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editoriali

Guardare alle fragilità umane con la lente del benessere Stefano Lampertico

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n’immagine forte. Evocativa. La sedia vuota, il muro scrostato, i colori freddi. E la luce che taglia come una lama il corridoio. La fotografia è stata scattata all’interno del vecchio manicomio di Mombello, a Limbiate, poco distante da Milano. Una struttura fatiscente, oggi lasciata al degrado, e che negli anni precedenti la legge Basaglia del 1978 è arrivata ad ospitare, nei suoi 40 mila metri quadrati di strutture sanitarie, più di 3 mila pazienti. Dal resto del mondo la separava una cortina di ceRoberto Davanzo mento e mattoni alta più di due metri e lunga più di tre chilometri. Il bunker direttore Caritas Ambrosiana delle fragilità umane. E noi di Scarp ve lo raccontiamo da vicino con un viaggio all’interno della struttura accompagnati da chi, lì, ci ha lavorato per tanti anni. Oggi, grazie alle riforme ispirate dallo psichiatra Franco Basaorna ogni anno, il 17 ottobre, la glia – grande riformatore della disciplina psichiatrica in Italia – negli anGiornata mondiale della povertà e il ni ‘80, strutture come questa di Mombello non esistono più. Sono rifatto che continuiamo a celebrarla masti gli Ospedali psichiatrici giudiziari, le strutture che dipendono daldice quanto siamo ancora lontani dall’averl’amministrazione penitenziaria e che hanno sostituito i vecchi manila debellata. Nei Paesi occidentali “povertà” fa comi criminali. Sono sei ancora attivi, ospitano più di 1.000 persone, rima con “grave emarginazione”. Ma è evidencondannati da fragilità o pazzia, all’internamento proprio per la loro te che il discorso non può non assumere anche potenziale pericolosità sociale. La realtà ci racconta di strutture non un respiro mondiale. Nel 2000 i Capi di Stato e lontane da quelle che possiamo immaginare guardando la foto di di Governo di 191 Paesi avevano firmato i cosidcopertina. Già nel 2011 il Parlamento infatti aveva disposto, dodetti “obiettivi del millennio” che – tra le altre cose – po un’indagine che accertò le condizioni di estremo degrado deprevedevano entro il 2015 di dimezzare la percengli istituti e la generalizzata carenza di quegli interventi di cura tuale di persone con un reddito inferiore a un dollache avevano motivato proprio gli internamenti, la chiusura dero al giorno, di raggiungere un’occupazione piena e gli Opg a far data dal marzo 2013. Misura poi slittata al genproduttiva e un lavoro dignitoso per tutti e di dimeznaio 2014. Poi ancora – con il rammarico del Presidente Nazare la percentuale di persone che soffrono la fame. politano – al 30 aprile 2015. E non è finita qui, purtroppo. PerNon c’è bisogno di essere grandi esperti di geo-politica chè nel nostro Paese questo è un tema che non trova spaper capire quanta strada ci sia da fare. Certo, il processo di zio sulle prime pagine e che, sul piano del tornaconto globalizzazione ha creato immense ricchezze: di queste elettorale ha poco da offrire. E così pare che anche il terqualcosa è toccato a tutti, o almeno alla grande maggiomine del 2015 sia lì per slittare ancora più in là. Noi di ranza; ma a molti sono toccate le briciole, mentre a una miScarp, al tema della salute mentale in genere, siamo molnoranza è toccato il grosso dei benefici. Il benessere si è esteto attenti, anche perchè, riprendendo un verso del canso e la vita media si è allungata quasi dappertutto, ma i più poveri sono diventati più poveri, almeno in senso relativo. tautore brasiliano Caetano Veloso visto “da vicino nessuLe risorse ci sono, ma non sono distribuite in modo equo. no è normale”. E perchè ci interessa, soprattutto, guarE anche se non è più di moda, dobbiamo affermare che la dare al benessere della persona. E allora, la chiusura dequestione è legata alla volontà politica dei singoli Stati, gli Opg e il passaggio a quelle che dovrebbero essere le più come di quella dei grandi organismi internazionali. Una piccole residenze di accoglienza – più a misura d’uomo – volontà politica che non c’è o che è condizionata e inandrebbe visto con la lente di chi guarda al benessere dei debolita da altri centri di potere economico e finanziapiù fragili e non con l’occhio di chi guarda, spesso con il cirio in grado di tenere sotto scacco persino i governi denismo tipico di chi lo fa, ai tagli di bilancio. mocraticamente eletti. La questione è seria e non può Le storie di Scarp, per fortuna, sono anche storie belle. Come non vedere coinvolta anche la Chiesa che da sempre quelle del calcio in gonnella o di chi sceglie, per il proprio cinnon si pone al di sopra delle parti, ma dalla parte dei quantesimo compleanno di percorrere, a piedi, un tratto delpiù deboli, cioè dei Paesi in via di sviluppo, dei vinti, la Francigena. E sono anche storie fatte di premi e riconoscidegli emarginati. La sfida è “quasi” impossibile da afmenti. E allora tanti complimenti alle nostre collaboratrici frontare. Ma non del tutto. A condizione che si abbia a Marta Zanella e Stefania Culurgioni, fresche vincitrici del Precuore il futuro del pianeta, del nostro mondo, che avrà mio giornalistico promosso dalla Fondazione Alzheimer. futuro solo se saprà essere un mondo abitabile da ogni L’ultima nota. Il “teaser” – come si dice in gergo – di pagiuomo e da tutta l’umanità. Fintanto che permarranno na 24. Un tratto, un segno, una piccola anteprima. Come queste vergognose inequità, dovremo abituarci a convivetutto, anche un giornale, nel tempo, cambia pelle. Qualre con insicurezza, terrorismo, paura. cosa sta cambiando.

Perchè non sia un’ipocrisia

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sommario L’intervento

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Enzo Jannacci raccontato dalle sue canzoni p.6

Scarp Italia

Cos’è È un giornale di strada non profit. È un’impresa sociale che vuole dar voce e opportunità di reinserimento a persone senza dimora o emarginate. È un’occasione di lavoro e un progetto di comunicazione. È il primo passo per recuperare la dignità. In vendita agli inizi del mese. Scarp de’ tenis è una tribuna per i pensieri e i racconti di chi vive sulla strada. È uno strumento di analisi delle questioni sociali e dei fenomeni di povertà. Nella prima parte, articoli e storie di portata nazionale. Nella sezione Scarp città, spazio alle redazioni locali. Ventuno si occupa di economia solidale, stili di vita e globalizzazione. Infine, Caleidoscopio: vetrina di appuntamenti, recensioni e rubriche... di strada!

dove vanno i vostri 3 euro Vendere il giornale significa lavorare, non fare accattonaggio. Il venditore trattiene una quota sul prezzo di copertina. Contributi e ritenute fiscali li prende in carico l’editore. Quanto resta è destinato a progetti di solidarietà.

Redazione centrale - milano cooperativa Oltre, via degli Olivetani 3, tel. 02.67.47.90.17 fax 02.67.38.91.12 scarp@coopoltre.it Redazione torino associazione Opportunanda via Sant’Anselmo 21, tel. 011.65.07.306 opportunanda@interfree.it Redazione Genova Fondazione Auxilium, via Bozzano 12, tel. 010.52.99.528/544 comunicazione@fondazioneauxilium.it Redazione Vicenza Caritas Vicenza, Contrà Torretti 38, tel. 0444.304986 - vicenza@scarpdetenis.net Redazione rimini Settimanale Il Ponte, via Cairoli 69, tel 0541.780666 - rimini@scarpdetenis.net Redazione napoli cooperativa sociale La Locomotiva largo Donnaregina 12, tel. 081.44.15.07 scarp@lalocomotivaonlus.org Redazione Catania Help center Caritas Catania piazza Giovanni XXIII, tel. 095.434495 redazione@telestrada.it

L’inchiesta Dopo Mare Nostrum: come cambia l’accoglienza? p.18

Lo speciale

Come leggerci

Per contattarci e chiedere di vendere

L’inchiesta Opg: matti (ancora) da slegare p.10

Tacchetti Rosa, viaggio nel calcio femminile p.22

Testimoni Sulla via Francigena a cercare se stessi p.27

Scarp città Milano Angoli di mondo nelle vie di Milano p.30 Cinquemila libri in portineria p.34

Como Manuel: «Aiuto perchè mi sento aiutato» p.38

Torino La grande musica entra nei dormitori p.40

Genova La mia vita sotto un faggio p.42

Verona Il sacrestano che prega Allah p.44

Vicenza A lezione di umanità p.46

Venezia Tuffo nell’arte: la bellezza è per tutti p.48

Rimini Padri separati, un rifugio sicuro p.50

Napoli Visita al Madre, riapre il cantiere Scarp p.52

Salerno Da vicino nessuno è normale p.54

Catania Formare per integrare p.56

Scarp ventuno Dossier Terre rare, petrolio del futuro p.60

Economia L’ingegnere sul trattore. Ritorno alla terra p.64

Caleidoscopio Rubriche e notizie in breve p.69

scarp de’ tenis Il mensile della strada Da un’idea di Pietro Greppi e da un paio di scarpe - anno 19 n. 185 ottobre 2014 costo di una copia: 3 euro

Per abbonarsi a un anno di Scarp: versamento di 30 € c/c postale 37696200 (causale AbbonAmento SCArP de’ tenIS) Redazione di strada e giornalistica via degli Olivetani 3, 20123 Milano (lunedì-giovedì 8-12.30 e 14-16.30, venerdì 8-12.30), tel. 02.67.47.90.17, fax 02.67.38.91.12 Direttore responsabile Stefano Lampertico Redazione Ettore Sutti, Francesco Chiavarini, Paolo Brivio Segretaria di redazione Sabrina Montanarella Responsabile commerciale Max Montecorboli Redazione di strada Antonio Mininni, Lorenzo De Angelis, Roberto Guaglianone, Alessandro Pezzoni Sito web Roberto Monevi Foto di copertina Monica Fagioli Foto Archivio Scarp, Stefano Merlini, Disegni Luigi Zetti, Silva Nesi Progetto grafico Francesco Camagna e Simona Corvaia Editore Oltre Soc. Coop., via S. Bernardino 4, 20122 Milano Presidente Luciano Gualzetti Registrazione Tribunale di Milano n. 177 del 16 marzo 1996 Stampa Tiber, via della Volta 179, 24124 Brescia. Consentita la riproduzione di testi, foto e grafici citando la fonte e inviandoci copia. Questo numero è in vendita dal 12 ottobre all’8 novembre 2014


Ho scritto un libro, peccato l’argomento di Sandro Paté Sandro Paté (Milano, 1977) è uno di «quelli che hanno cominciato a lavorare da piccoli e non sanno ancora cosa cavolo stanno facendo», come diceva Jannacci. È stato ragazzo delle pizze, operaio molto poco specializzato, ghost writer, tester di videogiochi, ora è copywriter, inviato ai festival del cinema, organizzatore di mostre, web editor per una multinazionale e giornalista freelance. Più di tutto, dopo il primo incontro a un corso di cabaret e la frequentazione di anni, è un Jannacci-maniaco.

Sandro Paté, Peccato l’argomento. Biografia a più voci di Enzo Jannacci, prefazione di Paolo Villaggio, pp. 182, euro 14,90, LOG Edizioni, 2014.

6. scarp de’ tenis ottobre 2014

Il dialogo con Enzo Jannacci a proposito dell’uscita del mio libro ovviamente non è mai avvenuto. Tutte le risposte che il maestro dà alle mie domande immaginarie, però, sono state fornite in mesi di chiacchierate durante la scrittura di una tesi di laurea basata sulle centinaia di canzoni scritte in sette decenni di carriera. La maggior parte di queste dichiarazioni si possono leggere in Peccato l’argomento. Biografia a più voci di Enzo Jannacci (LOG Edizioni). - Maestro, la disturbo? - Chi è? - Sono Sandro Paté, ho scritto una tesi di laurea sulle sue canzoni una decina di anni fa... - No, chi è il maestro? - Lei. Lei per me è sempre stato un Maestro. Io la chiamavo sempre e solo così. Con la “m” bella grande. - Ma va’. - Ma sì. Lei è sempre stato avanti... - Sei sicuro? - Assolutamente sì! - Non ho mai capito se questa cosa dello stare avanti è un complimento o un modo elegante per mandarmi a quel paese. Avanti dove? Se uno è avanti alla fine rimane da solo... - Sì, c’è questo rischio, ma sono soli anche i più grandi poeti... - Oppure i disgraziati. Per questo non

mi parlare di poesia... - Be’, di poesie sotto forma di canzoni lei ne ha scritte davvero tante... - In fin dei conti cos’è ‘sta poesia? - Non saprei... - La verità è che non lo so nemmeno io. Non l’ho mai capito. La poesia la trovi nel modo in cui una persona esce di scena e si sistema. Uno che parla con una giacca per me è poesia. È una pozza di acqua putrida. Tu tiri un sasso e crei delle linee misteriose, magari sono delle linee di energia. C’è mica bisogno di scriverla una poesia! Tanto meno di spiegarla. - A dire il vero poi io non sono in grado né di scriverla né tanto meno di spiegarla una poesia... - C’è un segreto. La poesia bisogna rubacchiarla dalle emozioni di chi è più bravo di noi con le parole. Senza esagerare, però. Va bene anche una cosa minore. Al limite anche leggermente sbagliata. Un’emozione più pura e semplice. Perché la gente poi, diciamola tutta, non è così avanti intellettualmente. Io però dico anche… meno male! Altrimenti, saremmo rovinati. Non capirei niente se fossimo tutti come Beckett, Joyce o Kafka. Io, poi, sarei spacciato... - A questo proposito. Io, pur non sapendo se ero attrezzato a parlar di poesie, ho scritto un libro su di lei, Maestro. Io sono quello della tesi di laurea infinita. L’ho disturbata parecchio tra una visita e l’altra... - I miei mutuati sapevano che al mattino ero a l’idroscalo e il pomeriggio fai conto mi potevi trovare anche in Kenya. Ma non è quello il problema. A chi vuoi


l’intervento

che gliene freghi di un libro sulle canzoni di Jannacci? - Ma scherza? - Mai scherzato in tutta la mia vita. Mai. - Lo so. Per questo l’ho sempre ammirata. È il concetto di una delle sue canzoni più belle, “L’uomo a metà”. Un pezzo che parla di persone a cui non vengono concesse molte possibilità, di poca minestra e pasta riscaldata. Niente scherzi. Però c’è anche il telefono... che non si sa mai! - Agli inizi accettavo di suonare dappertutto, speravo suonasse il telefono e appena tiravo su la cornetta dicevo: sì! Mi andava bene qualsiasi lavoro... - Lei ha iniziato a cantare le sue piccoli grandi opere in locali piccolissimi. Come i cabarettisti attirava l’attenzione di sera. Di giorno, tuttavia, era tutta un’altra storia. Altri mestieri, diverse scadenze e ben altre preoccupazioni. Nelle sue canzoni c’è la gente che lavora, la loro fatica e la storia di chi cerca dentro di sé il modo per tirà a campà... - Io mi sono sempre occupato delle persone che vanno a lavorare in tram, quelli che hanno le guance fresche di sapone anche al pomeriggio quando tornano a casa. Quindi, sì. La gente che la-

Un incontro folgorante Era successo tutto spontaneamente. Enzo era un «poetastro», altra definizione sua, che ti prendeva per mano e ti accompagnava in un mondo completamente diverso da tutti gli altri. Un luogo in cui i cani hanno i capelli, le galline guardano la gente, i barbun in scarpe da tennis prendono in giro quelli con le Timberland e gli operai innamorati tagliano i fiori nelle lamiere. Capitava di rimanere invischiati in tutto questo. È capitato anche a me.

vora è importante. I miei genitori mi dicevano sempre: “Non puoi non fare onore al mestiere che fai”. Non bisogna scordarlo. D’accordo? - D’accordo. Comunque, per provare a riprendere il filo... cosa che accade spesso quando si parla di lei... sarebbe bello che lei vedesse tutto ciò che hanno organizzato le persone che le volevano bene. Riviste, fumetti, libri, mostre, intitolazioni, trasmissioni in radio, in TV... - Lascia stare la televisione! Lasciala stare dov’è. Bello davvero come oggetto. Gli manca la parola.

- Lo so con la TV ha avuto molti problemi... - Non è tanto un problema l'Isola dei famosi. Intendiamoci. È solo che a me francamente interessa di più la penisola... - Tra tutte le cose che sono nate per ricordare com’era fatto lei, insomma, ci sarebbe anche il mio libro... - La gente non legge. - Vero anche questo. - Io leggevo moltissimo. Non ti dico la fatica boia perché volevo imparare a memoria tutto... - Perché? - Quando andavo a fare gli esami di medicina i professori mi prendevano di mira e mi salutavano dicendo: “Meno male che oggi c’è Jannacci, almeno ci facciamo quattro risate!’” Quattro risate un’ostia! - Capisco... - Poi se ogni tre parole c’è il mio nome, figuriamoci... - Essendo un libro su di lei è piuttosto inevitabile. L’ho scritto a partire da tutto quello che mi diceva quando ci si incontrava per la mia tesi di laurea enciclopedica. Se la ricorda? - Un ottimo lavoro. Peccato l’argomento.

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anticamera Aforismi di Merafina

Sugar LA MEMORIA Zucchero raffinato, La memoria è il salvadanaio dello spirito. Zucchero a velo, LA FELICITA’ La felicità è stare Zucchero filato. in buona salute ed avere cattiva memoria Zucchero integrale, IL DUBBIO Il dubbio Zucchero in zollette, è il padrone della pigrizia Zucchero pralinato. Lo zucchero è una droga, Noi ma in realtà non ci Un buongiorno a te, addolcisce. le ore passano e tu non sei con me. Siamo un mondo Come vorrei una vita normale, di belve viziate che significa poi? Più regolare? Più stabile? ed edulcorate. Più di quello che ho? Ho una vita, e come una cretina desidero altro. Dovrei sapere che sono già fortunata a vivere la mia vita. Misera che sia è sempre una gran bella vita, piena di gioie e di dolori, lasciando stare le cose materiali che scompaiono con noi Cinzia Rasi.

Silvia Giavarotti

Un angolo di mondo Dai alla mente la ragione di vita. Dai al tuo cuore la ragione d’amare. Devi essere forte, e non arrenderti mai. Combatti e vincerai. Non sei solo nel mondo, e quindi non sei il più forte. Tanti ostacoli troverai sul tuo cammino, tante persone che ti faranno male. Ma tu non arrenderti, perché sei vivo. Devi essere tu a crearti un destino, non dare agli altri lo spazio di farlo per te. Perché sarai un perdente! Chiudi i pugni e combatti, non cadere giù. Non fermarti davanti a porte blindate o macchine sofisticate, siamo noi che le abbiamo create. E se vuoi un piccolo angolo di mondo, vai avanti e non fermarti mai.

Mino Beltrami

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Matti (ancora) da slegare di Paolo Riva ed Ettore Sutti Fotografie di Monica Fagioli realizzate nell’ex manicomio di Mombello

Opg addio. Anzi no. I vecchi ospedali psichiatrici giudiziari, quelli definiti dal presidente della Repubblica come “luoghi dell’orrore” in seguito alle visite a sorpresa effettuate dalla commissione d’indagine presieduta da Ignazio Marino, continuano non solo a rimanere aperti ma anche ad accogliere nuovi ospiti. E così gli Opg che dovevano sparire già a marzo 2013 resteranno aperti fino ad aprile 2015 o addirittura, se la richiesta che arriva dalla Conferenza delle Regioni verrà accolta, fino al 1 aprile 2017. Una nuova proroga richiesta dalle Regioni perché non sono ancora pronte – in alcuni casi non sono nemmeno partiti i lavori – le cosiddette Rems (Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza), cioè quelle strutture che dovranno accogliere, su base regionale, le persone che saranno via via dimesse dagli Opg. Non si chiude solo perché non ci sono nuove strutture. Una contraddizione

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l’inchiesta

Nuovo rinvio per la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari: le Regioni non hanno ancora realizzato le Rems (Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza) strutture più piccole e regionali, alternativa agli Opg. E proprio sulle nuove strutture di accoglienza si è aperto il dibattito degli addetti ai lavori: «Se non si potenziano i servizi territoriali il rischio è quello di creare dei piccoli Opg regionali». Intanto circa mille persone continuano ad essere rinchiuse in strutture spesso fatiscenti senza la possibilità di poter accedere a cure e percorsi personalizzati. Viaggio di Scarp dentro l’ex manicomio di Mombello, la città dei matti. Le storie di chi negli Opg ha passato buona parte della propria vita spesso senza sapere neppure il motivo.

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Matti (ancora) da slegare

L’intervento

StopOpg richiama l’attenzione: «Si rischia di non cambiare nulla» Cambiare tutto per non cambiare nulla. Questo in estrema sintesi la valutazione di Luigi Benevelli di StopOpg – la campagna che propone il superamento e la chiusura degli Opg – e la contestuale realizzazione delle Rems. «Che senso ha chiudere gli Opg perché ritenuti ormai da tutti uno strumento superato e aprire semplicemente strutture più piccole, in cui trasferire lo stesso personale con lo stesso modalità operative? E ancora. Il personale, che sarà tutto sanitario, manterrà anche l’obbligo della custodia, così come avveniva in manicomio? Il personale attuale è già formato anche per operare nelle Rems? Ne siamo davvero sicuri? Non andrebbero, invece, impostati nuovi protocolli? In Lombardia sembra che semplicemente smontando e dividendo Castiglione delle Stiviere cambierà tutto per il meglio. Se è davvero così questo significa che le Rems non saranno diverse dagli attuali Opg. Perché un conto è la custodia, un conto, invece è costruire progetti terapeutici, preparare percorsi di riabilitazione insieme alle famiglie di origine. Questo sarebbe il lavoro da fare. E che, purtroppo, a oggi, non è stato fatto. Strutture da 20 posti invece che da 200 sono sicuramente più a misura di persona. Ma i veri cambiamenti si fanno altrove». In realtà i posti previsti nelle Rems, almeno in Lombardia, sono meno che quelli negli Opg (150 totali): come dire che ne entreranno sempre meno. Le Rems dovrebbero ospitare soltanto le persone più pericolose. Ma il criterio non è quello legato alla salute mentale, e quindi sanitario, ma è dettato dal magistrato. Il codice penale non è stato modificato – come invece richiede StopOpg – e la “sociale pericolosità psichiatrica” continua a prevalere sulla “necessità di trattamento”. Ma non dappertutto funziona così. Esistono Regioni che hanno deciso di fare a meno delle Rems. «Il Friuli Venezia Giulia – continua Benevelli – ha scelto di non attivare residenze e in Emilia Romagna la dismissione dell’Opg di Reggio sta avvenendo con percorsi centrati su strutture comunitarie piuttosto che su Rems. In Friuli nel corso degli anni sono stati attivati servizi di salute mentale funzionanti 24 ore su 24, in grado di rispondere a qualsiasi situazione. Si lavora seriamente su tutto il territorio ed anche dentro le strutture carcerarie. Questo significa essere in grado di gestire le situazioni insieme ai servizi e alle famiglie senza generare alcun tipo di allarme sociale. Di riflesso abbiamo Regioni come la Liguria o la Sardegna che mantengono livelli molto alti di invii in Opg. Questo perché si è deciso di non investire sui dipartimenti di salute mentale. Se oggi in Friuli si registrano due o tre casi all’anno di invio in strutture non è certo perché le persone con disturbo mentale che vi abitano sono tutte prive di aggressività e autodisciplinate, ma perché non sono state lasciate da sole e si sono perseguite politiche di salute mentale credibili e, alla fine, anche meno costose». Resta il problema dell’allarme sociale che le persone ricoverate in queste strutture crea. Nonostante in tutto il Paese sono poco più di mille i ricoverati la sensibilità dell’opinione pubblica sulla malattia mentale resta molto alta. «Anche su questo bisogna investire e lavorare – conclude Benevelli – cercando di coinvolgere al massimo la società civile per abbassare il livello di allarme. Per questo è fondamentale la partecipazione del terzo settore: solo collaborando con chi è presente dentro contesti di sofferenza sociale e conosce le difficoltà enormi di questo momento si può pensare di abbattere i pregiudizi».

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di termini contestata dalle associazioni che lavorano a contatto con i malati. Il problema è che le nuove Rems rischiano di diventare, in tutto e per tutto, dei mini Opg: strutture più piccole e piazzate sul territorio che, però, rischiano di essere, in sedicesimo, quello che sono ora gli Opg. «Questo rischio esiste – spiega Cinzia Neglia di Caritas Italiana – anche perché il ragionamento iniziale prevedeva il ritorno delle persone accolte negli Opg nei territori passando attraverso i dipartimenti di salute mentale locali. Il problema è che nel corso degli anni molte Regioni – non tutte ma molte – hanno via via svuotato i dipartimenti di salute mentale e frammentato i servizi. In pratica siamo di fronte a una contraddizione di termini perché, laddove i servizi territoriali funzionano, le persone sono seguite 24 ore su 24 e non necessitano di essere inviate negli Opg. In quei territori dove i Dsm (dipartimenti salute mentale) funzionano solo sulla carta, invece, il magistrato si vede costretto ad inviare queste persone negli Opg oggi e nelle Rems in futuro».

Territori spesso sguarniti Uno scenario non proprio confortante considerando che, nonostante la chiusura sia ormai prossima, negli Opg le persone continuano ad entrare. «Uno dei problemi maggiori è che diventa inutile spendere tantissimi soldi sulle strutture se poi non abbiamo un servizio in grado di lavorare dentro e attorno a quelle strutture con progetti personalizzati. Non a caso alcune regioni stanno lavorando espressamente sulla territorialità della cura dimenticandosi delle Rems. Ma, ancora una volta, questo accade dove i dipartimenti funzionano. Quindi il rischio è che sia la territorialità a determinare se una persona possa essere curata in maniera proficua. Non conta la malattia ma il luogo in cui questa malattia si è manifestata». In verità qualcosa sta cambiando: la nuova legge (la 81 del 2014) ha finalmente messo dei paletti all’applicazione delle misure di sicurezza rendendo di fatto impossibile il verificarsi di nuovi “ergastoli bianchi”, cioè le proroghe di misure di sicurezza detentive anche a carico di autori di reati minori. Di fatto una persona sola e senza alcun tipo di sostegno che entrava negli Opg rischia-


l’inchiesta

1.000

i pazienti ancora internati negli Opg ottobre 2014 scarp de’ tenis

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Matti (ancora) da slegare va di rimanerci a vita senza nemmeno sapere perché. Ora La permanenza negli Opg oggi e nelle Rems poi dovrà essere equivalente alla pena massima per quel reato. Questo non vuol dire che poi la sua presenza non venga riconfermata dentro una struttura ma, almeno, si avrà una revisione del suo stato e una valutazione di merito.

Cambiare il codice penale «I problemi maggiori nascono dalla mancata modifica del codice penale – spiega ancora Cinzia Neglia –. Se si continua a far prevalere la “pericolosità psichiatrica” su tutto il resto c’è il rischio che le Rems diventino semplicemente dei mini Opg. Questo perché, spesso, anche i magistrati, non avendo avuto risposte soddisfacenti da parte dei Dsm, non hanno alternative. Bisogna, invece, iniziare a lavorare seriamente per sostenere il lavoro dei dipartimenti sul territorio con la convinzione che non esistono casi che non possono essere curati. Attenzione, però, non stiamo dicendo che le Rems non le vogliamo. Ben vengano queste strutture ma solo a patto che la permanenza in questi centri faccia parte di un percorso individuale pensato per il recupero del paziente. Se invece le dinamiche resteranno le stesse

e le persone più problematiche o che non hanno la fortuna di avere una rete parentale forte saranno dimenticate dentro le strutture, allora davvero non sarà cambiato nulla. Sarebbe una grande sconfitta per il Paese tanto più che le uscite dagli Opg avvengono. Da quei luoghi si può uscire e tornare a vivere la propria vita. Ma i rientri sono lenti e servono progetti a lungo termine». Tempi lunghi, dunque. Ma necessari perché in psichiatria non esistono alternative: o si lavora con le persone o si lavora con le persone. Il problema è che molti dipartimenti di salute mentale esistono solo sulla carta con personale ridotto ai minimi termini. Considerando che in questi periodi di crisi la fragilità delle persone aumenta accade che in molte zone i servizi riescono a malapena a seguire l’ordinaria amministrazione, figuriamoci il resto, soprattutto se le richieste provengono dagli Opg che si immaginano popolati da persone che hanno commesso crimini inenarrabili. «Negli Opg entravano e continuano ad entrare persone che hanno commesso pene molto lievi – conclude Cinzia Neglia –. Gli Opg sono peggio delle carceri perché chi è li dentro non capisce nemmeno chi è. Un’esistenza sospesa dove nessuno ti ascolta»

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gli Opg ancora apert Gotto (Me), Reggio E Castiglione delle Stiv

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Mombello, viaggio nel paes

L’ospedale psichiatrico “Antonini” ha ospitato più di 100 mila malati. Qui «All’Antonini, una volta, i malati erano migliaia» ricorda Roberto, che qui ci lavorava. Oggi è un pensionato in forma, al contrario del complesso all’interno del quale si muove con sicurezza e nostalgia. Molti edifici sono fatiscenti, la vegetazione non è curata e nel vasto parco si aggirano coppiette, runner e fotografi. Mombello, o meglio, l’ospedale psichiatrico “Giuseppe Antonini”, è stato il più grande e più famoso manicomio d’Italia. Di qui, tra il 1886 e il 1999, sono passati più di 100 mila “matti”, con punte massime di circa 3 mila internati. Sembrano ricordi sbiaditi, vocaboli superati, luoghi di un’epoca lontana, passata come i versi di Delio Tessa, poeta dialettale milanese, che nel pri-

14. scarp de’ tenis ottobre 2014

mo dopoguerra al Mombello ha dedicato una lirica, significativamente intitolata Di là del mur (Oltre il muro). Eppure qui, ancora oggi, si intrecciano passato, presente e futuro della salute mentale nel nostro Paese. Il Comune di Limbiate, di cui Mombello è frazione, è stato scelto dalla regione Lombardia per ospitare due delle strutture che sostituiranno gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg). Queste istituzioni, da chiudere per legge entro il 31 marzo 2015, sono rimaste, secondo il Forum Salute Mentale, “sostanzialmente estranee e impermeabili alla cultura psichiatrica riformata” e al loro interno “il meccanismo di internamento non è stato influenzato dalla legge 180”, la cosiddetta legge Basaglia. A più di trent’anni dal


ti in Italia: Barcellona Pozzo di Emilia, Montelupo Fiorentino (Fi). viere (Mn), Napoli, Aversa (Ce)

se dei matti

i apriranno due nuove Rems provvedimento che decretò il superamento dei manicomi, compreso l’Antonini, Mombello potrebbe, quindi, tornare ad occupare un posto nella geografia della psichiatria italiana. Anche se in realtà, da qui, “i matti”, come li chiamano ancora in tanti al paese, non se ne sono mai andati.

Tra i bambini del Corberi Accanto all’Antonini, infatti, sorge il Corberi che, nei suoi reparti di degenza ospita a tutt’oggi circa 160 persone affette da disturbi psichiatrici che si sono manifestati fin dall’infanzia e da ritardo mentale di diversa gravità. Molte di loro sono cresciute tra queste mure: erano i bambini di Mombello. «Io li conosco quasi tutti – precisa Roberto che ha la-

l’inchiesta

Andrea Pinotti, direttore di Castiglione delle Stiviere

Sul Garda, un’isola felice L’unico Opg dove non sono state riscontrate gravi carenze durante le ispezioni della commissione Marino è quello di Castiglione delle Stiviere. Castiglione è, guarda caso, il solo gestito con personale sanitario. Qui non ci sono celle o sbarre, alcune stanze sono da due o tre posti letto, altre da quattro e il rapporto con le famiglie di origine è molto stretto. Il direttore è Andrea Pinotti. Mancano poco più di sei mesi alla chiusura degli Opg. Quale è la situazione? Essendo noi una struttura sanitaria il lavoro sarà sostanzialmente di ristrutturazione. Spero che nei prossimi mesi partano e si concludano i lavori. Il problema vero che riscontriamo è che su molti territori non esiste più una cultura di accoglienza. Il nostro lavoro è vincolato alla capacità dei dipartimenti di salute mentale di gestire e accogliere i pazienti in uscita. Al momento a Castiglione abbiamo 260 ospiti (tra cui 78 donne). Riusciamo a dimettere coloro che provengono da territori in cui i dipartimenti funzionano meglio. Per gli altri non possiamo fare altro che aspettare. In attesa delle nuove Rems come si sviluppa il vostro lavoro? Continuiamo a lavorare per le dimissioni, un percorso iniziato da tempo che ci ha portato a pareggiare ingressi ed uscite. Abbiamo anche diminuito il tempo di permanenza che, per gli uomini, si è abbassato a sei mesi, nell’ultimo anno. Dove vanno gli opliti una volte usciti? Di cosa hanno bisogno queste persone? Che ruolo hanno i piani terapeutici? Alcuni tornano in famiglia altri in strutture comunitarie in attesa di andare verso l’autonomia. Per tutti è fondamentale impostare un percorso terapeutico individuale insieme ai dipartimenti di salute mentale di appartenenza. Solo in questo modo è pensabile ricostruire l’autonomia di una persona. Considerato che la struttura è la stessa e le dimensioni più piccole ma non ridotte, cosa cambierà nel concreto? La struttura piccola ha dei vantaggi, ma anche degli svantaggi. Cercheremo di prendere il meglio da entrambi. Abbiamo previsto dei percorsi di formazione specifica per gli operatori in vista anche del miglioramento degli spazi vitali.

vorato come tipografo all’interno del manicomio per oltre trent’anni –. I più grandicelli ci davano una mano: facevano cose semplici, come piegare i fogli. Mai avuti grossi problemi». La struttura venne inaugurata nel 1962, poi, con la legge Basaglia, ha cambiato nome e approccio, ma continuando ad ospitare molti degli ospiti di allora. «Prima del Corberi – precisa Roberto – i minori vivevano all’interno dell’Antonini con tutti gli altri malati. Stavano nei padiglioni dei fanciulli: il Forlanini e il Ronzoni». Secondo i piani della Regione, sarebbero proprio questi due edifici, oggi abbandonati, a dover essere trasformati in due Rems, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Di lavori di ristrutturazione,

però, neanche l’ombra. Il progetto è al centro di un aspro confronto tra la giunta Maroni e il Comune di Limbiate, supportato dalle realtà attive nell’ambito della salute mentale, in un dibattito locale dai forti risvolti nazionali.

Serve più coraggio A sei mesi dalla chiusura degli Opg e a cinque dall’approvazione della legge 81/2014 che l’ha sancita, la Lombardia ha compiuto tutti i passi legislativi necessari. E, secondo Luigi Benevelli di StopOpg, «lo ha fatto con austriacante efficienza, ma con poco coraggio e poca fantasia generando, per ora, incertezza e confusione. L’ex presidente Formigoni non ha mai varato una politica moderna per la salute mentale e, a quanto veottobre 2014 scarp de’ tenis

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Matti (ancora) da slegare

do, anche Maroni sta continuando questa operazione di vecchia psichiatria». La Regione vorrebbe riconvertire l’Opg di Castiglione delle Stiviere, che oggi ospita oltre 250 internati da tutta Italia, in sei Rems da 20 posti ciascuna, alle quali aggiungere le due di Mombello. In totale, sarebbero 160 posti per quei cittadini lombardi che, dopo aver commesso dei reati, sono prosciolti per infermità psichica, ma sottoposti a misure di sicurezza a causa della loro pericolosità sociale. Un progetto, frutto della revisione di un piano precedente, che l’assessore alla Sanità, Mario Mantovani, ha definito “importante” anche perché «tiene conto del processo di risocializzazione e della riabilitazione di questi soggetti». Per StopOpg Lombardia, invece, l’investimento di circa 26 milioni di euro necessari è semplicemente “uno spreco di risorse”. La critica, nonostante la Regione abbia ridotto il numero delle Rems da dodici a otto, è quella di destinare risorse insufficienti al potenziamento dei servizi di salute mentale sul territorio (Asl e Cps) e fondi eccessivi per la costruzione di queste strutture che, secondo la nuova legge, dovrebbero essere un’eccezione. E non la regola.

Il rischio di chiudersi dentro Il rischio, in Lombardia come in molte altre Regioni della Penisola, è che la distanza tra il testo della legge e la sua applicazione ne stravolga lo spirito. La paura è che anche le Rems diventino dei luoghi gestiti in modo manicomiale, proprio come lo sono gli Ospedali psichiatrici giudiziari, proprio come lo era l’Antonini dove, ricorda Roberto, «a volte, per finirci dentro, bastava aver bevuto qualche bicchiere di troppo». Il timore, dopo gli anni bui degli Opg, è che la sanità italiana risolva questa spinosa questione ancora una volta solo ed esclusivamente con delle strutture chiuse. Magari più piccole e più decorose, ma pur sempre chiuse. Proprio come era chiuso il muro che scorreva tutto intorno ai padiglioni di Mombello. «All’epoca – conclude Roberto – venne costruito dagli stessi malati». Oggi, invece, i fondi stanziati per il reale superamento degli Opg sono risorse di tutta la collettività.

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16. scarp de’ tenis ottobre 2014

La storia

Marco ha girato tutti gli Opg: «Per anni la Il nome di Marco è inventato, ma la sua storia è tremendamente vera. Racconta di un giovane con problemi di salute mentale che, accusato di un reato minore, ha trascorso oltre vent’anni all’interno degli Opg italiani. Venendo internato in tutti e sei quelli esistenti nel nostro Paese. Essendo residente in Lombardia, spettava alla Regione individuare per lui una collocazione adeguata. La struttura idonea però, per anni, non si è trovata e, nonostante l’impegno e la presenza della famiglia, Marco è rimasto sostanzialmente “parcheggiato” in Opg. Di fatto, per mancanza di alternative. «Queste strutture – spiega Antonella Calcaterra, avvocato della Camera Penale di Milano che fa parte dell’Osservatorio Carcere dell’Unione

delle Camere Penali Italiane – sono diventate dei luoghi di raccolta di persone ignorate dal servizio sanitario territoriale e dal welfare sociale, cui deve ingiustificatamente supplire il sistema penale». È anche per questo che il Governo ha deciso di superarli e di modificare la normativa, proprio per impedire che, anche nelle nuove strutture pensate per sostituirli (le Rems), accadano episodi simili. «La nuova legge, la 81/2014, è molto positiva perché ha messo dei forti paletti all’applicazione delle misure di sicurezza – spiega ancora Calcaterra –. Il provvedimento pone fine agli “ergastoli bianchi”, cioè le continue proroghe di misure di sicurezza detentive spesso a carico di autori di reati minori. Come spiega un documento del comitato StopOpg, ora “la pericolosità sociale non può più


l’inchiesta

La storia

Da paziente ad attore: così Luigi è davvero rinato

asciato lì e dimenticato» essere dichiarata o confermata solo perché la persona è emarginata, priva di sostegni economici o senza un piano terapeutico individuale”». In pratica, se un cittadino viene mandato in un Opg per aver commesso un reato, la sua permanenza non potrà superare il periodo fissato come pena massima per quello stesso reato. Al termine di questo periodo, il magistrato di sorveglianza potrà valutare misure alternative, come la libertà vigilata, ma sarà comunque costretto a dimettere il paziente. Proprio come è successo a Marco. «È uscito lo scorso agosto per spostarsi in una struttura molto seria e qualificata – precisa Calcaterra, che ha seguito il caso da vicino –. Lo ha fatto proprio grazie alla nuova legge e non è l’unico ad averne beneficiato. Sono in molti a venir dimessi. La questione vera ora è quanto i servizi territoriali si faranno carico di queste persone in maniera consona, operando con anticipo rispetto alle dimissioni, preparando loro un contesto esterno adeguato. E, per farlo davvero, servono finanziamenti adeguati».

«Ad Aversa ho conosciuto persone che erano lì da 23 anni, altre da 25. Le frequentavo, ci parlavo e non percepivo nessuna pericolosità. Eppure erano internate». Luigi Rigoni l’esperienza dell’Opg l’ha vissuta in prima persona. «È per questo – spiega a Scarp de’ tenis – che, una volta uscito, mi sono sentito in dovere di portare la mia testimonianza». Ed essendo attore per professione, lo ha fatto diventando il protagonista del film Lo Stato della follia, uscito lo scorso anno (nella foto la locandina). La pellicola di Francesco Cordio alterna ai monologhi in cui l’attore racconta la sua storia le immagini girate dal regista durante i sopralluoghi che la Commissione Marino ha effettuato a sorpresa all’interno dei sei Opg italiani nel 2010. «Per la prima volta – scrive Cordio nelle note di regia – gli uomini chiusi là dentro avevano l’opportunità di gridare fuori, al mondo, il loro stato, il loro disagio, quello umano prima ancora di quello psichico. Il primo impatto è stato devastante: celle piccole e sporche, servizi igienici rotti, puzza di piscio ovunque». «Io ho avuto la fortuna – continua Rigoni – di stare nel quinto reparto mentre il peggiore era il settimo, la cosiddetta staccata». Che infatti è stata chiusa nel 2011. In prospettiva futura, però, ciò che è più significativo della storia di Luigi non è tanto quello che ha raccontato di aver visto e vissuto “dentro”, ma quel che gli è successo una volta “fuori”. Perchè, con la nuova legge 81 approvata lo scorso maggio e la chiusura degli Opg prevista per fine marzo 2015, il suo percorso positivo si spera venga intrapreso anche da numerosi altri internati. La misura di sicurezza scontata in Opg (e in futuro nelle Rems che li sostituiranno), dovrebbe infatti diventare, secondo il nuovo provvedimento, un’eccezione e non la regola. «Sono stato dimesso dall’Opg di Aversa grazie alle pratiche svolte da mia moglie che qui a Roma, dove abitiamo tuttora, ha tenuto i contatti coi servizi – ricorda Rigoni –. Grazie all’impegno famigliare e alle relazioni degli psichiatri, il magistrato si è dimostrato più conciliante e mi ha fatto uscire». Un primo passo, ma non quello risolutivo. «Quando sono rientrato a casa da Aversa – prosegue – avevo obblighi ben precisi, tra cui quello settimanale di firma e quello di non uscire la sera. Ho seguito tutte le cure prescritte, ho ricevuto le visite dell’assistente sociale e, in questo modo, dopo un anno, tutto si è risolto con la revoca della pericolosità sociale da parte del magistrato». ottobre 2014 scarp de’ tenis

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DOPO MARE NOSTRUM

Come cambia l’accoglienza? Nel 2014 arrivi record di profughi sulle coste italiane. Nel paese e in Europa il dibattito è confuso e fazioso. Serve una politica estera e di sviluppo aperta e coraggiosa. Perché la scelta di contenere e respingere è fallimentare Pozzallo, Sicilia Migranti in attesa di sbarcare dalla motonave della Marina militare “Grecale” nel porto di Pozzallo, in Sicilia

18. scarp de’ tenis ottobre 2014

di Francesco Chiavarini Cambio di strategia nei confronti dei migranti in transito dall’Italia. A novembre Frontex plus (o Triton come la si chiama ultimamente) dovrebbe sostituire l’italiana Mare Nostrum. Ma il condizionale è più che mai d’obbligo. Perché dopo l’annuncio di questa estate del ministro dell’Interno Angelino Alfano, al momento in cui scriviamo, pochi fatti concreti sono seguiti. L’operazione dell’agenzia europea deputata al controllo delle frontiere del vecchio continente, candidata a sostituire la missione umanitaria della Marina militare italiana ha ancora contorni molto imprecisi. Innanzitutto dispone di uomini e mezzi del tutto inadeguati alle circostanze: due aerei, un elicottero, due motonavi, due imbarcazioni leggere per un costo di 2,3 milioni al mese, quando per fatto tirare un respiro di sollievo a Roma, Mare Nostrum solo il governo italiano preoccupata che l’operazione nauframette a disposizione 5 navi, quattro vegasse ancora prima di salpare. Ma fino livoli e 920 uomini. Certo è probabile ad ora le affermazioni non hanno proche le risorse saranno implementate, dotto impegni concreti. quando anche gli altri governi europei decideranno di partecipare. Dopo la missione diplomatica del ministro AlfaQuali regole d’ingaggio? no a Berlino e Madrid ad inizio settemRestano, inoltre, poco chiare le regole di bre, i suoi colleghi tedeschi e spagnoli ingaggio. Che cosa farà esattamente hanno promesso che non lasceranno Frontex plus? Sappiamo che la natura sola l’Italia. Quelle dichiarazioni hanno dell’operazione europea sarà profondamente diversa da quella italiana. L’obiettivo conclamato di Mare nostrum era quello di minimizzare, se non azzerare, le morti in mare. Questa è la ragione per cui le navi della Marina militare in questi mesi sono andate incontro ai barconi di profughi e hanno tratto in salvo i loro equipaggi, agendo su uno spettro di mare molto vasto, che si estendeva fino a poche miglia dalle coste libiche. Frontex plus sarà tutta un’altra cosa. L’agenzia europea che la coordinerà e da cui ha preso il nome è stata creata nel 2005 dai governi della Ue per difendere le frontiere esterne dell’Unione europea e fino ad ora si è sempre impegnata nei respingimenti o al limite alla segnalazione delle imbarcazioni di migranti in mare. Benché il ministro Alfano abbia detto che le due missioni so-


l’inchiesta Numero di profughi nel mondo in 25 anni (in milioni, 1989-2013)

60 MILIONI

GENOCIDIO IN RUANDA

CONFLITTO IN KOSOVO

GUERRA IN IRAQ

GUERRA CIVILE IN SIRIA

51,2 50

47,4 42,5 39,3

37,7

40

30

20 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 FONTE: UNICEF 2014 - FOTO AP PHOTO / LUCA BRUNO

no “sovrapponibili”, in mancanza di indicazioni esplicite e autorevoli, è difficile immaginare che Frontex plus possa andare contro la sua stessa natura, che è principalmente poliziesca e di controllo e solo secondariamente di soccorso. Inoltre, in ogni caso, il raggio d’azione della missione europea sarà molto più ridotto: senza uno specifico mandato umanitario, le navi non potranno travalicare i confini delle acque internazionali. Quello che accadrà nel Mare Libico sarà di nuovo affidato ai flutti. Stante questa situazione si aprono diversi scenari. Se Frontex partirà in grande stile, con la partecipazione degli altri paesi europei (almeno 18 auspica in una recente intervista il direttore dell’agenzia, Gil Arias Fernandez), i migranti che sbarcheranno sulle coste italiane potrebbero diminuire, ma difficilmente le autorità italiane potranno fare finta di non vederli, come hanno fatto finora. Il ministro dell’interno tedesco Thomas de Maiziere con Alfano a Berlino è stato molto franco: «Dobbiamo risolvere insieme la situazione – ha detto. La Germania è pronta a dare un sostegno a Frontex plus, ma anche l’Italia e i paesi del Mediterraneo si devono impegnare a registrare i richiedenti asilo».

Non si può più far finta di nulla Fine dunque dei giochi. Non si potrà più adottare l’escamotage, furbesco, che finora abbiamo utilizzato per consentire

ai migranti in transito di chiedere asilo nei paesi più generosi del Nord Europa, aggirando di fatto gli accordi di Dublino sull’accoglienza dei rifugiati politici. Sbarcati sul territorio italiano i migranti dovranno essere identificati e trattenuti in attesa che le commissioni territoriali del nostro pase esaminino le loro domande di protezione e decidano se accoglierle o respingerle.

Principali paesi d’origine dei rifugiati (fine 2013)

2.556.600

AFGHANISTAN SIRIA

2.468.800

856.500 SOMALIA

641.900 SUDAN

609.900 REP. DEM. CONGO

534.900 MYANMAR

434.500 IRAQ

433.900 COLOMBIA

301.000 VIETNAM

263.600 ERITREA

Inoltre torna a girare tra gli addetti ai lavori la voce di una prossimo potenziamento (più volte annunciato e poi sempre rimandato) della rete di appartamenti e centri di accoglienza gestiti dai Comuni, il cosiddetto sistema Sprar, fino ad oggi scavalcato dalle Prefetture in nome dell’emergenza. Inoltre a metà luglio il Ministero dell’Interno ha inviato una circolare nella quale facilita l’accesso anche dei profughi in transito a questo sistema. I costi, tuttavia, di un intervento di questo tipo sarebbero alti, forse non inferiori a quelli sostenuti per Mare Nostrum. Grande lo sforzo organizzativo per consentire alla Commissioni territoriali di smaltire in fretta le richieste. Mentre i pattugliamenti in mare, limitati alle acque internazionali, non eviterebbero altre tragedie.

Il rischio di un flop FONTE: UNICEF 2014

Alcuni indizi suggeriscono che ci si sta muovendo in questa direzione. Gli operatori nei centri di accoglienza di Milano, divenuta il grande hub di smistamento dei flussi dei migranti verso il Nord Europa, riferiscono che da metà settembre i siriani che giungono nel capoluogo lombardo sono tutti foto-segnalati, mentre prima non lo erano. Segno che l’operazione di identificazione è già ufficiosamente cominciata, proprio come chiedeva la Germania.

Potrebbe però accadere che Frontex plus si riveli un flop. I governi europei, alla resa dei conti, dopo le dichiarazioni di principio, potrebbero non trovare un accordo sui soldi e mezzi che ognuno deve impegnare e l’operazione morirebbe in culla. In questo caso non ci sarebbe Frontex plus ma neanche Mare Nostrum. L’operazione umanitaria italiana mostra ormai da tempo la corda. È nata sotto un altro governo, quello presieduto da Letta. L’onda emotiva che l’ha suscitata e sospinta finora – la strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013 – si ottobre 2014 scarp de’ tenis

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Come cambia l’accoglienza è via via affievolita riassorbita da altre emergenze. I costi sono stati effettivamente imponenti. E se è vero che le vite salvate sono state molte (centomila persone soccorse nel Mediterraneo), non si può negare che proprio la maggiore probabilità di essere tratti in salvo, ha spinto i trafficanti di esseri umani a tentare la via del mare. Va poi aggiunto che dopo averli soccorsi, non siamo stati capaci né di accogliere i profughi né di fare valere le loro ragioni con i nostri partner europei, consentendo a loro ad esempio di ottenere un permesso di soggiorno umanitario per attraversare legalmente le frontiere. Per tutte queste ragioni il governo Renzi intende cam-

biare passo. In mancanza però di una riposta comune europea, si tornerebbe alla situazione precedente al 2013 nel

Numero di rifugiati ogni mille abitanti (2013)

LIBANO 34 CHAD

88 GIORDANIA

178

24 MAURITANIA

23 MALTA

23 GIBUTI

20 SUD SUDAN

14 MONTENEGRO

12 LIBERIA 12 KENYA

CON I MASSICCI ARRIVI DEL 2014, L’ITALIA RAGGIUNGERÀ UN TASSO TRA 2 E 3 RIFUGIATI OGNI MILLE ABITANTI

FONTE: UNICEF 2014

mezzo però, questa volta, di una crisi geopolitica che investe un territorio che dal Medio Oriente giunge fino sulle sponde sud del Mediterraneo, vera origine dei questi nuovi flussi migratori. Di fronte alle carrette del mare cariche di disperati in balia delle onde – che certo non smetteranno di attraversare il Mediterraneo fino a che dall’altra parte ci sarà la guerra e la disperazione più cupa – le marine dei rispettivi Stati si rimpallerebbero le responsabilità, fino alla prossima tragedia su cui versare tutti insieme lacrime di coccodrillo. Sarebbe un altro duro colpo alla credibilità dell’Europa, già parecchio compromessa, sulla scena politica mondiale.

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«Costruiamo l’Europa dell’asilo» Mario Morcone, capo-dipartimento immigrazione dell’Interno: «Accoglienze, nel 2014 è stato fatto un piccolo miracolo. Il ruolo cruciale del terzo settore» di Paolo Brivio Il prefetto Mario Morcone dirige da giugno il Dipartimento libertà civili e immigrazione del ministero dell’interno. Aveva già ricoperto in passato questo ruolo: sa bene quanto cruciale sia, per la gestione dei flussi migratori verso il nostro paese, e l’applicazione delle politiche in materia. È giunto nel mezzo di un anno di arrivi ingentissimi, senza precedenti per il nostro paese: la sua visione su quanto sta accadendo, e su quanto dovrà essere fatto e cambiato in futuro, in Italia e in Eurodal ministro dell’interno, Angelino Alfapa, non difetta di lucidità. no, i paesi di provenienza sono quelli dove forte è il rischio per la vita dei migranti o per conflitti interni e persecuzioni o, Il 2014 è un anno di record. Secondo comunque, per gravi situazioni di indii dati in vostro possesso, quante sogenza o a causa di un tessuto sociale lano state le persone sbarcate sulle cerato. Parliamo quindi di Siria, Eritrea, nostre coste? Quale è la loro proveGambia, Somalia, ma riscontriamo annienza? che arrivi di giovani egiziani e persone Siamo in presenza di una gigantesca provenienti dall’Africa subsahariana. operazione umanitaria che ha portato a Arrivi e accoglienza stanno avvenenoggi (20 settembre, nda) il numero delle do senza che si siano creati eccessipersone sbarcate a oltre 125 mila. Come vi allarmi mediatici. Ma quali sono le è stato altre volte posto in rilievo, anche difficoltà più grandi che il nostro paese incontra nel farsi carico dell’accoPrincipali paesi di glienza di un numero di richiedenti accoglienza dei rifugiati asilo elevato e – per i nostri standard (fine 2013) – straordinario? Come si sta operan1.616.500 PAKISTAN do per dare attuazione al Piano di ac857.400 IRAN coglienza recentemente approvato 856.500 LIBANO dalla Conferenza Stato-Regioni? 641.900 GIORDANIA 609.900 TURCHIA Devo dire, senza nessuna presunzione, 534.900 KENYA che fino a oggi abbiamo realizzato un 434.500 CHAD piccolo miracolo. Se si fa un raffronto 433.900 ETIOPIA con l’emergenza del 2009, che aveva ri301.000 CINA guardato circa 36 mila persone, e con 263.600 USA quella cosiddetta del “Nord Africa” del

20. scarp de’ tenis ottobre 2014

2011 (53 mila arrivi), balza agli occhi che l’operazione che stiamo conducendo è effettivamente unica nella sua dimensione. Questo fino a oggi è stato possibile proprio grazie alla decisione della Conferenza unificata, che ha permesso a comuni, regioni e stato di condividere in spirito di collaborazione questa avventura umanitaria. Naturalmente, ma questo si è sempre verificato, uno sforzo particolare è venuto dalle grandi organizzazioni cattoliche e da segmenti del terzo settore, senza i quali tutto questo non sarebbe stato possibile. Oggi i territori sono in sofferenza; le difficoltà stanno crescendo di giorno in giorno e credo che il governo dovrà fare una riflessione su come poter portare avanti questa gara di solidarietà, di cui siamo orgogliosi, senza lacerazioni nella rete delle istituzioni. Quali caratteristiche dovrà avere, in futuro, un sistema adeguatamente attrezzato per gestire fasi acute di emergenze, ma anche l’ordinaria accoglienza di migranti e, soprattutto, richiedenti asilo? La risposta ad emergenze così gravi e così importanti, non può prescindere da un impegno più ampio che coinvolga certamente l’Europa, assieme alle grandi organizzazioni internazionali che fan-


l’inchiesta

Nel mondo

Le persone in fuga sono più di 50 milioni Più di 120 mila sbarcati in Italia in otto mesi, tra cui molti profughi: record, emergenza, invasione… E adesso come faremo? Si potrebbe chiedere ai molti paesi del mondo che, da molti anni, accolgono flussi di rifugiati molto più consistenti. In un recente comunicato stampa, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha segnalato che a fine 2013 le persone che nel mondo fuggono da guerre, carestie e altre gravi crisi hanno raggiunto quota 51,2 milioni, ben 6 milioni in più rispetto al 2012. Questo drammatico spostamento forzato di persone è causato principalmente dalle guerre in Siria, Repubblica Centrafricana e Sud Sudan, alle quali si sono recentemente aggiunte le crisi nella Striscia di Gaza e in Ucraina. La popolazione globale di rifugiati, richiedenti asilo e sfollati interni è la più alta mai raggiunta dalla fine della seconda guerra mondiale. Gli sfollati interni rappresentano il gruppo

Paesi di destinazione dei richiedenti asilo (2012-2013)

2012 2013

0

no capo alle Nazioni Unite. Bisognerà fare un salto, superando egoismi nazionali e interessi particolari per realizzare davvero quell’“Europa dell’asilo” di cui parliamo spesso, ma che stenta a decollare. Noi stiamo facendo la nostra parte, aumentando le Commissioni per il riconoscimento della protezione internazionale, migliorandone la formazione e la capacità di gestire le interviste in tempi sostenibili, senza attenuare il pacchetto di garanzie poste a presidio dei diritti. L’obiettivo è il mutuo riconoscimento; la possibilità cioè che la decisione di un paese valga in tutti gli altri, garantendo la mobilità dei protetti internazionali nell’area Schengen. In questi mesi il suo Dipartimento è stato molto attivo, all’interno del Tavolo di coordinamento nazionale,

SVIZZERA

REGNO UNITO

TURCHIA

ITALIA*

20

MALESIA

40

*NEL 2014 L’ITALIA VEDRÀ SICURAMENTE AUMENTARE DI MOLTO IL NUMERO DEI RICHIEDENTI ASILO

SVEZIA

FONTE: UNICEF 2014

60

USA

80

GERMANIA

100

FRANCIA

SUDAFRICA

120 X 1.000

più numeroso (33,3 milioni), oltre che il più a rischio: si trovano spesso in zone di conflitto, quindi difficilmente raggiungibili dagli aiuti esterni. Invece i rifugiati sono circa 16,7 milioni, di cui 6,3 in esilio da più di cinque anni. Le nazionalità maggiormente rappresentate tra le persone raggiunte da Unhcr sono afgani, siriani e somali, presenti soprattutto in Pakistan, Iran e Libano. Si tratta di paesi che ospitano milioni di rifugiati e richiedenti asilo, ma anche alcuni paesi del Medio Oriente vicini a Siria e Iraq (Libano, Giordania, Turchia) o alcune regioni di paesi africani accolgono centinaia di migliaia di persone, cifra elevatissima se rapportata alla popolazione “indigena”. In Italia il 2014 sarà certamente ricordato per l’incessante flusso di profughi che hanno attraversato il Mediterraneo in cerca di protezione in Europa. Tra costoro migliaia di minori, in molti casi senza un genitore o un parente al seguito. I paesi di provenienza sono raccolti lungo una sorta di “cintura di fuoco”, che cinge il Mediterraneo e che, passando per l’inquieto Nord Africa del dopo-primavere (Libia, Tunisia, Egitto), si stende dall’Africa occidentale (Gambia, Mali, Niger, Nigeria, Costa d’Avorio), subsahariana (Centrafrica, Sud Sudan, Ciad) e orientale (Eritrea, Somalia) sino al Medio Oriente (Gaza, Siria, Iraq). Guerre civili, forme diffuse di terrorismo, anarchia violenta, dittature repressive, sistematiche violazioni dei diritti umani: il campionario delle cause che inducono alla fuga milioni di persone è drammaticamente vario. Solo politiche estere e di sviluppo organiche, a livello nazionale e europeo potranno provare a gestirlo.

nella definizione del sistema di accoglienza in Italia. Nel Tavolo sono stati di recente coinvolti Caritas e Arci: quale contributo può dare il terzo settore al rafforzamento del percorso verso un sistema compiuto di accoglienza? Senza il terzo settore e la generosità di tanti volontari non saremmo andati da nessuna parte. Caritas e Arci sono in prima linea a fare sistema tra le energie positive che nascono dalla società civile. Ora il loro ruolo è ancora più importante: la sofferenza dei territori e la difficoltà di chi ne ha il governo, impongono una nuova mobilitazione che spieghi le ragioni e il valore di quello che stiamo facendo. E solo grandi enti ed associazioni come quelle citate sono in grado di aiutarci a condividere operazioni così importanti.

Spesso – di recente per il varo di “Frontex Plus”, in sostituzione dell’italiana “Mare Nostrum” – si evoca la solidarietà europea. Quali misure dovrebbe adottare l’Europa per aiutare l’Italia a gestire arrivi consistenti di richiedenti asilo? Ho già accennato al tema del mutuo riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria. Altre scelte ci darebbero una mano; penso alla suddivisione per quote dei protetti internazionali in tutti i paesi, o a un’applicazione più flessibile dell’Accordo di Dublino sui ricongiungimenti familiari e le persone vulnerabili. Bisogna evitare uno stucchevole confronto tra paesi del Nord e del Sud Europa, coinvolgendo tra i 28 anche quelli che per il momento stanno a guardare, non essendo coinvolti o attraversati dalle rotte della speranza.

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ottobre 2014 scarp de’ tenis

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La grande lezione del calcio femminile, dove lo sport è ancora passione. E dove sono sempre di più le allenatrici donne

Tacchetti rosa di Stefania Culurgioni Suo padre la porta a fare una partitella con i suoi colleghi. È una ragazza, e loro istintivamente ci vanno piano. All’inizio non la marcano stretta, le lasciano spazio, sorridono quando lei ruba palla. Solo che lei ruba palla quasi sempre, scatta in area, segna. Che smacco. Il gioco comincia a farsi duro, anzi “uguale”, la ragazzina è pericolosa, i colleghi si ritrovano a vederla come avversaria. È solo uno degli episodi nella carriera di Marina Rogazione, attaccante del Pink Bari, 26 anni e calciatrice dall’età di dieci. Si è appena laureata in giurisprudenza, si allena quattro sere alla settimana, ha segnato 11 gol nel campionato dell’anno scorso, compreso quello decisivo, che è valso il passaggio in A. Dice che deve a tutti i costi imparare la “rabona”, una specie più alta viene ancora relegato alla lega di colpo di tacco al contrario, e che il dei dilettanti, zero trasmissione in telecalcio è la sua valvola di sfogo, la sua visione e persino qualche scivolone da gioia, la sua carica vitale. Che importa parte di chi dovrebbe promuoverlo: era dei pregiudizi. stato proprio Carlo Tavecchio, in proEccolo, lo spirito del calcio femmicinto di essere eletto presidente della nile italiano di serie A. Quattordici Fgci, a dire nel maggio scorso: «Si pensquadre in campionato, cinque delle sava che le donne fossero handicappaquali allenate da donne (e il gergo non te rispetto al maschio, ma abbiamo ricambia: anche loro si chiamano Miscontrato che sono molto simili». Un’uster), il Bari, il Brescia, il Mozzanica scita infelice poi superata da una bella (Bergamo), il Tavagnacco (Udine) e l’Odichiarazione d’intenti: «Bisogna rilanrobica di Azzano San Paolo (Bergamo). ciare il calcio femminile – si corresse lo Zero soldi, perché nonostante la serie

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stesso Tavecchio – su 31 milioni di donne in Italia, le tesserate sono soltanto 20 mila. In Norvegia sono 110 mila. Pensate come sarebbe bello se, ad esempio, prima di Roma-Lazio di serie A all'Olimpico si giocasse un Roma-Lazio femminile. Lo stadio sarebbe pieno, ci sarebbe più attenzione per la manifestazione sportiva». Perché in effetti, le differenze ci sono. Meno velocità, meno potenza fisica, meno acrobazie, meno esasperazione ma anche più autenticità, nessuna scommessa, zero partite a tavolino, meno soldi che girano, nessuna pressione mediatica e quindi più purezza, più verità. Un calcio romantico, privo di eccessivi tatticismi, fatto di improvvisi capovolgimenti di fronte, fatto di passione nuda e pura, fatto di storie di donne che sono mamme, lavoratrici, studentesse e poi, solo poi, calciatrici. Nonostante siano in serie A.


lo speciale Forti e motivate Un momento dei festeggiamenti per la vittoria del campionato di serie A da parte del Brescia. Nella foto sotto la mister della squadra bresciana, Milena Bertolini

La storia

Il segreto del Brescia femminile: «Non c’è gioco senza divertimento»

Una passione tutta in rosa Prendiamo per esempio il Pink Bari: la cosa più controcorrente di questa società sportiva è che non ha squadre di maschi. «Forse ne apriamo una l’anno prossimo», dice la mister Isabella Cardone. Forse. La seconda cosa quasi controcorrente è che il Bari (maschile) è scivolato in B, il Pink Bari è risalito in A: ma il Bari si allena nello stadio della città, le ragazze invece devono allenarsi e giocare a Bitetto. Il motivo? Su un campo in erba non si possono giocare più di due partite, quando c’è da scegliere, si sceglie al maschile. Ovvio. «Alleno queste ragazze da 13 anni – dice Cardone – mi chiamano la Ferguson del calcio femminile (ndr considerato uno dei più grandi allenatori al mondo, Ferguson ha guidato il Manchester United ininterrottamente dal novembre 1986 al maggio 2013). Sono sposata da 14 anni, non ho figli, il calcio è la mia passione da quando sono bambina. Mia madre mi aspettava nella pancia, era il 1970, guardava la finale Italia Germania e io tiravo calci da dentro. Ho giocato qualche anno, poi mi sono rotta il crociato e ho smesso. Ho messo su uno studio da commercialista e alleno per passione, anche se ormai per passione faccio la commercialista e lavoro come allenatrice». Isabella ci mette tutta la sua grinta: sotto la sua ala 24 ragazze dai 15 ai 34 anni. Sono donne e adolescenti che studiano tutto il giorno, vanno all’università, o fanno le operaie, le impiegate, le mamme e poi la sera, a costo di portarsi i figli al campo, si allenano. Quando ci sono le trasferte, si giocano le ferie, e se non hanno le ferie, devono sperare che il datore di lavoro chiuda un occhio e gli dia il venerdì per partire. Quanto ai soldi: nessuno stipendio. La società al massimo rimborsa i viaggi, ma vuoi mettere quei 500 tifosi fissi che ogni domenica vanno alla partita? Sono da pelle d’oca. «È ovvio che il calcio femminile è diverso da quello maschile – continua mister Cardone – ma lo sport

«Il calcio è uguale per tutti, cambiano gli interpreti – spiega Milena Bertolini, allenatrice del Brescia femminile una delle squadre più forti della serie A femminile – certo, i pregiudizi ci sono ancora, sia da parte delle famiglie che storcono il naso a mandare le bambine a giocare a pallone, sia da parte delle società sportive: molte per esempio hanno solo squadre di maschi, non aprono alle femmine. Ma gestire delle ragazze è davvero gratificante: hanno una fame incredibile di apprendere, si impegnano moltissimo in campo, ti seguono al cento per cento. Poi certo, sono più complesse. Qualche esempio? Se ad una ragazza dici che deve fare 100 flessioni in allenamento, lei le fa. Però quando ha finito viene a chiederti perché. E non è che puoi dirle “perché sì”. Devi essere preparata, perché lei ascolta e magari contesta anche». Ma Milena spiega che le differenze sono anche emotive: «Una donna è più complessa, più sensibile: prima di lasciare in panchina una donna, meglio se sai perfettamente perché lo stai facendo». E certamente, è importante cosa si dice ma anche come lo si dice, e considerare sempre che tutta quella galassia di emotività nell’animo di una donna, difficilmente scomparirà quando lei scende in campo: una calciatrice si porta il suo stato d’animo negli spogliatoi, nell’allenameno e in partita. E detto questo, poi dà il mille per cento per fare bene. «Alle mie ragazze, che hanno dai 16 ai 33 anni, dico sempre questo – continua Milena –, che devono divertirsi quando giocano, che hanno una grande responsabilità perché devono dimostrare che il calcio femminile è bello e vero, e che devono avere rispetto verso l’avversario, che non significa non combattere fino all’ultimo». Per il resto la mister sogna per il suo Brescia un modulo 3-3-4, all’olandese, con il centrocampo a rombo: «Ma per realizzarlo dobbiamo migliorare nella padronanza del pallone – dice – perché si rischia in fase offensiva e difensiva di dare troppo spazio all’avversario». ottobre 2014 scarp de’ tenis

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è sport, e il calcio è il calcio. Esiste una palla al centro e si corre». Ha fatto scalpore la recente notizia che in Francia sia stata scelta una donna per allenare una squadra di serie B (Ligue 2), cioè il Clermont Foot 63. Corinne Diacre, questo il suo nome, è una ex calciatrice di 40 anni e da quando è stata nominata è stata talmente bersagliata di domande su come sia, per una donna, allenare una squadra di uomini, che ad un certo punto ha chiuso i microfoni: «Siamo desolati – hanno risposto dal club – ma Corinne Diacre ha già risposto a troppe interviste e ora vuole solo concentrarsi sull’aspetto sportivo, sulla preparazione delle gare, sulle sedute di allenamento. Il messaggio è chiaro: donna o uomo, il calcio è uno, e l’importante è vincere.

Nessuna è stipendiata Anche l’Orobica di Azzano San Paolo in provincia di Bergamo è una squadra femminile di serie A allenata da una donna. Marianna Marini ha 33 anni e lavora nell’ufficio ragioneria e tributi del comune di Sorisole. Ha giocato a calcio per 22 anni, in A, B, C e D e da quest’anno ha sotto la sua responsabilità una rosa di 24 giocatrici: «Il calcio femminile è etichettato come calcio dilettantistico – dice – ma noi ci mettiamo tutta la nostra professionalità. Io per esempio ho fatto il corso di allenatore alla scuola di Coverciano». Coverciano è un quartiere di Firenze dove ha sede il Centro tecnico sportivo federale della Figc, che è anche sede del ritiro della nazionale. «Certamente il fatto che il calcio femminile non possa essere un lavoro per le giocatrici, ci penalizza. Possiamo allenarci solo la sera, dopo una giornata di lavoro, studio o famiglia e questo accade perché non siamo stipendiate. Se fossimo pagate potremmo vivere di questo, allenarci ogni giorno, migliorare le prestazioni atletiche, migliorare il nostro calcio». Bisognerebbe insomma rilanciarlo, questo calcio verace, dargli visibilità, notorietà, pubblico. E allora arriverebbero gli sponsor, e i soldi, e con i soldi gli stipendi, e una preparazione tecnica diversa. Perderebbe la sua purezza? Intanto, sarebbe sempre calcio, e se la differenza la fanno gli interpreti, le donne saprebbero comunque interpretarlo alla loro maniera: da donne, combattenti, grintose, appassionate.

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La storia

Dino Zoff e la gloria effimera: «La vera vita non è il calcio» A PordenoneLegge Dino Zoff ha presentato il suo libro, edito da Mondadori, “Dura solo un attimo la gloria” (a fianco la copertina). Il portiere timido che ha scritto pagine formidabili sulla sua amicizia con Gaetano Scirea, è tutto in quella frase di nonna Adelaide, friulana, dura come il mogano ma dolcissima: «È passato Napoleone che aveva gli speroni d'oro agli stivali, figurati se non passa anche il resto». Dino, prima che diventasse Zoff, ha fatto tesoro delle parole di nonna Adelaide e per questo, racconta, era silenzioso. Lui che è stato chiamato mito, monumento, leggenda, le sue mani sono finite in un francobollo firmato Guttuso, lui che ha giocato a scopone con Pertini, scherzato con Karol Woityla, viaggiato con Gheddafi e scambiato confidenze con Gianni Agnelli. Dino il timido sapeva che sarebbero passati i Gheddafi e gli Agnelli, e anche lui stesso. E allora meglio il fare, invece di perdere tempo a parlare. «Tanto più che nel calcio – racconta – nessuno si aspetta di sentire quello che pensi; finisci per dire solo cose banali, dopo un po' di volte mi sono stancato e non parlavo più». Quando ha baciato Enzo Bearzot sulla guancia (alla fine della finale vinta con la Germania che ci consegnava la Coppa del Mondo) ha spiazzato tutti. Nessuno ha mai capito come era fatto veramente quel friulano dai gesti parchi, dal tono sommesso, che sembrava facesse fatica a esprimersi. «Bearzot era un maestro vero. Il migliore allenatore e un uomo eccezionale». Il gran rifiuto della Nazionale dopo la sparata di Berlusconi – era il 2000, quando perdemmo gli Europei con la Francia, ai supplementari – che etichettò Zoff come “indegno”, lo ricordano tutti. «Andava fatto – dice semplicemente – . In questo Paese le dimissioni sono un gesto rivoluzionario ma io lo rifarei perché credo che ci sia un'etica da rispettare e l'etica si paga. Nessuno mi ha più cercato nel mondo del calcio, improvvisamente ero un disertore». Al valore etico dello sport Zoff crede ancora. Soprattutto nell'ottica dei giovani. Ma avverte: «Attenzione però ai genitori. Sono le aspettative esagerate degli adulti che fanno dire ai ragazzi: “Io diventerò un calciatore”. Ma se poi non sarà così, avranno sprecato la vita. Perché se si investono lì tutte le energie, non si studia e non si guarda fuori dal piccolo mondo del calcio, se non ce la fai rischi di aver perso anni fondamentali. Ma se resta solo sport, allora niente insegna di più nella vita. E' più importante imparare a vincere che a perdere. A perdere ci si allena, ma vincere è pericoloso. Ti innalzano e ti fanno credere che tutto durerà per sempre, invece la gloria dura solo un attimo». Dino Zoff nasce a Mariano del Friuli nel febbraio 1942. E' tutt'oggi considerato il più grande portiere italiano e il terzo miglior portiere al mondo del ventesimo secolo, dopo Gordon Banks e Lev Yashin (primo). Zoff ha debuttato in Serie A con l'Udinese, poi al Mantova, Napoli e infine è approdato alla Juventus dove ha giocato per undici anni fino al 1983. Campione europeo nel 1968 e campione mondiale nel 1982 con la nazionale che ha poi allenato dal 1998 al 2000. Zoff detiene il record mondiale d'imbattibilità per squadre nazionali non avendo subito reti per 1.142 minuti consecutivi. ottobre 2014 scarp de’ tenis

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In cammino, per tornare più forti Da Siena a Roma a piedi sulla via Francigena. La sfida di Andrea per i suoi 50 anni

Il viaggio di Andrea prevede 12 tappe per un totale di circa 275 km. «Si dice che il cervello viaggi a 5 chilometri orari, la stessa velocità del pellegrino. È per questo che durante il cammino, piano piano, si entra in una dimensione ipnotica: ci si stacca dalle incombenze quotidiane e si riesce ad abbandonarsi al pensiero e alla propria interiorità»

di Emma Neri Nel X secolo il vescovo Sigerico illustrò il percorso di un pellegrinaggio che fece da Roma a Canterbury, in seguito indicato come: via Francigena. Tutt'altro che dimenticata, la Francigena è ancora largamente “calpestata” dai moderni viandanti che, forti di tracce gps e abbigliamento tecnico, dormono nei conventi e negli ostelli facendo esperienza dell'essenziale, di cui l'uomo contemporaneo trasferirmi a Milano e proprio in queste sembra aver perso le tracce ma che resettimane compio 50 anni: l'età giusta sta la meta primaria, a volte inconsapeper regalarmi questo cammino. vole, del pellegrino. L'essenziale può rivelarsi nell'incontro con la natura, con i Quindi Milano-Roma a piedi? tuoi simili, con il te stesso che giaceva Questo era il programma originario. Ma tramortito prima del cammino. Tanti ho dovuto ridimensionarlo un po'. sono i “raccolti” disseminati sulla Via a Franco era in pensione, io no. Partirò da cui il pellegrino può attingere. Il bottino Siena: 12 tappe e circa 275 km per arridel ritorno a casa è parco, e si mostra vare a Roma lungo l’ultima parte della con parsimonia, come tutto ciò che ha via Francigena. valore. Andrea Mattei compie 50 anni (il 30 ottobre) e si regala il cammino di un Ci sono aspetti del cammino che ti pezzetto della Francigena. Nel 2013 il sispaventano? to www.viefrancigene.org ha stimato Le prime cose che vengono in mente che sono stati almeno 10 mila i fruitori sono alcuni aspetti “pratici”: la paura di della Via. Circa l’80% sono italiani ma è perdere la strada, quella di incontrare in aumento il numero dei pellegrini cani randagi. E poi i dubbi: ce la farò ad stranieri. Dei viandanti il 60% ha conarrivare fino in fondo? Sopporterò la facluso il viaggio a Roma. Sono tanti invetica, i piccoli o grandi dolori fisici, la ce quelli che percorrono solo brevi tratnoia? Per tutto questo ci si prepara: ho ti della Via. Come Andrea. comprato buone mappe, ho scaricato sul mio smartphone le tracce gps del percorso per farmi aiutare dai satelliti Perché hai scelto di fare il cammino? nei momenti di incertezza, su ebay ho Tutto merito di Franco. Un veneto emicomprato un dazer, un piccolo appagrato in Francia negli anni Settanta che, raggiunta la pensione, ha deciso di torrecchio elettronico che dovrebbe tenenare a casa. A piedi. Il viaggio gli è piare alla larga i cani. E poi un po’ di prepaciuto e non si è più fermato: è diventarazione fisica non guasta. Ma so che il to guida escursionistica e oggi organizvero problema sarà il ritorno. za tour per chi ama camminare. Ho ascoltato la sua storia alla radio e ho In che senso? pensato che anche a me sarebbe piaSe tutto va bene, il viaggio durerà 12 ciuto tornare a casa a piedi. E il 2014 è giorni, camminerò per circa 70 ore, farò l'anno giusto per farlo. più di 300 mila passi. Poi, una volta arrivato alla meta, in appena tre ore tornerò a casa, al caos della città e alla frePerché? nesia del lavoro. Ci vorrebbe un periodo Sono 20 anni che ho lasciato Roma per ottobre 2014 scarp de’ tenis

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testimoni I cammini di Nacci: «Al passo dell’ultimo»

Alla scoperta di se stessi Una bella immagine di Andrea Mattei in partenza per percorrere la via Francigena da Siena a Roma. Sotto la copertina di “Alzati e cammina” di Luigi Nacci

di decantazione. Credo che la parte più difficile di un cammino sia proprio il ritorno alla vita di tutti i giorni. Il cammino ha conservato un rilievo di spiritualità? Oggi purtroppo definire una differenza tra cosa sia laico e cosa spirituale non è più così semplice. Il cammino sta diventando anche una moda, ma è anche pieno di simboli spirituali: la “povertà” del pellegrino, l’ospitalità, gli incontri con i compagni di viaggio. E poi i meccanismi interiori che il camminare mette in moto. A cosa ti riferisci? Si dice che il cervello viaggi a 5 chilometri orari, la stessa velocità del pellegrino. È per questo che durante il cammino, piano piano, si entra in una dimensione

quasi ipnotica, o mistica per chi vuole vederla così: ci si stacca dalle incombenze quotidiane e si riesce finalmente ad abbandonarsi al pensiero e alla propria interiorità. Farai memoria del cammino? Per organizzare un viaggio del genere si devono programmare tanti aspetti pratici, non vorrei programmare anche l’aspetto spirituale o più intimo di questo viaggio. Vorrei scoprire giorno per giorno cosa sarà in grado di regalarmi. I tedeschi usano un termine per indicare il cammino, wandern, che significa andare senza un preciso scopo, nessun programma, niente missione e niente regole. Il wanderer, il viandante nel romanticismo tedesco, l'uomo in cammino con bastone e mantello, è un avventuriero dello spirito, un essere che va alla ricerca di se stesso, o meglio di qualcosa di indefinibile, che lui sa esistere nel suo animo ma che sfugge alla sua razionalità.

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Luigi Nacci, 36 anni, triestino, fa l'insegnante, il giornalista freelance, l'operatore culturale. Ma soprattutto è un punto di riferimento per i pellegrini. I suoi testi sono per i viandanti come l'Hagakure per i samurai. Dottrina pura. A PordenoneLegge, Nacci ha intrattenuto il pubblico, friulano e non: in tanti sono rimasti fuori per mancanza di posti in sala. «Tutto è cominciato nel 2006 con il primo cammino a Santiago – racconta Nacci –. Non mi sono più fermato. Mi ha dato la chiave per ripensare alla mia vita, le ragioni del vivere, i rapporti con le persone, il lavoro, la vita che facciamo. Partita la riflessione non potevo più restare lo stesso, in questo senso il cammino mi ha cambiato. Incontro tantissima gente che come me ha cominciato a vivere diversamente dopo essere stato viandante. Io credo che stia diventando, più che una moda, un gesto di rivoluzione sociale, appunto perché possiede la forza della trasformazione». Forse perchè in cammino siamo tutti pellegrini, e come tali lontani da casa, clandestini in terra straniera. «L'idea antica dell'accoglienza di colui che è in viaggio in terra lontana, oggi più attuale che mai, la ritrovo viva con i compagni di viaggio. In cammino si prende il passo di chi è ultimo: un insegnamento che la pratica del viandante ti restituisce passo dopo passo». La Francigena? L'ha percorsa tante volte. Così come Santiago. «Sono diverse. La Francigena attraversa territori e borghi splendidi, ma è ancora indietro quanto a organizzazione e accoglienza. Ma è inutile fare paragoni, la Francigena migliorerà con l'aiuto di tutti, operatori e pellegrini. Il primo passo dovrà essere quello di considerare il viandante un pellegrino, non un turista. Ma sono certo che la magia di Santiago presto la riconosceremo anche sull'italica Francigena». Consigli pratici? «I piedi sono il tesoro più grande, bisogna averne cura. Le scarpe devono essere collaudate e alte fino alla caviglia per evitare storte. Tre magliette, meglio se di materiale tecnico o di lana merinos, uno zaino tecnico di qualità, mediamente di 40 litri. Cerotti per vesciche. E partenza. Il cammino più difficile è tornare». www.nacciluigi.wordpress.com

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milano Sono piccoli pezzi di terra straniera piazzati in mezzo alla città: le aree vicino ai consolati accolgono colori e sapori di altri Paesi

Angoli di mondo nelle vie di Milano di Generoso Simeone Capita a Milano che in qualche angolo di strada, ogni giorno, ci sia un assembramento di persone. Oppure un via vai continuo di gente. O, ancora, si notano curiosi venditori ambulanti. In comune, questi angoli di strada, hanno il fatto che sono frequentati da uomini, donne o intere famiglie di origine straniera. In qualche angolo di strada, a Milano, sembra di essere in un altro paese. Non quartieri ma soltanto angoli di strada. Se vi dovesse capitare di trovarvi in uno di questi luoghi piuttosto caratteristici, molto probabilmente vi siete imbattuti in un consolato. Se ne possono trovare sparsi qua e là in tutta la città, veri e propri punti di riferimento per le comunità straniere, dove tutto intorno si è generato un indotto di negozi, centri multiservizi, banche e anche di baracchini di street food, che forse aiutano a sentirsi meno lontani da casa. In una senegalese che ce lo racconta. piccola traversa di viale Legioni RomaPoco distante, un piccolo negozio ne, proprio all’altezza della stazione deldove sono esposti un po’ di prodotti di la metropolitana di Primaticcio, c’è il artigianato africano. Ma dove, sopratconsolato senegalese. È uno tra quelli tutto, vi è un andirivieni di gente con foche passano meno inosservati. Davangli in mano mentre altri, anche qui, soti a una piccola porta su una vetrina stano pazientemente in attesa. Dal retro si zionano decine e decine di persone, che sente la fotocopiatrice continuamente presto diventano qualche centinaio. in funzione. Proviamo a fare qualche Ogni giorno. Perché c’è un solo sporteldomanda a colui che sembra coordinalo per tutto il nord Italia. Anzi, qualcure il tutto, ma la sua risposta «È il mio no dice che molti preferiscono venire a primo giorno di lavoro, il titolare è in vaMilano piuttosto che rivolgersi all’amcanza», non ammette repliche. basciata senegalese di Roma. Vengono al mattino presto, anzi prestissimo, per essere i primi a entrare. Quando si va I sapori delle filippine dentro a iniziare la pratica, poi bisogna La comunità filippina, con 40.759 resiaspettare fuori per concluderla perché denti a Milano al 31 dicembre 2013, è la all’interno non c’è spazio abbastanza più numerosa in città. Il consolato è in per tutti. E così, tra chi aspetta il proprio via Stromboli, tra via Foppa e via Waturno e chi aspetta di ritirare i docushington. Qui non c’è un assembramenti richiesti, sono tutti fuori in stramento, ma un bel po’ di persone, in atda ad attendere. Qualche problema con tesa sul marciapiede o nel parchetto poil vicinato c’è stato perché «noi senegaco distante. Diversi portano divise da lalesi non parliamo a voce bassa», ci dicovoro, hanno approfittato di una pausa no. per sbrigare qualche pratica. Verso mezzogiorno, a volte, spunta Domingo Borja è il presidente delqualche venditore ambulante di riso già l’associazione Sodalis, che si occupa cucinato. Altre volte ecco sbucare qualdell’integrazione di cittadini filippini sul cun altro che commercia fili di cotone territorio. «Molti di noi – spiega – sono bianco che servono a guarire il mal di diventati italiani, quindi non abbiamo schiena. «Rimedi di medicina tradiziopiù tanto bisogno del consolato. Resta nale? No, un’africanata» – per l’amico invece un punto di riferimento cui ci ri-

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volgiamo per chiedere collaborazione nell’organizzazione di eventi o per metterci in contatto con altre associazioni». Nelle strade circostanti solo negozi etnici. Ma la presenza più colorita è senza dubbio quella di un baracchino totalmente rosa, che offre solo cibo filippino e che attira anche la curiosità di qualche passante. A gestirlo alcune donne simpatiche e rumorose, tutto intorno tanta socialità.


scarpmilano La Milano che non ti aspetti A fianco il furgone che prepara street food filippino nei pressi del consolato del paese asiatico. Sotto la lunga e colorata fila che staziona fuori dal consolato del Senegal

La “serietà” egiziana Un’altra storica comunità straniera di Milano, con poco più di 37 mila cittadini, è quella egiziana. Qui lo scenario apparentemente è simile a quello filippino, ma in realtà è profondamente diverso. Perché anche qui è presente un simpatico, e stranissimo, baracchino a forma di arancia (ndr: è visibile anche su google street view). Sul piano, soprattutto bibite e cartelli con scritte in arabo.

L’atmosfera, però, è meno rilassata e scanzonata. Davanti al cancello staziona una jeep dell’Esercito italiano con la scritta “Operazione strade sicure” sulla fiancata. Di pattuglia due militari, di cui uno è una donna, che sorvegliano l’area. Siamo in via Timavo, strana strada stretta e alberata, a senso unico e un po’ nascosta e difficile da trovare, tra le fermate della metropolitana Sondrio e Zara. Anche qui il via vai è continuo, ma è silenzioso e quasi nervoso. Le donne sono tutte velate, hanno il passo veloce ed entrano nel cancello tenendo per mano bambini composti. L’edificio è una moderna palazzina in vetro di media altezza. Le finestre sono tutte oscurate. È una via residenziale, non ci sono negozi.

La rilassatezza marocchina Invece è piena di esercizi commerciali, tutti di matrice marocchina, via Martignoni, dalle parti di piazza Carbonari, dove c’è il consolato del Regno del Marocco. Qui ci sono anche un paio di banche del paese nordafricano. L’atmosfera è ordinata e tranquilla. «A parte i periodi delle sanatorie – ci racconta un marocchino da tanti anni in Italia, – code non se ne sono mai viste. Molti vengono nei giorni festivi perché non sono lavorativi e il consolato rimane aperto per permettere il disbrigo delle pratiche.

E poi noi siamo l’unico paese africano che gode di un rapporto privilegiato con l’Unione Europea, grazie al cosiddetto statuto avanzato, e quindi abbiamo bisogno di meno documenti. La patente marocchina, ad esempio, è simile a quella europea». Dove ti aspetteresti un po’ di colore e confusione, invece, non le trovi. Il consolato dell’Ecuador passa del tutto inosservato in un palazzone sotto i portici di via Vittor Pisani. La frenesia dell’attività degli uffici intorno alla stazione Centrale ha contagiato anche l’andirivieni, soprattutto di donne, che entrano ed escono dal portone senza dare nell’occhio. Stesso scenario a consolato peruviano (quarta comunità di Milano con 21.171 residenti) immerso in una serie di moderni palazzi alle spalle di piazzale Maciachini. Poche persone e solo una bandiera che spunta da una finestra a segnalare la presenza del consolato. Dove invece si ricordano grandi code e molta gente in attesa è in piazzale Lotto, davanti al consolato di Romania. Prima dell’ingresso del paese nell’Unione Europea (1 gennaio 2007), grandi assembramenti e confusione. Poi la situazione è andata migliorando anche grazie a un nuovo sistema di prenotazioni a numero chiuso. Di quegli anni rimane una grande sala d’aspetto, all’epoca mai capiente abbastanza e oggi deserta.

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ph. uezzo.com reclam.com

Siate egoisti, fate del bene!

Fare del bene è il miglior modo per sentirsi bene. Dare una mano a Opera San Francesco significa dedicare una parte di sè e delle proprie risorse a chi ha bisogno di aiuto e può ricambiarci solo con un sorriso o uno sguardo di gratitudine: significa dare speranza e fiducia e, per questo, sentirsi meglio. Viale Piave, 2 - 20129 Milano ccp n. 456202 Tel. 02.77.122.400

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Fondazione Don Gnocchi e Csi insieme per “Sport e disabilità”: al centro “Peppino Vismara” un’opportunità per relazionarsi

Sport per tutti, per crescere insieme di Riccardo Benvegnù In una meravigliosa e inaspettata oasi di verde alla periferia sud di Milano, sorge il centro “Peppino Vismara”, oggi gestito dalla Fondazione Don Carlo Gnocchi. Una struttura all’avanguardia di proprietà dell’opera diocesana, attualmente utilizzata per attività di tipo sportivo (tanto bella da ospitare il settore giovanile del Milan) e per attività di tipo sociosanitario, educativo ed assistenziale, con un centro diurno per disabili, una comunità socio sanitaria e specifiche strutture per la riabilitazione ambulatoriale. Il centro diurno per disabili è una struttura non residenziale, di appoggio alla famiglia, che accoglie giornalmente persone con gravi limitazioni dell’autonomia nelle funzioni elementari. Sabato 20 settembre si è celebrato l’open day dedicato a “Sport e disabilità”: circa una cinquantina di ragazzi disabili, accompagnati da parenti e amici, hanno avuto l’occasione di provare nelle palestre del centro e nell’area verde circostante, diverse discipline. L’obbiettivo è quello di far scaturire la “scintilla” per un futuro avviamento allo sport. Tennistavolo, calciobalilla, canottaggio, calcio, pallacanestro e scherma sono le attività praticabili. A fianco dei ragazzi istruttori qualificati del Cip, Comitato italiano paralimpico, che hanno incoraggiato la partecipazione con grande energia ed entusiasmo trascinante. Se ormai tutti, grazie anche alla diffusione mediatica di immagini dalle Paraolimpiadi, siamo abituati all’idea di un atleta di basket in carrozzella o siam pronti ad esultare per le imprese l’attività sportiva, quasi un azzardo di superman Zanardi, ancora tanta pensarne un’evoluzione agonistica. strada c’è da percorrere sul fronte delEppure lo sport, riconosciuto unilo sport praticato da disabili intellettiversalmente come elemento essenziavi relazionali, quello che la Fisdir, Fele nello sviluppo dell’individuo, rapderazione del comitato paralimpico, è presenta un fattore ancor più imporimpegnata a promuovere anche nelle tante nell’ottica del recupero della perstrutture e con la collaborazione del Visona con disabilità intellettive o smara. relazionali, nonché requisito fondaCerto è più facile individuare un limentale per creare un giusto equilibrio mite fisico, codificarlo e dargli regole e tra mente e corpo. È occasione unica strumenti atti alla pratica agonistica. di socializzazione e condivisione. Ma quando la disabilità è mentale è Offrire a tutti i ragazzi la possibilità più complesso anche solo immaginare di partecipare a corsi con cadenza set-

timanale, al pari di tanti coetanei, significa anche permettere alle famiglie di ritagliarsi dei benèfici momenti di “stacco” e giusto riposo da una quotidianità fatta di assoluta dedizione, enormi sacrifici ed impegno totalizzante. Nella stessa giornata è stato presentato anche “SpecialMente Allenatore” , corso pensato dal Csi – Centro

sportivo italiano – in collaborazione con Fondazione Don Gnocchi, rivolto ad allenatori, educatori professionali ed insegnanti che ha l’obiettivo di sensibilizzare al tema dell’educazione sportiva, illustrando soprattutto gli aspetti positivi delle varie discipline per le persone con disabilità. Info Centro Vismara, via dei Missaglia 117 Milano, telefono 02893891 infovismara@dongnocchi.it Csi Milano: tel 0258391401 milano@csi.milano.it

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Si chiama Rembrandt 12 la prima biblioteca condominiale nata a Milano nel 2013. Partita per scherzo ora è aperta al quartiere

Cinquemila libri in portineria di Alberto Rizzardi Che sostantivo accostereste all’aggettivo condominiale? Probabilmente, la mente sarà andata subito a termini come regolamento o riunione, nomi che generano binomi capaci di evocare limitazioni, seccature o controversie. E se, invece, l’aggettivo condominiale si unisse a parole come cultura e condivisione? Strano a dirsi, ma a volte è possibile. In un periodo di lievità e bulimia nei rapporti umani, in cui grazie alle nuove tecnologie si è in contatto ogni giorno con decine di persone in giro per il mondo, salvo poi magari non rivolgere la parola o neppure conoscere il nome del vicino, emerge sempre più in Italia una spinta, uguale e contraria, verso un ritorno ai rapporti veri, alla quotidianità condivisa, al recupero della socialità fisica perduta. Gli esempi sono tanti: la diffusione, rapida e costante delle social street in Italia, da nord a sud, ne è un bell’emo a Roberto Chiappella, inquilino da sempio. Ma c’è dell’altro. quarant’anni dello stabile di via RemA Milano, da ormai un anno e mezzo, brandt, che, trovando alcuni libri nuoha fatto la sua comparsa la prima bivi gettati da chissà chi accanto a un blioteca condominiale della città. Siacassonetto poco distante da casa sua, mo in via Rembrandt, lungo stradone ha deciso di ospitarli nell’ex guardiola in zona Gambara: qui, al civico 12, in al pianterreno del palazzo e di provare quella che fino a qualche anno fa era la a creare una biblioteca dedicata ai reportineria di un palazzo come tanti, è sidenti. nata nel febbraio 2013 la biblioteca condominiale Rembrandt 12. L’aiuto di tutto il quartiere A New York, dove esistono già da «Chiesi ai condomini di portare qualtempo, le biblioteche condominiali che libro che avessero in casa, magari aiutano a vendere gli appartamenti e inutilizzato o doppio, per poterceli sono gli stessi immobiliaristi a sostescambiare – ricorda Roberto – ma non nerle molto: perché, un po’ come acne arrivarono più di un cento-centocedeva per le piscine negli anni Ottancinquanta». Troppo pochi, quindi, per ta o per le palestre negli anni Novanta, una biblioteca. un palazzo con una biblioteca per gli E, così, ecco l’idea di aprire anche inquilini si vende molto più facilmenal mondo esterno quello spazio a tutti te. Potenza, si dirà, della mancanza orgli effetti privato, chiedendo a chiunmai cronica di spazi nella Grande Meque di partecipare, donando libri che la, ma anche di una certa cultura per il magari giacevano impolverati sulla lilibro e le biblioteche nient’affatto scalbreria di casa. E in tanti hanno rispofita dalla prorompente diffusione degli sto: prima dalla via, poi dal quartiere, ebook e della tecnologia. da Milano e qualcuno anche da fuori. In Italia, per ora, sono solo piccole e «In questo particolare momento semplici intuizioni che si trasformano storico in cui le persone sono sole e in grandi e geniali strumenti per riscohanno tanti problemi cui pensare biprire il piacere di stare insieme, rensogna tornare a socializzare e a stare dendo la vita condominiale più piaceinsieme – analizza Roberto – perché, vole. L’idea, a Milano, è venuta per priinsieme, i problemi si risolvono me-

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glio. Io ho solo cercato di innescare una scintilla, di ricreare un paese al pianterreno di un condominio, invitando gli inquilini a scendere dai piani alti per ritrovarsi in un luogo condiviso. Sappiamo come funzionano le dinamiche condominiali: c’è gente, qui come altrove, che neppure si conosce, che non si saluta in ascensore. Ci sono addirittura persone che muoiono sole in casa e nessuno lo sa. E questa è una cosa drammatica». Nei mesi l’idea della biblioteca inizia a prendere forma. I libri aumentano sempre più e oggi sono più di cinquemila: dai gialli alle commedie, dai grandi classici alle letture disimpegnate. Ce n’è per tutti i gusti, insomma. Per entrare occorre digitare sul campanel-


scarpmilano lo esterno il numero 80; che, poeticamente, ancora riporta accanto la dicitura “custode”. Dal fondo dell’androne viene incontro lo stesso Roberto («in questo modo – specifica – svolgiamo anche un servizio minimo di presidio e di portierato»), che vi accompagna in questo piccolo, grande gioiello per gli amanti della lettura e delle cose genuine di una volta.

Un luogo di socialità Sì, perché se siete amanti del design e tendete a vivere in una bolla comunicazionale, avete sbagliato posto: qui non si entra per leggere e stare in silenzio, ma per prendere un libro, magari introvabile altrove, e parlare. Questa una delle più straordinarie normalità della biblioteca: si può parlare. Anzi, è obbligatorio parlare. Perché Roberto, con un approccio quasi maieutico, coinvolge i frequentatori in conversazioni sul libro appena concluso, sul volume scelto, su varie ed eventuali: «Qui – dice – ci sono cinquemila libri con cinquemila diverse storie. Ma ogni persona che entra porta la sua storia. Quindi i libri sono molto di più». E nella piccola stanza dove, fino a pochi mesi fa, erano il buio e qualche vecchia scopa a farla da padrona, ora i libri riempiono ogni angolo, arrivando fino al soffitto. Per questo, alcuni volumi vengono donati alla biblioteca del

Biblioteca sociale L’interno della prima boblioteca condominiale italiana nata in via Rembrandt 12 a Milano

Il fenomeno

Da Bologna a Civitanova Marche piccole biblioteche crescono... La biblioteca Rembrandt 12 non è l’unica nel panorama italiano. Sempre nel 2013, a Roma, in via Giovanni da Castel Bolognese 30, quartiere Trastevere, è stata creata la biblioteca condominiale “Al Cortile”. A fondarla, nella sala riunioni del piano ammezzato dello stabile, è stata Loredana Grassi, che lì abita da anni. Obiettivo: creare uno spazio comune che diventasse un punto d’incontro del palazzo per parlare di libri, letteratura, arte e cinema, ma che potesse ospitare anche incontri, concerti e momenti di festa. Detto, fatto. E così, con un volantino affisso in primavera accanto alla portineria, è partita l’avventura della biblioteca “Al Cortile”, che, grazie alla partecipazione di tanti residenti, ha preso forma con decine di libri donati, oltre a scaffali in disuso e pezzi di librerie dismesse. Nel giugno dello scorso anno l’inaugurazione ufficiale. Dopo pochi mesi arriva la delibera condominiale, votata all’unanimità, che fa entrare la biblioteca tra i beni comuni del condominio. Da allora la biblioteca si è aperta pian piano a tutto il quartiere. Il regolamento è molto simile a quello delle biblioteche pubbliche: la consultazione in loco è possibile il mercoledì pomeriggio e il sabato mattina; i libri si possono portare via per un mese. Spesso il sabato pomeriggio si tengono conferenze e incontri. Non mancano iniziative sempre nuove, come l’installazione di una free library nel cortile dello stabile: una piccola e colorata cassetta di legno dove, sullo stile crossbooking, è possibile prendere un libro e lasciarne un altro. Ma questo – tengono a precisare i curatori – non è un semplice posto di prestito libri: è un punto d’incontro e socializzazione dove l’individualismo non è gradito. La speranza di Roberto e di Loredana è che queste idee, questi spunti di socialità e condivisione non rimangano soli ma vengano replicati, magari in altre forme. E in effetti, dopo Milano e Roma, altri esempi di biblioteche condominiali in divenire stanno comparendo in giro per l’Italia: a settembre è partita un’iniziativa analoga a Civitanova Marche, in un grande stabile in zona San Marone. Perché, anche in un condominio, è possibile chiudere la giornata con un romantico “e vissero tutti felici e contenti…”.

carcere di Opera e presto si proverà a fare lo stesso con San Vittore. Perché, in fondo, lo spirito è questo: condividere e stare meglio. I frequentatori della biblioteca sono andati aumentando nel corso del tempo: condomini, certo, ma anche tante persone da fuori. «Gli anziani – racconta Roberto – sono tanti, perché amano la lettura e hanno più tempo a disposizione. Le persone, però, più assidue e che sembrano essere più interessate alla nostra iniziativa sono quelle della fascia 25-45 anni». Un solo cruccio: pochi i ragazzi, giovani e giovanissimi, finora transitati da via Rembrandt. Ma c’è tempo per rimediare. In questo può avere un ruolo importante una delle poche concessioni date alla modernità, ovvero la pa-

gina Facebook della biblioteca, che conta oggi quasi 2.300 iscritti: una bacheca virtuale, arricchita quotidianamente con i principali appuntamenti, corroborati da citazioni, aforismi e segnalazioni di spunti utili per la lettura. Un consiglio: c’è un archivio digitale e uno manuale (per sicurezza) di tutti i volumi ospitati. Basta chiedere a Roberto o a uno degli inquilini che, con lui, gestiscono a turno la biblioteca e in pochi minuti è fatta. Ma, se siete in cerca di un titolo e volete (ri)assaporare il gusto antico della caccia al libro, immergetevi nell’atmosfera familiare della biblioteca e scandagliate voi stessi i vari scaffali. Tra una ricerca, quattro chiacchiere e uno scambio di vedute, troverete che il tempo speso sia stato solo guadagnato.

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solidarietà Una mensa solidale in cui l’estetica incontra il buono

Refettorio Ambrosiano, la bellezza alla portata di tutti di Ettore Sutti

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ON SOLO UNA MENSA SOLIDALE ma anche un luogo dove la bellezza sarà messa a disposizione della città. Questa la grande sfida che si appresta a lanciare il Refettorio Ambrosiano, che avrà sede nell’ex teatro annesso alla parrocchia San Martino nel quartiere Greco di Milano, in vista di Expo. Il progetto nasce dalle intuizioni del regista Davide Rampello e dello chef Massimo Bottura, che da subito hanno coinvolto la Diocesi di Milano e Caritas Ambrosiana per tradurre in concreto questa originale idea di solidarietà alla quale si sono unite le eccellenze dell’arte, della cultura e della cucina. Refettorio Ambrosiano aprirà tra maggio e luglio 2015. Per un mese, durante i primi tre di Expo, 40 tra i migliori chef del mondo ideeranno e prepareranno menù a partire dalle eccedenze alimentari raccolte ogni giorno in Expo. Ciò che sarebbe destinato ad essere gettato via, sarà trasformato in piatti di alta cucina, grazie al talento e alla creatività. Al termine dell’esposizione il Refettorio Ambrosiano, gestito da Caritas Ambrosiana, continuerà a funzionare come luogo di solidarietà, di cultura e spazio d’arte. Un luogo che mette al centro il valore del cibo e la lotta agli sprechi alimentari. «Gli artisti coinvolti nel progetto del Refettorio Ambrosiano hanno messo a disposizione gratuitamente le loro capacità. ll Refettorio Ambrosiano ha già realizzato quindi un primo obiettivo: quello di generare una dinamica di generosità per la città, nient’affatto scontata in questo momento di crisi – spiega monsignor Luca Bressan, vicario episcopale per la Cultura, la Carità, la Missione e l’Azione sociale». Un portale alto più di cinque metri firmato da Mimmo Paladino all’ingresso. Su un lato l’insegna al neon con la scritta “No more excuses” di Maurizio Nannucci. E poi all’interno un grande affresco, 12 metri per 3, di Alessandro Cucchi e un’opera sul tema del pane di Carlo Benvenuto. Uno spazio dedicato all’accoglienza arredato da luci d’autore, 12 grandi tavoli e decine di seduto realizzati dai più grandi designer italiani. «Quando offri il pane, non è importante solo quello che offri, ma anche come lo offri – spiega l’ ideatore del progetto, Davide Rampello –. Vogliamo che in questo luogo le persone si sentano accolte e benvenute. Per questo abbiamo voluto che la mensa fosse un luogo bello. Tutta la squadra – allestitori, artisti, designer, architetti e ingegneri – ha lavorato per fare di questo spazio il secondo più bel refettorio di Milano dopo quello di Santa Maria delle Grazie affrescato da Leonardo». Finito Expo il Refettorio Ambrosiano, gestito da Caritas Ambrosiana, continuerà a funzionare come luogo di solidarietà, cultura e spazio d’arte. Un luogo che mette al centro il valore del cibo e la lotta agli sprechi alimentari.

«L’idea è creare il secondo più bel refettorio di Milano dopo quello di Santa Maria delle Grazie affrescato da Leonardo»

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Tetraedro


latitudine como Dal 2004 è in carrozzina per un incidente. Da allora non si è più fermato

Manuel, sempre in prima fila: «Aiuto perchè mi sento aiutato» di Salvatore Couchoud

M

ANUEL HA 38 ANNI, UN DIPLOMA IN CHIMICA INDUSTRIALE e una voglia di vivere mo-

numentale, in contrasto del tutto apparente con l’immagine che gli altri ne traggono e con l’attitudine meditativa di un temperamento che lo induce a detestare le luci dei riflettori e che a volte sembra renderlo schivo e persino taciturno, laddove ne avrebbe di cose sensate da dire. Manuel è da anni attivo nel sociale, in quello che comunemente è noto come terzo settore, e tra Como e provincia non c’è in pratica servizio solidale o attività di volontariato che non lo abbia visto in prima linea nel prestare soccorso agli emarginati e ai bisognosi, anche se è prevalentemente nel campo della cura ai disabili che ha fatto valere la sua regola aurea del “poco fumo con tanto arrosto”. Forse per ragioni di affinità, dal momento che un incidente in moto in via Napoleona, nel marzo 2004, lo privò dell’uso delle gambe, condannandolo a una dimensione esistenziale che per uno sportivo come lui, all’epoca poco meno che ventottenne, rappresentava nulla più né meno della concretizzazione dell’inferno in terra. «Già prima dell’incidente – racconta – avevo avuto qualche esperienza di volontariato nel mondo dello scoutismo anche se, forse, quello che mi attirava di più era la vita all’aria aperta e non certo il confronto con le realtà del disagio, e della vita dell’oratorio. Il mio atteggiamento di allora, anche quando prestavo collaborazione o facevo “del bene”, era quello tipico del “sono superiore a voi, quindi vi do qualcosa”. Se dovessi cercare un aspetto “positivo” in quanto mi è poi avvenuto, direi appunto che è stato l’incidente a farmi capire la relatività, e non solo la fragilità, dei nostri punti di vista, e che nessuno vale più di chiunque altro solo perché è più giovane, ha più soldi o è fisicamente più attraente. Con le persone che da quel giorno ho iniziato a frequentare, chiunque siano e in qualunque condizione si trovino, ho dunque un rapporto di forte empatia, ma per nulla artefatto o retorico: sono uno di loro e lo sanno benissimo, se posso li aiuto ma mi faccio anche aiutare, e tutto quello che facciamo è semplicemente vivere insieme, procedere nella stessa direzione, condividere un percorso che nessuno ci ha imposto né abbiamo scelto, ma che inevitabilmente conduce a una meta comune». Da quel giorno la carrozzina di Manuel è sempre la prima a sbucare nelle sedi e nei momenti più impensati, sospinta a turno da Floriana, Giovanni, Rachele, Aldo e tutti gli altri componenti dell’esercito di amici che Manuel si è conquistato da dieci anni a questa parte. La si può notare all’”Isola che c’è”, alle fiere di paese, ai convegni sulla disabilità e in mille altre occasioni. A muoverla è la voglia di vivere.

«L’incidente mi ha fatto capire la relatività e la fragilità dei nostri punti di vista. Nessuno vale di più solo perchè è più giovane, è più bello o ha più soldi»

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Tetraedro


torino

Una musica può fare... Grazie a MITO la grande musica è entrata anche nei dormitori

di Vito Sciacca

Poesia L’inchiostro è la sua linfa clorofilla la carta. Stupenda fotosintesi il fluire dei versi quell’aprirsi fantastico di varchi tra giungle di memorie variabili di immagini virtuali ed autentiche… Quel premuroso sprimacciare il letto alla sola compagna. Aida Odoardi

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Può capitare, se l’esecuzione di un concerto è particolarmente noiosa, che uno o più spettatori siano colti da crisi di sonno e che l’auditorium si trasformi in un dormitorio. Meno di frequente accade il contrario, ovvero che sia il dormitorio, per una sera, a trasformarsi in una sala da concerto. Tuttavia questo è esattamente quanto è accaduto la sera di venerdì 5 settembre a Torino nella casa di ospitalità notturna di via Ghedini 6, ed accadrà ancora in analoghe strutture cittadine, nell’ambito dell’iniziativa “MITO per la Città”. Come spiega Sergio Bonino, responsabile dei progetti speciali di MITO settembremusica che da anni si occupa dell’organizzazione della rassegna “MITO per la Città” giunta alla sua sesta edizione, l’iniziativa è finalizzata ad offrire degli interventi musicali a chi normalmente non si reca ai concerti: aree assistenziali legate alla sanità, al disagio sociale, al ampliata coinvolgendo case di ospitacarcere. lità notturna e case di riposo». «Si tratta di interventi brevi – spiega Va detto che questi interventi non Bonino –, eseguiti da ragazzi del consono finalizzati unicamente agli utenti servatorio. Inizialmente si era pensato delle strutture interessate, ma sono ad interventi in strutture territoriali aperti anche ai residenti del quartiere e quali sedi di anagrafe e biblioteche, poi comunque a tutti i cittadini che desida tre anni, d’intesa con l’ufficio adulti derino assistervi proprio per cercare di in difficoltà del Comune, l’iniziativa si è “aprire” le strutture a tutta la città. Musica per tutti Due momenti del concerto tenuto da alcuni studenti del conservatorio nella struttura di accoglienza di via Ghedini


scarptorino Anche i rimandi di coloro che di queste performance sono gli autori, ovvero i musicisti, sono entusiastici. «È stato emozionante suonare per queste persone – ci racconta Giorgia, studentessa di tromba –. Penso di esssere riuscita a portare una nota positiva nella vita di queste persone, ho visto i loro volti mentre ci ascoltavano ed era una bella vista…». Anche la scelta dei brani suonati non è stata casuale: da alcuni brani di Mozart, arcinoti e quindi facilmente assimilabili anche da un pubblico non avvezzo all’ascolto della musica classica, a brani di Bartók, forse più impegnativi ma capaci di coinvolgere gli ascoltatori. «Una scelta fatta per fare scoprire qualcosa di inusuale, per incuriosire», chiosa una sua collega violinista. La sintesi della serata, però, e forse il commento più significativo, è quello espresso da Lidia, ospite della struttura, quando le chiediamo cosa abbia significato per lei assistere a questo concerto insieme ai residenti del quartiere: «Mi sono sentita una persona. Una persona come tutte le altre».

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Quel gemellaggio di note tra Torino e Milano MITO Settembre Musica nasce nel 2007, grazie al gemellaggio culturale tra le Città di Milano e Torino, sviluppando ed estendendo la precedente trentennale e prestigiosa esperienza torinese del festival Settembre Musica. Il Festival si svolge ogni anno nel mese di settembre, usufruendo di più di settanta location tra teatri, auditorium, chiese, cortili e piazze di Torino e Milano, con l’obiettivo di porsi all’avanguardia dei processi di integrazione tra sistemi culturali cittadini. Una caratteristica del Festival è la varietà di generi musicali che trovano spazio nel cartellone, dalla classica, al jazz, rock, pop e alla musica etnica, cui si aggiungono incontri, tavole rotonde e proiezioni di film e un programma educational, che oltre a spettacoli per bambini e ragazzi offre incontri guidati per avvicinarsi alla musica. Nelle consuete tre settimane di programmazione del Festival il numero di iniziative, offerte tradizionalmente a prezzi popolari o a ingresso gratuito, ha superato, negli ultimi anni, il centinaio per ciascuna città, con la costante di almeno due appuntamenti giornalieri rispettivamente a Milano e a Torino. Nel 2009 nasce anche il Festival MITOFringe/MITO per la città, che si svolge nelle strade, piazze, periferie, stazioni metropolitane e ferroviarie, ospedali, centri di accoglienza con spettacoli musicali tutti gratuiti.

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genova Un litigio con i genitori e poi la strada. Vita dura, non si scherza. Poi nei boschi dove è fuggito ha trovato un luogo in cui sta bene

La mia vita, sotto un faggio di Stefano Neri

La ninfea Era notte. Buio e silenzio. La finestra spalancata. Ed io ho visto nello stagno la ninfea bianca sbocciata. Una stella giù dal cielo le è discesa in mezzo al cuore; cupo è della notte il velo, ma scintilla il bianco fiore. La ninfea candida e bella sembra fatta di splendore, ed io penso a quella stella che ha nascosta dentro il cuore. Mary

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Il vento sibila tra le fronde di un ampio faggio; quello stesso faggio che mi fa da scudo, che mi protegge dalle intemperie. E mi regala un vago senso di casa. Ho posizionato la mia speciale tenda proprio nei pressi dell’albero. Speciale, sì, perché l’ho a mio modo modificata, rinforzata. Predisposta per affrontare anche il clima più avverso e severo. Ora l’aria è ancora tiepida, ma ben presto si farà gelida e pungente. E giustificherà tutto il mio sistema di protezione. Effettivamente, abitando sulle alture di Genova – non vi dirò dove – è necessario organizzarsi, in tutti i sensi. Devi avere a disposizione tutto quel che ti occorre. Perché se capita un’emergenza non puoi pensare di scendere a valle. Devi affrontarla lì, sul momento. Con gli strumenti a tua disposizione. Perciò nell’arco della giornata, una volta recatomi giù in città, cammino incessantemente; alla ricerca di come è successo a me, diversi anni orsose utili, di quelli che io chiamo rinforzi. no. Quando ebbi un litigio con i miei Una corda, un telo, dei ganci. Un genitori. Un momento terribile, indevecchio fornelletto gettato a lato dei bilebile nella memoria. In quella circodoni dell’immondizia, perfettamente stanza dissi parole irripetibili, non confunzionante. Il mio reddito non mi cepibili normalmente dalla mente di permette di acquistare grandi scorte. un figlio. Ma le dissi. E i miei non feceLa sola pensione di invalidità consenro in tempo a mandarmi via di casa; te di acquistare i generi più urgenti ed andai via io, prima che loro potessero essenziali, tra cui alcuni importanti liaprire bocca. Mi girai e non vidi nembri. Non bisogna mai smettere di legmeno la reazione nei loro volti. Non digere; bisogna leggere in qualsiasi situamenticherò mai quel dialogo, e sopratzione, in qualsiasi condizione. Perché tutto con quanta velocità e risolutezza la lettura ti arricchimisi in atto quel gesto. sce, ti svaga. Ti riUscii di casa, così colassa. Ed io ne ho me ero. Senza un forte bisogno, portar nulla con così preso dalle me. E non tornai cosiddette conpiù. Ora a distantingenze. Proza di anni ho blemi. Che tu in risentito la qualche modo scemia famiglia; gli, che la vita ti porta. nel corso del Non so, credo sia tutto tempo ho fatto un insieme di fattori, che aver loro qualio chiamo coincidenche mia notizia ze. per interposta persona. Ma io delle persone ho Parole pesanti perso la fiducia, Come vedete le non riesco più ad entrare in contatto parole hanno un peso, viviamo di panella maniera giusta. Non riesco più ad role. Quelle stesse parole che rincuoraintessere una relazione. no, rallegrano. E a volte feriscono. Co-


scarpgenova

La mia vita è fatta di contatti, di fugaci e sbrigative conversazioni. Perché il bisogno di comunicare comunque esiste. E non posso parlare sempre e solo con me stesso. Fermo restando questo, non vedo l’ora di tornare nel mio angolo di tranquillità, ad ascoltare il silenzio e a godere dei soli suoni che la natura produce. Ho cercato questo isolamento ed intendo difenderlo, con tutte le mie forze. Non voglio ricascare in quell’abisso, in quell’oblio di pensieri negativi; in quella situazione di totale inerzia, disinteresse. Perdita di attaccamento alla vita. C’è ancora tanto da fare, e da vedere. La vita ogni tanto mi sorride e ogni tanto ricambio sorridendo ad altri. Questo mi basta. Non voglio più far male a nessuno. Lo sa anche il mio medico, quello che da anni mi (in)segue. Si, quel genere di medico, avete inteso bene. Mi ha salvato la vita. Lui dice che senza la mia collaborazione, se io non fossi stato disponibile ad un – lo chiamano così – trattamento. Già la parola mi faceva rabbrividire: trat - ta - men -

Uscii di casa così com’ero. Senza portare nulla con me. E non tornai più.

to. Una tortura, pensavo. Ma non tenevo conto di una cosa.

Parlare è come rinascere Le medicine, da sole, non servono. Devi parlare, provare a tirare fuori quello che hai dentro. Tirare fuori un pezzo alla volta, da quel magazzino così pieno e disordinato che si chiama mente. Accumuli, accumuli. La situazione si fa sempre più complicata, aumenta la tensione; e, quando non ce la fai più a

reggere, cominci a vedere cose che non esistono. O sentire. Delle voci, così reali, che ti parlano, dandoti istruzioni e ordini. Che ti rimproverano. Ora mi capita raramente e le volte che capita so riconoscere – come lo chiamo io – lo scherzo. Ma vi assicuro che è stato un incubo. Anzi, più di un incubo: un inferno. Dal quale ti sembra di non poter risalire. E invece è successo, e mi ritrovo ora ad assaporare alcune piccole cose della vita. Non fraintendetemi: è una vita dura. Preferirei aver agito diversamente; vorrei aver fatto scelte di altro tipo, in diverse occasioni. Però penso che ora siamo qui e che in qualche modo dobbiamo “contribuire con un verso”. Non sono andato nei boschi per “vivere in saggezza e tranquillità”, io sono scappato, letteralmente fuggito. Ma ora ho trovato una dimensione, all’interno della quale riesco a stare; dove ho quel tanto di equilibrio necessario, per non arrecare danni agli altri. Sentendomi un po’ protetto. All’ombra di un ampio faggio.

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verona La storia di R, marocchino da oltre trent’anni in Italia che, dopo un’esperienza in carcere, è rinato grazie al lavoro in parrocchia

Il sacrestano che prega Allah di Elisa Rossignoli Chiesa di San Nicolò all’Arena, nel centro di Verona. Penombra silenziosa, caratteristica dei luoghi sacri antichi, e sole che filtra dalle finestre come una musica lieve. Una signora entra e si guarda intorno, si capisce che cerca qualcosa o qualcuno. «Hai visto don Roberto?» mi chiede. «No, mi dispiace, sono appena entrata anch’io» le rispondo. Lei sta per dirmi qualcos’altro, quando vedo che, guardando oltre me, il volto le si illumina di un gran sorriso, come accade quando incontriamo qualcuno di conosciuto e familiare. «Ah, aspetta, ecco R…ora chiedo a lui». In Un lavoro non proprio comune per un chiesa, oltre a noi due, c’è soltanto un musulmano... giovane dai capelli ricci e neri, che viene In otto anni di vita in Italia, non ero ma verso di noi, rispondendo alla signora entrato in una chiesa ma non avevo con il medesimo sorriso. La signora gli problemi a farlo ora. Era un mondo che va incontro, si salutano ed iniziano a non conoscevo, ma verso il quale non parlarsi con cordialità. E’ chiaro che si avevo nulla in contrario, anche nel mio conoscono bene. Il mio sguardo sosta anpaese mi era stato insegnato a rispetcora qualche istante su di loro, prima di tarlo. Certo, all'inizio non è stato semtornare sulla mia giornata. E mentre plice. Aiutato dall'operatrice della Cooesco mi accorgo che sorrido anch’io. perativa che, con pazienza e grande Quasi un anno dopo, eccoci qui, seduti umanità, ha seguito il mio inserimento, nella medesima chiesa, nella stessa atnon ho dato molto peso all'ambiente, mosfera di penombra e di sole occhiegmi sono concentrato su quello che dogiante, mentre R. , per due anni custode vevo fare, cercando di farlo al meglio. e sacrestano in questa comunità parrocPerò questo è comunque un lavoro di chiale, ci racconta la sua esperienza. contatto con le persone, e quelle sì che Un’esperienza partita da lontano, attraconta come ti vedono, come ti trattano. verso sentieri inaspettati. Non era tanto il fatto che venissi dal carcere, credo, che è una cosa che non si vede se non la sai. Ma io sono straniero, Ci racconti com’è iniziata questa e si vede. E sono musulmano. Insomesperienza? ma, mi rendevo conto che quando penHo 35 anni, vengo dal Marocco. Ero in savano al “sacrestano” non si aspettavaItalia da qualche anno quando ho visno me. Per quanto le persone fossero suto l'esperienza della detenzione. Già a gentili, i loro sguardi sorpresi e incurioquel punto la mia via in questo paese siti mi facevano sentire strano, anche se poteva essere compromessa senza posli capivo. Qualche volta è accaduto che sibilità di “tornare indietro”, di avere una chi entrava in chiesa credesse che fossi vita normale. Eppure, attraverso il “Prolì per chiedere l'elemosina, non aveva getto Esodo”, che si occupa di aiutare le capito che ero il custode, anche se avepersone detenute ed ex detenute a reinvo il cartellino che diceva chi ero. Queserirsi nella società, mi è stato proposto sto non è stato molto facile da gestire questo lavoro, sotto forma di tirocinio. Io ho detto subito di sì, avevo tanta voglia di impegnarmi e di lavorare, di torCome hai superato questi momenti? nare a vivere. Ma era un lavoro. È stato fondamentale l'aiuto dei sacer-

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doti e della comunità. Ricordo che don Roberto, quando accadevano cose come questa, mi diceva di andare oltre, di guardare il positivo di quest'esperienza. Sentivo che capiva benissimo come mi sentivo, e questo mi ha rassicurato. Da subito i sacerdoti mi hanno dato piena fiducia, valorizzando il mio servizio, e pian piano mi sono sentito apprezzare anche come persona, non soltanto come lavoratore. I primi momenti non erano facili nemmeno per la mia vita fuori dal lavoro, dovevo riabituarmi a tante cose, a volte era pesante, mi sentivo solo. Qui a S. Nicolò però mi sentivo sempre più accolto, tanto che quando è terminato il mio periodo di tirocinio mi hanno chiesto di rimanere. La comunità alla fine ti ha accolto... La comunità è diventata la mia famiglia, attraverso cose piccole e semplici, come bere il caffè insieme, condividere il pranzo per me questo è stato importantissimo. Io provengo da una famiglia di 32 persone, si mangiava sempre tutti insieme. Per questo per me mangiare insieme è bellissimo, mi fa sentire a casa. Le persone che ho vicine qui ora sono proprio la mia famiglia. Mi hanno avvicinato con la loro umanità, senza giudizio, e questo mi ha aiutato a diventare più forte e ad avvicinarmi anch’io a loro. So che posso fare qualcosa per loro, che si fidano di me, come anch’io mi fido e apprezzo quello che fanno per me. Non sono soltanto il custode musulmano della chiesa, ma molto di più.


scarpverona Il bello della diversità Un’immagine di R. per due anni custode musulmano della comunità pastorale di san Nicolò all’Arena, nel centro dI Verona

Don Roberto: «Ora siamo tutti più ricchi» Don Roberto Vinco è soddisfatto. «R. ci ha dato molto, come sempre quando si instaura una relazione vera c’è molto di più di ciò che si può dire a parole, ma credo che ci siano due aspetti molto evidenti. Innazitutto la sua presenza ci ha costretti a interrogarci, a leggere la realtà drammatica del carcere non più attraverso parole riportate, ma attraverso la presenza di chi questo dramma lo incarnava. E in questo modo ha portato a galla tutti i nostri giudizi e pregiudizi, per affrontarli e lasciarli cadere, imparando a leggere la realtà con un filtro diverso, adulto e aperto. In questo percorso ho visto le persone cambiare sguardo, uscire dalle “etichette” in cui la società tende ad ingabbiare la nostra umanità, per cui se “tu hai sbagliato, devi pagare”, “non puoi ricominciare”. Abbiamo visto accadere qualcosa di inatteso, e possiamo testimoniare che ricominciare, ritrovarsi, si può. Mano a mano che R. veniva accolto, e i giudizi sospesi e lasciati scivolare, lo vedevamo aprirsi sempre di più. Tutti abbiamo potuto apprezzare gustare l’impegno, la generosità, la sensibilità di questa persona che ricominciava a vivere. Ora i giudizi hanno lasciato il posto ad un atteggiamento molto diverso, riassumibile forse in tutti possiamo sbagliare, tutti possiamo ricominciare». E da qui deriva il secondo aspetto sui cui riflettere: la comunità aiuta la persona accolta a cambiare, è vero. Ma non è un cambiamento univoco: anche la persona accolta cambia la comunità. «Man mano che il rapporto con R. cresceva – conclude don Roberto – e affrontavamo insieme la strada non facile dell’incontro vero, è maturata una reciprocità: siamo cambiati tutti. Ora che ci salutiamo ci diciamo un grazie profondo, e mentre lo vediamo partire sappiamo che non torna “a mani vuote”, senza speranza, ma come una persona che si è ritrovata ed è pronta a vivere in pienezza. Credo che questa sia la cosa più bella».

Vi custodite a vicenda.. In un certo senso sì. Il tuo rapporto con la religione cattolica è cambiato? Con don Roberto e anche con altre persone della comunità la relazione è cresciuta molto; ora ci confrontiamo anche sulla vita, sulle nostre religioni, cosa che mi ha sempre incuriosito, ma prima non mi sentivo di parlarne. Ora sì, con molta tranquillità, ed è tutto molto interessante. Io ho imparato a capire loro, loro ora capiscono me ed ora i fedeli trovano normale entrare in chiesa e vedermi qui, anche vedermi sistemare l’altare e preparare per le celebrazioni. Le persone mi conoscono, ci sorridiamo e riconoscono il servizio che faccio, ma anche me come persona. Un giorno un signore è entrato in chiesa e mi ha chiesto alcune cose. Quella volta, io per primo gli ho anticipato: «Veramente io sono musulmano», e lui mi ha prontamente risposto: «E dov’è il problema?» In effetti, problemi non ce ne sono. Vivendo qui come parte di questa famiglia, fianco a fianco con i sa-

cerdoti giorno dopo giorno ho compreso anche un po’ della loro vita. Vedo che qui in chiesa entra l’umanità, con le sue fatiche, con le sue sofferenze e le sue gioie, viene a portarle nelle loro mani. Non è un lavoro da poco. A volte vedo la loro fatica, e sono contento di poterli aiutare come posso, di fare anch’io qualcosa per loro. Sono grato a Dio per avermi condotto qui. Anche i preti sono persone, ed è bello perché li vedo incontrare i fedeli come hanno fatto con me: parlano alla loro umanità. Qui si sente il profumo dell’umanità. Non so come spiegarlo, ma è così! Ora stai per tornare nel tuo paese, vero? Sì, ho deciso di tornare in Marocco per costruire qualcosa di vero e solido là. Non è stata una decisione facile, ma vivere quest’esperienza mi ha aiutato a capire cos’è più importante. So che sentirò la loro mancanza, sarà come lasciare casa una seconda volta…ma so che saremo sempre vicini. Non li dimenticherò mai. È grazie a loro che posso davvero tornare a casa.

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vicenza Ospite a “La Fraglia”, un luogo dove si impara la vera bellezza

La forza di un abbraccio A lezione di umanità di Claudio Thiene Da un po’ di tempo sono ospite, a pranzo, di una cooperativa sociale che si chiama “La Fraglia” . È un ceod (centro educativo occupazionale diurno) che accoglie persone disabili, ed è stato creato dalla tenacia dell’associazione genitori legata a La Nostra Famiglia. Questa associazione è stata ideata, più di venti anni fa, dai familiari di persone diversamente abili, con sede a Bertesina, una località a qualche chilometro da Vicenza. Sarei tentato di spendere qualche parola per fare i complimenti alla qualità e alla bontà del cibo, ma sono altri i sapori che solleticano le mie papille: quelli che incidono profondamente sul carattere e la sensibilità. Quando mi sono presentato il primo giorno, una signora seria e molto dolce mi ha avvertito che non tutti possono reggere l’impatto con determinate realtà. Mi sono detto: «Bene. Oggi si va a scuola per lezioni di vita che non conosco». È stato un piccolo esame che ho superato in pochi minuti grazie alNessuno è solo, ognuno l’aiuto involontario di un ospite, che mi vive con la propria realtà si è presentato, e poi ha atteso pazienNessuno è solo, temente la fine dei convenevoli con alperché ha sempre cuni operatori. Dopo di che, ho rispoun amico che lo pensa sto alla sua domanda muta: «D’accordo! Pranzerò con te, così ci conoscereNessuno è solo mo un po’». perché il mondo è con lui Come lui, altri ragazzi hanno voluNessuno è solo to sapere il mio nome, era il loro modo perché il cuore di mamma di festeggiare la mia presenza. È un lo pensa e lo segue sempre mondo disarmato e disarmante che ti Nemmeno chi chiamiamo conquista con un sorriso, uno sguardo o un leggero contatto con la mano. Mabarbone è solo gari il mondo. Ho imparato, negli anni, Quel barbone ci guarda che le piccole cose e le mezze parole, e in noi cerca qualcosa sono quello che danno gusto alla vita. Una parola, un ricordo, L’altro giorno uno dei ragazzi mi ha una vita passata. chiesto a che laboratorio ero destinato Barboni sono quelli e, a parte l’ilarità che si è generata, mi sono inorgoglito perché significava che che non guardano mi considerava uno di loro. i barboni.

Barbone

La forza di un abbraccio A volte capita che qualcuno degli ospiti, seguendo un impulso improvviso, venga ad abbracciarmi, come si fa con un amico o un familiare, chiedendomi per quanto tempo resterò con loro. Conosco la risposta che si aspettano. Vorrebbero sentirsi dire: «Per sempre».

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Anche loro un giorno potrebbero diventare barboni. Il barbone non è solo Ma è sempre con me. Anch’io avrei potuto essere un barbone Carlo Mantoan

Che è l’auspicio di noi tutti, quando esterniamo o riceviamo una manifestazione d’affetto. Gli operatori di questa struttura sono tutti un po’ speciali, lo noti dal modo affettuoso e naturale con cui si relazionano a questi ragazzi. A differenza di altri che ho conosciuto, non danno l’impressione di fare il primo lavoro che gli è capitato, bensì di aver trovato quello che cercavano. Nella mia totale ignoranza, tentavo di capire se, realmente, parlando con i vari ospiti, potevo essere compreso, indipendentemente dalle mancate risposte. Mi è stato chiarito che, per qualcuno di loro, non c’è una risposta sicura nemmeno per i genitori. Mi hanno fatto vedere, ad esempio, che uno dei ragazzi ha una ricettività speciale con i suoni, e dopo


scarpvicenza

aver percosso un bicchiere con una posata, ho visto che il suo volto si è illuminato con un sorriso! Allora ho capito che c’è sempre un modo per capirsi, basta cercarlo. È come trovarsi di fronte alle mura di un castello: ci giri intorno alla ricerca di un passaggio, se hai fortuna lo trovi, però, non è detto che, poi, ci sia un sentiero che ti porti al castello stesso.

Un aiuto inatteso L’altro giorno ero davanti a uno dei computer del laboratorio, incapace di far fronte ad alcuni problemi, che mi sono stati risolti, con facilità irrisoria, dall’intervento di un ospite mettendo in luce una capacità operativa e mnemonica fenomenali. Credo che conosca tutte le combinazioni possibili per

La Nostra Famiglia, dalla parte dei più deboli Il centro di riabilitazione "La Nostra Famiglia", organizzazione nazionale che si dedica alla cura e alla riabilitazione delle persone disabili, opera a Vicenza dal 1975. Nel tempo i genitori, riuniti in associazione, hanno dato vita a “La Fraglia” un luogo dove i bambini e i giovani possono accedere a percorsi formativi ed educativi che consentano l’inserimento in società rispettando i limiti e valorizzando le doti di ognuno. “Ogni società dovrebbe garantire l'accesso all'istruzione e alla formazione, perché da qui comincia e si forma il futuro cui non possiamo rinunciare”, è questo il motto che guida i genitori della Fraglia, quotidianamente impegnati a far riconoscere i propri figli come parte integrante di un’umanità degna di questo nome laddove sa riconoscere il valore e l’indispensabile contributo di ogni singolo. I giovani della Fraglia accedono settimanalmente a laboratori d’informatica, di cartotecnica, di espressione creativa e di assemblaggio. Ognuno è impegnato in un proprio progetto individuale, e con il suo gruppo affronta a turno tutte le proposte. Consapevoli che ogni progetto riabilitativo è efficace unicamente se sostenuto da interventi educativi equilibrati nell'ambito familiare, scolastico e formativo, La cooperativa collabora attivamente con La Nostra Famiglia, la scuola, gli enti erogatori di servizi ed altre associazioni. Info 0444.505013

Un luogo dove crescere La sede della cooperativa “La fraglia” di Vicenza. In alto una delle attività con gli ospiti della struttura

operare con la sola tastiera, in virtù del fatto che può avvalersi solo di un puntatore per eseguire tutte le operazioni. Tutta l’attività di questa struttura è molto articolata e complessa: oltre a dare da mangiare agli ospiti e prestar loro attenzione continua, si applica un programma educativo di socializzazione che sfrutta ogni piccola azione: per fare un esempio, per qualcuno è già un grande passo il rendersi indipendente nell’uso delle posate o saper chiedere per favore le cose e ringraziare. Gli ospiti sono divisi in gruppo e a turno frequentano tre diversi laboratori: as-

semblaggio, informatica, attività creativa. Queste attività consentono a molti di loro una crescita e una presa di coscienza del proprio valore. Per capirlo basterebbe non girarsi dall’altra parte quando li vediamo e magari spenderci cinque minuti per scoprire che hanno un nome. È così, non sono cose, hanno un nome e un’identità, nonostante la nostra ottusa resistenza nel vederlo. Hanno un estremo bisogno di considerazione, questa è la loro domanda muta al mondo esterno che, ogni volta che li ignora, offende la loro dignità.

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venezia

Tuffo nell’arte. La bellezza è per tutti Dieci ospiti delle strutture di accoglienza gestite dalla Caritas in visita alla Biennale di architettura. Un “viaggio” che è piaciuto di Claudio Corso

L’amore è speciale L’amore, è qualcosa di speciale. Basta lasciarsi andare nelle sue braccia, accarezzare la faccia. L’amore è qualcosa di speciale, veder nascere l’amore come una rosa che sboccia, ti riempie gli occhi di sole, di sole che scotta, perché solo l’amore scotta come il sole, e ti riempie il cuore, perché anche tu hai conosciuto l’amore. Ma a volte, questi raggi d’amore, ti trafiggono così forte che ti fanno male, non ti fanno ragionare, e cosi vien la gelosia, e combatti contro lei. Tu vuoi essere forte, ma non ce la fai, combatti, ma perderai perché è il cuore che ti fa amare. L’amore, è qualcosa di speciale. L’amore sei tu con i raggi di sole. L’amore è amore, ti prego non farmi male. Mino Beltrami

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Un pomeriggio speciale per gli ospiti delle due strutture di accoglienza e mensa gestite dalla Caritas veneziana per le persone senza dimora o in gravi difficoltà abitative. Un’occasione per stare insieme, per vedere luoghi diversi e per dare un ‘tocco’ di cultura a delle giornate spesso passate tra solite parole, vecchie idee e speranze frustrate. Un giovedì di agosto, baciati dalla fortuna in quest’estate un po’ pazzerella dal punto di vista climatico, con un bellissimo sole e la temperatura perfettamente gradevole, abbiamo organizzato con la direzione generale della Biennale di Venezia una visita guidata alla 14° esposizione internazionale di Architettura. Un’occasione che la organizzazione della fondazione veneziana ha voluto offrire agli ospiti e ad alcuni volontari Caritas per apprezzare il significato e il valore dell’architettura e conoscere più da vicino un evento che richiama ogni anno da e di attenzione per questo evento così bello. Avevamo timore che tale evento tutto il mondo migliaia di visitatori nelfosse distante dalle priorità e dai desila città lagunare. deri dei nostri amici ospiti, sappiamo Con 10 ospiti dei due dormitori delcome le loro preoccupazioni spesso sola Caritas e 8 volontari ci siamo dati appuntamento all’ingresso principale e no legate a soddisfare i bisogni primari storico della Biennale di Venezia, cioè e quelli del lavoro. Provenienti dai paedavanti ai Giardini. Marta, la guida che si poveri dell’Africa o dai nuovi stati della Biennale ci ha messo a disposizione, l’Unione Europea, scappati da guerra e fame per cercare nuove possibilità, o ci ha accolto con gioia e gentilezza e subito ha instaurato un clima di curiosità italiani che per motivi familiari o di altro


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genere hanno chiesto aiuto alla Caritas, hanno accolto l’invito ad un “giorno di arte”. Camil dalla Tunisia, Simon dal Ghana, Michele dalla Croazia, Vicenzo, attuale venditore di Scarp, come Francesco e tutti gli altri, ognuno con la sua storia e carico di sofferenze ed attese, si sono avvicinati alla Biennale. Un gruppo diverso dal solito, ma uno specchio della nostra attuale società italiana, multietnica e stratificata.

Viaggio tra i ricordi Marta ha iniziato subito spiegandoci il significato del tema scelta per quest’anno, da un famoso archistar olandese, Rem Koolhaas, dal titolo “Fundamentals” cioè riscoprire il significato, l’evoluzione e la diversità degli elementi fondanti l’architettura, quali il balcone, le pareti, la porta, il soffitto, la maniglia, ecc. un tema che si è rivelato molto vicino alla vita quotidiana e soprattutto ha suscitato il dibattito tra gli ospiti, sia perché ha risvegliato in ciascuno la memoria della propria tradizione di architettura del paese di provenienza, sia

Una visita inaspettata Due momenti della visita di alcuni ospiti dei due dormitori della Caritas veneziana alla biennale di architettura

perché oggetto di gusti estetici. La storia inizia agli inizi del ‘900 quando l’allora sindaco di Venezia volle organizzare negli spazi del sestiere di Castello, dove ci sono ancora oggi i giardini, un evento di arte invitando le nazioni ad esporre le loro opere, al fine di ravvivare la vita culturale della città lagunare. Furono costruiti tra gli alberi e i viali di questa bellissima e inusuale zona di Venezia, a ridosso del Lido, i padiglioni delle nazioni che accettarono l’invito e che dimostrano ancora oggi quello che era allora il contesto e l’espressione di quello che era considerato il mondo più importante e vivace culturalmente. Furono così invitati paesi appartenenti alla grande tradizione europea, quali Francia, Gran Bretagna, Spagna, Russia, e pochi altri paesi extra europa, quali

Giappone e Stati Uniti. Abbiamo visitato il padiglione centrale, dove è presente il tema principale e poi Marta ci ha portato a visitare il padiglione di Israele e della Russia, con due diverse modalità di parlare e presentare l’architettura.

Un pomeriggio davvero speciale Vicenzo, un ospite che è anche venditore di Scarp, è stato molto contento del padiglione centrale, un po’ meno, con la sua solita schiettezza, di quello di Israele, un «ammasso di sabbia dove era proiettata la geografia dello stato israelitico». I commenti sono stati dei più diversi, ma in tutti è emersa la soddisfazione di aver visto cose culturali e di aver passato un pomeriggio diverso, di averli fatti sentire persone con capacità di osservazione e di critica, anche nell’architettura. Ora è atteso un altro appuntamento nella zona dell’Arsenale, dove poter scegliere di visitare i padiglioni delle “loro” nazioni e vedere con gli occhi cosa i “loro” governanti hanno scelto da presentare.

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rimini

Padri separati, un rifugio sicuro Un residence con otto appartamenti per chi, e sono tanti, non riesce a pagarsi una stanza in affito. Un luogo da cui ripartire di Stefano Rossini Chi sono i padri separati? Hanno tutti lo stesso vissuto? Gli stessi timori? Quelli tornati a casa dai genitori, quelli che hanno preso un appartamento insieme ad amici, quelli che finiscono nella povertà più nera e quelli accolti nel residence dei padri separati? Difficile rinchiuderli tutti in una sola categoria. Noi abbiamo fatto l’unica cosa che si poteva fare: farci raccontare le loro storie, una sera di un mercoledì piovoso, nella sala comune del residence dei padri separati. L’atmosfera è tranquilla. Ci apre la porta e ci fa accomodare Arturo. «Volete il caffè?», chiede. Qualcuno risponde, e si allontana per prepararlo. Poi arriva Davide, sulla cinquantina, maglietta e pantaloni, capelli corti e naso aquilino. Sorride, fa battute. Si accende una sigaretta e comincia a parlare, insieme a Vincenzo, Giulio, Gianluca, appena arrivati. Laura, la psicologa, si lamenta del fumo, perché fa male ho anche perso il lavoro, ma adesso mi ai bambini. Uno alla volta arrivano tutsono rimesso in sesto, e ne ho trovato ti i padri che sono al momento al resiun altro. Servono buona volontà, tanta dence, tranne quelli che sono fuori a lafortuna ma anche molta tenacia. Sono vorare. Arrivano anche i caffè. abbastanza ottimista per il futuro, questo è un punto di partenza, è un tetto sulla testa, il minimo per ripartire. Per Davide, ce l’ha fatta non parlare dell’amicizia nata qui denDavide, che da poche settimane ha latro con gli altri padri, sia tra noi adulti sciato il residence per un altro appartache tra i nostri figli». mento, comincia a raccontare la sua storia. «La mia esperienza – racconta – non è stata bella. In famiglia c’erano coDifficile non perdere la dignità se che non funzionavano. Le colpe sono Gianluca è l’ultimo arrivato. È uno dei di entrambi, però è l’uomo che subisce due riminesi della casa. Ha due bimbi le conseguenze. Per lui si rivoluziona che giocano di sopra. Lo sguardo è affatutto da un giorno all’altro. Alla fine la ticato. Cerca di rimanere tranquillo, rimaggior parte dei problemi è di natura lassato, ma si vede che è stanco. «Ho economica. Se hai le possibilità va beavuto una separazione molto difficile. ne, altrimenti cominciano le difficoltà, Sono qui da 2 mesi, ma ho già sulle spaldato che le spese raddoppiano. C’è un le due traslochi in poco tempo e devo nuovo affitto da pagare, il mantenidire che ne risento. I miei bimbi hanno mento, e tutto il resto. Dai soldi, poi, na12 anni, la femmina, e 5 anni il maschio, scono anche altri malintesi. Ti trovi a fae per fortuna non ho problemi a vederre i conti con la realtà. In 2 giorni il giuli, ma problemi economici sì. La situadice dice via di casa. Tutto diventa provzione è difficile. Ho il mutuo della vecvisorio. Non sai dove andare. Io sono chia casa, la macchina e tante spese. Per passato prima dall’ospedale perché soora il futuro è molto scuro. Però, è imno stato male e poi anche alla Capanna portante tenere un minimo di dignità, di Betlemme, poi sono arrivato qui nel vorrei vivere pur con qualche rinuncia, marzo del 2013 e ci sono rimasto sino a ma senza dover contare il singolo euro». poche settimane fa. Avere a disposizioEcco di nuovo Arturo, 51 anni, che ci ne questo posto mi ha aiutato. All’inizio ha preparato il caffè e ora ci racconta la

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sua storia. «Non è diversa dalle altre. Ti trovi proiettato da un giorno all’altro in un limbo di cui non si vede uscita. Sei di colpo un uomo senza passato, in una realtà che non è la tua». Nessuno entra nel merito delle proprie storie personali, dei motivi della separazione. Qualcuno non ne parla, altri accennano che non è stata una loro scelta. Però, tutti i padri puntualizzano che per loro mancano le tutele. «Dall’altra parte aumentano le tutele – dice Arturo – ed è giusto, ma per noi? Noi abbiamo meno tutele, non possiamo neanche fare richiesta per le case popolari. O meglio, possiamo, ma siamo lontani in graduatoria perché siamo da soli e con un reddito considerato al-


scarprimini to, perché non si conta quanto dobbiamo pagare di mantenimento». Se è vero che il Residence è un appoggio fondamentale per chi si trova in una situazione complicata, è altrettanto vero che 18 mesi non sono sempre sufficienti per riprendere l’autonomia perduta. «Io – prosegue Arturo – sono ancora nella stessa situazione. È difficile ripartire con 500 euro al mese di mantenimento e due figli. Sono preoccupato perché non vedo futuro».

Un’esperienza che aiuta Con l’aumentare dei racconti il clima migliora sempre di più, le chiacchiere si fanno più tranquille. Anche chi prima non parlava adesso racconta, eppure sotto le voci rilassate e spesso divertite si percepisce un po’ di rabbia repressa, il dolore per quello che si è perso e che è ritenuto ingiustamente portato via. Ma come dice proprio uno dei padri, se vivi da solo fai ciò che vuoi, ma nel momento in cui hai dei figli ti devi regolare in modo diverso, perché ci sono delle persone che dipendono da te. «Non è tutto negativo – conclude Arturo – questa esperienza è stata comunque positiva e si sono creati rapporti nuovi e bellissimi. I nostri figli, soprattutto i 5 ragazzi, tra i 12 e i 14 anni, hanno legato molto. Si incontrano qui e poi vanno in giro assieme. Spesso, pri-

Luogo da cui ripartire Un momento della chiacchierata con alcuni ospiti del residence per padri separati di Rimini (foto Riccardo Gallini)

Nuovi svantaggiati

Il Comune di Rimini li inserisce tra le nuove forme di povertà Noi dividiamo il mondo in categorie, nella speranza di comprendere meglio e semplificare la realtà che ci circonda. Ma le categorie non sono gabbie. Ciò che è dentro muta, o lo fa la nostra percezione. Come è successo ad esempio alla categoria dei padri separati, un tempo parte forte della coppia, che andando via di casa manteneva potere economico e sociale lasciando le mogli in difficoltà e che oggi si trova nella situazione opposta. Capita che i padri separati siano la parte debole dell'ex coppia, tanto che la Giunta del Comune di Rimini li ha inseriti tra le 7 categorie di nuovi svantaggiati; e sta cercando di aiutarli con strumenti come il residence dei padri separati, una palazzina, di proprietà di Asp Valloni, con 8 appartamenti monolocali messi a disposizione per un tempo massimo di 18 mesi ad un canone di affitto di 150 euro mensili. «L'idea dietro al progetto – spiega il vicesindaco Gloria Lisi – non è solo fornire un servizio, ma anche cercare di mettere le persone nella condizione di muoversi autonomamente. Un aiuto, per evitare che padri separati vivano in situazioni precarie, in appartamenti poco ospitali nei quali non hanno la possibilità di portare i figli. Qui, invece, oltre agli appartamenti, ci sono anche degli spazi comuni, in modo che padri e figli possano socializzare».

ma di venire ci chiedono se ci sono i loro amici. Poi si incontrano qui e vanno fuori assieme».

Una vita che crolla all’improvviso Mauro, qui da aprile 2013, non parla subito. Sta sulle sue. Guarda e lascia parlare gli altri e ridacchia sotto i baffi, fino a che gli altri padri lo incitano. Ancora ridacchia, poi comincia a raccontare la sua storia. Ci dice che all’inizio pagava 800 euro di mantenimento, che andato via di casa ha dovuto dormire in macchina perché non voleva tornare dai suoi. «Ho avuto un’uscita di casa drastica – racconta – eravamo separati in casa e un giorno, tornato dal lavoro ho trovato la serratura cambiata». Mauro sfonda la porta, entra in casa e si mette a dormire. L’ex moglie chiama le forze dell’ordine che alle 4 di notte vengono a portarlo via con conseguente denuncia per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. «Dopo la macchina mi sono appoggiato da un amico, finché non ho scoperto dell’esistenza del residence e ho fatto domanda». Mauro è l’unico che mi fa salire e vedere la camera, un piccolo monolocale ben arredato e dignitoso, con poco spazio, sì, ma pulito e con tut-

to il necessario. Accende il cellulare e mi fa vedere i video del figlio più piccolo,12 anni, che gioca a calcio. Lui lo segue in tutte le partite. E per il dopo? «Sto pensando al camper. Perché al momento non vedo altra soluzione». L’ultimo è Vincenzo, 47 anni, anche lui qui da aprile del 2013. «Non guadagno male, ma tra ingressi e uscite non ci sto. Quello che mi scoccia di più è che quando i miei figli mi chiedono 5 o 10 euro non li ho, perché li ho finiti tra spese e mantenimento, e a loro sembra che non voglia darglieli. Mi è capitato che mio figlio mi chiedesse il motorino, io gli ho detto di no, e il giorno dopo è arrivato col motorino compratogli dalla mia ex moglie. Mortificarsi davanti ai propri figli è la cosa peggiore». Dopo che tutti hanno parlato l’atmosfera è più conviviale. I discorsi si spostano e toccano altri argomenti come il calcio, la politica, anche se emergono in continuazione difficoltà economiche e ingiustizie subite. In una storia di coppia che si rompe è difficile indicare le responsabilità e le colpe con precisione, però è altrettanto importante garantire pari dignità ad entrambi, perché le due figure genitoriali rimangano comunque un punto di riferimento per i figli.

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napoli “La rivoluzione siamo noi. La firma di un grande artista, Joseph Beuys, su una sua opera. Come augurio per il cantiere creativo

Visita al Madre, apre il cantiere Scarp di Laura Guerra Capita, a volte di sottovalutare o di ignorare quel che ci è più vicino. Ci accade con le persone, le situazioni, i luoghi, Capita spesso di rimandare nel futuro prossimo l’intenzione di occuparcene ricorrendo a un alibi automatico: “Tanto è qui vicino”. A partire da questa constatazione, il Cantiere Creativo di Scarp riapre, dopo la pausa estiva, con una visita al Madre, museo d’arte contemporanea, che si trova proprio alle spalle della nostra redazione. Vediamo continuamente passare gruppi di turisti, italiani e stranieri e così siamo andati anche noi soffermandoci sul fatto, di cui non siamo mai sufficientemente orgogliosi, che siamo cirtolata “La rivoluzione siamo noi”. Il nocondati da tanta bellezza fatta di storia, stro Cantiere Creativo è aperto: benvecultura, arte. Scoprire, rivalutare e racnuti a tutti. contare quel che ci è più vicino è la traccia che seguiremo nella prima fase dei Così vicino laboratori di scrittura, lo spazio in cui Il concetto della parola vicino significa nascono i servizi per il giornale. A queavere tutto intorno. Senza farci caso ci sto filo ne intrecceremo un altro, una complichiamo la vita andando a cercasuggestione arrivata proprio da un’ore chissà che cosa molto lontano senza pera diffusa che abbiamo visto al Maessere contenti lo stesso. Vivo ed abito dre, la firma Joseph Beuys che l’ha intinel centro storico di Napoli e non fac-

Una scoperta bella e inaspettata Sono andato al Madre insieme agli amici della redazione di Scarp de’ tenis a vedere l’arte contemporanea. Cosa posso raccontarvi? È stata una bella esperienza quella di vedere quest’arte di autori tutti diversi, guardare una stanza piena di graffiti, come se fossi tornato all’età della pietra, con tutti quei disegni fatti con gesso e carbone. Siamo passati poi alla stanza successiva, e c’era un effetto ottico che mi ha meravigliato: un tappeto che in realtà era un buco rettangolare tappezzato di blu scuro, che a guardarlo sembrava velluto, ti dava un effetto ottico così realistico che potevi caderci dentro senza accorgertene. In una stanza invece c’erano teschi, specchi e luci che si intrecciavano tra loro. L’autrice, attraverso questi teschi e i giochi di luce che si creavano, ha voluto far capire che ogni volta che ci riflettiamo nello specchio, dietro a questo specchio c’è la morte. Poi siamo passati in altre stanze, non ricordo tutto ma mi vengono in mente due blocchi di ferrocemento rettangolari di sette tonnellate: l’opera rappresenta Giuditta che decapita Oloferne. Infine, per ultimo, abbiamo visto una stanza con un tavolino e tanti stracci attorno, e sotto quattro teiere. È stato bello visitare il Madre, specialmente alla fine quando siamo saliti sul tetto per vedere il cavallo di Mimmo Palladino. Antonio Casella

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cio caso che sono circondato da tanta bellezza artistica sufficiente per appagare il mio desiderio di arricchire le mie conoscenze. Il museo Madre si trova vicino casa, quando mi affaccio al balconcino, posso toccare con le mani una delle sue finestre. Vedo i turisti che con fare frettoloso attraversano il vicolo per andare a visitare il museo armati di macchine fotografiche e cineprese, però non ho mai pensato di andarci. Quando la bellezza ci circonda avviluppandoci completamente ci fa vivere nell’oblìo totale come in un totale appagamento in un certo senso si perdono gli stimoli per approfondire la conoscenza di ciò che di pregevole e di notevole ci circonda. Sergio Gatto

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Bellezza vicina La redazione napoletana di Scarp de’ tenis in visita al Museo Madre


scarpnapoli È tutto sotto i nostri occhi Spontaneità, indipendenza, rinnovamento, proposte di cambiamento e coinvolgimento: sono questi i punti di forza che hanno caratterizzato la visita al Madre. Il visitatore è coinvolto nell’opera stessa, costituita da un ampio spazio interpretativo di curiosità e sensazioni molto personali. Gli artisti volutamente hanno lanciato il loro ‘messaggio’ libero da ogni pretesa, cioè senza le necessarie informazioni, come avviene in altri contesti. Quante volte la nostra arte, in genere, è trascurata, perché siamo sempre alla ricerca di qualcosa di diverso, senza poi renderci conto che quello che noi cerchiamo è sotto i nostri occhi. Antonio Zacco

Il racconto

Il bello della vicinanza

Che cos’è la vicinanza? Vicinanza è un concetto ampio. La vicinanza può essere morale o fisica. In genere si pensa a tutte le cose o persone che ci stanno intorno. La vicinanza affettiva è più facile da comprendere, nel senso che ci accorgiamo prima o poi delle persone che ci vogliono bene. Per quella fisica il discorso cambia: molte cose ci sono vicine o vicinissime ma non ce ne accorgiamo o quasi. La settimana scorsa noi di Scarp abbiamo visitato il Madre. Sono interessato all’arte, guardo spesso sul giornale le pagine dedicate a musei e monumenti. Ciò nonostante non sapevo che c’era questo museo, e questo significa che, nel vivere frenetico e quotidiano, tante cose ci sfuggono. Troppe. A me piace Per me è stata la prima volta al Madre, pur essendo un camminare per le strade di Napoli, la mia città. napoletano. Dovremmo essere i primi a girare e vedere le Avendo 50 anni pensate a quante cose ho visto! Ma cose belle della nostra città. Io oggi, da grande, posso quante non ne ho viste. Sapete come me ne sono dire che, anche se l’opera d’arte contemporanea non mi accorto? Alzando il capo: così, facendo attenzione a piace – perché secondo me è rivolta ad un pubblico più non andare a sbattere, si osserva un’altra città. giovane – quello che mi ha colpito di più è stata la Balconi, terrazze, orologi, attici, mansarde, una vera e cordialità e la gentilezza, l’incoraggiamento a farti capire, propria città sovrapposta. Scoprire la propria città fino da parte degli operatori e responsabili che hanno allestito in fondo è un’emozione pari o superiore a quella che si le varie sale del Madre. E anche perché ci hanno prova quando si visitano altre città. C’è la scoperta, il permesso di passare qualche ora insieme per bene, nuovo, e da qui scaturisce l’emozione. rilassati. Forse ci dovrei tornare di nuovo per poterci Poi ci sono le cose di cui conosciamo l’esistenza: capire qualcosa in più, perché ho visto alcune cose come tanti musei, parchi o regge ma che non andiamo mai a L’Orchestra di stracci – quartetto di Michelangelo visitare. Rimandiamo di continuo, pensando che prima Pistoletto che mi ha ricordato lo spettacolo teatrale o poi ci andremo. Altri interessi o obiettivi sono più ‘Vestire gli ignudi’, il lavoro teatrale di Davide Iodice cui urgenti, o meglio, li riteniamo tali. ho partecipato anche io. Per alcune strutture è più difficile organizzarsi e Giuseppe Scognamiglio visitarle. Io sono un curioso e vorrei vedere tutto, anche i palazzi della Regione, della Prefettura, del Comune, la Rai, le fabbriche e persino il carcere di Napoli. Un Quante volte ho immaginato di partire, vedere, visitare arricchimento interiore per nuove realtà, culture diverse, di guardare paesaggi, me importante. oceani, castelli, arte. Sognavo mondi lontani ma non mi Il mio suggerimento è quello sono mai soffermata a vedere quello che accade a di cambiare l’obiettivo dei pochi passi da me. Potrei ammirare la grande bellezza nostri occhi: ne abbiamo di Napoli e solo per un giorno essere una turista nella montato uno che, come uno mia città. Mi immagino con scarpette da ginnastica, zoom, va dall’inquadratura pantalone comodo, canotta, cappellino, zainetto e normale al teleobiettivo, macchina fotografica, insieme ad una guida turistica. portando a vedere solo le Tante volte le cose che ci circondano non le medie e le lunghe distanze. É guardiamo. È bello viaggiare con la mente, dobbiamo ora di montare un guardare quello che c’è intorno a noi, e poi andare grandangolo, oltre, lontano, alla scoperta della nostra città. per scoprire tante meraviglie Mi sono dimenticata, devo portarmi anche una che si trovano a poca bottiglietta d’acqua. Ho anche pensato – e fino a ieri distanza da noi, un nuovo non me ne ero accorta – che potrei prendere anche mondo da scoprire. una bicicletta che il Comune metterà a disposizione. E vi garantisco che quando si Com’è bello “vedere” quello che ci circonda. trova questo interesse si ritorna giovani. Maria Esposito Giuseppe Del Giudice

Stare bene insieme

Il mondo è come un girotondo

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salerno Si chiama “Vite da riconciliare” il servizio della Caritas diocesana dedicato a chi si ritrova a vivere situazione di disagio psichico

Da vicino nessuno è normale di Antonio Minutolo Alcuni giorni fa, ho intervistato uno dei referenti dello sportello “Vite da riconciliare”, della Caritas diocesana di Salerno-Campagna-Acerno. Ragionando con lui, mi si sono aperti alcuni orizzonti nuovi sul senso di solitudine, sul bisogno di supporto e accompagnamento che un numero crescente di persone ha nella nostra città. “Matti”, “malati di mente” sono etichette talvolta offensive, pregiudizi che assolutamente non consentono di comprendere fino in forndo quale sia il mondo del disagio psicologico. Tutti gli esseri umani hanno qualche forma di disagio, seppur leggerissimo; alcuni hanno problemi maggiori (la cui insorgenza può dipendere da moltissimi fattori) che genera per loro la necessità di essere seguiti accuratamente da operatori qualificati. È questo il compito degli operatori di “Vite da Riconciliare”, sportelscuola, alle relazioni amicali. A seconda lo della Caritas diocesana nato da alcudella difficoltà del caso, l’utente che si ni anni e attivo presso la sede di Via Bareca presso “Vite da riconciliare” viene stioni, 4 a Salerno, nei giorni di martedì seguito da un counselor, da un assi(dalle 9.30 alle 12.30) e venerdì (solo su stente sociale, da uno psicologo o da appuntamento, dalle 16 alle 18). uno psichiatra. Utente e operatori anaIl servizio si rivolge a tutti coloro lizzano insieme il problema ed elaboche si trovano a vivere situazioni di dirano degli obiettivi di miglioramento sagio emotivo, malessere e sofferenza della qualità della vita, attraverso un psicologica nei più disparati ambiti percorso di cambiamento. È importandella vita, dalla famiglia al lavoro, alla te sottolineare che l’operatore fa leva sempre sulle risorse personali dell’utente, cercando di ristabilirne l’equilibrio con le sue stesse forze. Guarire, infatti, vuol dire anche tornare a gestire autonomamente la propri vita. Gli operatori organizzano anche attività creative e manuali per far riscoprire agli utenti l’importanza della loro fantasia ed immaginazione.

Tante le guarigioni È bello sapere dagli operatori di Vite da riconciliare, che ci sono stati vari casi di grande miglioramento della qualità della vita dell’utente con disagio, se non addirittura guarigione completa. Chiaramente, il mio pensiero è rivolto alle tante persone che, inve-

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scarpsalerno ce, vivono il proprio disagio psicologico come un senso di vergogna (prodotto da se stessi, o, spesso, dalla propria famiglia che li “emargina” dal resto del mondo) e non chiedono aiuto. Costoro non sanno che in alcuni casi la persona con disagio psicologico può svolgere una vita assolutamente normale, lavorare, essere sposata, avere dei figli e, solo per alcuni momenti o periodi della vita, necessitare di supporto. Un amico mi raccontava che oggi il disagio psicologico può essere provocato anche dall’uso di droghe, in particolare quelle sintetiche particolarmente diffuse tra i giovani, come l’ecstasy. Anche l’alcool, se assunto a grandi dosi, può portare a problemi psicologici e finanche psichiatrici. E appare assurdo pensare che delle giovani vite siano poi segnate per sempre, per un desiderio di sballo. Un motivo in più per i genitori per interessarsi alla vita e alle abitudini dei propri figli.

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Info telefono 089.226000 vitedariconciliare.caritas@gmail.com

Facce da Scarp

«Ho toccato il fondo, ma con Scarp sto ripartendo» In un presente sempre più frenetico e stressante, nell’era tecnologica di internet, facebook e simili, ci ritroviamo con una visione limitata delle realtà che ci circondano, prestando meno attenzione alle esigenze “reali” ed a quei segnali di aiuto che ci vengono inviati e che talvolta vengono interpretati e capiti nel modo sbagliato. Situazioni che sottovalutiamo, e problemi che diventano malesseri psicologici, che possono sfociare in vere e proprie patologie ben più gravi e serie. C’è poi chi ha già alle spalle un vissuto traumatico, come detenzioni in carcere, oppure dipendenza da alcool e droghe (ma anche gravi perdite affettive o problematiche lavorative). In queste situazioni, questi traumi trovano un terreno fertile in cui svilupparsi. Anch’io ho vissuto periodi bui, densi di solitudine. Periodi di autoemarginazione, di poca stima di me stesso, dove vedevo e vivevo tutto in negativo e dove un futuro neanche lo immaginavo. Poi ho avuto la fortuna di conoscere persone che mi hanno indirizzato, dandomi un aiuto concreto e reale. Adesso, grazie a un percorso di accettazione, di condivisione ma anche di autodeterminazione, sto pian piano trovando un equilibrio fisico e mentale, che mi sta restituendo dignità e voglia di vivere. Certo non è semplice (e nessuno mi ha mai detto che lo sarebbe stato), ci sono delle difficoltà oggettive, ma questa per il momento è la mia “realtà” e voglio viverla appieno. Perché la caduta può essere anche rovinosa, ma il rialzarsi e il riprendere il camminare ti fa rivivere sensazioni stupende, che sono alimento per la vita futura. Patrizio Fuoco


catania Sono 24 i ragazzi stranieri, ma con regolare permesso di soggiorno, coinvolti nel percorso formativo promosso dal Co.p.e

Formare, per integrare articolo realizzato da Valeria Gallitto per il Co.p.e Senegal, Tunisia, Somalia, Costa D’Avorio, Nigeria, Algeria, Marocco, Egitto, questi i Paesi di origine dei 24 ragazzi coinvolti nel percorso formativo organizzato nell’ambito del progetto “Lavoro e formazione: strumenti di integrazione”, che si concluderà a novembre 2014, progetto promosso dal Co.p.e, Cooperazione paesi emergenti, una ong nata a Catania. Quando inizia un progetto si conoscono i volti, le diverse storie dei ragazzi coinvolti e dalle loro parole si percepisce chiara e forte la voglia di riscatto, di ridefinizione di un nuovo percorso di vita. Molti di loro si sentono italiani e faranno crescere i loro figli in questa terra. Credono molto in questo progetto e nelle opportunità future che si creeranno. Ente Capofila del progetto è il Co.p.e, che gestisce dal giugno 2012, in partenariato con la Promoter Sud e l’Istituto edudi progetto di Vittoria, gli altri 12 micativo assistenziale “S. Rosa da Viterbo”, granti hanno iniziato l’attività di stage le attività di inclusione sociale per impresso un’azienda che si occupa della migrati con regolare permesso di sogtrasformazione e del confezionamengiorno, ma che versano in condizioni to di prodotti agricoli, attività pensata di svantaggio socio-economico. sulla base della vocazione produttiva Nello specifico, il percorso formativo è stato articolato in due corsi con percorso professionalizzante: “Addetto alla preparazione di piatti tipici regionali” con sede a Catania e “Addetto alla produzione e al confezionamento dei prodotti agricoli” con sede a Vittoria (Ragusa). Percorso iniziato con lezioni d’aula per l’acquisizione di competenze e professionalità da parte degli immigrati nella ristorazione e nel campo agricolo.

Tra stage e primi lavori Dopo i mesi trascorsi tra i banchi, i 12 ragazzi del corso “Addetto alla preparazione dei piatti tipici regionali” con sede a Catania hanno dapprima partecipato al laboratorio di cucina, realizzato da uno chef ragusano che ha svelato loro i segreti per la preparazione di alcuni piatti tipici della nostra cucina per poi, da febbraio 2014, iniziare la work experience, che ha consentito loro di entrare nelle cucine di alcuni tra i più conosciuti ristoranti di Catania. Contemporaneamente, presso la sede

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Il racconto

Il Grest non passa mai di moda: così si cresce divertendosi

del comparto agricolo della zona del ragusano. Oltre a una fase puramente formativa è stata prevista una fase di accompagnamento tra orientamento al lavoro, facilitazione della permanenza nel percorso orientativo, sostegno all’inserimento sociale ed al mantenimento della regolarità del soggiorno, prevedendo, inoltre, un percorso mirante all’inserimento lavorativo e alle attività di sostegno per la creazione di lavoro autonomo o dipendente. Tutto questo pr cercare di non disperdere la bontà del lavoro fatto tramite i corsi di formazione professionale.

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Migliaia di bambini e ragazzi tra i 4 e i 15 anni, senza alcuna distinzione sociale, di etnia, di religione, hanno partecipato alle attività estive presso parrocchie e oratori. Che si chiami Grest o estate ragazzi non importa, conta l’opportunità speciale di aver vissuto per settimane insieme a tanti coetanei con uno stile sereno e accogliente. I tanti animatori, adolescenti e giovani accompagnati da adulti significativi, sono stati immersi nel pieno dell’organizzazione con entusiasmo, gioia e impegno. In passato molti di loro sono stati destinatari, poi si sono messi a servizio dei più piccoli, innamoratisi della figura dell’animatore e donandosi a 360°. Oltre agli aspetti tecnico-organizzativi hanno affrontato, per formarsi, temi formativi e spirituali: dall’identikit dell’animatore alla spiritualità, dalla scelta alle motivazioni, dalle pillole di pedagogia all’approfondimento di un tema da proporre ai ragazzi. Gli animatori sono stati protagonisti nell’animazione dei ragazzi, ma allo stesso tempo destinatari di un cammino di crescita umana e spirituale attuata grazie ad un percorso di fede che dura spesso tutto l’anno nei gruppi adolescenti e giovani. Piccoli e grandi hanno svolto un itinerario comune alla scoperta di Gesù Signore della vita e della speranza, raccontando il Vangelo in maniera semplice e avvincente per riscoprire i valori su cui fondare una civiltà accogliente. In tanti hanno contribuito alla realizzazione di questa speciale esperienza estiva e tra questi anche degli adulti (spesso intere famiglie) che si sono dedicate anima e corpo a tutto ciò che c’era da fare, spesso stando dietro le quinte, ma svolgendo un’opera di grande utilità e sostegno. Il Grest o l’estate ragazzi è per un oratorio o una parrocchia un’esperienza intensa e compatta, che poi si estende con molteplici sfaccettature e possibilità per tutte le età e per tutte le esigenze. È da un lato punto di arrivo del percorso della catechesi, dei gruppi sportivi, di quelli che fanno un cammino di fede, di chi va solo per dare qualche calcio al pallone, dall’altro punto di partenza per il nuovo anno sociale, occasione per il coinvolgimento di tanti altri ragazzi, adolescenti, giovani e adulti. Unico scopo è far incontrare Cristo nella gioia e nel servizio responsabile e gratuito, scoprirne la presenza nella quotidianità, vederlo giovane fra i giovani, piccolo tra i piccoli, povero tra i poveri. Marco Pappalardo ottobre 2014 scarp de’ tenis

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poesie di strada

Me gusta Mi piace essere semplice e stupirmi delle piccole gioie che la vita mi dona. Mi piace sentirmi attiva, sia nel corpo che nella mente, e vivere intensamente ogni esperienza, purché sana; è bello vedere in chi ti sta vicino, negli amici, nei colleghi, solo i lati migliori. Mi piace ascoltare il mio cuore, il mio stomaco, la mia anima… E cerco di volermi un po’ di bene. Silvia Giavarotti

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Soltanto se Essenza ti par bene di riflessione Se la mia vita non è male? Di Amore abbandono solitudine gaiezza perdizione abissi. E poi ancora gioie risalite speranza Bellezza e ancora Amore con gli occhi spalancati alla vita, così è il mio cuore. E allora si! Sono ancora a dirtelo: la mia vita è non male ..ma alla ragazzina che rifugge dall’accoglienza di una casa non sua con le educatrici a rincorrer per cercare di tacerle disperazione pianti imprecazioni. A lei potresti domandare se la vita non è male Se ciò ti par bene Penso e credo che tra le peggior cose vi sia dar per normale ciò che normale non è quando il male va a violare l'innocenza che fino al momento era e ti fa passar una soglia oscura su cui si richiude una porta scura. Mino Beltrami

Un piccolo ti amo Una goccia d’acqua, può diventare un mare. Una piccola fiamma, può diventare un grande fuoco. Eri una piccola bambina, e sei diventata una grande donna. E quel tuo piccolo ti amo è diventato un grande amore Fabio Schioppa

Dall’essenza del tuo bisogno riconosciuto dal tuo interrogarti dopo il tuo vissuto segnato dalle tante esperienze amare che hanno aperto un tragico vuoto nel tuo animo fantasioso dopo aver provato sensazioni forti, con me che avrei dovuto esserti amico, al tramonto di un giorno uno dei tanti magici giorni, dopo una notte di riflessione mi hai detto: “sono sicura di non amarti”. Al mio chiederti di verificare non hai esitato a dirmi: “sono certa di non amarti ma scusami, scusami se ti ho permesso di avvicinarti troppo”. Anch’io ti chiedo scusa per quel fatale errore, quello del guaritore che dell’ammalato si è innamorato; senza volerlo ho disturbato l a tua mente riaprendo vecchie ferite. Ora vorrei solo aiutarti, poter essere orgoglioso di averti conosciuta questo è quello che vorrei… dopo una notte di riflessione.. Gaetano Toni Grieco

Scalza Cammino scalza tra pensieri insoluti persa nel dedalo di sentieri andati. Piango. Gioco in difesa con i piedi feriti calpesto il tempo. Poi regolo i passi per allontanarmi senza troppo dolore. Aida Odoardi


ventuno Ventuno. Come il secolo nel ventunodossier Ittrio, lantanio, quale viviamo, come l’agenda scandio. Minerali dai nomi strani, ma per il buon vivere, come molto preziosi. Il business delle terre l’articolo della Costituzione sulla libertà di espressione. rare, il petrolio del duemila Ventuno è la nostra di Andrea Barolini idea di economia. Con qualche proposta per agire contro l’ingiustizia e Ventunoeconomia Ritorno alla terra. l’esclusione sociale nelle scelte di ogni giorno. Vi raccontiamo le storie di chi, per

scelta o necessità, ha deciso di tornare, per professione, a coltivare i campi

21 di Sandra Tognarini

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21ventunodossier Minerali dai nomi strani e ai più sconosciuti. Ma molto preziosi perchè rari e perchè usati nei settori di largo consumo

Terre rare, petrolio del futuro di Andrea Barolini

Valgono più dell’oro. E il loro prezzo oscilla come nessun’altra materia conosciuta, in un mercato segnato dal monopolio cinese. Sono le terre rare, materie preziose, usate nel processo di fabbricazione dei beni tecnologici che ogni giorno utilizziamo: telefoni cellulari, autovetture, lampade. E c’è chi, americani e giapponesi in prima fila, per estrarle è pronto a lanciare una nuova “corsa all’oro” nel cosmo.

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Chi possiede i giacimenti? Chi regola il mercato?

Ittrio, lantanio, scandio. Il business delle estrazioni Immaginate la vetrina di una gioielleria: collane d’oro, orecchini, diamanti. E poi, in una bacheca, diciassette piccole ciotoline piene di minerali dai nomi pressoché sconosciuti: scandio, ittrio, lantanio, cerio, neodimio. D’accordo: è difficile che ciò accada, ma la metafora rende bene l’idea. Perché questi 17 elementi chimici, come dichiarato al quotidiano francese Le Monde dal presidente della società specializzata MTL Index Gregory Gautier, «sono il petrolio del futuro». In tutti i sensi: perché faranno la fortuna di chi possiede i giacimenti, perché muteranno gli equilibri geo-economici del pianeta, e perché genereranno dubbi e problemi dal punto di vista ambientale. Proprio come accade, da decenni, per l’oro nero. Già, ma come mai queste terre sono così tanto ambite? E perché in molti immaginano di investire una fortuna pur di estrarle? Alla prima domanda ciascuno di noi potrebbe, senza saperlo, rispondere dando semplicemente un’occhiata alla propria abitazione. In pochi lo sanno, infatti, ma le terre rare sono un elemento costituivo per la fabbricazione di una grande quantità di prodotti. Sono presenti nei motori elettrici, negli impianti eolici, nella maggior zione di numerosi armamenti di nuoparte degli strumenti elettronici, nei teva generazione, come ad esempio laser, lefoni, nei tablet, nei computer portatiradar e satelliti. Tutti prodotti il cui merli e negli smartphone. Perfino in alcuni cato è attualmente in piena espansiotipi di vetro. Allargando lo sguardo al di ne. Un’espansione che, però, secondo fuori delle mura domestiche, poi, tali molti osservatori non è sostenibile. materiali sono utilizzati per la produLa questione delle terre rare, infatti,


Terre rare, petrolio del futuro grafico 1

La crisi del modello di sviluppo. Mentre si continua a puntare ad una crescita infinita in un contesto di risorse naturali finite, la speculazione si sta spostando sul business delle terre rare

Fonte: Alternatives Economiques

Andamento del prezzo delle terre rare, di oro e di argento, su base 100 dal 1 gennaio 2007

secondo un’analisi del mensile francese Alternatives Economiques «è emblematica per comprendere l’incapacità dell’attuale modello di sviluppo, nonché dei meccanismi di mercato, nel gestire questa tipologia di problemi». Il mondo appare infatti ancora e sempre orientato al consumo del territorio, sulla base della speranza paradossale di poter continuare a puntare ad una crescita infinita in un contesto di risorse naturali finite. Un sistema che piace a chi – soprattutto banche, fondi di investimento e compagnie d’assicurazione – sa come far fruttare al massimo le opportunità offerte dalle materie prime. Ogni “scusa” è buona, infatti, per speculare. E l’arrivo sul mercato delle terre rare non è passato inosservato agli occhi dei trader più spericolati. A dimostrarlo chiaramente è l’andamento dei prezzi di alcuni minerali (vedi grafico in pagina). Il magazine francese ha analizzato l’evoluzione del costo di quattro terre rare: l’ossido di disprosio (una polvere bianca utilizzata nel campo delle ceramiche, dei vetri, dei laser e delle lampade), l’ossido di

terbio (un potenziale semiconduttore), l’ossido di neodimio (utilizzato per i cristalli necessari ai laser come per i magneti di elevata potenza) e l’ossido di europio (necessario per la fabbricazione degli schermi dei televisori e nelle lampade fluorescenti). Ebbene, anche ad uno sguardo poco attento non sfugge l’incredibile altalena che ha caratterizzato i prezzi di tali quattro elementi nei pochi mesi che vanno dalla fine dal primo semestre del 2011 alla fine del 2012. In questo lasso di tempo le terre rare prese in considerazione, alle quali è stato dato un valore-base ipotetico pari a 100 al 1 gennaio 2007, sono passate da un valore di circa 2-300 all’inizio del periodo, fino a sfiorare quota 3 mila alla metà del 2011. Per poi crollare ampiamente sotto mille negli ultimi mesi del 2012!

Si specula sull’ossido di terbio Ora, anche immaginando che le economie globali avessero davvero generato una domanda di tali minerali così improvvisa e gigantesca da giustificare l’impennata iniziale, a svelare la natura

speculativa dei prezzi è chiaramente il crollo successivo (a meno che, ipotesi ancor più azzardata, le economie reali non avessero avuto bisogno di montagne di ossido di disprosio tutte insieme e per un brevissimo periodo di tempo). Gli esperti, inoltre, spiegano che ci sarà sì un forte aumento della domanda nel prossimo futuro, ma sottolineano anche che essa dovrebbe raddoppiare (e non decuplicarsi), e farlo non in pochi mesi ma in un decennio. Al contrario, i prezzi hanno moltiplicato per 20 il loro valore in meno di un biennio. Ancor più interessante, poi, per renderci conto dei valori in campo, è confrontare l’andamento dei prezzi delle terre rare a quelli di un minerale noto per le sue oscillazioni (soprattutto per la “tradizionale” crescita in tempo di crisi, dal momento che viene considerato spesso come un “bene-rifugio”): l’oro. Ebbene il grafico mostra chiaramente come il sali-scendi del prezzo del metallo prezioso sia stato infinitamente più limitato nello stesso periodo di tempo. «Il prezzo del disprosio, ad esempio, è esploso del 2.694% tra il 2004 ed il ottobre 2014 scarp de’ tenis

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Ma il cellulare è etico? Raramente ci poniamo la domanda, ma i telefoni portatili, utilizzati ormai da ciascuno di noi, possono essere considerati “eticamente accettabili”? Secondo un’inchiesta condotta da due associazioni caritatevoli svizzere (Action de Carême e Pain pour le prochain), in realtà i nostri inseparabili strumenti tecnologici nascondono un’anima ben poco “sostenibile”. Per questo i due organismi hanno presentato nelle scorse settimane una prima guida all’acquisto etico, rivolta ai consumatori e presentata di recente a Berna alla stampa internazionale. Lo studio, intitolato «Quale sangue c’è dentro i nostri computer e i nostri cellulari?», rivela infatti che alcuni noti marchi, benché abbiano cominciato ad impegnarsi per una più scrupolosa attenzione ai diritti dei lavoratori o all’ambiente, risultano ancora «mediocri» in termini etici: è il caso di Apple e Dell. Mentre del tutto «insufficienti» sono le performance di altri nomi celebri del settore, come Acer, Lenovo, Samsung e Sony. E se HP e Nokia si comportano meno peggio della concorrenza (sono giudicate «sulla buona strada»), del tutto «inaccettabili» sono le condizioni di produzione di Asus e HTC.

grafico 1

Andamento del prezzo delle terre rare, di oro e di argento, su base 100 dal 1 gennaio 20078

produzione, kt

La provocazione

estrazioni da Monazite

estrazioni da miniera Mountain Pass

2013», ha sottolineato ancora Gautier. Tutto ciò, a beneficio di chi? Certamente di chi ha centrato guadagni comprando e rivendendo i materiali. Ma anche, ovviamente, di chi questi ultimi li possiede sul proprio territorio, un Paese su tutti: la Cina. Una premessa è d’obbligo, però: occorre stare attenti a non farsi ingannare dai nomi. Non tutte le terre rare, infatti, sono davvero “rare”. Alcune effettivamente sono particolarmente poco diffuse sulla Terra, ma altre sono invece piuttosto comuni: è il caso del cerio, ad esempio, le cui riserve mondiali sono paragonabili a quelle del rame. Detto ciò, è proprio l’enorme nazione asiatica a sapere di essere la

il monopolio cinese

più avvantaggiata del mondo. Anzi, quello cinese può essere definito quasi un monopolio: ben il 40% delle risorse globali (che sono stimate in 114 milioni di tonnellate) è presente nella Repubblica Popolare; ancor più alto è il dato relativo alla produzione annuale, che tocca una quota pari all’86%. E se da un punto di vista economico ciò può costituire un vantaggio per Pechino, dal punto di vista ambientale va detto che l’estrazione delle terre rare è particolarmente pericolosa: le tecniche in uso attualmente provocano infatti la dispersione di materiali radioattivi e di acidi. Un vero e proprio paradosso, se si tiene conto che parte dei composti serve

Eolico, auto, illuminazione. Qualcosa sta cambiando

Ma perchè non puntare sulle alternative? Se le terre rare sono (quasi sempre) rare e (sempre) care, e se la loro estrazione è rischiosa per l’ambiente, perché non cercare delle alternative prima di lanciarsi mani e piedi nel loro sfruttamento? È quello che si comincia a pensare, già da tempo, sia in ambienti accademici che industriali. Così, se gli scienziati cercano di minimizzare l’uso di disprosio per i magneti, i fabbricanti di pale eoliche studiano alternative che consentano di ottenere – senza o con quantità minime di terre rare – gli stessi risultati operativi, ovvero una buona resistenza al calore generato dagli impianti. Al contempo, nel settore dell’automobile, costruttori di fama mondiale (come ad esempio Toyota) stanno progettando motori elettrici che non necessitino di

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lantanidi. Mentre i produttori di sistemi di illuminazione sperano di potersi basare, in futuro, su diodi elettroluminescenti organici, che eviterebbero di dover impiegare il terbio. Occorrerà, tuttavia, verificare dapprima l’effettiva fattibilità tecnica di tali innovazioni. E, in secondo luogo, sarà necessario monitorare il mercato. Nulla vieta, infatti, alla Cina di sbloccare le sue esportazioni: qualora il governo di Pechino dovesse intravedere un imminente crollo della domanda globale, di terre rare, generato al contempo dalla mancanza di un calo dei prezzi e dalla presenza di alternative concrete, potrebbe immaginare una contromossa. Inondato di terre rare, il mercato potrebbe tornare così appetibile...

Fonte: U.S. Geological Survey

ventunodossier


Terre rare, petrolio del futuro

Le terre rare sono per la Cina come il petrolio per il Medio Oriente

poi per costruire impianti di energia rinnovabile o veicoli a trazione elettrica o ibrida. È proprio per questo che molti Paesi hanno rinunciato allo sfruttamento dei giacimenti. La Cina, invece, sembra voler andare avanti. Deng Xiaoping, d’altra parte, già nel 1980 dichiarava che «le terre rare sono per la Cina ciò che è il petrolio per il Medio Oriente».

Cina, tetto alle esportazioni Con il mercato quasi completamente nelle proprie mani, Pechino ha scelto inoltre di imporre dei tetti alle esportazioni. Una decisione, assunta nel 2010, che ha contribuito fortemente all’impennata dei prezzi, e che ha provocato la reazione di Usa, Ue e Giappone in seno all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). Washington, inoltre, ha deciso di ri-autorizzare la società Molycorp a sfruttare il giacimento californiano di Mountain Pass, che era stato chiuso nel 2002 (anche per ragioni ambientali).Quanto all’Europa, ad oggi realizza una produzione molto modesta di terre rare: solo il 3% del to-

tale mondiale. Al contrario, però, risulta un importatore rilevante, dal momento che è nel Vecchio Continente che si concentra il 20% dei consumi. Per questo in Groenlandia si medita di sfruttare al massimo le riserve naturali: una miniera di notevoli dimensioni è presente infatti a Kvanefjeld. Ma chi deve occuparsi dell’estrazione? La corsa della lobby è partita, e tra le prime a bussare alla porte dell’immensa isola europea sono state proprio le multinazionali cinesi. Un altro Paese che possiede ingenti riserve potenziali è poi la Svezia, che a Norra Kärr potrebbe estrarre 300 mila tonnellate di terre rare cosiddette “pesanti”, ovvero le più problematiche dal punto di vista della protezione dell’ambiente. Non a caso Greenpeace ha sottolineato più volte come, soprattutto in regioni con climi particolarmente estremi, sia difficile limitare l’inquinamento delle aree circostanti. Resta da vedere se a vincere saranno le stesse logiche che hanno spinto a sfruttare per decenni il petrolio in tutto il mondo, oppure se si cercheranno alternative.

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Se la realtà supera l’immaginazione

Asteroidi, si sposta nel cosmo la corsa all’oro 2.0 La fame di terre rare potrebbe diventare in un prossimo futuro tale da convincere ad andarle a cercare ovunque: perfino sugli asteroidi! La notizia è stata riportata qualche mese fa dal quotidiano francese Le Figaro, che ha spiegato come due imprese americane si siano lanciate nell’ambiziosissimo – e quasi incredibile – progetto. Le due aziende si chiamano Deep Space Industries e Planetary Resources. Da notare che, nel caso di quest’ultima, uno degli investitori è il colosso dell’informatica Google, che normalmente non si muove se non quando c’è profumo di grande business. Gli asteroidi, infatti, potrebbero essere particolarmente ricchi di minerali re extraterrestri: il nipponico Hayabusa preziosi, e secondo l’opinione di un 2, l’Osiris Rax della Nasa e il MarcoPoloastrofisico intervistato dal giornale tranR dell’Agenzia spaziale europea. salpino, sebbene l’idea sia ancora comOra, è vero che esistono più di 9 mila plicata da realizzare, «non si tratta di puasteroidi in orbita non lontani dalla Terra fantascienza». Va detto che, fino ad ogra. Ma è chiaro che servirebbero centigi, soltanto una missione giapponese (la naia e centinaia di milioni di dollari per Hayabusa 1) ha permesso di trasportare esplorarli. La Planetary Resources aveva su terra dei materiali provenienti da astedichiarato di voler “catturare” delle pieroidi. E si trattava di pochi microgrammi tre di circa un metro di diametro e di vodi polveri. Eppure esistono tre grandi lerle mettere in orbita intorno alla Terra, progetti, per ora in fase di ideazione, che di modo da mantenerle a portata di mapuntano allo sfruttamento delle terre rano (si fa per dire). Ciò sulla base dell’as-

sunto che, sempre secondo l’impresa, dei 9 mila asteroidi presenti, 1.500 sono “facilmente” accessibili. Di lì a delle ricadute commerciali, passeranno decenni. E la domanda resta sempre la stessa: vale davvero la pena? Perché non puntare piuttosto ad uno sviluppo e ad un consumo capaci di tenere conto della limitatezza delle risorse terrestri (e non) anziché immaginare di spendere cifre astronomiche (in tutti i sensi) per andarle a cercare chissà dove nel sistema solare?

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21ventunoeconomia Architetti, idraulici, liberi pensatori. Storie di chi decide, per volontà o necessità, di tornare, per professione, a coltivare i campi

L’ingegnere sul trattore. Ritorno alla terra Una veduta dall’alto della tenuta di Montevaso in Toscana

di Sandra Tognarini

Gli studi di Coldiretti raccontano tante storie di giovani che decidono di dedicarsi all’agricoltura. Ve le raccontiamo anche noi di Scarp 64. scarp de’ tenis ottobre 2014

“La terra non delude mai”, dice un vecchio adagio. E, in tempi di grave crisi economica, forse sarà anche per questo che aumentano sia i giovani che mettono nel cassetto il master e salgono sul trattore sia gli studenti delle scuole secondarie e delle facoltà legate all’agricoltura, agli animali e al cibo. Dario Galli (architetto e designer industriale), Guido Borsani (ingegnere gestionale e consulente direzionale) e Silvia Cafora (architetto) sono i titolari di “Zafferanami-zafferano a Milano”, un’azienda artigianale che si occupa di produzione di zafferano (a filiera corta, socialmente sostenibile e organico) a nord di Milano, nel parco del Grugnotorto. «Tutto iniziò quando ero piccolo – ricorda Dario –. Mio nonno coltivava cartamo, un surrogato dello zafferano, convinto di produrre grandi quantità della nobile spezia. Tutti in casa e tra parenti abbiamo mangiato per anni risotto alla milanese colorato con il cartamo. Mio padre un giorno, di ritorno da un viaggio in Abruzzo, portò alcuni cormi (cioè bulbi di zafferano) in regalo a mio nonno che, incredulo, dubitando che quel fiorellino potesse essere il vero zafferano, lo sistemò nella par-

te meno produttiva dell’orto. Solo quando assaggiò i pochi stimmi prodotti si convinse. Non bastavano che per qualche risotto ma il sapore era ottimo e la pianta, di anno in anno, sotto terra, si moltiplicava. Alcuni anni dopo la scomparsa del nonno, decisi di riprendere la coltivazione dell’orto di famiglia. Il nonno mi aveva insegnato fin da piccolo come coltivare le piante orticole più comuni. Un giorno, dissodando il terreno vicino a un melo, incontrai decine e decine di cormi e, ricordandomi dell’aneddoto dello zafferano, li trapiantai in file in un terreno recentemente concimato. Di anno in anno la produzione è cresciuta e così la passione e ho affinato le tecniche di coltivazione. Insieme agli amici che, poco a poco, si sono innamorati del fiore viola e della spezia, ho deciso che era il momento per trasformare la nostra passione nell’occasione di offrire a chiunque lo voglia una spezia unica e profumata come lo zafferano». «Da sempre amo questa spezia e il suo fiore – dice Silvia –. Mi fa sognare pensare di riscoprire l’alba grazie a lui». «Zafferanami è un progetto che coniuga i fattori tipici di un’iniziativa imprenditoriale con l’amore per la tradi-


Ritorno alla terra

I dati di un’analisi di Colidretti Milano, Lodi e Monza/Brianza

In aumento gli studenti in materie agrarie e le aziende guidate da giovani imprenditori agricoli La crisi economica fa riscoprire ai giovani che la campagna è un bel posto dove vivere e lavorare: ciò viene per esempio confermato da un’analisi di Coldiretti Milano-LodiMonza/Brianza sulle iscrizioni alle scuole secondarie agrarie delle tre province: dall’anno scolastico 2011-2012 al 20132014 gli studenti degli istituti professionali agrari sono passati da 596 a 754 (+26,5%), mentre quelli degli istituti tecnici agrari sono passati da 1.815 a 1.950 (+7,4%). Secondo invece un’indagine di Coldiretti Lombardia, le immatricolazioni alla facoltà di Scienze Agrarie dell’Università Statale di Milano sono più che raddoppiate tra il 2009 e il 2014, passando da 584 a 1.237 (+111,82%). Analizzando i singoli piani di studio, ci si accorge che il boom non riguarda soltanto la tradizionale laurea in Scienze e Tecnologie Agrarie (le iscrizioni dal 2009 al 2014 sono quadruplicate, passando da 101 a 311 con un aumento del 207,92%). Anche il piano di studi in Scienze e Tecnologie per la Ristorazione è infatti passato da ottanta immatricolazioni nell’anno 2009-2010 a 245 nel 2013-2014 (+206,25%). Il piano di studi in Viticoltura ed Enologia ha poi visto le iscrizioni più che raddoppiate dall’inizio della crisi a oggi: gli studenti del primo anno sono passati da 67 a 153 (+128,36%). Se si analizza il totale degli iscritti della Statale di Milano agli indirizzi di studio che riguardano l’agricoltura – afferma Coldiretti Lombardia – in cinque anni si è passati da 4.731 a 6.365, con un aumento del 34,5%. E nelle aule vi sono

sempre più ragazze: nel 2009 ad Agraria erano il 35% degli iscritti, adesso sono il 42%. Le ragazze, poi, stanno monopolizzando le iscrizioni a Veterinaria (dal 71,5% a oltre il 74%). Del resto, nel primo report sul “Ritorno alla Terra”, presentato da Coldiretti Lombardia nel marzo 2013, aumentano le aziende in mano a ragazzi sempre più preparati: la maggior parte di loro ha conseguito titoli specifici (diploma di perito agrario, agrotecnico, laurea in Scienze Agrarie o Viticoltura ed Enologia), ma non mancano meccanici, geometri, esperti in pubbliche relazioni e ingegneri elettronici che, nonostante precedenti studi non agricoli, hanno scelto il ritorno alla terra. I settori che impegnano più i giovani sono l’allevamento (49%), in particolare di bovini da latte, da carne e di suini, ma non mancano gli specializzati in avicoltura, nelle lumache e gli allevamenti di asini, pecore, fagiani, pony, conigli e vari animali da cortile; la coltivazione di cereali (38%); la coltivazione di ortaggi (14%); la coltivazione di alberi da frutto (11%). Nei campi è inoltre scattata l’ora di internet. Secondo le stime di Coldiretti, il 50% dei giovani agricoltori ha un sito aziendale e profili Facebook e Twitter per promuovere la propria impresa. La vendita diretta in azienda o nei farmers market è l’attività più praticata (45%). Le nuove generazioni conclude Coldiretti Lombardia – tornano in campagna spinti dalla passione (36%) o per mantenere in vita l’azienda di famiglia (26%), anche se nel 27% dei casi entrambi questi fattori influiscono sulla scelta. ottobre 2014 scarp de’ tenis

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ventunoeconomia

La raccolta dello zafferano

Dario Galli (architetto e designer industriale), Guido Borsani (ingegnere gestionale e consulente direzionale) e Silvia Cafora (architetto) sono i titolari di “Zafferanami-zafferano a Milano”, un’azienda artigianale che si occupa di produzione di zafferano (a filiera corta, socialmente sostenibile e organico) a nord di Milano, nel parco del Grugnotorto.

zione e la propria terra – afferma Guido –. Sfida imprenditoriale, recupero e salvaguardia del patrimonio di tradizioni locali: una combinazione di fattori che colora il sogno di realizzare qualcosa di concreto e tangibile in un contesto sostenibile e a misura d’uomo, a contatto con la natura, anche alle porte di una grande metropoli».

Vanessa Olivari, una laurea in ingegneria aerospaziale alle spalle, guida l’azienda agricola di famiglia coltivando canapa e piante officinali

La lana delle pecore di Marco viene donata a un’associazione per realizzare capi di abbigliamento

Vanessa e le piante officinali Vanessa Olivari si è invece laureata in Ingegneria Aerospaziale nel 2011 al Politecnico di Milano: «Dopo la laurea, ho iniziato la ricerca di un posto di lavoro, senza alcun risultato positivo. Purtroppo in Italia per le donne, a volte, è difficile inserirsi in ambienti lavorativi prettamente maschili. La scoperta della malattia di mio papà nel 2012 e la sua morte nel 2013 mi hanno avvicinata alla sua azienda agricola e al lavoro che svolgeva. Da qui la decisione di continuare la sua attività apportando alcu-

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ne modifiche a livello colturale. Mio papà ha sempre coltivato cereali quali mais, orzo e soia, io invece ho deciso di fare un cambiamento radicale e da quest’anno ho iniziato la coltivazione di canapa da fibra industriale e di piante officinali (calendula, bacche di goji e meliloto). Questa è la mia prima esperienza e al momento sono soddisfatta della mia scelta e di quello che sono riuscita a fare. Certo, avrei potuto fare meglio, ho commesso alcuni errori, però potevo anche far peggio. La stagione quest’anno non mi ha aiutata perché le continue piogge mi hanno un po’ rovinato i prodotti, che nel mio caso non richiedevano molta acqua».

Le pecore di Marco Marco Caminada è invece un ex idraulico: «Vivo e lavoro a Biassono. Nella mia azienda agricola allevo dal 2008 pecore di razza brianzola e produco salami, bresaole e ragù. La lana viene invece donata all’associazione della pecora brianzola per realizzare capi d’abbigliamento, coperte, cappelli. Produco inoltre ortaggi di stagione e miele». Dopo aver parlato della “scelta della terra” di alcuni giovani lombardi, ci trasferiamo infine in Toscana. Più precisamente nella tenuta di Montevaso, nel comune pisano di Chianni, dove vive Enrico Pompeo.

Enrico e il bosco protetto «Qui le coltivazioni non hanno mai preso il sopravvento sugli alberi – racconta Enrico – e questo non per una particolare fisionomia del terreno, che produce comunque olio e vino di qualità, ma per la presenza di tagliatori e boscaioli che hanno da sempre mantenuto vivo e produttivo il bosco, tanto che si calcola che più della metà della legna usata nei forni delle pizzerie toscane provenga da questa zona, così


Ritorno alla terra

Nella tenuta di Montevaso, nel comune pisano di Chianni, vive Enrico Pompeo. Qui le coltivazioni non hanno mai preso il sopravvento sugli alberi e questo non per una particolare fisionomia del terreno, che produce olio e vino di qualità, ma per la presenza di tagliatori e boscaioli che hanno da sempre mantenuto vivo e produttivo il bosco.

ricca di lecci e piante adatte ai fuochi domestici, come camini o stufe». «Montevaso entrò a far parte della nostra famiglia – ricorda Enrico Pompeo – quando mio nonno materno Adriano, ingegnere presso il Cnr di Pisa e amante della campagna, si imbatté in questa proprietà e se ne innamorò perdutamente. Si era alla fine degli anni ‘50, momento storico in cui c’era un esodo dalle campagne verso le città, perciò il costo dell’acquisto fu più contenuto del valore effettivo, anche perché la tenuta, che comprende la villa padronale, la casa dei contadini, il granaio e 400 ettari di terra, era ipotecata. Il nostro intervento è stato solo rivolto a creare le condizioni migliori perché il bosco potesse crescere e svilupparsi. Qui nidifica il falco pellegrino, una specie in via di estinzione; ci sono mufloni, caprioli e cinghiali. Sulla tenuta c’è un vincolo ambientalepaesaggistico che determina l’impossibilità di edificare se non per riqualificare strutture già esistenti». «Dal 1994 – prosegue Enrico –, nella tenuta si è strutturato il Teatro Agricolo del Montevaso, su idea e stimolo

A Montevaso c’è il teatro agricolo, espressione creativa a contatto con la natura e il territorio

di mia sorella, che voleva realizzare un percorso di espressione creativa a contatto con ritmi di vita più legati alla natura e all’ascolto del territorio. Dopo averla solo seguita e incoraggiata nei primi anni, nel 2001 sono entrato a far parte del Teatro. Da quell’anno, ci siamo specializzati nell’accoglienza di gruppi che fanno laboratori e seminari intensivi, tutti accomunati dalla volontà di cercare uno spazio dove i suoni della natura e il paesaggio del bosco facilitano la concentrazione e il lavoro». «Abbiamo ospitato migliaia di persone e a ognuna di esse ho fatto da mangiare – aggiunge Enrico Pompeo –. Una bella responsabilità quella di

provvedere al sostentamento di coloro che frequentano la struttura. Quella della cucina è sempre stata una mia passione e in questi anni ho cercato di affinare le mie conoscenze sulle verdure, le piante, i prodotti che abbiamo nella tenuta per offrire menù nutrienti, naturali, variegati. Cerchiamo di dare agli ospiti qualcosa del posto: il miele delle nostre api, le marmellate con i frutti degli alberi, i liquori fatti con le erbe spontanee, come il finocchietto selvatico, o con prodotti dell’orto come il basilico. Sono assaggi, degustazioni, per trasmettere gli odori, i sapori, gli aromi del luogo e per condividere la passione che abbiamo per questa terra così meravigliosa che ci ospita e ci protegge». «In un luogo come questo – conclude Enrico –, in cui tutto è regolato dalla natura, si può trovare più semplicemente la strada, il percorso per un benessere psicofisico più completo».

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50 personaggi illustrati dalle canzoni di Jannacci

La mostra riproduce le tavole disegnate in esclusiva per Scarp de’ tenis dai piÚ grandi fumettisti italiani. (Bozzetto, Silver, Cavazzano, Villa e tanti altri) Disponibile per fiere, feste, convegni

per informazioni 02 67479017 mail: ufficiostampa@coopoltre.it


lo scaffale

Le dritte di Yamada Olafsdóttir. Indimenticabile, questo cognome. Si arzigogola in un suono armonioso, di quelli sussurrati dal vento cortese della sera a magiche campane tubolari. Mi trovo ad essere gentile con l’islanCon gli ultimi: La malattia dese Audur Ava (questo il suo nome, classe 1958, i curas di papa che cancella gli affetti Francesco ex-insegnante di storia dell’arte) perché ho letto – ricevendo in cambio pace d’animo – due dei tre libri editi in Mentre una madre I curas villeros sono Italia da Einaudi (Rosa Candida e La Donna è un’Isola). perde la memoria i preti delle Toccavo le pagine, chiudevo gli occhi e scorreva sotto le inesorabilmente, baraccapoli di mie palpebre la visione del mondo di questa scrittrice il figlio non fa Buenos Aires e che ricordare. rappresentano una coi capelli rossi: succedeva alcuni giorni fa, nella belIl racconto della delle esperienze di lezza delle pagine de “La Donna è un’Isola”. Casa Rossa è un chiesa più vicine Mi vedevo seduta a fianco della protagonista (non sapviaggio in cui all’allora cardinale piamo il suo nome, trentatré anni, traduttrice e l’autore, l’attore Bergoglio. Papa conoscitrice di undici lingue), sulla sua jeep, sotto una Giulio Scarpati, Francesco ha detto vuole ri-incontrare dei curas: «Vivono pioggia novembrina senza fine, lungo la strada islanle radici della sua in modo impegnato dese Nazionale Uno (che fa il giro dell’Isola) “in infanzia perché lì con i poveri. La loro direzione del sole sempre più basso di un giorno semc’è sua madre, è una scelta pre più corto”, alla volta di un paesino sull’oceano dove affetta dal morbo eroica. Li muove lo un tempo, dentro una casina blu, abitava la nonna. di Alzheimer, che spirito di don non riesce più a Bosco». Molti dei È un viaggio nell’Isola – questo libro – ed è un’isola a sua incontrare se non curas chiedono volta, questa donna: si basta, è forte, inscalfibile e mistenell’immaginario espressamente di riosa. È stata lasciata dal marito perché indisponibile a affettivo dei ricordi. andare ad svelarglisi: lo consuma l’incomunicabilità tra loro e che Attraverso la Casa esercitare il loro lei non gli parli mai dei nove anni passati all’estero. Rossa, méta estiva servizio nelle villas, a lei molto cara, che nella Buenos Con l’avventatezza della disperazione, il marito tronca il Scarpati racconta Aires di oggi matrimonio, avendo prima cura d’informarla che sará questa donna che assommano un’altra donna a renderlo padre. non ha più a 21 baraccopoli Naturalmente lei non è un riccio. memoria di sé e pericolose. C’è un grumo di esperienze dolorose cui non può dei suoi cari. Silvina Premat ancora dare voce e che aspetta il tempo di sciogliersi nel Giulio Scarpati Preti dalla fine rivolo che l’abbandonerà. Per mescolare il suo rivolo Ti ricordi la casa del mondo. Viaggio agli altri che colano da ogni dove per le piogge incesrossa? Lettera tra i curas villeros santi, si mette in viaggio, dopo – nell’ordine – essere a mia madre di Bergoglio stata da una medium, aver vinto due volte di fila(!) alla Mondadori Emi pagine 140 pagine 320 lotteria, cucinato un’oca per l’ex-marito che fatica a euro 16 euro 18,50 lasciarla(!) e aver ricevuto in affidamento Tumi, il figlio quattrenne della sua migliore amica, Audur, incinta di due gemelle e trattenuta in ospedale fino a fine gravidanza. «Le vie dell’immaginazione e le ragioni del cuore possono portare una donna molto lontano»: questo dice ad alta voce la donna-isola, guardando Tumi dallo specchietto retrovisore, mentre mi chiede di riempire tre bicchieri di cacao caldo dal termos. Tumi è l’altro piccolo e magico protagonista della storia che, da quando appare, rende lucente tutto. È un bambino rachitino secco secco, sordo, e con occhiali che gli fanno gli occhi grandi. È molto intelligente, sa leggere e scrivere, e ha una scatola dei tesori. L’interazione (che diventa sempre più) affettuosa con la donna-isola è la “cosa” che letterariamente trasfigura il romanzo: anche il grumo sul cuore della donna-isola comincia pian piano a sfarsi. Vi dicevo che erano undici le lingue conosciute dalla donna-isola: diventano dodici, perché quella dei segni appresa gioco-forza è la via per portare il mondo di Tumi a sé e condividere tutta quella geologia piovosa che, con bonomia e cuori aperti al nuovo, stanno entrambi attraversando. Per approdare dentro a una foto sorridente scattata en passant, di cui si ricorderanno sempre. La donna è un’isola Auður Ava Ólafsdóttir (Einaudi 2014)

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L’Oriente e la poesia del suo cibo Un libro che fa assaporare i profumi delle ricette culinarie della protagonista. Gli ingredienti raccontati con cura disegnano i contorni dei destini dei protagonisti. Mãn, che ha avuto tre madri: quella che le ha dato la vita in tempo di guerra, la monaca che l’ha trovata in un giardino, la mamma che l’ha cresciuta che l’ha data in sposa a un ristoratore vietnamita emigrato in Canada. Mãn aprirà un ristorante in cui il cibo è un modo per evocare ricordi ed emozioni e per scoprire, suo malgrado, l’amore. Kim Thuy Nido di rondine Nottetempo pagine 124 euro 14


Milano

Pillole senza dimora Parigi, esplode il problema dei senza tetto. Non sono rare nella città le tende canadesi montate in mezzo ai parchi, come quello su cui si apre la Passerelle Simone de Beauvoir, il nuovo ponte pedonale che scavalca la Senna; poi c’è chi trova riparo nelle stazioni del metrò e chi dorme direttamente su una panchina sul lungofiume, in estate sono tantissimi. Si calcola che il 20% dei senzatetto a Parigi sono donne, e un altro 20% giovani al di sotto dei 25 anni. Nel gruppo di età 16-18, la percentuale delle ragazze raggiunge il 70%. Il fenomeno non è nuovo ma oggi sta diventando ingestibile: nel 2002 fu fatto un primo censimento dei senzatetto parigini, 10-15 mila le persone che vivevano in strada stabilmente e trentamila le persone che erano in strada in modo saltuario. A distanza di 12 anni i numeri sono lievitati in modo impressionante. In tutta la Francia i senza fissa dimora sono oltre tre milioni e mezzo e dal 2011 il loro numero è aumentato del 50%. Il 115 è il numero di emergenza, ma nel dicembre 2013 il 43% dei senzatetto che vi si sono rivolti non è riuscito a trovare un riparo notturno. Secondo il rapporto dell’autorevole Fondation de l’Abbè Pierre, in Francia vivono 8 milioni di persone sprovvisti di un alloggio decoroso. Parigi dispone del 60 per cento delle case di accoglienza e degli ostelli disponibili in Francia; lo scorso anno la municipalità parigina ha messo in bilancio due miliardi e 200 mila euro per le iniziative di solidarietà, e oltre 504 milioni da destinare all’accoglienza abitativa. INFO www.fondation-abbe-pierre.fr

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Quando il libro tace, l’illustrazione diventa più difficile Fino al primo novembre si può visitare la mostra che propone la Galleria gruppo Credito Valtellinese, in corso Magenta, Silent Book Contest. Si tratta di un’esposizione che presenta le invenzioni che otto artisti dell’illustrazione internazionale hanno creato intorno al tema del libro senza parole. Il Silent Book Contest 2014 ha chiamato gli illustratori a ideare e realizzare un progetto completo di libro in grado di raccontare una storia ed emozionare il lettore usando soltanto le immagini. A questa prima edizione hanno partecipato centinaia di autori provenienti da tanti paesi. La Giuria Internazionale ha scelto otto Silent Book finalisti. Il vincitore è Brian Fitzgerald, di Dublino, con il progetto Bounce Bounce che racconta l’avventura di un animaletto che dentro un palloncino "rimbalza e vola” nel cielo, nello spazio, nel mare. La Galleria gruppo Credito Valtellinese e Bookshop Lab propongono un fitto programma di laboratori e iniziative per i più piccoli. Necessaria la prenotazione. INFO info@bookshoplab.it

Vicenza

Gherardo Colombo alla notte dei senza dimora della Rete vicentina Come per la passata edizione la rete di inclusione sociale del Vicentino partecipa compatta alla Notte dei Senza Dimora, manifestazione organizzata da volontari, operatori e persone senza tetto per sensibilizzare le amministrazioni e la cittadinanza alla problematica di chi vive per strada, in occasione della giornata mondiale di contrasto alla povertà. Quest’anno a Vicenza il municipio sarà invaso dai cartoni e dai sacchi a pelo: a ospitare Quelli della notte, sarà

On Alzheimer: non solo farmaci, ma relazioni umane Il 21 settembre scorso ricorreva la ventunesima Giornata Mondiale dell'Alzheimer. Nonostante i dati non siano affatto buoni - si parla di 44 milioni di malati a livello globale. Nel 2030 saranno 75 milioni. In Italia le persone affette da Alzheimer sono quasi 700 mila – sembra cambiare rotta l'impostazione dell'assistenza all'Alzheimer. Secondo Maria Luisa Raineri, docente alla Cattolica di Milano e al Centro Studi Erickson, i trattamenti sanitari non bastano più. Si stanno sviluppando approcci che permettono di relazionarsi con maggiore facilità con i malati di Alzheimer. Un metodo efficace è quello chiamato validation: essere accondiscendenti con la persona che non ricorda, cercando di non creare un conflitto ma entrando nel suo mondo. Ciò riduce l'uso dei farmaci. Un altro metodo che sta emergendo è l’approccio capacitante che consiste nell’umanizzazione dell’assistenza: l’obiettivo è una relazione paritaria con l’anziano fragile, partendo dal riconoscimento delle sue competenze elementari, valorizzandolo come persona. Un altro aspetto centrale, secondo la Raineri, è quello legato ai caregiver, ovvero coloro che assistono chi assiste. Professionisti del sociale che non erogano semplicemente una prestazione, ma entrano in relazione con la persona. Il centro Studi Erickson di Trento, a questo riguardo, propone a novembre due corsi di formazione sui nuovi metodi per la cura dell'Alzheimer. INFO www.erickson.it infatti il cortile di palazzo Trissino in corso Palladio, sede del consiglio comunale e degli uffici del sindaco. Si inizia il 17 ottobre alle 11 quando nelle sedi istituzionali verranno presentati i risultati della ricerca "La via anagrafica nei Comuni della Diocesi vicentina". In quest’occasione


caleidoscopio Off Il sistema scuola fa acqua, parola di genitori Secondo un sondaggio condotto da Libreriamo – la piazza digitale per chi ama i libri e la lettura – la scuola è un sistema da rifondare per 2 mamme su 3. Le colpe? Delle istituzioni. Più spazio alla pratica e all’attualità e meno alla teoria, avere strutture non fatiscenti e maggiormente attrezzate, rendere la lettura un piacere per gli alunni e non un obbligo. Sono alcune delle caratteristiche principali della scuola ideale che le mamme italiane desidererebbero per i propri figli. I genitori hanno le idee chiare: vorrebbero che nei programmi scolastici fosse dato maggiormente spazio ad approfondimenti legati ad arte (56%) religione (49%), ed ambiente (44%). Le principali problematiche emergono soprattutto dal punto di vista formativo (61%), ma molti denunciano strutture scolastiche fatiscenti (45%) e la mancanza di strumenti multimediali idonei all’insegnamento (39%). L’indagine di Libreriamo è stata condotta su circa 800 mamme italiane, di età compresa tra i 30 e i 60 anni, attraverso un monitoraggio online sui principali social network, blog, forum e community dedicate. E’ stata realizzata in occasione del nuovo anno scolastico. INFO www.libreriamo.it

interverrà il giudice Gherardo Colombo per condurre il dibattito sul tema dei diritti di cittadinanza e del rispetto delle regole. Partecipano all’incontro gli studenti del liceo Quadri di Vicenza e tutti gli aderenti alla manifestazione. Il 18 ottobre le piazze di Lonigo, Arzignano, Bassano del Grappa e il cortile di palazzo Trissino a Vicenza si animeranno di banchetti, eventi teatrali, letture, musica e cibo di strada. Le serate si concluderanno

Miriguarda di Emma Neri

Terra Futura cambia veste: il futuro equo si chiamerà Novo Modo Dopo dieci anni si cambia. Terra Futura si chiama Novo Modo, un nuovo contenitore sempre con l’intento di far conoscere e far riflettere le buone pratiche per una società sostenibile e solidale. Dal 17 al 19 ottobre, a Firenze, Novo Modo sarà all’Auditorium di Sant’Apollonia. Fra gli organizzatori di Novo Modo: Acli, Arci, Caritas Italiana, Banca Etica, Legambiente. Rispetto al passato il focus sarà incentrato su un confronto di esperienze che dal basso possono rinascere e attecchire in nuovi contesti. Per disegnare un futuro equo. L’agire quotidiano, in cui tutti i cittadini sono attori attivi, è l’altra costante del Novo Modo di pensare nel nuovo festival. Le buone pratiche messe in moto da enti come Caritas e Acli o Arci o Banca Etica, sono migliaia sparse nel nostro territorio ma fino a che non diventeranno percorsi di cultura diffusa nelle città e dentro le istituzioni resteranno pratiche isolate e non in grado di cambiare il modo di vivere delle persone. Questo è il principale obiettivo di Novo Modo: convogliare energie, cittadini e istituzioni per riflettere sul fatto che un cambiamento di rotta deve avvenire per restituire a tutti il diritto a una vita dignitosa e, infine, che il pianeta stesso dipende dalla sostenibilità delle nostre scelte di vita quotidiana. INFO fcre.it/novo2 con la notte in piazza tra cartoni, sacchi a pelo e coperte. Il 25 ottobre chiude la serie di iniziative la piazza di Schio con un programma altrettanto ricco di eventi. INFO facebook/La-Notte-dei-SenzaDimora-Rete-di-Vicenza

Milano

I grandi chef tornano in scena nella mensa dell’Osf Alla mensa di Opera San Francesco per i Poveri, domenica 26 ottobre, alla mensa dei poveri di corso Concordia 3, anche quest’anno ci sarà la quarta edizione del pranzo benefico organizzato in collaborazione con Identità Golose. La manifestazione si avvale della collaborazione di 8 grandi nomi della cucina italiana tra chef, macellai e pasticcieri che si esibiranno nel rappresentare l’evoluzione della cucina della Milano di oggi offrendo agli ospiti un’esperienza unica di grande cucina. Gli chef che si sono messi al servizio di Osf sono: Mauricio Zillo del ristorante Rebelot del Pont, Andrea Berton del ristorante Berton, Claudio Sadler del ristorante Sadler, Daniel Canzian del ristorante Daniel

con Mauro Brun e Bruno Rebuffi della Macelleria Annunciata - Pregiate Carni Piemontesi, Vincenzo Santoro e Davide Comaschi della pasticceria Martesana. Sarà possibile partecipare a questo evento di beneficenza a fronte di una donazione minima di cento euro a persona. Le donazioni raccolte verranno interamente destinate al sostegno della mensa, servizio storico di Opera San Francesco, al quale ogni giorno si rivolgono migliaia di persone in difficoltà. INFO www.operasanfrancesco.it

Carcere

In scena su Youtube al ritmo di “Happy”, un sogno senza sbarre Se provi a sognare puoi essere felice, anche qui dentro: è questa la scommessa, o la lezione, dei detenuti della casa circondariale “Luigi Bodenza” di Enna, protagonisti del video musicale girato da Paolo Andolina, sulle note del celebre brano musicale Happy di Pharrell Williams. Happy dentro è raccontato dai detenuti del carcere di Enna grazie a un corso di formazione professionale ottobre 2014 scarp de’ tenis

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tre domande a... Estela Carlotto di Daniela Palumbo

Riabbracciare il proprio nipote dopo 37 anni: «La verità resta la miglior cura contro il dolore» Era il 1976 quando arrivò la dittatura in Argentina. Estela Barnes de Carlotto aveva 46 anni ed era direttrice di una scuola della città. Aveva una figlia, Laura, che militava nei montoneros e fu rapita nel 1977, a 23 anni, dai militari. Per i militari era una sovversiva. Laura divenne una dei trentamila desaparecidos argentini di quegli anni. Laura era incinta quando fu portata via. Non era la sola. Le donne venivano fatte partorire e poi venivano uccise. I bambini dati in “adozione”, illegalmente, a parenti, amici del regime, a volte agli stessi aguzzini che avevano torturato le madri sono 500. Estela iniziò la ricerca del nipote Guido (era il nome che avrebbe voluto per lui, la madre) militando nelle Abuelas di Plaza de Mayo. Oggi Estela de Carlotto è la presidente delle Abuelas (nonne) d’Argentina che hanno ritrovato 115 nipoti. Il 5 agosto 2014, Estela, ha avuto la notizia che ha atteso per 37 anni: ha ritrovato suo nipote Guido. Grazie alla prova del Dna l’identità è certa. Ancora non si sa molto della sua adozione illegale e dei suoi genitori, anch’essi illegali, i giudici dovranno indagare. Prima del ritrovamento di Guido, è uscito il libro dedicato alla presidente delle Abuelas: Estela. La morte della figlia concepì una Abuela, a cura di Riccardo Petraglia. Editore: 24 Marzo Onlus. Abbiamo intervistato Estela all’uscita del libro, quando ancora non aveva ritrovato Guido. Ci sono stati giovani che non hanno accettato, nonostante la certezza data dalla prova del Dna, di separarsi dalla famiglia “adottiva”. Qual è la posizione delle Abuelas di Plaza de Mayo? Sappiamo che tutto ciò non può che avere delle forti conseguenze psicologiche. Infatti, come Abuelas provvediamo all’accompagnamento psicologico, ma siamo convinte che la miglior cura per tanto dolore sia proprio la verità. Molti dei nostri nipoti sono diventati querelanti delle loro stesse famiglie “affidatarie”, e così riescono a trovare pace e giustizia per i loro veri genitori e per loro stessi. Estela, come immagina suo nipote Guido nel mondo? Sono certa che in cuor suo mio nipote porti quella fiamma che apparteneva a Laura. Vorrei parlargli dell’impegno di

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Un abbraccio quasi insperato Estela Carlotto insieme al nipote Guido ritrovato nell’agosto del 2014 dopo ben 37 anni d ricerche. Nato dalla figlia Laura, rapita dai militari nel 1977 e finita tra le fila degli oltre 30 mila desaparecidos, Guido è uno dei 500 bambini nati in prigione e dati in adozione. A fianco la copertina di Estela. La morte della figlia concepì una Abuela, dedicato alla sua attività di presidente delle madri di plaza De Mayo.

sua mamma, del suo coraggio, della sua volontà, speranza e lavoro per un mondo più giusto per tutti. Lei, come tanti altri giovani della sua generazione volevano vivere e mettere le loro vite al servizio della giustizia per il bene comune. Qual è il vostro pensiero su Papa Francesco? Crediamo che abbia portato un’aria nuova nella Chiesa, era nei desideri dei fedeli. Noi Abuelas continuiamo ad abbracciare la speranza di essere comprese nella nostra ricerca di verità e giustizia da parte del Papa. Continuiamo a sperare in un suo segnale forte perché una parola, un gesto del Papa, riaffermerebbe il diritto alla ricerca dei nipoti e il diritto all’identità.


caleidoscopio di Anfe sulla fotografia digitale. Un video che racconta la vita quotidiana dietro larghe sbarre d’acciaio, e lo fa a ritmo di musica. Happy dentro solo su Youtube ha superato in poche settimane le 50 mila visualizzazioni: è un esperimento ma ben riuscito perché non solo fa ridere ma, soprattutto, fa passare in modo chiaro il messaggio che sottende alla realizzazione del video e che i detenuti hanno esplicitato nel video stesso È il racconto di un sogno, quello di provare ad essere spensierati anche dietro le sbarre. Per questo siamo grati a tutti quelli che si sono messi in gioco vivendo qualche momento di felicità in mezzo a tanta sofferenza. Lavorare sulla felicità, quella dell’Anima, impone un comportamento positivo che può incidere sulla devianza. Il carcere è privazione di libertà, ma se provi a sognare puoi essere felice, anche solo per qualche attimo. Una popolazione intera che balla, o si muove a ritmo di musica, continuando a compiere le azioni di sempre, trasformando la vita e i gesti banali di ogni giorno in una danza collettiva. Ci sono i detenuti, ma anche il personale che lavora all’interno del carcere: dall’assistente sociale alle guardie carcerarie. INFO youtu.be/GK8hAZ50inM

La mostra su Jannacci

Grande successo per “La mia gente” a Fivizzano Si è conclusa sabato 27 settembre, dopo un mese di esposizione, la mostra

Ricette d’Alex Timballo di mezze penne alla marinara

Alex, chef internazionale, ha lavorato in ristoranti dopo aver appreso l’arte della cucina nell’albergo di famiglia, a Rovigo. Oggi – i casi della vita... – vende Scarp. Cuocete 300 grammi di mezze penne, poi lasciatele raffreddare, per evitare che si attacchino aggiungete un po' di olio. Salsa marinara: cuocete dei pelati con cipolla e aglio, un po' di alloro, origano e frutti di mare tagliati piccoli. In una tortiera da 15 centimetri di diametro stendete della pasta sfoglia, condite le mezze penne con la salsa marinara, versatele poi nella tortiera. Con un disco di pasta frolla coprite la pasta condita e sigillate i bordi. Infornate per 20 minuti a 170 gradi. Va spento quando si è dorato sopra. Servire caldo.

“La mia gente - canzoni a colori”, curata da Davide Barzi e Sandro Patè e promossa dal nostro giornale e dall’amministrazione comunale di Fivizzano, grazie a un’idea del consigliere delegato alla cultura, Paolo Marini. Le tavole, ciascuna raffigurante una canzone del grande Enzo Jannacci, hanno impreziosito i locali storici della

Biblioteca di Fivizzano e sono state apprezzate dai visitatori. A chiusura della mostra un incontro con gli studenti. Con l’occasione, è stata consegnata al professor Eugenio Bononi, anima del Museo della stampa “Jacopo da Fivizzano”, la prima copia originale di Scarp de’ tenis che va ad arricchire le preziosi collezioni del Museo.

pagine a cura di Daniela Palumbo per segnalazioni dpalumbo@coopoltre.it

Tarchiato Tappo - Il sollevatore di pesi

ottobre 2014 scarp de’ tenis

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street of america James non ha mai mollato lo studio del pianoforte. Ora tutti lo cercano

“Buttatoven”, dalla strada al palco della Carnagie Hall di Damiano Beltrami da New York

U

Un pianoforte per ricominciare Una bella immagine di James Matthews che, per un anno e mezzo, ha dormito sotto il suo pianoforte in un’aula dell’università della Florida. Aiutato da un professore ora puà contare su una borsa di studio con vitto e alloggio. E ha iniziato a fare concerti anche fuori dagli Stati Uniti

N INCHINO AL PUBBLICO E UN MOMENTO DI CONCENTRAZIONE, poi ha lasciato danzare le grosse mani sui tasti del pianoforte. Sicuro, preciso, elegante. E mentre la musica di Prokof’ev si diffondeva nella sala Weill Recital del Carnegie Hall, a James Matthews sembrava surreale: solo qualche mese prima era homeless. Dall’indigenza a un tempio della musica newyorchese. È questa la storia paradossale e iperamericana di Matthews, 24 anni, ragazzone afroamericano cresciuto a burro d’arachidi e Beethoven, famoso tra i suoi amici per il contagioso sorriso, la risata fragorosa e per l’autoironico, autoprodotto e irriverente soprannome “Buttatoven”. Finita la scuola superiore Matthews ha incominciato la laurea in pianoforte al Florida Southern College, ma abbandonato dai genitori e senza fondi, per oltre un anno e mezzo ha dovuto inventarsi il tetto sotto cui riposare. Dormiva all’aperto, sotto i cavalcavia, in macchine di amici, dove riusciva. «Anche se non avevo una casa – racconta – sono restato concentrato sul pianoforte, non ho smesso di esercitarmi, e in quel periodo ho pure rimediato una borsa di studio». Poi, figlia della necessità, gli è balenata l’idea che gli avrebbe cambiato la vita: passare le notti nel campus universitario accartocciato sotto il pianoforte a coda della sua aula-studio preferita aperta 24 ore su 24. E in un primo tempo nessuno se ne è accorto. «Al mattino i compagni di corso mi chiedevano per scherzo “ma tu qui ci dormi?”. Io sorridevo. Loro pensavano che stessi alla presa in giro, ma in realtà avevano colto nel segno». Poi, stando al racconto di Matthews, una mattina un docente lo ha scoperto. Il che si è rivelato un imprevedibile colpo di fortuna. Capendo la situazione il professore gli ha trovato un borsa di studio con vitto e alloggio in un altro ateneo, la University of West Florida. Rinfrancato dalla svolta positiva e incoraggiato dalla nuova insegnante Heidi Salanki, Matthews ha registrato la sonata n.7 di Prokofi’ev e l’ha mandata al concorso American Protege International Piano and Strings Competition. Ed ecco la menzione d’onore e il successivo invito a suonare un pezzo a Carnegie Hall. Quella serata dello scorso aprile è stata per Matthews l’incipit di una partitura ancora tutta da scrivere. Dopo una sequela di articoli e servizi Tv, lo scorso agosto il ragazzone della Florida è stato ospite allo show di Ellen DeGeneres, un programma molto seguito negli Stati Uniti, dove ha incassato un assegno di 25 mila dollari per completare il perfezionamento alla University of West Florida. E poi il vero colpo di scena: il primo settembre Carnegie Hall gli ha mandato un’e-mail offrendogli di suonare un concerto solistico il 3 maggio 2015, notizia che gli ha fatto registrare 249 like sulla sua pagina Facebook. Altri inviti sono arrivati anche da più lontano. «Mi hanno scritto dall’Australia – aggiunge con orgoglio –. Il 28 dicembre mi esibirò alla Sidney Opera House, non vedo l’ora che sia dicembre. Intanto, però, mi conviene tornare a studiare».

74. scarp de’ tenis ottobre 2014

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