalità della scena internazionale e cittadini di provenienze diverse, linguaggi e tradizioni, arte e cucina, mercanti e artigiani si incrociano ogni anno in un suq delle culture che è giugno 2014 scarp de’ tenis

.71


tre domande a... Andrea Vianello di Danilo Angelelli

«Noi sperimentiamo, perché serve una tv che sia in grado di raccontare storie positive» l recente “Festival della tv e dei nuovi media” ha aperto ricordando che per molti la televisione è stata una delle cause dirette del declino culturale dell’Italia. All’ultimo Salone internazionale del libro di Torino un convinto Dario Franceschini, ministro dei Beni culturali, ha invitato Rai, Mediaset e Sky a lasciar crescere il paese e a risarcirlo, dopo aver arrecato tanto danno alla lettura. Ma a queste affermazioni proprio non ci sta Andrea Vianello, che da quando è direttore di RaiTre ha cercato di coniugare qualità e gusto popolare. Lo incontriamo mentre visiona una telenovela brasiliana prodotta da Rede Globo. Dimenticate Anche i ricchi piangono (che tra l’altro era messicana): con Lado a Lado, vincitrice di un International Emmy Award, siamo più dalle parti di Jorge Amado. Tratta temi come l’emancipazione femminile, la dignità delle persone di origine africana, l’avvento del calcio, la nascita delle favelas… Non può sentirsi sul banco degli imputati proprio lei, che cerca la denuncia sociale anche in una telenovela… Infatti non mi ci sento. Però Franceschini non vede Rai Tre. Eppure è stato ospite di Fabio Fazio a Che tempo che fa, dove di libri si parla eccome. Abbiamo poi Per un pugno di libri, Pane quotidiano e il talent per scrittori Masterpiece. Programmi in linea con la rete, che tra le sette generaliste è quella con un’identità più precisa, radicata. Nella stagione che sta per concludersi, oltre a proposte consolidate (Report, Ballarò, Presa diretta, appunto Che tempo che fa) abbiamo cercato di sperimentare, pur in un momento delicatissimo per le generaliste, che si vedono erodere spettatori giorno dopo giorno dalle reti del digitale terrestre. Le novità? Sconosciuti, storie ordinarie di persone straordinarie alle prese con la quotidianità. E Hotel 6 stelle, docu-fiction sullo stage in un grande albergo di sei ragazzi con sindrome di Down. C’è voglia di storie positive, di fare comunità, da parte di chi vede la televisione e di chi la fa.

72. scarp de’ tenis giugno 2014

Voce e volto, da un anno direttore

Andrea Vianello (sotto), è in Rai dai primi anni Novanta: prima come “voce” di Radio1 (Gr1, Radio anch’io), poi come “volto” di Rai 2 e Rai 3 (Tele anch’io, Enigma, Mi manda Raitre, Agorà). Da inizio 2013 è direttore di Rai 3. A fianco, il cast di Hotel 6 stelle

A proposito di Hotel 6 stelle: che bilancio ne trae? Orgoglio e soddisfazione. È un format che la Spagna aveva già mandato in onda, ma si pensava non fosse adatto per la tv generalista. Invece ci abbiamo creduto e abbiamo fatto bene. La qualità del prodotto è alta, come lo è stata la partecipazione del pubblico. C’era un afflato di empatia che si trasmetteva ai ragazzi e ai loro tutor. Gli spettatori hanno fatto il tifo insieme, lo ripeto, per una cosa positiva. Nel paese c’è bisogno di positività affettiva. Parlare di disabilità in maniera realistica. Possibile, in una rete mainstream, o si deve per forza scendere a compromessi? RaiTre ha una lunga tradizione nel sociale. Si pensi ai programmi di Giovanni Anversa. Si possono usare tanti linguaggi, per integrare mondi che non vanno mai visti in chiave retorica. Abbiamo cercato di raccontare sì con tenerezza, mai con pietismo; di essere delicati ma senza fare sconti. E anche di denunciare. Ora stiamo ragionando su una seconda serie. Hotel 6 stelle, cioè disabilità e lavoro. Arriverà il momento in cui la disabilità farà parte del quotidiano televisivo, come della vita reale? Una conduttrice mora, disabile... E soprattutto brava nel suo lavoro! È un percorso culturale che dobbiamo fare. La faccenda è delicata perché molti possono leggerci della strumentalizzazione. Va fatto tutto con molta attenzione. Ma prima o poi ci si arriverà. INFO www.hotel6stelle.rai.it


caleidoscopio rimasto unico in Italia. Il calendario è ricchissimo: spettacoli teatrali e musicali, dibattiti e laboratori per bambini, lezioni di cucina e danza si susseguono tra il pomeriggio e la sera a ingresso libero, nella Piazza delle Feste disegnata da Renzo Piano. INFO www.suqgenova.it

Salerno

Giffoni Film Festival: non c’è grandezza senza differenza Dal 18 al 27 luglio si svolgerà la quarantaquattresima edizione del Giffoni Film Festival (Gff) che nasce nel 1971 da un’idea di Claudio Gubitosi, ovvero promuovere e far conoscere il cinema per ragazzi, elevandolo dalla posizione marginale ai ranghi di un “genere”, capace di grande qualità e capacità di penetrazione del mercato. Ancora oggi il Festival di Giffoni ha una giuria di soli ragazzi. Nel corso del tempo il numero dei giurati è cresciuto fino a raggiungere quota tremila e il ventaglio dei paesi di provenienza si è attestato a quota 50, abbracciando tutti i continenti del mondo. A caratterizzare il fenomeno Gff è soprattutto la sensibilità nella scelta dei film, atto finale di un processo di valutazione del panorama mondiale del cinema per ragazzi. Opere realizzate da grandi registi o autori emergenti, opere importanti, di livello internazionale. Quest’anno il tema-invito è “Be different”. Perché per gli organizzatori di Gff non c’è grandezza senza differenza. INFO www.giffonifilmfestival.it

Ricette d’Alex

Spiedini di sarde al forno su letto di fave

Alex, chef internazionale, ha lavorato in ristoranti dopo aver appreso l’arte della cucina nell’albergo di famiglia, a Rovigo. Oggi – i casi della vita... – vende Scarp. Piatto per quattro porzioni. Prendete 24 sarde, apritele a libro e spinatele. Spolveratele con un composto di pane, prezzemolo, mezzo spicchio di aglio, un po’ di soncino, succo di limone, poco sale. Il tutto ben tritato. Mettetele sugli spiedini, tre ogni spiedino, poi mettete gli spiedini in una teglia al forno con un filo di olio. Cuocete per 10 minuti. Servite su piatti con fave sbollentate e sgusciate.

Pillole senza dimora I “residenti” di Manhattan raccontati dagli scatti di Andres Serrano Andres Serrano, l’artista dalle immagini provocatorie che fanno discutere, stavolta si è soffermato sugli homeless. Ha ritratto i senzatetto di New York, ritraendo immagini crude ma che fanno parte della quotidianità cittadina: uomini e donne, giovani e vecchi, ammucchiati sotto un ponte, o soli, immobilizzati dall’alcol e dal freddo. Gli scatti li ha esposti nella stessa città dove vivono le persone senza dimora: nella stazione della metropolitana, nei parchi, vicino alle chiese, in strada, dentro le cabine telefoniche e vicino alle pensiline degli autobus di Manhattan, ignorati da tutti. “I residenti di New York”, così ha significativamente intitolato la mostra, che ha avuto un solo sponsor:

“MoreArt”, un gruppo non profit dedicato allo sviluppo di progetti di arte pubblica socialmente impegnata. In una delle settimane di “lavoro” di Serrano, i rifugi di fortuna di NY hanno ospitato 53 mila persone. INFO www.moreart.org

pagine a cura di Daniela Palumbo per segnalazioni dpalumbo@coopoltre.it

Tarchiato Tappo - Il sollevatore di pesi

giugno 2014 scarp de’ tenis

.73


street of america A Oakland, l’Homeless Home project garantisce un riparo a chi non l’ha

Minicase “stilose” dagli scarti, Gregory regala rifugi trasportabili di Damiano Beltrami da New York

D

Una spesa di pochi dollari Gregory Kloehn davanti a una delle minicase da lui create e donate tramite l’Homeless Home Project. Tra Oakland e San Francisco sono già una decina le minicase realizzate e regalate alle persone senza dimora

A QUALCHE TEMPO LE MINICASE SOLLETICANO L’IMMAGINAZIONE DI CENTINAIA DI ARCHITETTI. Le vendono a peso d’oro a gente facoltosa che vuole piazzare un microstudio in giardino o creare un laboratorio di pittura lontano dai rumori domestici. Adesso, però, uno scultore californiano sta modulando il concept in chiave sociale. Si chiama Gregory Kloehn, è un signore robusto, dal ciuffo pronunciato e dagli occhi cerulei. Con materiali di recupero che pesca nei bidoni della spazzatura della sua città, Oakland, costruisce stilose casette su quattro ruote delle dimensioni di un divano, e poi le regala ai senza dimora. «Ogni rifugio trasportabile è ricavato da oggetti trovati per strada – racconta Kloehn, 43 anni, originario di Denver, in Colorado –. Porte, pezzi di frigorifero, vernici. Per me l’unico costo è quello delle viti, dei chiodi, della colla, e naturalmente il prezzo della benzina che mi serve per scorazzare in giro per Oakland a trovare l’occorrente». Con l’aiuto di alcuni volontari, finora Kloehn ha costruito una decina di case. Per ognuna di queste ha speso su per giù quaranta dollari, di cui una decina per comprare una bottiglia di spumante che lascia come omaggio dentro le minicase ultimate. Al pari di un altro pioniere dei rifugi mobili, Gary Pickering, che ne ha sviluppato alcune rudimentali in Utah di cui abbiamo già parlato in precedenza su queste colonne, l’ispirazione è arrivata dall’osservazione. A Oakland, così come nella vicina San Francisco, è facile incontrare nei parchi e nei giardini attigui alle biblioteche comunali veri e propri accampamenti di carrelli della spesa accomodati a mo’ di case mobili. Da lì a progettare abitazioni su quattro ruote più robuste e con un tocco di variopinta civetteria, il passo è stato breve. Ed ecco che è decollato il progetto Homeless Homes. Il pavimento delle microcase di solito è in legno, ricavato da cassette della frutta, e alcune sono isolate termicamente con cartoni per la pizza. In ogni alloggio c’é abbastanza spazio per dormire, qualche finestrella, una mensola, una porta e accessori minimi, come uno specchio e un vano portaoggetti per appoggiare un bicchiere o una bottiglia. Alcuni alloggi hanno anche una piccola cuccia per accomodare un cagnolino o un gatto. Il risultato è di tutto rispetto. Pitturate con colori squillanti (giallo, verde, arancione), questi rifugi su quattro ruote garantiscono ai senza dimora un minimo di sicurezza e comfort. E sono semplici da riposizionare. Alla luce dell’esperienza, Kloehn ha pubblicato un piccolo manuale, utile a chi volesse imitare questi rifugi temporanei. Il libro s’intitola Homeless Architecture. Per intuire il riscontro dell’iniziativa, basta spulciare la pagina facebook dell’Homeless homes project, dove Kloehn tiene sempre aggiornati i fan dell’iniziativa. Tanti like di apprezzamento e qualche messaggio d’incoraggiamento. «Ho condiviso la tua idea con tutti i miei amici – ha commentato di recente Lana Marie Graham –: siete rock».

.

74. scarp de’ tenis giugno 2014




Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.