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Foto Romano Siciliani - Spedizione in abbonamento postale 45% articolo 2, comma 20/B, legge 662/96, Milano

LA STORIA

GIUDITTA E PIETRO, UN AMORE NATO DIETRO LE SBARRE

3,50

DOMENICO STARNONE I DIECI COMANDAMENTI RACCONTATI DA GRANDI SCRITTORI

www.scarpdetenis.it giugno 2015 anno 20 numero 192

Salute, diritto per tutti I PIÙ POVERI E I MENO ISTRUITI SI AMMALANO DI PIÙ E MUOIONO PRIMA. E SPESSO FATICANO AD ACCEDERE ALLE CURE. VIAGGIO DI SCARP TRA CHI GARANTISCE ASSISTENZA A TUTTI


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EDITORIALE

Elogio dell’arte di strada patrimonio del Paese

LA PROVOCAZIONE

Accesso alle cure, tra pubblicità ingannevoli e diritti negati

di don Roberto Davanzo

di Stefano Lampertico [

@stefanolamp ]

Che strana combinazione. Scrivo questo breve editoriale sul treno che mi riporta a Milano dopo una breve trasferta nel sud Italia, dove peraltro ho avuto la bella occasione di confrontarmi con gli amici delle redazioni del sud Italia – riscoprendo, ma non è una sorpresa – la vivacità di un tessuto sociale che è fermento per quei territori. A Firenze, sale,

e si accomoda al mio fianco, un tipo strano, alto, filiforme, con la barba lunga. Che mi incuriosisce. E che fa un mestiere strano. È un artista. Un

funambolo. Uno di quei tipi insomma che cammina a suo rischio e pericolo su una corda appesa a non so quanti metri d’altezza nel cielo. Che strana combinazione, sì. Un artista di strada. E mi tornano in mente le polemiche, tutte milanesi, di qualche anno fa, quando qualcuno voleva limitare l’espressione genuina dell’arte di strada. E sorrido, pensando ai volontari che hanno cancellato di recente un lavoro di street artdi Pao, sempre qui a Milano, presi dall’euforia della pulizia tout court. E penso ai recenti show televisivi

che hanno consacrato come vincitori talenti che, fanno della strada, il loro palcoscenico. E leggo degli U2 che hanno tenuto un breve concerto nella stazione di Grand Central della metropolitana di New York. E penso a quanto sia stata bella la festa per Enzo Jannacci alla Casa di accoglienza, il “dormitorio” di Milano, a lui dedicato.

Il nostro tributo a chi vive la strada come palcoscenico, agli artisti di strada, a chi suonando Scarp ogni mese dedica o dipingendo una sua pagina, l’apertura di Caleidoscopio, agli arti- o in mille altri modi sti di strada, a chi ha talento e, rende la città spesso, poca fortuna, a chi si esipiù bella. E viva. bisce cantando o suonando o dipingendo regalando momenti di Un patrimonio, gioia, a chi passa, guarda e – spes- troppo spesso so senza lasciare un solo centesinon considerato mo –se ne va. Anche in questo caso Scarp va controcorrente. Per- e sottovalutato, ché considera l’arte di strada del nostro Paese

come un patrimonio del nostro paese, come uno straordinario esempio di creatività e bravura. E un momento di piacevole sorpresa, nella vita spesso troppo frenetica delle nostre città. Poteva essere diversamente per un giornale come il nostro che ha nella sua testata, e quindi nel suo cuore, la scritta “il mensile della strada”? A proposito. Per Scarp c’è una bellissima notizia in arrivo. Ma non voglio togliervi la sorpresa. Ne parleremo sul prossimo numero!

contatti Per commenti, idee, opinioni e proposte: mail scarp@coopoltre.it facebook scarp de tenis twitter @scarpdetenis www.scarpdetenis.it

L’abbiamo scoperto riflettendo sui temi di Expo: a volte l’eccesso di cibo produce effetti peggiori della sua mancanza. Basti pensare ai disturbi dell’alimentazione di origine nervosa (anoressia, bulimia) o al problema dell’obesità spesso evidente anche nei paesi in via di sviluppo, a dimostrazione del fatto che la questione ha anche una sua dimensione culturale. Chi è meno attrezzato dal punto di vista dell’informazione, chi si lascia abbindolare dalle pubblicità ingannevoli delle grandi centrali dell’agroalimentare, certamente è più esposto ad acquisire stili di vita, modalità di acquisto che finiscono per minare la sua salute. Chi si lascia travolgere dai ritmi del vivere quotidiano e cede alle lusinghe dei cibi già pronti si espone ad una dieta squilibrata e dannosa. Chi poi non può permettersi – o non ne percepisce il valore - una periodica verifica dello stato dei suoi denti, va certamente incontro a disturbi della digestione. Chi non comprende la necessità – specie col passare degli anni - di periodici controlli della pressione arteriosa e dello stesso sangue, rischia di trovarsi improvvisamente di fronte a patologie assolutamente curabili se prese in tempo. Sono solo alcuni esempi di come la povertà (economica e culturale) va ad incidere sulla salute delle persone. Esempi di come una seria azione di contrasto della povertà debba passare obbligatoriamente da una altrettanto seria azione informativa finalizzata a stili di vita corretti e all’utilizzo dei servizi che – almeno nei nostri territori – sono comunque presenti. Esempi dell’urgenza di fornire ai senza dimora non solo dormitori o mense, ma anche una residenza anagrafica, condizione indispensabile per poter accedere ai servizi del sistema sanitario e al medico di base. giugno 2015 Scarp de’ tenis

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SOMMARIO

Foto Romano Siciliani - Spedizione in abbonamento postale 45% articolo 2, comma 20/B, legge 662/96, Milano

LA STORIA

GIUDITTA E PIETRO, UN AMORE NATO DIETRO LE SBARRE

3,50

DOMENICO STARNONE I DIECI COMANDAMENTI RACCONTATI DA GRANDI SCRITTORI

A dicembre le altre canzoni a colori di Enzo Jannacci

www.scarpdetenis.it giugno 2015 anno 20 numero 192

Salute, diritto per tutti I PIÙ POVERI E I MENO ISTRUITI SI AMMALANO DI PIÙ E MUOIONO PRIMA. E SPESSO FATICANO AD ACCEDERE ALLE CURE. VIAGGIO DI SCARP TRA CHI GARANTISCE ASSISTENZA A TUTTI

Dopo il grande successo della mostra “La mia gente - Enzo Jannacci, canzoni a colori”, che ancora sta girando per l’Italia, siamo molto orgogliosi di poter dire che alla fine dell’anno, e in una sede molto prestigiosa di Milano, esporremo le tavole della nuova mostra, che Scarp propone insieme ai curatori Davide

Barzi e Sandro Patè, che vedrà illustrate da importanti fumettisti, tante altre canzoni di Enzo Jannacci. Incontreremo così altri personaggi, altre storie, vivremo altre emozioni che già con “La mia gente” abbiamo imparato ad apprezzare. Sul prossimo numero qualche dettaglio in più. Intanto, si è conclusa anche la prima fase del cooking contest “Cucina con 3 euro” che abbiamo promosso, insieme con Caritas Ambrosiana. Sulla pagina facebook del concorso sono pubblicate le ricette più votate, le ricette scelte dalla redazione di Scarp e

la ricetta vincitrice del concorso scelta da Viviana Varese, chef stellato del ristorante Alice presso Eataly Smeraldo di Milano. Anche in quessto caso, sul prossimo numero, dedicheremo ampio spazio al concorso. Che peraltro non finisce. Il cooking contest contro la fame nel mondo continua. Si apre una seconda fase, che potete seguire sempre sulla pagina facebook del concorso. Nella prima sono arrivate oltre 150 ricette. Continuate a inviarcele pubblicando con il tag #cucinacon3euro o con una mail a scarp@coopoltre.it

Tra i francesi che si incazzano tra i giornali che svolazzano c'è c'è una luna in fondo al blu. Oh quanta strada nei miei sandali

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rubriche

servizi

PAG.7 (IN)VISIBILI di Paolo Lambruschi PAG.9 IL TAGLIO di Piero Colaprico PAG.10 LE STORIE DI MURA di Gianni Mura PAG.12 LA FOTO di Giovanni Assenza PAG.14 PENNE PER SCARP di Domenico Starnone PAG.20 LO SCAFFALE di Yamada PAG.21 VISIONI di Sandro Patè PAG.33 PIANI BASSI di Paolo Brivio PAG.53 POESIE PAG.55 VOCI DALL’EUROPA di Mauro Meggiolaro PAG.65 SCIENZE di Federico Baglioni PAG.66 IL VENDITORE DEL MESE

PAG.22 L’INTERVISTA Negrita: «La nostra musica per esplorare nuovi mondi» PAG.24 COPERTINA Salute, diritto per tutti PAG.32 EXPO CARITAS Massimo Bottura e il buon cibo che nasce dalla cultura PAG.34 REPORTAGE Asmarina, benvenuti a Milano PAG.38 INCONTRI La fede e l’amore più forte delle sbarre PAG.40 LA STORIA Palio del Grano, tutta la forza della tradizione PAG.42 GENOVA Angeli con la pistola, detenuti diventano attori PAG.43 VICENZA Storia di Eva: la farfalla, il Parkinson e la danza PAG.44 TORINO Rifugio diffuso, nuovo modo di accogliere PAG.46 VERONA Dagli scarti nasce una nuova vita PAG.49 VENEZIA Centro di ascolto, luogo da cui ripartire PAG.50 RIMINI Umar e gli altri, tra accoglienza e integrazione PAG.56 VENTUNO Migranti, opportunità per le economia PAG.61 CALEIDOSCOPIO Incontri, laboratori, autobiografie PAG.62 NAPOLI Homeless e cibo, si mangia di tutto per disperazione PAG.64 COMO Senza dimora e cittadini in rete

Redazione di strada e giornalistica via degli Olivetani 3, 20123 Milano tel. 02.67.47.90.17 fax 02.67.38.91.12 scarp@coopoltre.it

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Scarp de’ tenis giugno 2015

Direttore responsabile Stefano Lampertico Redazione Ettore Sutti, Francesco Chiavarini, Paolo Brivio

Segretaria di redazione Sabrina Montanarella Responsabile commerciale Max Montecorboli

Redazione di strada Roberto Guaglianone, Antonio Mininni, Lorenzo De Angelis, Alessandro Pezzoni

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da

lla stra sile de

Il men

aforisma di Merafina Il ladro incompreso Il ladro incompreso si è portato via tutto ma ha lasciato le sue impronte

www.scarpdetenis.it febbraio anno 19 numero 188

Cos’è Scarp de’ tenis è un giornale di strada noprofit nato da un’idea di Pietro Greppi e da un paio di scarpe. È un’impresa sociale che dà voce e opportunità di reinserimento a persone senza dimora o emarginate. È un’occasione di lavoro e un progetto di comunicazione.

è un po' di vento e abbaglia la campagna li quanta ne avrà fatta Bartali...

Dove vanno i vostri 3,50 euro

Bartali (1979) - tributo a Enzo Jannacci

Vendere il giornale significa lavorare, non fare accattonaggio. Il venditore trattiene una quota sul prezzo di copertina. Contributi e ritenute fiscali li prende in carico l’editore. Quanto resta è destinato a progetti di solidarietà.

Per contattarci

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TOP 15

Paesi per numero migranti 1

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32 Foto Romano Siciliani, Msf, Osf, Riccardo Gallini, Comitato solidarietà Rifugiati, Carboneli&Seganti, Dara Munnis Disegni Giampaolo Zocca, Gianfranco Florio, Luca Usai, Sergio Gerasi

dati 2014, fonte: Reporters sans frontieres

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Stati Uniti Russia Germania Arabia Saudita Emirati Arabi Regno Unito Francia Canada Australia Spagna Ucraina Italia Pakistan Kazakistan Hong Kong

45.785.090 11.048.000 9.845.244 9,060,433 7.826.000 7.824.000 7.439.000 7.284.069 6.468.640 6.466.605 5.258.000 4.463.000 4.234.000 3.079.000 2.999.000

Progetto grafico Francesco Camagna Sito web Roberto Monevi Editore Oltre Soc. Coop. via S. Bernardino 4, 20122 Milano Presidente Luciano Gualzetti

Direzione e redazione centrale - Milano Cooperativa Oltre, via degli Olivetani 3 tel. 02.67479017 scarp@coopoltre.it Redazione Torino Casamangrovia, corso Novara 77, tel. 011.2475608 scarptorino@gmail.com Redazione Genova Fondazione Auxilium, via Bozzano 12 tel. 010.5299528/544 comunicazione@fondazioneauxilium.it Redazione Verona Il Samaritano, via dell’Artigianato 21 tel. 045.8250384 segreteria@ilsamaritanovr.it Redazione Vicenza Caritas Vicenza, Contrà Torretti 38 tel. 0444.304986 vicenza@scarpdetenis.net Redazione Venezia Caritas Venezia, Santa Croce 495/a tel. 041.5289888 info@caritasveneziana.it Redazione Rimini Settimanale Il Ponte, via Cairoli 69 tel 0541.780666 rimini@scarpdetenis.net Redazione Firenze Il Samaritano, via Baracca 150/e tel. 055.3438680 samaritano@caritasfirenze.it Redazione Napoli Cooperativa sociale La Locomotiva largo Donnaregina 12, tel. 081.441507 scarp@lalocomotivaonlus.org Redazione Salerno Caritas Salerno, Via Bastioni 4 tel.089 226000 caritas@diocesisalerno.it

Registrazione Tribunale di Milano n. 177 del 16 marzo 1996 Stampa Tiber via della Volta 179, 24124 Brescia

Consentita la riproduzione di testi, foto e grafici citando la fonte e inviandoci copia. Questo numero è in vendita dal 6 giugno al 4 luglio 2015 giugno 2015 Scarp de’ tenis

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IDEE E PROGETTI A FAVORE DEI SENZA DIMORA


(IN)VISIBILI

Cambia il popolo della strada ma non l’ostilità verso il povero

di Paolo Lambruschi

Apro una parentesi. Quando questo giornale iniziò la sua meravigliosa avventura, a metà degli anni novanta, il concetto di strada era completamente diverso. Eravamo partiti dall’idea che valesse la pena raccontare le storie del popolo degli invisibili che allora era composto perlopiù da senza dimora italiani di mezza età e anziani molto spesso con problemi di dipendenza. Oggi (chiusa parentesi) non è possibile parlare di popolo della strada senza includervi i migranti in fuga da guerre, miseria e persecuzioni e che sbarcano a ripetizione e che partono alla volta degli Stati più ricchi del Vecchio continente, quella Fortezza Europa che resta sigillata nonostante abbia bisogno – la demografia è una scienza abbastanza esatta – di forze fresche per poter tenere i ritmi di sviluppo attuali.

Una cosa, però, è cambiata in peggio in 20 anni, la paura e l’ostilità diffusa verso il povero e il diverso ieri, oggi anche verso lo straniero ancor più se vive in strada. Le aggressioni, che anche in inverno e in primavera non sono

In venti anni è cambiata in peggio la paura e l’ostilità diffusa verso il povero e il diverso, oggi ancora di più verso lo straniero che vive in strada

mancate, contro clocharditaliani e stranieri fanno riflettere. Al netto delle liti tra compagni di strada, sono parecchi gli episodi di violenza anche estrema, dai pestaggi ai roghi, contro persone inermi, colpevoli di non avere null’altra proprietà che il cielo sopra la testa e di dormire su una panchina o sotto un portico coperti da cartoni, magari ubriachi. E nessuno o quasi di loro era italiano, anche se nessuno mette mai tra le cause la xenofobia. Prendo come esempio

l’aggressione avvenuta a Nola ai danni di Vaslav, di ori-

scheda

Paolo Lambruschi è nato a Milano nel 1966. Lavora ad Avvenire, come capo degli interni, dopo essere stato per tanti anni inviato. Ha diretto Scarp de’ tenis e il mensile di finanza etica Valori. Nel 2011 ha vinto il prestigioso premio giornalistico “Premiolino” per le inchieste sul traffico di esseri umani nel Sinai.

gine ceca, che per poco non è stato ammazzato nel suo ricovero di fortuna di via Polveriera a Nola da una “coraggiosa” banda di baby calciatori e studenti iscritti all’ultimo anno dell’istituto tecnico locale, tutti d'età compresa tra i 17 e i 19 anni e con fedina penale immacolata, che il 17 marzo gli avrebbero spezzato a bastonate braccia e gambe senza alcun motivo particolare, solo per noia e gusto della trasgressione. L’uomo si trova in un centro di riabilitazione nel casertano poi in estate verrà accolto in un centro della Caritas di Nola. È una delle aggressioni più vili e crudeli in cui mi sia imbattuto in tanti anni. C’è da interrogarsi sulla testa e sul cuore di persone capaci di crudeltà da “arancia meccanica”. Da dove arriva tanto

dia, pieni di messaggi di profondo disprezzo verso gli immigrati invasori e tutte le categorie della diversità offre alcune spiegazioni. Sono gli unici mezzi di comunicazione privi di un codice etico e deontologico, dove ciascuno può incitare liberamente all’odio. Su Facebook, ad esempio sono comparsi siti inneggianti all’uccisione e alla violenza sui neonati con foto di bambini uccisi e tanti “mi piace”. Nonostante le proteste, vengono chiusi e riaperti perché non è interesse delle aziende – tali sono gli “editori” dei social – mettere a tacere i propri clienti. Eppure l’odio e non solo può liberamente circolare quasi che avessimo scambiato la libertà di espressione con la libertà di aprire le cloache e riversarne i contenuti all’esterno. Nessuno gli si oppone, pensiamo che sia perdente e inutile ribattere a quei “mi piace” dei tanti nazisti 3.0 che si nascondono on line. Sbagliamo, bisogna

opporsi a tutto ciò come atto di impegno civile. Come? Torno alla parentesi iniziale. Con voci come Scarp, che racconta quanta umanità c’è sulla strada e ne porta altrettanto sui social. Sono queste le voci attente alla realtà invisibile che fanno capire quanto piccoli siano i vigliacchi e i violenti. La cui mamma, purtroppo, è sempre gravida.

odio che spinge un gruppo di giovanotti benestanti a ridurre in fin di vita un loro simile solo e indifeso? Un giro sui cosiddetti socialmegiugno 2015 Scarp de’ tenis

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inserzione a pagamento

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Emergenza italiani Opera San Francesco distribuisce 2.779 pasti per i Poveri, tra pranzo e cena. Nel 2014 c’è stato un aumento rispetto ai dati 2013: in totale, sono stati serviti 11.290 pasti in più rispetto all’anno precedente, per un totale di 869.516 coperti. Anche alle docce l’affluenza è stata maggiore: sono stati registrati nel 2014 complessivamente 66.885 ingressi, con un lieve incremento rispetto all’anno precedente. In prevalenza sono gli uomini a richiedere i servizi: il 74% (19.848). Per quanto riguarda l’età, oltre il 25%, degli utenti rientra nella fascia dei 35-44. Anche i numeri del poliambulatorio gratuito sono altissimi: 167 visite mediche al giorno per un totale di 40.188 visite annue. Anche se sono 134 le nazionalità rappresentate dagli utenti di Opera San Francesco, il 2014 è da considerare l’anno della svolta: gli utenti italiani (3.449, cioè il 13%), hanno superato numericamente quelli di altre nazionalità da sempre molto presenti, cioè i rumeni (12%), gli egiziani (10%), i marocchini (8%), i peruviani (7%).

In primo piano: l’emergenza abitativa Tante le iniziative e i progetti in OSF. Fra questi, l’Opera San Francesco partecipa alla prima sperimentazione a livello nazionale del progetto Housing First Italia, promosso da fio.PSD (Federazione Italiana degli Organismi per le Persone Senza Dimora). Il progetto intende sostenere alcuni criteri ritenuti fondamentali: ridurre l’emergenza abitativa e favorire l’inclusione sociale

attraverso l’ascolto e un’accoglienza immediata in appartamento. L’ Housing First si rivolge a persone in condizione di grave emarginazione, senza dimora, tra i 25 e i 45 anni, italiani o stranieri ma con documento valido, condizione necessaria per responsabilizzare la persona a regolarizzarsi e accedere a una serie di servizi pubblici.

Avere cura delle persone Un’altra attività fondamentale di Osf è sul fronte sanitario con l'ambulatorio gratuito e alcuni progetti mirati. Ad esempio quello dedicato alla tutela della maternità in condizioni di fragilità. La Dottoressa Ilaria Pensabene è volontaria dell’ ambulatorio. Ecco cosa racconta della sua esperienza: "Attualmente a OSF sto collaborando al progetto Prevenzione amica delle donne migranti a Milano che, insieme all’asl di Milano, al Comune di Milano e alla Fondazione Bracco, ha come scopo la prevenzione delle infezioni materno-fetali nelle popolazioni migranti. Ogni volta mi scopro a osservare lo stupore e la gratitudine di donne straniere con problemi di ogni genere, di integrazione, di lavoro, di lingua, spesso lontane dalla loro casa. A Opera San Francesco ho trovato un ambito di autentica attenzione alla persona nella sua totalità, corpo e anima, e un livello di cura sanitaria assolutamente all’avanguardia. Sono consapevole che il mio operare sia una goccia in un oceano, ma sono grata e certa che quel poco sia segno di una carezza alla vita dell’altro, una carezza che scalda il mio e il suo cuore”.

Il nostro 5X1000 Opera San Francesco ha ricevuto con il 5 per mille del 2013, ben 1.783.000 euro: 50.598 contribuenti hanno fatto la scelta col cuore. Ogni euro donato a Opera San Francesco e ai suoi oltre 700 volontari, viene moltiplicato e trasformato in pasti, visite mediche, farmaci e abiti distribuiti, servizi di assistenza, progetti di ospitalità e di prevenzione. Chi vuole sostenere Osf può mettere nell'apposito spazio il codice fiscale di Opera San Francesco per i Poveri: 97051510150.


IL TAGLIO

Molotov cancellate da stracci. E i “confini” nella città spariscono «Non è felice, la vita a Raissa. Per le strade la gente cammina torcendosi le mani, impreca ai bambini che piangono, s’appoggia ai parapetti del fiume con le tempie tra i pugni, alla mattina si sveglia da un brutto sogno e ne comincia un altro». di Piero Colaprico

scheda

Piero Colaprico (Putignano 1957), giornalista e scrittore, vive a Milano dal 1976. È inviato speciale di Repubblica, si occupa di giustizia e di cronaca nera. Ha scritto alcuni romanzi, tra cui Trilogia della città di M. (2004), vincitore del Premio Scerbanenco. Una penna tagliente. Come questa rubrica che cura per Scarp.

Che cosa succede in una città quando, una domenica pomeriggio, tante persone di tutte le età, di tutte le convinzioni politiche, di tutti i mestieri e le professioni, di tante scuole, scendono in strada con pagliette abrasive, alcol, detersivi e pulisce la città? La “sua” città. Questo aggettivo possessivo, in questo “mio” collettivo, in questo “nostro” c’è forse la chiave di lettura di questa strana storia accaduta a Milano, il 3 maggio 2015. A volte anche un sindaco può essere un profeta. No, non stiamo parlando di Giuliano Pisapia, ma del sindaco di Philadelphia, antica (si fa per dire, dal punto di vista di noi italiani) città americana. Il quale, dopo pesanti disordini razziali, disse: «Oggi i confini non sono più tra gli Stati, ma sono dentro le città». Erano gli anni sessanta del secolo scorso. Quello sì che era uno che ci aveva visto giusto.

Oggi dentro le città non esistono più solo i confini tra i “Bronx”, le banlieu, i ghetti, la casbah– quante definizioni abbiamo per definire ciò che è separato dal centro, dal benessere, dal potere – e i quartieri meno problematici. Esistono e aumentano i confini mentali. Come la mente è un “argomento” molto vasto e complesso, così sarebbe in questa pagina sbagliato elencare tutti i confini mentali che a Milano ci separano e ci dividono, o ci uniscono e ci affratellano. Nella memoria troviamo un’altra frase non nostra: «A Ersilia, per sta-

Milano, con l’Expo, in questi mesi è diventata molto visibile, ma tra noi abbiamo cominciato a “vederci”? Forse qualche filo si sta riannodando? bilire i rapporti che reggono la vita della città, gli abitanti tendono dei fili tra gli spigoli delle case, bianchi o neri o grigi e bianco e neri a seconda se segnano relazioni di parentela, scambio, autorità, rappresentanza. Quando i fili sono tanti che non si può più passare in mezzo, gli abitanti vanno via: le case vengono smontate; restano solo i fili e i sostegni dei fili». Fili che ci uniscono, sia

quando sporchiamo, sia quando puliamo, quando inneggiamo, quando siamo contro. O fili che ci legano, c’imprigionano? Per non perdere il filo del discorso va considerato – questo è il nostro mestiere – sempre il fatto. Lo slogan Nessuno tocchi Milano, quella prima domenica di maggio, si è propagato veloce su internet a Milano, appena poche ore dopo la manifestazione del Primo Maggio, dopo che le centinaia di antagonisti avevano sporcato strade, bruciato auto, danneggiato vetrine. Lo slogan – è un fatto – ha portato a diventare “casalinghe entusiaste” circa 7 mila persone. Via Carducci, così lunga e

larga e diritta, sembrava un incredibile tunnel dell’autolavaggio senza auto: teste, mani, braccia in movimento, a scrostare le vernici collose che i manifestanti usano affinché indelebile sia il messaggio sul muro, sul vetro, sul marmo, sull’asfalto. E

così quella manifestazione di pulizia è diventato un altro confine: tra chi pensa alla «nostra» città e chi non lo pensa. O forse no, perché «una sibilla, interrogata sul destino di Marozia, disse: “Vedo due città, una del topo, una della rondine. L’oracolo fu interpretato così: oggi Marozia è una città dove tutti corrono in cunicoli di piombo come branchi di topi che si strappano di sotto i denti gli avanzi caduti dai denti dei topi più minacciosi; ma sta per cominciare un nuovo secolo in cui tutti a Marozia voleranno come le rondini d’estate, chiamandosi come in un gioco, esibendosi in volteggi ad ali ferme, sgomberando l’aria da zanzare e moscerini». Erano gli anni Settanta quando Calvino parlava di Ersilia, Raissa, Marozia, delle altre Città invisibili (Einaudi). Anche noi siamo

spesso in mezzo a strade che non vediamo, persone che non conosciamo. Anche per l’Expo, in questi mesi Milano è diventata nel mondo molto visibile,

ma noi tra noi abbiamo cominciato a «vederci»? Forse qualche filo si sta riannodando? È il confine da superare che spesso ci spinge ad andare avanti, come per migliaia di anni hanno fatto i nomadi, i nostri progenitori sapiens, cercando una terra migliore, un mare migliore: noi, i loro eredi, che cerchiamo? Se non un mondo migliore, almeno una città migliore. Ma, spesso, non ci pensiamo, finché qualcuno non prese una molotov, e qualcuno uno straccio. giugno 2015 Scarp de’ tenis

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Storia di Major Taylor, il nero volante che batteva i bianchi sulla bici Da molti anni gli atleti di pelle nera gareggiano, e spesso dominano, in quasi tutti gli sport, esclusi quelli della neve. Ma non è sempre stato così, per motivi economici e di discriminazione razziale. Il primo afroamedi Gianni Mura

ricano a vincere un campionato del mondo fu il boxeur George Dixon, canadese, nel 1890. E fu, a detta di Nat Fleischer, storico del pugilato, il più grande peso piuma della storia. Il secondo fu

Marshall Walter Taylor, più noto come Major Taylor perché agli inizi della carriera si esibiva indossando una divisa dell’esercito nordista. Major era un ciclista, e qui sta la singolarità della sua storia.

scheda

Gianni Mura è nato a Milano nel 1945. Giornalista e scrittore. Su Repubblica cura la rubrica Sette giorni di cattivi pensieri, nella quale – parlando di sport, s’intende – giudica il mondo intero. In questa rubrica racconta invece le storie di sport che, altrove, faticherebbero a trovare spazio.

10 Scarp de’ tenis giugno 2015

Un ciclista velocissimo sulle piste di tutto il mondo, dunque un pistard. Lo chiamavano il Nero volante. Il presidente Roosevelt era suo tifoso. Il padre di Major, Gilbert Taylor, era un veterano della guerra civile. Aveva sposato una ragazza di Louisville, Saphronia. Dal matrimonio erano nati otto figli, cinque femmine e tre maschi. Gilbert era fattore in una tenuta vicino a Indianapolis, proprietaria una famiglia di bianchi, i Southards, di vedute molto aperte in rapporto all’epoca. Major giocava con i loro figli e all’età di 10 anni riceve in regalo una bicicletta e questo regalo segnerà la sua vita. Un corpo perfetto

Major già a 18 anni, nel 1896, conquista sulla pista di Indianapolis due record mondiali sul miglio, ma la prestazione non è

Aveva al proprio arco una freccia sola, ma sapeva adoperarla come Paganini la quarta corda del violino prodigioso, ed era la punta finale, quell’estrema espressione dello sforzo nelle vorticose ultime pedalate omologata: ferito l’orgoglio dei rivali bianchi (farsi battere dall’unico nero in bicicletta, suvvia). Si rifarà con gli in-

teressi nel 1899 con 7 record mondiali battuti in 6 mesi. Per chi è poco pratico di ciclismo, va ricordato che le grandi corse su strada (Giro, Tour) sarebbero nate nel primo decennio del Novecento. E che la pista è considerata l’aristocrazia del ciclismo. E di questa aristocrazia entra a far parte. Negli Usa (ma non negli Stati del Sud), in Europa, in Oceania. Mentre gareggia a Sydney accompagnato dalla moglie Daisy (sposata nel 1902 ad Ansonia, Connecticut) nasce la figlia, chiamata col nome della città.

L’Europa ha fame di leggende e di esotismo. E’ in questo periodo che William Cody, alias Buffalo Bill, gira col suo circo e sfida a cavallo i velocisti sul cavallo d’acciaio, ossia la bicicletta. Al Velodromo Sempione di Milano batte Romolo Buni, ma utilizzando due cavalli. Certamente nella sua tournée europea di tre mesi Major riempie il Motovelodromo di Torino e batte seccamente Federico Momo, l’idolo di casa. Lì lo vide un giovanissimo Vittorio Varale che così lo descrisse: «Aveva al proprio arco una freccia sola, ma sapeva adoperarla come Paganini la quarta corda del violino prodigioso, ed era la punta finale, quell’estrema espressione dello sforzo nelle vorticose ultime pedalate, che dai giornali francesi avevamo imparato a chiamare démarrage. La sua forza non si rivelava con muscoli appariscenti e vistosi; il suo

corpo era perfetto in un’armonica fusione di linee e di volumi, lo chiamavano l’Apollo d’ebano, sotto le cui sembianze,celata, vibrava una potenza che, una volta messa in azione, restava invisibile». Vale a dire che gli alti picchi di velocità Major li toccava senza sforzo apparente mentre in altri pistard lo sforzo si vedeva, eccome. Non si corre di domenica Da metà maggio a fine luglio durava la tournée europea di Major. Gli spinter più forti e famosi erano europei: Rutt, Friol, Jacquelin, Ellegaard, Poulain, Grogna. Jacquelin era il prediletto dai francesi, un po’ per il valore un po’ per la messinscena (arri-


LE STORIE DI MURA

Parigi, 27 maggio 1901. Dopo aver vinto il primo turno, Major Taylor stringe la mano al suo sfidante, il francese Jacqueline, prima della partenza della seconda batteria che Taylor vincerà diventando caampione del mondo

vava al velodromo in carrozza, un tiro a quattro). Major lo battè, ne sconfisse tanti. A patto che non si corresse di domenica, era molto religioso e pur di non gareggiare nel giorno di festa rinunciò ad altre vittorie. Le minacce del Ku Klux Klan

Non fu rose e fiori, la sua carriera. Prima l’ostracismo da alcuni velodromi, poi le combines tra gli avversari per farlo perdere. Gli avversari, va sottolineato, erano tutti bianchi. Una volta fu sbattuto contro la balaustra e perse conoscenza: la scorrettezza dell’avversario, che aveva cambiato apposta direzione, fu punita con soli 50 dollari d’ammenda. Aggiungiamoci le

minacce del Ku Klux Klan. Non enfatizzò la persecuzione razzista: «La vita è troppo breve

per coltivare odio nel cuore», diceva. E anche: «Se gli si danno pari opportunità, non esistono motivi fisici o psicologici per cui un nero non possa primeggiare nello sport».

Smise di correre nel 1910. La crisi del 1929 si portò via quel che gli era rimasto, dopo alcuni investimenti sbagliati. La moglie lo piantò. Morì all’ospedale dei poveri di Chicago nel 1932. A lui è dedicato il velodromo di Indianapolis

Povero, e solo

In bici, temeva solo una cosa: il freddo. La potenza non si esprimeva, restava all’interno del suo corpo. Le cronache dell’epoca lo raccontano estremamente corretto, dotato di un grande fair-play. Non sempre ricambiato. A Copenaghen, 15 mila spettatori per la sfida col biondo Ellegaard. Sull’1-1, la bella. Taylor scivola sulla pista bagnata, cade e chiede all’avversario di ripetere la

prova. Neanche per sogno, dice Ellegaard. E Taylor: “Sir, voi siete un grande campione ma non uno sportivo”. In una sola stagione Taylor guadagnava tra i 30 e i 35 mila dollari. Smise di correre nel 1910. Scrisse la sua biografia: The extraordinary career of a Champion Bicycle Racer. Era

il 1929, la Grande Crisi si portò via quel poco che gli era rimasto dopo alcuni investimenti sbagliati. La moglie lo piantò. Morì all’ospedale dei poveri di Chicago il 21 giugno 1932. A 50 anni dalla morte il velodromo di Indianapolis, da cui era stato cacciato per il colore della pelle, è stato intitolato a Major Taylor. Sydney, la figlia, è morta a 101 anni nel 2005. Nel 1984 aveva consegnato i ricordi di famiglia (libri, foto ecc.) agli archivi dell’università di Pittsburgh. giugno 2015 Scarp de’ tenis

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LA FOTO

foto di Giovanni Assenza

scheda

Italian Film Food Stories Mostra fotografica organizzata dalla Fondazione Ente dello Spettacolo con il Centro Sperimentale di CinematografiaCineteca Nazionale e resa possibile grazie a UP, SIPOL Spa, SEA, Varigrafica e Press Up. Fino al 31 ottobre Edicola Caritas - Expo

Virna Lisi e Gastone Moschin in Signore & signori, film del 1966 diretto da Pietro Germi

Italian Film Food Stories è il titolo della mostra aperta presso l’Edicola Caritas a Expo, organizzata dalla Fondazione Ente per lo Spettacolo in collaborazione con il Centro Sperimentale di cinematografia - Cineteca Nazionale. Filo conduttore è la condivisione e la solidarietà, argomento che si avvicina al messaggio lanciato dallo stesso Padiglione Vaticano. La mostra racconta l’Italia da nord a sud e non lo fa solo attraverso il cibo, ma servendosi anche dei volti più noti del nostro cinema. Attori e attrici che hanno reso omaggio, con le loro interpretazioni, alla storia del nostro Paese. giugno 2015 Scarp de’ tenis

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Domenico Starnone, non avrai altro Dio all’infuori di me

Ho confuso Dio con mio padre

di Domenico Starnone

Domenico Starnone (Napoli, 1943), scrittore, sceneggiatore, insegnante. Ha scritto molti libri sulla vita scolastica. Con Feltrinelli ha pubblicato Ex cattedra (1985), Il salto con le aste (1989), Segni d’oro (1990), Fuori registro (1991), Eccesso di zelo (1993), Denti (1994), Solo se interrogato. Appunti sulla maleducazione di un insegnante volenteroso (1995), Via Gemito (2000), Labilità (2005) e Prima esecuzione (2007); con Einaudi, Spavento (2009), Autobiografia erotica di Aristide Gambia (2011) e Lacci (2014). Per Feltrinelli ha introdotto Cuore (1993) di Edmondo De Amicis, Ultime lettere di Jacopo Ortis (1994) di Ugo Foscolo e Lord Jim (2002) di Joseph Conrad.

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Adesso ascolta il brusio della pioggia come se venisse dall'ombra delle navate, da dietro l'altare, e intanto guarda i mosaici moderni un po' troppo colorati. Ho confuso, pensa, a quattordici anni, Dio con mio padre. Gli era sembrato, allora, che fosse il padre il signore dio suo, in casa e fuori. Aldo non riusciva ad avere gesti, opinioni, preferenze, gusti, modi di dire, che non fossero del genitore, e se pure a volte qualcosa

di divergente gli si agitava nel corpo, non l'esprimeva, la nascondeva innanzitutto a se stesso, tanta era l'angoscia di sentirsi, di svelarsi, in disaccordo con quell'uomo che in ogni momento voleva dimostrare di essere il più coraggioso di tutti, il più intelligente, il più sapiente, il più fine, il più bello. Suo padre non tollerava rivali, perdeva anzi la calma quando sospettava che ce ne fossero, diventava geloso di una gelosia incontenibile. Aldo aveva temuto fin da piccolo le sue furie contro la moglie, in genere colpevole di aver parlato con qualche simpatia di altri, fossero anche un fratello, uno zio, un cognato. Minori ora rievoca le notti dell'infanzia, quando dal suo letto sentiva le urla, gli oggetti di casa che si spaccavano sul pavimento, il suono degli schiaffi, il pianto della madre accusata non di adulterio – per questo il marito l'avrebbe sicuramente ammazzata, – ma di sguardi scambiati con altri uomini. E gli torna in mente anche che a quattordici anni portava sempre in tasca un temperino - la piccola lama nuda - con l'intenzione di assassinare suo padre. L'avrebbe fatto volentieri, e non tanto per liberare se stesso – la debolezza di Aldo diventava anzi piacevolmente forza, quando affrontava ogni inimicizia, a scuola e fuori, ricopiando da suo padre modi, insulti, formule dell'autocelebrazione e del disprezzo, - ma sua madre. Tuttavia non provò mai a usare il piccolo coltello, perchè lei era così legata al marito, da non mostrare nemmeno nei momenti difficili segni inequivocabili di voler essere liberata. Così tutto ciò che riuscì a fare, in quegli anni neri, fu litigare definitivamente con Dio.

Illustrazione di Giampaolo Zecca

scheda

Aldo Minori fa lunghe passeggiate. Poiché si allontana sempre più dai settanta – numero d'anni che da ragazzo non avrebbe mai creduto di accumulare, - si stanca facilmente e ora si riposa in un giardino pubblico, ora in un bar. Questa mattina piove, bar non ne vede, entra in una chiesa. Anche se non c'è nemmeno un fedele, lui – che fedele non è – si sceglie un posto in fondo, vicino all'ingresso, per non disturbare. Il suo rapporto con Dio s'è guastato presto, già tra i tredici e i quattordici anni. Aveva rinunciato a Lui proprio in quegli anni, eppure la vocazione adolescenziale a essere prete o monaco non se n'era mai andata del tutto. Allora non sapeva distinguere tra le due cose, cercava solo una divisa che lo autorizzasse a occuparsi dei poveri e degli oppressi invece che di sé. Ma, crescendo, le cose erano andate in altro modo. Minori era stato assorbito da studio, lavoro, figli, moglie, altre donne, e soprattutto da una superbia timida, quasi muta, che gli aveva impedito di piegarsi a qualsiasi gerarchia in cui non occupasse lui il primo posto. Cosa che gli aveva procurato negli anni un certo numero di guai, un progressivo isolamento, un sentimento di dolorosa superficialità.


PENNE PER SCARP

Signore, signor Dio, chi ti credi d’essere, non usare quel tono con me

tente. Gli parlava più o meno così: Signore, signor Dio, chi ti credi d'essere, non usare quel tono con me. E prendeva in giro quella prima persona imperiosa – Io – e lo infastidiva che si presentasse a quel modo prepotente: io sono, io sono l'Eterno, il Signore Dio tuo; per poi passare a una prescrizione indiscutibile, prendere o lasciare: non avrai altri dii, niente sculture, niente immagini, niente di niente, perché sono geloso, e punisco non solo i padri ma – attento a te – anche i figli e i figli dei figli. Aldo marinava la scuola, detestava i professori, se ne andava sbadato per la città stringendo in tasca il temperino come un amuleto.

Abbiamo chiesto a dieci grandi scrittori un racconto per ogni comandamento. Sul prossimo numero Onora il padre e la madre di Giorgio Fontana

Oggi si ricorda quando successe. Una mattina sua madre si tagliò un polso con la lametta e suo padre cercò di fermare il sangue stringendole intorno al braccio una cravatta blu, ma non ci riusciva e voleva – con rabbia, secondo Aldo – che la moglie lo aiutasse, sicché lei si legò la cravatta da sola, ridendo con le lacrime. Da quel momento Minori passò a rivolgersi a Dio in modo sfot-

Fu un litigio avventato, soprattutto perché proseguì nel tempo con accanimento e senza conciliazione. Anche con suo padre, Aldo non si è mai conciliato, e ora che è morto da tanto, e lo vede non diverso da molti altri con cui si è incontrato e scontrato, gli dispiace. Era un uomo fragile, uno sfilaccio di vapore, malgrado la sua smania di eccellenza, la sua pretesa di unicità. Lo sono anch'io, pensa adesso Minori fissando l'altare, lo siamo tutti. Intanto qualcosa tintinna, un suono di parole d'argento affinato dentro un crogiuolo di terra. Colpa del vento, o delle orecchie allucinate dei vecchi. Sospira, si obbliga a ricordare il sangue che dal polso di sua madre gocciolava nel lavandino e ancora gocciola, ovunque. Si rimette in piedi, lascia la chiesa. Ritorna a passeggiare anche se piove e tira vento. giugno 2015 Scarp de’ tenis

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IN BREVE

europa Un’agenda europea sulla migrazione

di Enrico Panero Dopo mesi di tragedie delle migrazioni e innumerevoli richieste all’Ue di porre fine alla strage nel Mediterraneo, il 13 maggio la Commissione europea ha presentato un’Agenda europea sulla migrazione, cioè un insieme di misure immediate e alcune iniziative da varare. L’Agenda intende essere la risposta dell’europa alla complessa situazione creatasi ai confini meridionali dell’Ue, combina politica interna ed estera e coinvolge tutti gli attori: Stati membri, istituzioni comunitarie, organizzazioni internazionali, società civile, autorità locali e Paesi terzi. I principali elementi di novità della proposta riguardano (finalmente) un’assunzione di responsabilità dell’Ue per la salvaguardia di vite umane e la condivisione tra gli Stati dell’accoglienza dei richiedenti asilo. Entrambe le questioni dovranno essere definite nei particolari, soprattutto la seconda che prevede un sistema di quote da stabilire in base alle caratteristiche socio-economiche di ciascun Stato. Qui sta il nodo più controverso dell’Agenda, perché alcuni governi si sono già detti contrari, così come discutibile è la proposta di operazioni militari per affondare sulle coste nordafricane le imbarcazioni utilizzate dai trafficanti di migranti. Ma l’Agenda introduce nuovi e reali elementi di discussione in materia di asilo e migrazioni: sono state avanzate proposte operative, riaffermati i diritti fondamentali e la politica migratoria comune è tornata ad essere una priorità dell’Ue. Già molto rispetto al colpevole vuoto politico osservato finora. ec.europa.eu/dgs/home-affairs

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A Scampia nasce l’Abbecedario rom

lato della relazione, quello attraverso il quale ognuno riesce ad affermare la propria esistenza e in questo modo il suo rapporto con l’altro.

L’associazione Chi rom, chi no, di Napoli, ha avuto l’idea di costruire un piccolo abbecedario italiano-romanes con le parole dell’accoglienza. Il volume è stato realizzato dai bambini rom e gagiò dell’Istituto comprensivo Alpi-Levi di Scampia, dove l’associazione lavora e opera da anni. Secondo Chi rom, chi no, l’abbecedario è uno strumento che intende valorizzare la lingua e il par-

Sono state raccolte parole, numeri, canti e nenie, sussurrate da madri, nonne, padri e raccolte in momenti di grande intimità durante le giornate trascorse insieme. Parole che i bambini hanno illustrato con i loro disegni. Lo strumento didattico è stato creato nell’ambito del progetto nazionale per l’inclusione e l’integrazione dei bambini rom, sinti e caminanti.

street art Mercantia. In luglio a Certaldo il Festival del teatro di strada Dal 15 al 19 luglio torna l’appuntamento con il Festival del teatro di strada di Certaldo, Firenze. La ventottesima edizione di Mercantia si terrà nell'antico borgo e quest'anno, oltre ai percorsi teatrali diversi che spaziano dalla danza, il cabaret e la sperimentazione teatrale, la manifestazione si aprirà anche alle variegate espressioni dell'arte di strada: giocolieri, mimi, musicisti, street band, nuovo circo, teatro sperimentale, uomini-statua, danzatori, fachiri, trampolieri, burattinai, marionettisti, cabarettisti. Mercantia è un festival internazionale e i suoi ospiti vengono da tutto il mondo e dalle più diverse esperienze. Il focus resta comunque il teatro, un teatro artigianale, ma anche un artigianato teatrale per valorizzare i vecchi muri del borgo, le strade e i vicoli che ospiteranno decine e decine di lavorazioni e installazioni costruite a misura del festival. Mercantia inoltre coniuga il teatro con l’arte contemporanea: negli stessi giorni mostre a tema si susseguiranno negli antichi palazzi, a partire da quello Pretorio.

on

off

Sono circa 135 i siti mappati dal blog “Parchi per tutti”, da nord a sud, che disegnano i parchi e i giochi includenti. Sono presenti in tutte le regioni, eccetto il Molise, ma anche a Torino non esistono, per esempio, altalene accessibili alle persone disabili. In testa alla classifica, Puglia (con 21 parchi per tutti) e Toscana. Ci sono poi i “Camminatori folli di Livorno”, che hanno ideato un progetto di parco inclusivo: per realizzarlo, da anni promuovono iniziative di raccolta fondi, tra cui appunto la Walking crazy dead. E finalmente hanno raggiunto l’obiettivo: 37 mila euro necessari alla costruzione di un mega parco accessibile anche ai ragazzi con difficoltà di mobilità. Entro la fine dell’estate il parco dovrebbe essere costruito. Un’altra esperienza di avanguardia è a Rovereto dove il consiglio comunale sta portando avanti, all'unanimità, un esperimento pensato per bambini disabili e non. Il parco è definito, appunto, luogo amico di tutti i bambini.

Le stime ufficiali dell’Unione Europea parlano di oltre 3 mila corpi ritrovati e identificati nel Mediterraneo dal 1990. Ma rispetto alle stime fatte da altri osservatori indipendenti il dato è molto lontano dal vero. Sarebbero migliaia di più le persone migranti rimaste per sempre dentro il mare. Spesso i corpi, anche se registrati, non hanno nome né provenienza. Le famiglie dei migranti, insieme alle associazioni, chiedono di istituire una Banca del dna per identificare i cadaveri dei migranti man mano che vengono ritrovati in mare. Le associazioni che si occupano di migranti chiedono inoltre che le informazioni siano coperte dalla privacy per tutelare le famiglie.

Parchi per tutti. La mappa delle oasi di verde anche per disabili

Le stragi nel Mediterraneo. Cosa chiedono le associazioni


[ pagine a cura di Daniela Palumbo ]

Silva Camporesi, Terza Venezia, 2011

Pedala per i migranti e posta su Fb per sensibilizzare

500 fotografie per raccontare l’Italia Una mostra imperdibile. A Milano, Palazzo della Ragione Fotografia ospita Italia Inside Out, la grande rassegna di fotografia interamente dedicata all’Italia con più di 500 immagini dei più importanti fotografi del mondo, curata da Giovanna Calvenzi. Per offrire al pubblico l’immagine di quello che è probabilmente il Paese più rappresentato del pianeta, l’esposizione è concepita come un’unica iniziativa articolata in due successivi allestimenti, fino al 21 giugno con i fotografi italiani e dall’1 luglio al 27 settembre con i fotografi del mondo. www.palazzodellaragionefotografia.it

mi riguarda

pillole homeless Non c'è più la Comunità della Pace Le ruspe hanno raso al suolo il campo abusivo di Ponte Mammolo, a Roma, che accoglieva oltre 200 migranti e senza dimora. Non hanno risparmiato le case delle quattro famiglie sudamericane, in muratura, che papa Francesco aveva visitato. Il papa si era stupito di come, nella miseria, le famiglie avessero grande cura per lo spazio che occupavano da 13 anni: aiuole di fiori e pulizia dentro e fuori le mura della casa. Le famiglie sudamericane, tutti lavoratori in regola, avevano chiesto l’allaccio della luce e del gas e avevano la residenza lì, fra le baracche romane, il campo era conosciuto come Comunità della Pace. Ma gli agenti che hanno effettuato lo sgombero hanno concesso solo un’ora di tempo per portare via il salvabile. Eppure, per legge, prima di effettuare uno sgombero forzato, gli occupanti devono essere avvisati con anticipo per avere il tempo di portare via i loro effetti personali e trovare un altro alloggio.

Si chiama “Migranti e migrati” la nuova campagna lanciata da Viandando, Arci, Amnesty e Libera che vuole accendere i riflettori sul fenomeno migratorio attraverso il viaggiare lento. Chiunque può partecipare “donando” le sue pedalate e postandole sui social network. Una maratona ciclistica, o meglio una "raccolta di chilometri", da fare rigorosamente in bici per parlare di immigrazione in Italia. Il viaggio inizia a fine giugno e toccherà diverse tappe, da Nord a Sud della penisola. L’idea è dell’atleta ciclista Gaia Ferrara, che già lo scorso anno ha compiuto un’analoga impresa per i fantasmi di Portopalo, percorrendo da sola 1.200 chilometri. Durante il percorso sono previste storie e testimonianze di migranti. Alla raccolta di chilometri possono partecipare tutti: chiunque può decidere di “donare” le sue pedalate filmando la sua impresa e raccontandola sui social con l’hastag #12000km.

Scarp de’ tenis in visita alla Biennale

Mannarino vince il premio di Amnesty International

Il 17 giugno la redazione di Scarp Vicenza andrà alla Biennale di Venezia. La Biennale ha deciso quest’anno di avviare, infatti, un nuovo progetto rivolto in particolare agli ospiti delle comunità terapeutiche e dei centri di sostegno, con l’auspicio di offrire loro un percorso di stimolo e di arricchimento personale. L'iniziativa permetterà alla redazione di Scarp de' tenis di accedere gratuitamente all’Esposizione e di fruire di una visita guidata condotta dagli operatori vicentini, formati dalla Biennale, nonché di partecipare a un laboratorio dedicato. Se l’ingresso è gratuito, sarà la Caritas di Vicenza a pagare il viaggio per le persone senza tetto. La Biennale di Venezia organizzerà quest’anno la cinquantaseiesima Esposizione Internazionale d'Arte: All the World's Futures, curata da Okwui Enwezor e aperta fino al 22 novembre 2015 nelle sedi espositive dei Giardini e dell’arsenale. www.labiennale.org

Scendi giù, del cantautore romano Alessandro Mannarino, è il brano vincitore della tredicesima edizione del Premio Amnesty International Italia, indetto per la prima volta nel 2003 da Amnesty International Italia e dall’associazione culturale Voci per la Libertà con lo scopo di premiare il migliore brano sui diritti umani pubblicato nel corso dell’anno precedente. La premiazione avrà luogo sul palco di Rosolina Mare (Rovigo) domenica 19 luglio, nel corso della serata finale della XVIII edizione di Voci per la Libertà - Una Canzone per Amnesty, festival che inizierà il 16 luglio e proporrà anche il concorso dedicato migliore cortometraggio sui diritti umani. www.vocidellalibertà.it

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IN BREVE

Duecentocinquanta eventi per il nuovo Umbria Jazz

Cammina-mente, la mostra che farà strada Cammina-mente, strade, pellegrini, camminatori, tra movimento e pensiero: è il titolo di un'esposizione in corso a Breganze, nel vicentino, ma che toccherà diverse città del Veneto, per poi approdare in autunno nelle terre senesi della Via Francigena. La mostra è divisa in tre sezioni: i grandi camminatori, i pellegrini, gli umili costretti a camminare per forza per sfuggire alla guerra o alla miseria. In Cammina-mente hanno la medesima importanza gli scarponi usati da chi ha compiuto il giro del mondo a piedi, i sandali consunti di chi ha raggiunto i luoghi della fede e le scarpe rinvenute su un barcone a Lampedusa.

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Gabriele Rubini è Chef Rubio, protagonista su Dmax di Unti e Bisunti Carbonelli&Seganti

Umbria Jazz 15 aprirà i battenti a Perugia il 10 luglio e promette grandi ospiti fino al 19 luglio. Duecentocinquanta eventi in dieci giorni. Musica nel centro storico da mezzogiorno a tarda notte, a pagamento e gratuita, al chiuso e all’aperto, per tutti i gusti. A Umbria Jazz 15 si potrà ascoltare jazz e black music, pop, soul e canzone d’autore, ritmi latini e musica elettronica. Sui palchi, in diversi luoghi della città, si esibiranno: Tony Bennett con Lady Gaga, Chick Corea con Herbie Hancock, Caetano Veloso con Gilberto Gil, Paolo Conte, Brad Mehldau, Subsonica, Cassandra Wilson, Charles Lloyd, Dianne Reeves, Bill Frisell, Enrico Rava, Stefano Bollani, Paolo Fresu, Danilo Rea. Il Jazz è ormai una realtà affermata, anche se ancora di nicchia, nel nostro Paese. Un sound che è comunque in continua crescita: nel 2012 ha prodotto oltre 4 mila concerti su un totale di 18 mila. www.umbriajazz.com

TRE DOMANDE

La ricetta da 3 euro di Rubio, chef sempre in movimento di Daniela Palumbo

Gabriele Rubini (Frascati, 1983) ora è per tutti Chef Rubio, consacrato al successo dal format Unti e Bisunti, serie tv dedicata

allo street-food su Dmax e giunta alla terza edizione nel 2015. Con oltre 360 mila followers su Facebook, circa 60 mila su Twitter e 30 mila su Instagram, Chef Rubio è molto amato dal web. Si muove con di-

sinvoltura tra mercati rionali e venditori di street-food, mangia con le mani, parla di trippa e quinto quarto, di cucina del popolo. Parla delle tradizioni, dei luoghi di provenienza di sapori e saperi.

A 22 anni Gabriele non ce la fa più a vivere in una casa e comincia la sua vita nomade: zaino in spalla, si mette in viaggio. Si trasferisce a Wellington in Nuova Zelanda dove gioca a rugby, sua prima passione, e lavora nei ristoranti. Poi non si ferma più: ancora adesso non vuole una casa. Perché questa passione per l’instabilità? Sei come sei. Io da sempre vivo male a stare fermo, vivo bene in strada, sempre in viaggio. Sto bene solo in movimento, anche se a volte mi fa sentire inadeguato e diverso. Sono come gli squali che anche quando dormono non smettono di nuotare. La mia non è una fuga. Anche se non so spiegare perché sono così. La strada è il tuo mondo. Io mi trovo a mio agio in ogni situazione di strada. Non mi fa paura. Anzi. Ciò che mi fa paura è l’ignoranza, quella sì. La strada è fatta di tanti piccoli mon-

di diversi che insieme costituiscono l’Universo, c’è il bello e il brutto. La scelta dello street-foodnasce dal mio modo di essere: cucinare è una passione fin da piccolo e la strada altrettanto: il cibo è in movimento, come me. Rugby, cucina, tatuaggi, ma anche passione per il sociale. Rubio dal settembre 2015 frequenta un corso di Lingua dei Segni presso l’Istituto Statale Sordi di Roma e sostiene la campagna per il riconoscimento della Lis come una lingua ufficiale anche in Italia. Nel sociale ci sono da sempre, anche quando non andavo in televisione. Credo nelle battaglie che faccio, ma ti rendi anche conto che non riesci a scalfire le coscienze delle persone. Per questo non mi piace l’ignoranza. Mi fanno rabbia i tanti clic per dire “mi piace” a qualunque stronzata, ma poi regna l’indifferenza per i problemi veri. Per esempio, sono nell’Acad, associazione per le vittime degli abusi da parte delle forze dell’ordine. Spesso la realtà è frustrante, però vado avanti. Come legge Expo, Rubio? Tanta retorica. Una bella fiera, ma niente di più. Non diamogli significati più alti perché fra sei mesi non se ne ricorderà più nessuno dei grandi intenti. Non sarà Expo a fare il miracolo del cibo per tutti. Chef una ricetta da 3 euro per 4 persone per il nostro cooking contest di Scarp de’ tenis Sono in Basilicata per girare Unti e Bisunti e allora dico: Pasta con i peperoni cruschi, che sono una specie di peperoni più dolci, vanno fritti in olio e poi saltati dentro la mollica di pane raffermo. Eccezionali.


IN BREVE

Social App, Translate per rifugiati e MafiaMaps contro le mafia

Sei giovani migranti, insieme alla cooperativa Lai-momo di Bologna, nell'ambito di un laboratorio di programmazione, sono gli autori di un’applicazione che traduce quanto scritto in italiano e in inglese nelle lingue dei ragazzi stranieri. I ragazzi che hanno inventato Translate sono originari dell’Afghanistan, Siria, Iran e Nigeria. Sei “dublinanti”: persone richiedenti asilo che, a causa del Regolamento Dublino, vengono rimandati nel Paese in cui sono state prese le impronte, nel caso specifico l’Italia, dopo essere riusciti a raggiungere la loro vera meta: il nord Europa. Tutti under 30, tutti istruiti. I sei ragazzi a Bologna hanno partecipato a un laboratorio di programmazione: 8 incontri di 2 ore ciascuno. Lezioni a distanza con Alessandro Bogliolo, docente di informatica dell’Università di Urbino. Da questi incontri è nato Translate. Attraverso una piattaforma adeguata, infatti, i ragazzi partecipavano alle videoconferenze: il professore da Urbino, loro da Bologna. Dopo le prime lezioni nelle quali hanno imparato i rudimenti della programmazione, insegnati attraverso una straordinaria metodologia intuitiva, hanno realizzato l’app. O meglio, l’embrione di app: i ragazzi stanno scrivendo un progetto per reperire i fondi e realizzarla insieme alla cooperativa Lai-momo di Bologna.

Sullo stesso tema: sono oltre 13 mila gli euro raccolti dalla campagna di crowdfundingcominciata il 21 marzo da MafiaMaps, l'applicazione per tablet e smartphone con la quale è possibile geolocalizzare la presenza dei mafiosi: i loro affari, i luoghi di stragi e omicidi, i locali che possiedono, i posti dove hanno compiuto atti intimidatori e dove sono stati arrestati. A curare l'applicazione sono i ragazzi di WikiMafia, l'enciclopedia online delle mafie italiane. Anche le associazioni antimafia potranno contribuire tracciando sul loro territorio la presenza mafiosa.

Perché MafiaMaps, oltre che uno strumento di conoscenza, è anche uno stimolo alla partecipazione tra organizzazioni diverse. La campagna di crowdfunding si chiama #mappiamolitutti. Gli sviluppatori del progetto sono laureandi del corso di Sociologia delle Organizzazioni criminali curato dal professor Nando dalla Chiesa all'Università Statale di Milano. Il totale raccolto è sufficiente alla mappatura della Lombardia. Con 20 mila euro MafiaMaps avrebbe potuto tracciare anche gli affari in Veneto e in Piemonte, con 30 mila Liguria ed Emilia Romagna. Per mappare tutta l'Italia occorrono 100 mila euro. La campagna è stata comunque un successo e il 21 marzo 2016 sarà rilasciata la prima versione beta dell'applicazione. L'app sarà gratis per chi ha sostenuto la nascita del progetto mentre costerà 99 centesimi all'anno per tutti gli altri.

Concorso L’immaginazione corre sul web Fino al 30 agosto sono aperte le iscrizioni a Fiction & Comics, il concorso sulla fantasia e l’immaginazione realizzato da ilmiolibro in collaborazione con Scuola Internazionale di Comics. Il concorso, arrivato alla terza edizione, è aperto a tutti i professionisti e appassionati, nonché esordienti, senza limiti di età. Si può partecipare pubblicando la propria opera su ilmiolibro.it in una delle quattro sezioni possibili: Fumetti - Fantasy - Fantascienza – Fiabe. I vincitori, oltre al premio in denaro di mille euro, avranno la possibilità di partecipare a esclusivi workshop nella sede di Scuola Comics, a Chicago. È possibile partecipare con storie e raccolte di storie a fumetti (comprese strisce umoristiche, vignette e graphic novel) di ogni genere, argomento e stile. Si può anche presentare un testo di narrativa (romanzo o racconto) di genere fantasy, fantastico o di fantascienza, oppure una fiaba, di qualsiasi lunghezza. ilmiolibro.kataweb.it

LA STRISCIA

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LE DRITTE DI YAMADA

Il giovane Holden e quella domanda che batte in testa

Biografia di un genio Nel 1482 Milano accoglie Leonardo da Vinci. Lui ha trent’anni e poca esperienza del mondo ma, grazie a una lettera di presentazione di Ludovico il Moro, spera di far fortuna. Il libro racconta in modo romanzato e avvincente il rapporto di Leonardo con la città. Perché Milano ha compreso e apprezzato con spirito profetico il talento e la genialità leonardesca.

nuovo. Sin da quando, per il fred-

La copertina, come la quarta, La prima volta è stato nel 1994, ed sono rimaste ero già grande. Non ho dunque in- bianche. contrato il Caulfield da coetanea ma –peggio –nell’età della resa dei Così voleva conti, con la domanda cruciale del Salinger. libro «...Allora... cos’è che ti piaceChe il libro rebbe veramente fare?», che tamburellava anche sulle mie tempie. si comprasse Difatti mi aveva sbarellato. per il contenuto Mi aveva colpito la sua e non per ipersensibilità, il suo animo rabbioso e scova-ipocriti, la la copertina Giorni fa ho riletto Il Giovane Holden di J.D. Salinger.

sua bloccata concludenza. Proprio come mi sentivo io. Allora lo avevo conosciuto nel primo sorprendente slang di Adriana Motti che “suona” ancora in un certo indimenticabile modo, al pari del caffé che era volato sopra il mio libro. L’anno scorso, sempre per Einaudi, è uscita una nuova traduzione. A cercare un nuovo ritmo è stato Matteo Colombo, che ha potato “l’infanzia schifa”, i “vattelappesca” e i “compagnia bella” che ornavano il primo Holden. La copertina, come la quarta, sono rimaste bianche, senza riassunto o note sull’Autore. Cosí, del resto, voleva Salinger: sosteneva che il libro andasse comprato per il contenuto, non per la copertina. Trovavo scuse per non leggerlo, nella nuova versione. Guardavo il libro e lo richiudevo perché avevo paura. Sí. Che non mi piacesse più, che mi sarei emozionata di meno, che avrei trovato faticosa e sopra le righe la sua insofferenza, e via discorrendo.

E invece. L’ho adorato, di

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il libro Il giovane Holden di J.D. Salinger

do, si mette il suo cappello rosso da cacciatore comprato per un dollaro a NewYork, subito dopo aver dimenticato sulla metro i fioretti della squadra di scherma di Pencey che stava accompagnando –da responsabile –a una gara. «Quel cappello aveva i paraorecchie, e li avevo tirati giù,e pazienza se mi stavano male. Tanto in giro non c’era nessuno. Dormivano tutti». Holden dice questo in strada. Siamo nel quasiNatale del 1947, sabato sera tipo un 18 dicembre. È stato espulso dall’ennesimo college (Pencey, stavolta) e non ha nessuna fretta di dirlo ai suoi (affranti e ricchi) genitori prima delle vacanze, che inizieranno il mercoledì successivo. Racimola le mance della nonna, vende la macchina da scrivere, scazzotta col compagno di stanza e, prima del tempo, fugge – inveendo – dal college. Con la neve e il silenzio intorno va dunque in stazione, prende il primo treno per New York e non potendo tornare a casa (abita vicino a Central Park) gli tocca di restare in giro. Non ho quasi più spazio e forse è un bene, così potete leggere o rileggere cosa frulla nella testa di Holden (sedici anni, accanito fumatore, altissimo, e coi capelli già grigi su un lato) nei tre giorni del suo forzato vagabondaggio. Po-

Marina Migliavacca Leonardo, il genio che inventò Milano Garzanti, euro 16,90 euro

Tutti diversamente normali Le riflessioni e le speranze di persone disabili, grazie a un invito attraverso il web. Sono 50 le persone che si raccontano e che narrano la propria disabilità senza compatimenti, con ironia. Facendo intravedere gli spazi di felicità. Un libro pensato per parlare di disabilità rompendo gli stereotipi. Silvia Cutrera, Vincenzo Falabella, Luca Pancalli, Raffaella Rinaldi e Roberto Fantini La mia storia ti appartiene Progetto Cultura, 12 euro

Se vai al tappeto puoi ancora rialzarti

trei dirvi del guantone di Allie, della vecchia Jane Gallagher, dei vetri rotti in garage e la mano destra di Holden che non si chiude più del tutto per questo fatto. O della sua sorellina

Phoebe, che gli fa la domanda cruciale nella penombra della stanza di D.B. Ragazzi – senza scherzi – è già troppo.

[ a cura di Daniela Palumbo ]

testo e illustrazionedi Yamada

Storie raccolte da Giovanni Rattini, volontario alle mense popolari di Padova. Pugili invisibili e senza voce, spesso al tappeto. Raramente qualcuno allunga una mano per aiutarli a rimettersi in piedi. Ma anche le voci gioiose di chi si consola vivendo insieme agli altri, giorno per giorno. Giovanni Rattini Tutti giù per terra Tracciati editore, 15 euro


“Mia moglie dice che era stanca di me. La capisco. Sono stanco anche io di me.” (Luca Musella)

VISIONI

Dal libro al film, in scena l’adolescenza Sono iniziate a Udine le riprese del film Un bacio, tratto dal libro omonimo, Bompiani, di Ivan Cotroneo che sarà anche regista del progetto cinematografico. Film sull’adolescenza, sulle prime volte, sulla ricerca della felicità. Ma anche sul bullismo e sull’omofobia. Sui modelli che impediscono ai ragazzi di trovare la strada della loro singola, particolare, personale felicità.

Let’s go Il cinema della realtà

“E la vita non si inventa, saltimbanchi si diventa sì ma e poi...”. Sarà per la bellissima e azzeccatissima canzone di Enzo Jannacci che chiude il tutto, per l’entusiasmo suscitato in sala all’ultimo Torino Film Festival oppure perché ce lo ritroveremo al Biografilm Festival di Bologna con tanto di retrospettiva speciale, eppure, Let’s go ci ha davvero colpito.

Il cinema di Antonietta De Lillo si arricchisce di un nuovo piccolo grande ritratto dopo quello fatto ad Alda Merini ne La pazza della porta accanto. Ecco la storia di Luca

Musella, un fotografo che perde tutto e insegna a tutti come non cedere alla disperazione. Abbiamo contattato la regista, le abbiamo rivelato quanto abbiamo amato lo spirito del suo ultimo progetto cinematografico e le abbiamo rivolto qualche domanda. «Ciò che mi ha colpito della storia di Luca – dice la documentarista napoletana - è il modo con cui ha affrontato le sue difficoltà.

Ha intelligenza, cultura e consapevolezza per spiegare i propri sentimenti anche in un momento critico.

Antonietta De Lillo racconta la storia di Luca Musella, fotografo di talento che si ritrova senza lavoro, senza soldi, senza una casa e, forse, senza speranza. Ritratto cinematografico che racconta il nostro tempo con la storia di una vita.

il film

Let’s go regia di Antonietta De Lillo soggetto : Luca Musella Antonietta De Lillo Giovanni Piperno documentario, 54’

Let’s go racconta le difficoltà di un fotografo di successo che si ritrova a Milano senza un posto in cui stare, un progetto di vita o qualcuno a cui chiedere aiuto. Il protagonista è seguito dall’obbiettivo in vari luoghi della città “mentre la riva si allontana” ma è al tempo stesso autore vero e proprio. «Ho dato a Luca una piccola videocamera perché ero colpito da come continuasse a guardare le persone in difficoltà e ho avuto un doppio punto di vista. Stava dentro il problema ma anche fuori raccontando la propria vicenda personale. Il risultato, per me, è davvero una piccola medicina che insegna a rialzarsi e camminare». Esagerato? «Nel film si vede la Ronda della Carità, Pane Quotidiano e altre associazioni. Nel deserto delle istituzioni e nella totale assenza di ammortizzatori, Milano ha dimostrato di poter ripartire. C’è una realtà che grida. Vuole essere raccontata. Per fortuna c’è anche un tipo di cinema che attrae sempre più persone per i sentimenti che tocca più che la storia in sè. Non è poco».

Crowdfunding per homeless attori Il Supermercato è un film che racconta storie di vita vera con personaggi interpretati, in parte, dagli ospiti del Centro Train de Vie per senza fissa dimora, dietro alla stazione di Pescara. Il progetto cinematografico è stato voluto da Antonello Salvatore dell’associazione On the road di Pescara.

La social fiction che racconta Castel Volturno

[ a cura di Daniela Palumbo ]

di Sandro Paté

Come è nato tutto? Un giorno gli ho suggerito di provare a scrivere una lettera per spiegare quello che stava affrontando».

Si chiama Connection House il film del regista Vincenzo Cavallo che ha ingaggiato attori africani per la prima volta davanti alla macchina da presa. Racconterà la vita della comune attraverso gli occhi di Lorenzo, Stefano Scognamiglio, che rappresenta lo sguardo dell'italiano medio rispetto a Castel Volturno e a tutta l'umanità che la popola. www.connectionhouse.it giugno 2015 Scarp de’ tenis

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I Negrita (Mac, Pau e Drigo) sono uno dei gruppi rock più longevi e di successo della storia della musica italiana.

Negrita «La nostra musica per esplorare nuovi mondi e culture » di Daniela Palumbo foto di Dara Munnis

Sono una tra le band di maggior successo. Sulla strada da oltre vent’anni, hanno percorso molte strade. E dicono di adorare il viaggio più della meta, perchè ciò che conta è il cammino 22 Scarp de’ tenis giugno 2015

Negrita. Ovvero Pau alla voce, Mac alla chitarra ritmica e Drigo alla chitarra solista. Uno dei gruppi rock italiani più longevi del nostro panorama musicale. La loro avventura nasce da una storia di passione e di amicizia nella provincia toscana, Capolona, paesino in provincia di Arezzo. Forse proprio essere nati in provincia fa sì che si spingano sempre più lontano, all’estero, a cercare nuove mete – musicali e di vita – per ritrovare i suoni e i colori delle origini del rock. Non a caso il loro nome nasce da una canzone dei Rolling Stones: Hey! Negrita. Li abbiamo incontrati per l’uscita del loro nuovo album di inediti, 9, registrato al Grouse Lodge, a Rosemount, in Irlanda. Tredici brani che recuperano le radici più rock della band.


L’INTERVISTA A proposito di longevità, una band è sempre un gioco di equilibri precari. Voi come avete trovato il vostro? Eh, mica facile. Abbiamo probabilmente avuto la fortuna di fare un percorso graduale che ci ha costretto ad avere sempre coscienza di noi stessi e vivere con i piedi ben saldi al terreno. Fin da quando ci siamo conosciuti abbiamo sempre avuto tutti quanti il medesimo obiettivo, che era quello di fare buona musica e vivere di questo, ma anche condividere gli aspetti della musica da band senza prevalere gli uni sugli altri. Non abbiamo mai inseguito il successo per il successo. Per noi ha sempre contato di più fare buone canzoni, e con il pubblico questa impostazione ha pagato. C’è una parte del nostro pubblico che ci segue da quando siamo usciti con i primi album e a ogni nuovo disco si aggiungono persone nuove che ci hanno appena scoperto. Ai nostri concerti succede che ti trovi davanti più generazioni che saltano all’unisono! Tutto questo non significa che andiamo sempre e per forza d’accordo, ma litigare può essere anche la giusta valvola di sfogo per mantenere la rotta. Ancora tanto respiro internazionale per il vostro nuovo album. Se stai fermo finisci per inaridirti e attraverso la musica cerchiamo sempre un motivo per esplorare il mondo e nuove culture. Abbiamo composto questo ultimo album lasciandoci influenzare da quello che di nuovo stavamo affrontando un anno fa con l’esperienza del musical Jesus Christ Superstar a Roma, poi abbiamo cercato un luogo dove definire e completare il lavoro e siamo finiti in Irlanda... Non sempre sono azioni programmate a tavolino, anzi a dire il vero quasi ogni volta sono eventi

La musica ha avuto certamente il potere di influenzare le masse su temi scottanti nel corso della storia recente. Ma è un potere che gradualmente si sta perdendo che capitano e che devi solamente saper seguire e interpretare. Non c’è un luogo migliore di altri in senso assoluto, ma sempre il luogo adatto in quel determinato momento. Nel corso della vostra storia musicale tanto impegno sociale e sui diritti umani. Dall’Africa alla pena di morte. La musica ha ancora nel suo Dna il potere di “cambiare il mondo”? La musica ha avuto certamente il potere di influenzare le masse su temi scottanti nel corso della storia recente. È un potere che sta perdendo un po’ di forza in favore di altri mezzi di comunicazione, ma ancora oggi l’artista, se crede in quello che dice, fa la differenza da un palco. I Negrita hanno negli anni appoggiato diversi progetti a sfondo sociale e non si tirano di certo indietro quando trovano, tra le infinite richieste, qualcosa che sono in grado di sostenere. A volte basta essere la faccia di una idea, altre volte bisogna saper essere l’idea stessa. È molto complicato scegliere dove e come investire le proprie energie perché la richiesta è quotidiana. Rischi di sbagliare. Per esperienza preferiamo sposare cause a medio o lungo termine in cui si possono costruire progetti insieme alle organizzazioni non governative. In Poser osservate ironicamente le derive di questo Paese, compresa quella del selfie. Io sono un Loser, un perdente, si contrappone al Poser. Loser perché se non ti riconosci negli atteggiamenti e nelle mode

che ti circondano ti sposti di lato e ti metti a osservare, a ragionarci su... La canzone è stata l’occasione per mettere a confronto in maniera ironica il presente con il passato, soprattutto quello che abbiamo vissuto in prima persona. Tutto cambia e con tempi sempre più veloci, è nella natura umana cercare la novità, poi sarà il tempo a selezionare gli aspetti positivi da quelli negativi nei cambiamenti. Nelle canzoni dei Negrita arriva in sottofondo l’eco delle parole dell’Idiota di Dostoevskij: la bellezza salverà il mondo. Cosa è la bellezza per i Negrita? La bellezza può essere ovunque,

scheda I Negrita si sono raccontati in un docu-film: Under The Skin, un viaggio nel cuore del rock. Pau, Drigo e Mac, dopo vent’anni di carriera, si svelano “sottopelle” direttamente dal Grouse Lodge di Rosemount (Irlanda), il mitico residential recording studio che ha ospitato i più grandi miti del rock. Lì nasce anche il brano Il Gioco, ancora fra quelli più trasmessi in radio. www.negrita.com

ma ci vuole un po’ di allenamento per non farsi abbagliare da quelli che sono i falsi ideali di bellezza. Siamo ancora legati alle cose semplici e genuine e viaggiare in giro per il mondo ci ha aiutato a trovare i termini di paragone per riconoscere ciò che conta da ciò che è meno importante. Siamo ancora dei sognatori e crediamo nelle persone e negli ideali. Quanto è cambiato il mondo musicale nell’era del digitale? Se non si va in giro a fare concerti si guadagna ancora? Quando siamo usciti con il primo album, nel 1994, esplose il fenomeno dei noleggia cd, il masterizzatore e il crollo dei prezzi per i cd vergini portò a una selvaggia diffusione delle copie con conseguente calo delle vendite degli originali. Solo due o tre anni più tardi l’mp3, napster e altri software peer to peer aggravarono ulteriormente la situazione. Oggi è normale ascoltare gratuitamente musica su youtube o spotify e in percentuale sono davvero pochi coloro che ci tengono ancora a possedere un prodotto fisico originale. Se dovessimo tracciare un grafico delle vendite rispetto alla crescita di popolarità dal ’94 ad oggi sarebbe sicuramente una linea in costante discesa. Fortunatamente per noi suonare live è stata sempre la cosa più importante, il principale mezzo di promozione a noi stessi. Le radici. Oltre 20 anni di storia musicale. Sappiamo da dove vengono i Negrita. Ma dove stanno andando? I Negrita sono sulla strada da oltre vent’anni e hanno percorso molte strade, ma adorano il viaggio più che la mèta forse perché da sempre sanno che il cammino è la parte più interessante.

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COPERTINA

La sala d’attesa del poliambulatorio dell’Opera San Francesco per i poveri, in via Antonello da Messina a Milano. Nel 2014 ai poliambulatori si sono rivolte oltre 8 mila persone che sono state curate gratuitamente

Salute, dirit 24 Scarp de’ tenis giugno 2015


itto per tutti I piÚ poveri e i meno istruiti si ammalano di piÚ, guariscono di meno e muoiono prima. Un dato per tutti: chi si trova in una condizione di svantaggio sociale vive 6-7 anni in meno. Sul fondo della scala troviamo gli homeless e gli stranieri senza permesso di soggiorno, a cui, spesso, vengono negati anche i servizi essenziali garantiti dalla legge. Viaggio di Scarp tra le tante strutture che hanno scelto di curare tutti, gratuitamente. giugno 2015 Scarp de’ tenis

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COPERTINA

di Generoso Simeone

I più poveri e i meno istruiti si ammalano di più, guariscono di meno e muoiono prima. Non è un luogo comune, ma una tesi scientificamente dimostrata in molti studi. Uno di questi lo ha redatto Giuseppe Costa, professore di Sanità pubblica all'università di Torino. Nel suo "L'equità nella salute in Italia. Secondo rapporto sulle disuguaglianze sociali in sanità" (Franco Angeli, 2014) sono numeri ben precisi a documentare come chi sia più dotato di risorse e opportunità socioeconomiche tenda a presentare un profilo di salute più sano. «Basta un dato – dice il professore – quello relativo alla speranza

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di vita. Chi si trova in una condizione di svantaggio sociale vive 67 anni in meno. Un operaio non qualificato, ad esempio, ha una speranza di vita inferiore rispetto a un dirigente». Nel suo rapporto il professor Costa indica quali sono, nello specifico, i fattori che generano disuguaglianze in termini di salute. «Le persone di bassa estrazione sociale – spiega – sono più esposte a fattori di rischio a causa di stili di vita insalubri: bevono e fumano di più, mangiano male, fanno poco esercizio fisico e praticano sesso non protetto». Tuttavia esistono anche altri fattori di rischio che sono distribuiti in modo iniquo tra la popolazione. «Le persone che fanno parte della fascia più bassa della società – dice ancora il docente universitario – tendono a vivere in

condizioni ambientali sfavorevoli, cioè vicino a discariche o nei pressi di zone caratterizzate da molto traffico o da inquinamento». Cure non sempre accessibili Oltre agli stili di vita e all'ambiente un altro fattore di rischio che si abbatte sulle categorie sociali più basse è quello dello stress cronico. «Si definisce così – spiega il professor Costa – lo squilibrio tra ciò che si pretende da una persona e il grado di autonomia che le viene lasciato. Si capisce con un esempio: un barista all'ora di pranzo è preso da un sacco di richieste e ha un basso livello di autonomia nel decidere cosa fare. Non può fermarsi e fare una pausa. Questo è lo stress cronico e riguarda soprattutto le professioni a bassa remunerazione. Lo stress cronico fa au-


I CENTRI

Una rete di associazioni si prende cura degli esclusi del nostro sistema sanitario

A sinistra la farmacia dell’Opera San Francesco di Milano. Qui sopra due ospiti del centro di Pozzallo dove opera Medici senza frontiere. Nella foto sotto Sara Fadelli la coordinatrice dei medici professionisti di Opera San Francesco

mentare i livelli di ormoni nel sangue e ciò scatena diabete, ipertensione, infarto e depressione». Un ulteriore fattore di disuguaglianze sono le barriere di accesso alle cure. «Dove però – argomenta Giuseppe Costa – la situazione è un po' particolare. Le persone di bassa estrazione sociale consumano di più le opportunità del sistema sanitario nazionale. Si tratta però di servizi che riguardano ricoveri, medici di base, farmacia. Invece accedono di meno all'assistenza specialistica. È vero che costa di più, ma i più poveri sarebbero comunque esenti dal pagamento delle prestazioni. In realtà i più ricchi sono più capaci di usare l'assistenza specialistica». Le malattie che dipendono di più dalle disuguaglianze sociali

Le persone che fanno parte della fascia più bassa della società vivono in condizioni ambientali sfavorevoli. Le malattie che dipendono di più dalle disuguaglianze sociali sono legate all'abuso di fumo e alcol, tra cui cirrosi epatica e tumore al fegato e al polmone, oppure ai rischi professionali, come infortuni sul lavoro e malattie respiratorie croniche.

Senzatetto, profughi e stranieri irregolari. Sono queste le categorie di persone che non accedono al sistema sanitario nazionale. Perché, mancando per loro il requisito della residenza, non possono ottenere una tessera sanitaria. E quindi, oltre al medico di base e alle esenzioni sui farmaci, non hanno accesso a visite ed esami in ospedale. Per loro restano i Pronto soccorso dove, però, arrivano solo in caso di emergenza. A colmare questo vuoto sono sorte, in tutta Italia, diverse esperienze. A Roma, la Caritas diocesana gestisce un poliambulatorio di prima accoglienza che effettua interventi di medicina generale e specialistica. «Siamo nati come luogo di cura per immigrati senza permesso di soggiorno - dice Salvatore Geraci, responsabile della struttura e ancora oggi riceviamo questo tipo di utenza. Solo che si tratta di stranieri che hanno perso il lavoro a causa della crisi e quindi si sono ritrovati senza permesso di soggiorno. Con il tempo abbiamo accettato anche altre categorie di persone. Stranieri regolari, ma che non accedono al sistema sanitario, come ad esempio quelli della comunità cinese, e italiani senza dimora. Abbiamo 6-7 mila pazienti in carico. Tra medici, infermieri, farmacisti, interpreti e addetti all'accoglienza siamo in 350». A Milano, oltre al Poliambulatorio dell'Opera San Francesco e al Naga, c'è il Poliambulatorio Jenner, promosso dal Consorzio Farsi Prossimo di Caritas Ambrosiana. È aperto a tutti, offre una vasta gamma di prestazioni sanitarie con medici professionisti e attrezzature di qualità, pratica tariffe calmierate e i tempi di attesa sono brevi. La sua caratteristica è di essere un poliambulatorio no profit. «I proventi delle attività – spiega Alessio Torti, direttore del Poliambulatorio Jenner – vengono utilizzati per alimentare un fondo di solidarietà grazie al quale possiamo offrire prestazioni gratuite a soggetti che vivono in condizioni di estrema povertà. Queste persone sono inviate qui dai servizi e dai centri di ascolto di Caritas Ambrosiana. Il cittadino che viene da noi per una visita o un esame, quindi, fa una scelta di consumo critico. Nel 2014 abbiamo erogato 5 mila prestazioni, con 1.500 nuovi accessi. Il fondo di solidarietà è così arrivato a 72 mila euro che ha permesso di erogare servizi sanitari gratuiti a 120 persone in difficoltà». Sempre a Milano, c'è una struttura, gestita da Progetto Arca, che ospita persone senza dimora dimesse dagli ospedali a seguito di ricoveri in emergenza permettendo loro di rimanere in un ambiente protetto e attrezzato per terminare le cure. Un’esperienza simile è gestita dalla Caritas diocesana di Firenze. Si chiama Casa Stenone e ospita cittadini non in regola con l’iscrizione al ssn e persone senza residenza. A loro viene garantita continuità assistenziale dopo la dimissione dall’ospedale. Tornando ai luoghi di cura per senzatetto, profughi e stranieri irregolari, a Bologna sono attivi il Poliambulatorio Biavati, promosso dalla Confraternita della misericordia, e l’ambulatorio Sokos. A Bergamo, invece, l’assistenza sanitaria ai cittadini extracomunitari non i scrivibili al sistema sanitario nazionale la fanno quelli dell’ambulatorio Oikos. giugno 2015 Scarp de’ tenis

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COPERTINA sono legate all'abuso di fumo e alcol, tra cui cirrosi epatica e tumore al fegato e al polmone, oppure ai rischi professionali, come infortuni sul lavoro e malattie respiratorie croniche. Servono interventi mirati «Dato questo tipo di problematiche, che dipendono molto dai comportamenti personali – conclude il professor Costa – si potrebbe pensare che magari possano bastare delle buone campagne di tipo culturale per migliorare la situazione. In realtà le cosiddette politiche di informazione avvantaggiano chi già conosce e chi già sa. E non hanno grande efficacia sulle persone di bassa estrazione sociale. Ad esempio, si possono fare tante campagne sull'importanza degli screening per i tumori femminili, ma poi se il consultorio è aperto solo un pomeriggio alla settimana non stupiamoci se la badante straniera non ci va. Occorrono, invece, interventi mirati e intelligenti per cercare di raggiungere tutte quelle persone che hanno più bisogno di salute».

La sala d’attesa del poliambulatorio dell’ìopera San Francesco: dal 2005 sono passati da qui in 55 mila

Prendersi cura, la sfida di Opera San Francesco di Stefania Culurgioni

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John dice che ha un fuoco nella testa. Gli brucia le tempie, gli martella l’anima, è il suo modo per raccontare quella che chiameremmo comunemente emicrania. Finché non è approdato in via Antonello Da Messina, a Milano, dev’esserselo tenuto imprecando la mala sorte e immaginandosi chissà che cosa. Che altro fare, dato che è congolese, è irregolare, non ha una tessera sanitaria né tanto meno un medico di base. Come lui ci sono migliaia di persone. Persone comuni con acciacchi comuni, disturbi banalissimi che banalissimi non sono: se non hai almeno quattro euro non ti compri un analgesico, se non hai una ricetta rossa che te la prescrive ti puoi scordare una vi-

sita per il mal di pancia, e se non hai una bella dentatura ti puoi tenere gli ascessi e le scheggiature finché non passi ad altra vita. È la condizione in cui vivono migliaia di persone: di solito stranieri irregolari ma anche italiani indigenti. Senza documenti niente tessera sanitaria, nessuno che ti visita e che ti prescrive medicine. Non tutto però è perduto: in via Antonello Da Messina esiste il poliambulatorio dell’Opera San Francesco per i poveri. Lo gestisce suor Annamaria Villa, lo frequentano 8 mila persone all’anno e dal 2005 ad oggi ne sono passate più di 55 mila. Uomini, donne e bambini in Italia da irregolari e quindi scoperti dal punto di vista sanitario. I due piani dell’ala ovest del


OSF

Naga

Cesaim

via Antonello da Messina, 4 - Milano Telefono 02.77.122.400

via Zamenhof, 7/A - Milano Telefono 0258102599

via Salvo d'Acquisto n.7/9 – Verona Telefono 045 520044

Cesaim, al servizio di immigrati senza permesso: «Siamo dei medici: curiamo tutti, senza distinzione». Il Cesaim, Centro Salute Immigrati, è un’associazione di volontariato nata a Verona nel 1993 per iniziativa di una Volontaria Vincenziana, Giulietta Luciani Rovato, che ne è tutt’ora presidente. «Ero presidente della consulta delle associazioni femminili del comune di Verona. Quell’anno il tema era “la donna immigrata”. Avevo già fondato un consultorio di prevenzione per le malattie al seno, e ho pensato di rivolgere tale attività anche alle donne straniere. Ne parlai con il dottor Mario Marsiaj, allora primario del reparto malattie tropicali dell’ospedale “Sacro Cuore” di Negrar. Lui mi dissuase dal limitare l’intervento ad un ambito così specifico: i bisogni più urgenti delle donne straniere erano altri. A questo punto, perché rivolgere un servizio solo alle donne, e non a tutte le persone mmigrate? E così partimmo. La Croce Rossa ci mise a disposizione uno spazio nella sua sede vicino alla stazione di Porta Vescovo. Inizialmente eravamo in due ma nell’arco di qualche tempo hanno cominciato ad aggiungersi altri volontari. Al momento qui prestano servizio del tutto gratuito 10 paramedici e 32 medici specializzati». La voce si è sparsa rapidamente, con il solo passaparola degli utenti (l’associazione è contraria ad ogni forma di pubblicità). Oggi vediamo anche una cinquantina di persone al giorno. In 22 anni ne sono passate di qui più di 150 mila. Il Cesaim è aperto tutti i pomeriggi dal lunedì al venerdì. Dalle

VERONA

15 alle 17 è attiva l’accettazione, poi non c’è un vero e proprio orario di chiusura: si chiude quando si è finito.«Il nostro è un ambulatorio che offre assistenza sanitaria gratuita alle persone immigrate sprovviste di tessera sanitaria, i cosiddetti Stp (Straniero temporaneamente presente). Per loro noi funzioniamo come il medico di base, prescriviamo cure ed esami e in più forniamo alcuni farmaci essenziali su convenzione con l’ASL 20, che ospita la nostra sede attuale e ci mette a disposizione le attrezzature che utilizziamo. In questi anni siamo riuscii a costruire una rete di relazioni professionali e umane con gli ospedali del territorio, e ad essi ci rivolgiamo per indirizzarvi i pazienti che necessitano di cure. Allo stesso modo, loro ci inviano le persone che hanno bisogno di essere seguite da noi. In questi anni abbiamo visto crescere la fiducia non solo dei pazienti ma anche delle strutture sanitarie, con cui abbiamo un’ottima collaborazione. Per noi è bellissimo: solo alcuni anni fa era doloroso vedere che per alcuni pazienti, affetti da malattie particolari, non potevamo fare nulla. Ora sappiamo di poterli affidare a mani sicure, com’è giusto che sia per tutti i malati». Chi parla è il dottor G. Monteiro, originario della Guinea Bissau, volontario al Cesaim da quando si specializzava in medicina tropicale. «Per me è stato un dovere morale occuparmi della salute delle persone immigrate, perché sono uno di loro».

MILANO

convento dei Frati cappuccini della Parrocchia Santa Maria degli Angeli sono diventati un punto di riferimento: dalle 8 alle 16 sono accolti tutti. Si passa dall’accettazione, si spiega qual è il problema, si prende appuntamento per un controllo o si viene diretti immediatamente dal dottore. È una specie di ospedale dei poveri dove nessuno è straniero. Oltre 170 dottori volontari Sara Fadelli è la Coordinatrice dei medici professionisti. Il poliambulatorio infatti è tenuto in piedi da più di 170 dottori che prestano servizio in forma volontaria. «Le persone arrivano qui con il passaparola – racconta – questo è un luogo di cura gratuito, l’affluenza è dav-

vero alta. C’è il ginecologo, l’allergologo, il dentista, lo psicologo, l’epatologo, il medico di base. Noi ascoltiamo tutti e per ciascuno facciamo una scheda sanitaria. Se ci sono esami di approfondimento, li prescriviamo. Se servono farmaci, li diamo noi gratis». Nel 2014, quegli 8 mila pazienti che hanno bussato all’Opera San Francesco hanno fatto un totale di 32 mila 918 visite. Quanto ai farmaci, ne sono stati distribuiti più di 21 mila. Padre Vittorio Arrigoni è un frate cappuccino di 58 anni: «Questo luogo è nato perché coloro che afferivano alla mensa, i cosiddetti indigenti, ci dicevano: oggi ho mal di testa, hai un’aspirina da darmi? Mi sono tagliato, hai un cerotto? Allora è nato il poliambulatorio, da

Nel 2014, quegli 8 mila pazienti che hanno bussato all’Opera San Francesco hanno fatto un totale di 32 mila 918 visite. Quanto ai farmaci, ne sono stati distribuiti più di 21 mila

allora sono passati 25 anni. Silvana Tempini è un’epatologa in pensione: «Confesso che a volte è frustrante ascoltare queste storie – racconta – quando hai a che fare con persone sole, senza tetto, alcolisti, stranieri senza famiglia, è difficile guardarli e dire loro: deve volersi bene, deve prendersi cura di lei. Ricordo un ragazzo dell’est, giovanissimo, alcolista. Stava male e dopo una visita non l’ho più visto, il pensiero mi è rimasto sempre dentro». In crescita le ferite invisibili Tanti arrivano davanti al dottore con un aspetto perfetto. Non hanno tosse né segni ma hanno dentro “ferite invisibili”. Jean, per esempio, diceva che gli faceva male la giugno 2015 Scarp de’ tenis

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COPERTINA mano. Si è scoperto solo dopo che era stato in prigione per anni, e i carcerieri lo calpestavano con gli stivali. Farah era il fantasma di se stessa: ventenne, aveva partecipato ad una manifestazione di protesta nella sua città, in Iran, era stata incarcerata, stuprata e violentata. Se sei stato profugo, hai attraversato il deserto o il mare, non è mai qualcosa che ti scivola via. Tutto incide sulla tua salute. Erika Rovetta, 36 anni, lavora al poliambulatorio come psicologa: «Ci siamo resi conto che i sintomi fisici nascondono un’altra storia, più profonda. Le ferite invisibili sono tante: le persone qui portano sintomi della sfera ansiosa e depressiva, in tanti hanno subito carcerazioni, torture, viaggi fisici stremanti, il disturbo psichico nasce dal fatto che il trauma rimane dentro e scava e scava, invece se lo affronti lo tiri fuori e riprendi in mano la tua vita».

Lombardia: in tanti non possono curarsi di Stefania Culurgioni

Un uomo di 38 anni, tunisino, senza dimora, sta male e da solo raggiunge il Pronto Soccorso. Ha la febbre alta, i globuli bianchi a mille, la diagnosi è: bronchite. Servono gli antibiotici ma lui è straniero, non ha i documenti in regola, il medico avrebbe dovuto assegnargli il codice Stp (straniero temporaneamente presente) e prescrivergli la terapia, invece lo manda via a mani vuote. Un anziano, 65 anni, alba-

Il Naga denuncia, solo a Milano, ben 155 casi di persone che non sono state assistite come invece previsto dalla normativa italiana.

nese, ha un’ischemia cerebrale e il catetere, finisce al pronto soccorso. La dottoressa fa tutto bene, gli assegna il codice giusto, gli prescrive le visite, fa per dimetterlo ma si accorge di una cosa: in quanto ospedale privato non è possibile assegnare ricette mediche. Appuntamenti ritirati, l’uomo esce a mani vuote. Sono solo due casi ma ce ne so-

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no decine. Le ha raccontate il Naga (Associazione volontaria di assistenza socio-sanitaria e per i Diritti di cittadini stranieri, rom e sinti) in uno scioccante dossier pubblicato lo scorso aprile. Dal 9 gennaio 2014 al 28 febbraio 2015 l’associazione, animata da 400 volontari che ogni anno garantiscono cure e visite mediche a 10 mila cittadini stranieri irregolari, ha raccolto in forma anonima la documentazione clinica dei pazienti che sono arrivati nel suo ambulatorio. Persone straniere, irregolari, per i quali gli ospedali milanesi e limitrofi non hanno applicato quanto previsto dal testo unico immigrazione. La legge italiana parla chiaro: la salute è un diritto inalienabile dell’individuo. A ribadirlo è anche l’articolo 32 della Costituzione: la tutela della salute è un fondamentale diritto dell'individuo. Le cure, gratuite, devono essere prestate anche agli indigenti. Quindi anche


POZZALLO

Medici senza frontiere: sui barconi ci sono persone “sane” ma con traumi psicologici

Le cure dentistiche sono uno dei problemi maggiori per chi è al fondo della scala sociale. Nelle due foto piccole altri scorci del centro di Pozzallo in cui operano i Medici senza frontiere

LA DENUNCIA

ai cittadini stranieri privi di permesso di soggiorno. La realtà dei fatti è ben diversa. Tante le discriminazioni «L’attività quotidiana del Naga ci permette di dire che, in particolare in Lombardia – spiegano i tecnici del Naga nel dossier – i cittadini extracomunitari senza permesso di soggiorno o i cittadini comunitari che non rispondono a determinati requisiti subiscono discriminazioni che si riflettono molto sulle loro condizioni di salute. Nei fatti, molte persone, anche con patologie gravi, non sono assistite adeguatamente». Nell’intervallo di tempo messo sotto esame, il Naga ha raccolto 155 casi di persone che sono state ricoverate negli ospedali milanesi e dei paesi limitrofi, o che hanno avuto accesso ai Pronto Soccorso e non sono state assistite secondo quanto previsto dalla legislazione

Molti pazienti non hanno potuto accedere agli esami di secondo livello oppure non hanno potuto essere presi in carico per il prosieguo delle terapie o non hanno ricevuto la prescrizione per farmaci indispensabili e a volte molto costosi

vigente: non gli è stato assegnato il codice Stp (per gli stranieri extracomunitari) o il codice X01 per l’esenzione dal pagamento del ticket oppure non è stata usata la sigla Comunitari senza copertura Sanitaria (Cscs) per cittadini comunitari, ad esempio rumeni e bulgari, senza copertura sanitaria. La conseguenza è stata che i pazienti interessati non hanno potuto accedere agli esami di secondo livello indicati dagli ospedali stessi, oppure non hanno potuto essere presi in carico per il prosieguo delle terapie, oppure non hanno ricevuto la prescrizione per farmaci indispensabili e a volte molto costosi. «In 80 dei 155 casi si trattava pazienti con patologie gravi come il diabete mellito, fratture ossee, casi di tumore o gravi patologie cardiache – ha spiegato Fabrizio Signorelli, direttore sanitario del Naga». La salute sì, insomma. Ma non per tutti.

Li vediamo scendere dai barconi accolti da operatori in guanti e mascherina. Ogni tanto qualche politico lancia l'allarme sul diffondersi di epidemie più o meno devastanti. La salute dei profughi che sbarcano in Italia preoccupa e allarma l'opinione pubblica. «La maggior parte di loro spiega Stefano Di Carlo, capomissione di Medici senza frontiere, realtà attiva nel centro di prima accoglienza di Pozzallo, costa ragusana - non ha patologie gravi. Soffre semmai di malattie semplici, le più comuni legate alle vie respiratorie e a quelle dermatologiche. Disturbi contratti durante il viaggio in mare». Il team di Medici senza frontiere sottopone tutti a un primo screening sanitario. «Molti problemi di salute – prosegue Di Carlo – sono la conseguenza delle condizioni igieniche dei sovraffollati centri di detenzione libici. È lì che si prende la scabbia ed è lì che si subiscono evidenti traumi frutto di violenze». Se i profughi stanno tendenzialmente bene da un punto di vista fisico altrettanto non può dirsi per quanto riguarda le condizioni psichiche. «La salute mentale è un problema - aggiunge Di Carlo -. Dato tutto quello che passano la sofferenza è elevata. Per questo abbiamo attivato progetti di supporto psicologico e interveniamo immediatamente con i sopravvissuti ai naufragi». A tutti coloro che transitano dai propri centri, Medici senza frontiere rilascia una sorta di passaporto medico. «In questo modo - conclude Di Carlo - confidiamo di aiutare i profughi a esercitare il diritto di cura. Perché questa è la questione. Non c'è un'emergenza sanitaria, ma c'è un'emergenza sul piano dei diritti».

giugno 2015 Scarp de’ tenis

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EXPO CARITAS con occhi nuovi e di condividere la propria visione con i volontari e e con il personale di Caritas. Apriranno le porte della loro sensibilità a tutti, con la voglia di dare piacere che ci contraddistingue.

La parata sul Decumano che ha concluso il Caritas Day a Expo 2015

Massimo Bottura: «Il cibo buono? Nasce dalla cultura»

Cucinerete le eccedenze di Expo. È possibile una cucina di qualità con prodotti “inusati” o scartati? Ovviamente, perchè l'ingrediente fondamentale per un grande piatto è la cultura, perchè la cultura genera conoscenza e, quindi, coscienza e senso di responsabilità. Ogni grande piatto nasce su quel tracciato. Una ricetta e un piatto che cucinerà? Un piatto col pane secco: per me è il simbolo più importante del recupero. “Il pane è oro” è il piatto che ho ideato per l'Expo, ispirato alla zuppa di latte pane e zucchero che mi faceva mia mamma quando ero piccolo.

di Ettore Sutti

Lo chef stellato Massimo Bottura è tra gli artefici del Refettorio Ambrosiano, uno dei progetti principali che la Diocesi di Milano, insieme a Caritas Ambrosiana, promuove per Expo 2015. Una mensa speciale, ospitata dalla parrocchia di San Martino in Greco, con 90 posti per i senza dimora e i nuovi poveri della città , in cui per un mese i più famosi chef del mondo cucineranno i loro piatti recuperando le eccedenze delle cucine dei padiglioni di Expo.

info Caritas ad Expo Milano 2015 expo.caritasambrosiana.it expoblogcaritas.com www.caritasinternationalis.org www.caritas.it www.caritasambrosiana.it

Il Refettorio Ambrosiano si candida a essere, dopo il Cenacolo Vinciano, il più bel posto dove mangiare insieme. Come nasce l’idea? Dopo tanti anni nei quali ho ricevuto tanto, ho raggiunto traguardi importanti e immense soddisfazioni per me, la mia famiglia e la mia squadra, ho pensato che fosse il momento di iniziare a restituire qualcosa. L'immediata sintonia con Caritas Ambrosiana e con Davide Rampello ci ha permesso di lanciare un progetto del genere. Dividere per moltiplicare è il senso della presenza di Caritas

32 Scarp de’ tenis giugno 2015

in Expo. E condividere, a tavola, è da sempre il cardine di una buona relazione. Che ruolo può e vuole avere uno tra i più grandi chef del mondo in questo progetto? Condividere la conoscenza in primis. I più grandi chef del mondo entreranno in punta di piedi al Refettorio Ambrosiano e cercheranno di vedere le materie prime presenti

C’è un sapore di un piatto o un ricordo che si porta dietro e che non è mai stato sbiadito dal tempo? La mia cucina ha radici profonde nei miei ricordi, come quello da cui nasce “Il pane è oro” oppure i tortellini che rubavo crudi dal tagliere di mia mamma. Credo che quando la cucina è in grado di trasferirti l'emozione dei ricordi dell'infanzia abbia centrato il suo obiettivo.

A Expo in scena il Caritas Day

L’EVENTO

Lo scorso 19 maggio Expo ha ospitato il Caritas Day: a Milano sono arrivati 174 delegati di 85 Caritas: 60 dall’Africa, 34 dal centro e sud America, 1 dal Nord America, 26 dall’Asia, 15 dal Medioriente, 8 dall’Oceania e 11 dall’Europa. Sono stati accolti e accompagnati in Expo, per una giornata festosa di incontro, confronto e scambio. È stato un passo decisivo della Campagna “Una sola famiglia Umana, cibo per tutti” lanciata da papa Francesco nel dicembre 2013. L’obiettivo ricordato e scandito è essere liberi dalla fame. È un diritto umano, come ha ricordato il cardinale Oscar Rodriguez Maradiaga, presidente uscente di Caritas Internationalis, e ripreso dal nuovo presidente, il Cardinale filippino Luis Antonio Tagle.


PIANI BASSI

In morte di Mbaye, che metteva i carrelli al loro posto

di Paolo Brivio

Chissà come c’era arrivato, in Italia. Probabilmente aereo, un bel gruzzolo di anni fa. In valigia, la speranza di tutti: una vita migliore. Poi le cose erano andate così così. Tornava in patria, dai famigliari, quando i risparmi permettevano l’acquisto di un biglietto. L’ultimo, pe-

rò, l’ha pagato senza riuscire a utilizzarlo: troppo malconcio,

aggredito com’era dalla malattia. La compagnia aerea non poteva assumersi responsabilità. E lui ha

finito i suoi giorni in Italia. Accudito da un figlio e qualche amico espatriato. Lontano migliaia di chilometri dai panorami e dagli sguardi che avrebbe voluto cercare, nel momento del respiro estremo. Mbaye se ne è andato, a inizio maggio, con il fardello di una sofferenza in più. Perché le regole sono regole. Quelle della sicurezza in volo. Quelle aleatorie, ma

l’autore Paolo Brivio, 48 anni, si è appassionato ai giornali ai tempi dell’università. E ha coniugato questa passione-professione con l’esplorazione dei “piani bassi” della nostra società. Direttore di Scarp dal 2005 al 2014, oggi fa il sindaco: pro tempore, perché rimane “giornalista sociale” in servizio permanente effettivo

non meno spietate, di una vita consegnata alla lontananza. L’hanno riportato in Senegal

per seppellirlo: “rimpatrio della salma”, cioè burocrazia e costi elevati, affrontati tramite colletta tra connazionali poveri cristi come lui. Neanche da morto, un migrante si libera dalla maledizione di dover viaggiare tra mille complicazioni.

Ma se c’era uno che non lo meritava, quello era Mbaye.

Un omone: alto, flemmatico, toni di voce bassi, vista annebbiata dalla cataratta. Vendeva le solite cianfrusaglie da ambulante senegalese (da vu’ cumprà, per quelli che ci tengono a essere anche linguisticamente un

po’ razzisti). Cianfrusaglie che gli servivano da copertura. Perché il

suo vero lavoro era salutare i clienti del market di paese, fuori dal quale si piazzava da anni, ogni giorno. Salutarli e scambiare due chiacchiere. Salutarli, sorridere e aiutarli. A prelevare e riposizionare i carrelli. A caricare in auto la spesa. Strani tempi di bolgia Mbaye si guadagnava così la baguette, la scatoletta di tonno, la bottiglia d’acqua del mezzogiorno. E lo stillicidio delle piccole mance: il

Si sapeva solo che a un certo punto era comparso. Per mettere insieme briciole di futuro. Cercando di ricambiare come poteva. Poi ci si incontra davvero, al market sotto casa. E si scopre che non tutto è per forza scontro di civiltà

profitto di una vita, il salario della gentilezza. Io non è che lo conoscessi bene.

Molto di più mia nipote, a cui ha regalato una sequela sterminata di braccialettini. Ancora di più mia mamma, alla quale ha portato a casa le buste cariche di acquisti, nei giorni dopo l’ospedale. Non lo conoscevo bene, ma mi ha colpito molto, quand’è morto, il dispiacere autentico dei tanti che avevano ricevuto i suoi quotidiani e un po’ nasali «buongiorno». Che avevano raccolto, nel tempo, i racconti sulla famiglia in Africa e le preoccupazioni per il figlio in Italia, senza lavoro né permesso. Che gli avevano lasciato le mille mone-

te da mezzo euro per i mille carrelli rimessi al loro posto.

Mbaye il senegalese. Non si sapeva com’era venuto. Non si sapeva nemmeno come faceva di cognome. Si sapeva solo che a un certo punto era comparso. Per mettere insieme briciole di futuro. Cercando di ricambiare come poteva. Con rispetto. Con pacatezza. Con una cauta, timida allegria. Strani tempi, questi delle migrazioni globali. Tempi di bolgia: disperati in fuga, schiavisti efferati, opinioni pubbliche impaurite (fino alla meschinità), politici scaltri o tremebondi. Poi ci si incontra davve-

ro, al piccolo marketsotto casa. E si scopre che non tutto è per forza scontro di civiltà. La gentilezza, nota comune dell’umanità: cemento, persino, di nuove, possibili comunità. giugno 2015 Scarp de’ tenis

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REPORTAGE

Asmarina, benvenuti a Milano di Paolo Riva

Un venerdì sera di maggio, a Milano, i giovani affollano per l’aperitivo i tavolini all’aperto di via Vittorio Veneto, in zona Porta Venezia. Dall’altro lato della strada, nel verde accanto alle rotaie del tram, sostano svariate decine di giovani africani. Da una parte, i milanesi pronti a far serata. Dall’altra, i profughi in fuga dall’Eritrea decisi a ripartire il prima possibile. Sono due vol-

Viaggio a Porta Venezia, uno dei quartieri più storici dell’immigrazione meneghina, luogo di elezione per le comunità eritrea ed etiope

ti di Porta Venezia, due dei tanti che mostra di sé uno di quartieri più storici dell’immigrazione meneghina. Un’altra faccia di questa zona divenuta luogo di elezione della comunità etiope ed eritrea a Milano è quella dei ragazzi che, poche decine di metri più avanti, affollano l’ingresso dello spazio Oberdan per la proiezione del docu-

34 Scarp de’ tenis giugno 2015


Girom e Derres dietro il bancone del loro ristorante eritreo aperto nel lontano 1983. Quella della comunità habesha (etiope ed eritrea) è ormai una presenza consolidata a Porta Venezia

11.187

14.485

36.925

cittadini eritrei in Italia, sono 1.798 a Milano (Istat 2013)

eritrei che hanno chiesto protezione internazionale dentro l’Ue (2013)

eritrei che hanno chiesto protezione internazionale dentro l’Ue (2014)

mentario “Asmarina” dedicato al quartiere. L’evento, che ha fatto registrare il tutto esaurito, è parte del Festival del Cinema Africano, d’Asia e di America Latina che, non a caso, da alcuni anni ha in uno dei caselli di Porta Venezia il suo centro nevralgico. Solidarietà con i profughi «Siamo tutti esaltati» – dice un’universitaria figlia di un genitore etiope e uno eritreo. Come lei, la maggior parte del pubblico è composta da giovani di seconda generazione, nati e cresciuti nel nostro Paese da genitori immigrati. Sono loro, insieme ad altri membri più anziani della comunità, ad alcune associazioni e ad altri volontari italiani, a dare aiuto ai profughi da oltre un anno e mezzo. Portano loro cibo e vestiti, li orientano, li aiutano ad andare nei centri del Comune. «Una parte della comunità si è mobilitata – spiega Stefano Pasta, giornalista e volontario di Sant’Egidio –. E, per quanto alcuni abitanti del quartiere abbiano protestato in più occasioni, è stata una solidarietà contagiosa, che ha moltiplicato gli aiuti».

Negli ultimi anni alla storica comunità si sono aggiunti i profughi eritrei in fuga dal regime di Isaias Afewerki in attesa di trasferirsi in Nord Europa. La comunità habesha (etiope ed eritrea) si è mobilitata per aiutare i connazionali più sfortunati.

I profughi sono una presenza visibile anche il sabato mattina, con i loro sguardi diffidenti e disorientati, le loro facce giovani, a volte giovanissime, le loro ciabatte e i loro sacchetti di plastica come unico bagaglio. Sono numerosi soprattutto

in via Palazzi, nei phone center e nei bar: cercano di comunicare con i parenti a casa oppure studiano il tragitto migliore per poter continuare il viaggio. Fuggono dal regime repressivo di Isaias Afewerki, presidente dell’Eritrea dall’indipendenza del 1993, vogliono arrivare in Paesi del Nord Europa come la Svezia e, pur di riuscirci, affrontano viaggi costosi e pericolosi, gestiti da organizzazioni criminali senza scrupoli. «È una storia triste quella dei profughi – riflette Girom Berhane –. Quando son arrivata io ottenere un visto non era facile, ma era

LA STORIA

Un documentario racconta il quartiere: «Condividere memorie di immigrazione» Non è l’unico luogo, ma sicuramente il più importante e raccontato. Nel documentario “Asmarina - Storie e volti di un’eredità postcoloniale” Porta Venezia la fa da padrone, con i suoi abitanti e le loro storie. A realizzarlo due giovani fotografi, Medhin Paolos e Alan Maglio, amici da anni, entrambi fortemente legati al quartiere e profondamente inseriti nella comunità habesha (cioè etiope-eritrea). Il risultato del loro lavoro, autofinanziato e autoprodotto, è un delicato intreccio di piccole storie che, insieme, hanno la pretesa di raccontare la storia con la S maiuscola, l’ambizione di costruire una memoria condivisa e la capacità di coinvolgere ed emozionare. «Volevo fare ordine e ho capito che il mio desiderio di condividere le mie memorie con quelle di altre persone era ben più diffuso di quanto pensassi. E così alla fine, nel film, la mia storia non l’ho nemmeno raccontata» spiega a Scarp de’ tenis Medhin, che è nata in Italia da genitori eritrei, milita nella Rete G2 per i diritti delle seconde generazioni ed è impegnata anche nell’assistenza ai profughi. Per Alan, invece, che è nato a Cologno Monzese, l’incontro con la comunità habesha è avvenuto negli anni dell’università, quando ci passava per andare a lezione. «È stato un luogo importante per la mia formazione e questo lavoro vuole essere un tributo a Porta Venezia e alla sua gente, che da allora non ho mai smesso di frequentare». Realizzato in oltre un anno e mezzo, Asmarina nasce da un lungo e appassionato lavoro di ricerca da parte dei suoi autori, che, tra archivi e album di famiglia, hanno raccolto un’enorme mole di materiale fotografico. «Scatti di autori e foto di gente comune. Non abbiamo fatto distinzioni: in entrambi i casi stiamo parlando di memoria». www.asmarinaproject.com giugno 2015 Scarp de’ tenis

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Un gruppo di profughi eritrei staziona ai giardini di via Vittorio Veneto in attesa di partire per l’estero

SCHEDA

Documentario in tour anche all’estero. Presto un libro

possibile. Ho viaggiato in aereo e non su quelle barche». Parla stando sulla porta del ristorante Asmara, poco più in là, sempre su via Palazzi. Il locale l’ha aperto nel 1983 insieme al marito Derres che a Milano era arrivato undici anni prima. «Scelsi di venire in questo Pae-

se perché ad Asmara avevo fatto le scuole italiane» ricorda Girom. Il legame che unisce la nostra penisola al piccolo stato dell’Africa orientale, infatti, è storico e il mix che oggi è Porta Venezia non è che il risultato di questo secolare intreccio di colonialismo e migra-

BELLE STORIE

Ora i migranti fanno le guide, nei luoghi dell’immigrazione Immaginatevi una visita turistica vera e propria, con tanto di guida, tappe e spiegazioni. Come se si trattasse del Castello Sforzesco o di Piazza Duomo. Grazie al progetto Migrantour, promosso da Acra - Css e Viaggi Solidali con fondi Ue, oggi Porta Venezia si può scoprire anche così. A far conoscere la storia, ma anche le vicende recenti della zona, sono giovani migranti o ragazzi di seconda generazione che ad una formazione specifica storico-culturale aggiungono le loro esperienze personali e i racconti dei nuovi abitanti del quartiere. Capita così che, un sabato mattina di maggio, un gruppo di circa quindici persone ascolti attento Lisette, 26 anni, che è arrivata in Italia dall’Ecuador quando ne aveva tredici. La giovane spiega come questa parte di città in passato fosse il Lazzaretto per i lebbrosi descritto anche da Alessandro Manzoni ne I Promessi Sposi, mostra la chiesa russo ortodossa di via San Gregorio, indica ristoranti e locali eritrei, ma confessa anche di comprare il platano al negozio indiano all’angolo. «È un cibo tipico dell’Ecuador e son felice di trovarlo qui» – racconta. Quella di Porta Venezia, però, non è l’unica zona di Milano visitabile grazie a Migrantour: nell’elenco ci sono anche la multietnica via Padova e la chinatown di Paolo Sarpi. Info www.mygrantour.org

zione. L’Eritrea è stata una colonia italiana dal 1890 fino al 1941: è in quel periodo che migliaia e migliaia di nostri connazionali si sono trasferiti ad Asmara, Assab e Massaua, è in quegli anni che è stata scritta la canzone “Asmarina” che dà il nome all’omonimo documentario ed è in quei decenni che sono nati gli istituti frequentati da Derres. Una comunità integrata «All’inizio ho lavorato come traduttore. Era facile allora: non c’era praticamente nessuno che sapesse la nostra lingua» – prosegue Girom, spiegando di aver cambiato diverse professioni prima di mettersi in proprio. «Negli anni ottanta eravamosoltanto in quindici. Venivano solamente famiglie eritree, ma spesso capitava di riempire i nostri 130 coperti sia a pranzo che a cena» – dice indicando i due piani del suo ristorante, che di quegli anni conserva ancora la scritta all’esterno, decisamente datata. Oggi la situazione in zona è ben diversa. Piatti tipici come l’injera o lo zighinì, si trovano in almeno una quindicina di locali e i ristoranti etnici, che non sono più una novità, si alternano con bistrot alla moda e locali gay friendly. Per non parlare della clientela che, prosegue Derres, «ormai è composta quasi tutta da milanesi».

Tra le tante fonti consultate da Medhin e Alan, un’ispirazione particolare l’hanno trovata nel libro “Stranieri a Milano”, del 1983. Gli autori sono i due fotografi Vito Scifo e Lalla Golderer, intervistati nel corso del film, che allora affontarono il tema delle comunità straniere a Milano con attenzione e lungimiranza, soffermandosi in particolare sugli immigrati eritrei. «Siamo un uomo e una donna, proprio come loro – dicono i due registi di Asmarina. Ci piace pensare che ci abbiano passato un testimone che noi abbiamo preso al volo. E che speriamo, a nostra volta, di passare alle generazioni future». Il documentario, presentato a inizio maggio, è ora in tour in Italia e all’estero, ma l’impegno di Medhin e Alan non si ferma. Il prossimo obiettivo, mentre cercheranno di farlo circolare il più possibile, è quello di affiancare al film un libro fotografico. Un prosieguo ideale del racconto fatto a suo tempo da Vito e Lalla, che oggi non abitano più a Milano ma che sono tornati proprio per vedere “Asmarina”.

giugno 2015 Scarp de’ tenis

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La fede e l’amore più forti delle sbarre di Alberto Rizzardi

Giuditta e Pietro di sono conosciuti al Meeting di Rimini: lei come visitatrice lui come volontario nell’ambito di un progetto del carcere dove era rinchiuso. Si sono scritti, pensati e amati per mesi. Fino a quando sono diventati marito e moglie 38 Scarp de’ tenis giugno 2015

Quante volte abbiamo sentito dire che “L’amore non conosce ostacoli”? Un sentimento così forte da consentire di superare distanze fisiche, differenze d’età o barriere culturali. E se quell’ostacolo fosse, invece, tangibile, concreto come le sbarre di una prigione? Impossibile, direte. Nient’affatto. Questa è la storia di Giuditta e Pietro: lei, Giuditta Boscagli, 33 anni, fa l’insegnante a Lecco, dove è nata. È piuttosto il pretesto per raccontare come è nata la storia d’amore tra Giuditta e quello che oggi è suo marito: che noi chiamiamo Pietro, così come ha fatto la stessa Giuditta nel suo libro Il cuore oltre le sbarre(Itaca Edizioni), in cui lei diventa Irene. Ma, se i nomi sono diversi, il resto è verità. Nel 2010 all’annuale Meeting di Rimini, Giuditta e Pietro s’incontrano per caso: lei è là come visitatrice abituale della kermesse di Comunione e Liberazione; lui fa il volontario assieme ad altri detenuti del carcere di Padova. Sì, perché Pietro era detenuto, condannato a vent’anni di car-


INCONTRI cere per un reato che Giuditta preferisce non rivelare.

Qui sopra la copertina de “Il cuore oltre le sbarre” libro che racconta l’amore tra Giuditta e il marito. A destra, l’autrice Giuditta Boscagli

I primi 4 mesi ci siamo sentiti solo con le lettere. La fatica è stata tanta, ma il fatto di dover affidare alle parole scritte i nostri sentimenti ci ha obbligati ad andare subito all’essenziale e ad abituarci in fretta all’idea che non potevamo piegare la realtà ai nostri desiderata

Amore vissuto via lettera Vale la pena piuttosto evidenziare quanto un sentimento possa sconvolgere positivamente la vita, dando un senso a tutto ciò che la permea e contribuendo anche a rimetterla sui giusti binari, se necessario. Un sentimento vissuto all’inizio come si faceva decine di anni fa: con lettere scritte a mano e spedite per posta. Perché Pietro, quando tutto ebbe inizio, era recluso e solo in un secondo momento poté godere di qualche permesso.

«È stato molto strano – ricorda Giuditta – perché fin da subito c’è stata come la coscienza che tra noi ci fosse più di una semplice amicizia». Insomma, come tutte le storie che nascono. Solo che qui le condizioni erano totalmente diverse: «Lui godeva già di alcuni permessi per uscire dal carcere, ma tra uno e l’altro era recluso e durante il permesso non poteva vedere nessuno. Tornava a casa ogni 60 giorni, aveva a disposizione una sola telefonata a settimana, che ovviamente spendeva per sentire i genitori. I primi 4 mesi ci siamo sentiti solo con le lettere. La fatica è stata tanta, ma il fatto di dover affidare alle parole scritte i nostri sentimenti ci ha obbligati ad andare subito all’essenziale e ad abituarci in fretta all’idea che non potevamo piegare la realtà ai nostri desiderata».

Da allora sono passati quasi 5 anni. Oggi Pietro ha scontato la sua pena ed è tornato a fare il fabbro, lavoro che faceva prima della galera. Giusto parlare, quindi, di una storia di redenzione. Ma non solo per Pietro; per entrambi: «Per Pietro quell’opera da volontario al Meeting è stata una spinta enorme: il fatto di essere uscito con l’idea di “cambiare aria” per qualche giorno e di aver, invece, trovato una folla di persone che lo accolse per quello che era lo ha spinto a ricercare nuovamente un rapporto personale con Dio. E anche per me quell’incontro è stata un’occasione per

riscoprire la grazia della fede». Toccava, però, dirlo alla famiglia. «Non fu semplicissimo – ammette Giuditta – perché nessuno augura ai propri figli di avere a che fare con il carcere. La prima reazione dei miei genitori, soprattutto di mio padre, fu di preoccupazione. Non avevano mai visto Pietro in faccia e nell’immaginario comune, anche se siamo le persone più buone e generose del mondo, il detenuto è qualcuno che fa paura. Anche perché, se si trova in carcere, qualcosa di brutto deve averlo combinato». Inevitabili e comprensibili difficoltà, dunque; ma anche in questo caso è stato l’amore la chiave per risolvere tutto: «I miei genitori sono stati grandi perché, nonostante per loro la notizia fosse stata un duro colpo, mi hanno lasciata libera di vivere fino in fondo quello che mi stava capitando. E, più vedevano che ero serena, più si rasserenavano a loro

volta. Quando hanno avuto modo di conoscere Pietro, lo hanno accolto in casa come un figlio». Quasi come una favola Ora Giuditta e Pietro sono sposati e vivono anche le piccole grandi gioie di una normale quotidianità. Una favola a lieto fine, insomma? «No – precisa Giuditta – perché i desideri non sono finiti il giorno del matrimonio. Viviamo la nostra realtà giorno per giorno, più che correre avanti con i progetti. Vedo, però, il futuro molto positivo: dobbiamo sempre far memoria della grande grazia che ci è stata concessa dal destino e da un’evidente regia superiore, ma anche dell’amicizia delle persone che ci hanno accompagnato in questo percorso e che speriamo continuino ad accompagnarci. È un cammino intenso che abbiamo iniziato a percorrere e che vogliamo proseguire. Insieme».

I DATI

Sono 54 mila i detenuti in Italia, solo 8.715 alle misure alternative Secondo l’osservatorio dell’Associazione Antigone, nelle carceri italiane sono recluse circa 54 mila persone: in calo rispetto al 2013 (oltre 62 mila) e al 2011 (quasi 67 mila). Secondo il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, i posti letto sarebbero 49.943: ci sono, insomma, più detenuti che posti a disposizione. Nel 2014 il 22,1% dei detenuti ha avuto una pena inflitta inferiore ai 3 anni (nel 2008 era il 37,3%); in calo anche il numero di detenuti con pena superiore ai 10 anni (23,7% del totale); aumenta, di contro, la popolazione detenuta con pene medio-lunghe tra i 5 e i 10 anni. Il 32% dei detenuti è straniero, le donne sono il 4,3% del totale. Tanti i giovani: 4.100 detenuti hanno meno di 25 anni e il 46% ha tra i 30 e i 44 anni. Il 73% dei detenuti stranieri ha meno di 39 anni. Misure alternative al carcere: nel 2014 sono stati 8.715 i detenuti in affidamento in prova ai servizi sociali, 3.259 in affidamento terapeutico (tossicodipendenti e alcolisti), 745 in semilibertà, 9.453 – in deciso aumento – ai domiciliari, 1.458 beneficiari della Legge 199/2010 (la cd. “sfolla carceri”). 1.026 le convenzioni attualmente attive tra tribunali, enti locali e privato sociale, che complessivamente hanno reso disponibili circa 4 mila posti di lavoro per lo svolgimento di attività gratuite a favore della collettività.

giugno 2015 Scarp de’ tenis

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Palio del Grano, tutta la forza della tradizione di Stefania Marino

A Caselle in Pittari va in scena un contenitore sociale molto profondo, in cui ci sono la riscoperta dell’identità di un paese e delle sue generazioni, la valorizzazione moderna, intelligente e social di concetti e realtà quali terra, sacrificio e lavoro. 40 Scarp de’ tenis giugno 2015

Lo splendore di un campo di grano, gli uomini con le falci in mano per affrontare la fatica, le donne con il fazzoletto in testa per proteggersi dal sole. Intorno le voci della festa. Accade a Caselle in Pittari, piccolo paese nell’entroterra del Golfo di Policastro, ultimo lembo della Campania dove è adagiata Sapri il cui nome è rimasto nelle antologie scolastiche per i famosi versi della “Spigolatrice di Sapri” firmati da Luigi Mercantini. A Caselle in Pittari, da dieci anni la Pro Loco organizza il Palio del Grano che a prima vista potrebbe sembrare una rievocazione di tempi antichi, una festa popolare, una tela di folklore. Ma non è così. È un contenitore sociale molto più profondo dove ci sono la riscoperta dell’identità di un paese e delle sue generazioni, la valorizzazione moderna, intelligente, social di concetti e realtà come terra e lavoro. L’idea è venuta ad Antonio Pellegrino, attuale membro del consiglio direttivo della Pro Loco.


LA STORIA spuntino. E poi si riprende a mietere, avanti lungo la pista, fermandosi e lasciando il posto agli altri mietitori della squadra in una staffetta accelerata. «Il Palio è un momento di crescita –racconta Giuseppe Rivello della Pro Loco di Caselle in Pittari – racchiude il senso di socialità e di comunità che va oltre il folklore».

Due momenti del tradizionale Palio del Grano di Caselle in Pittaro. Un rito con radici profonde che ogni anno rinnova i legami sociali

info Per informazioni Pro Loco di Caselle in Pittari Via Santa Rosa, Palazzo Navazio, Caselle in Pittari (SA) www.prolococaselle.it www.paliodelgrano.it

Al centro di tutto c’è il grano che viene seminato, curato e accarezzato per mesi e mesi prima del gran giorno quando si riuniscono grandi e piccoli, paesani e non per cimentarsi nella gara di mietitura a mano. Le squadre sono otto composte da uomini e donne. Partecipano i “rioni” di Caselle in Pittari, partecipano i paesi “compari” gemellati: SicilìMorigerati, San Giovanni a Piro, Sanza, Rofrano, Atena Lucana, Sala Consilina, Castel Ruggero, Laurino. L’appuntamento dell’edizione 2015 è per il 19 luglio. Un rito con radici profonde La ritualità è sempre la stessa da dieci anni: raduno alle 6 del mattino nella piazza del paese. Il vincitore dell’anno precedente porta lo stendardo del Palio del Grano finemente realizzato dall’artista Giulio Greco. Tutti insieme, in corteo, ci si incammina verso il campo di grano. Qui nei giorni precedenti, i volontari hanno diviso l’area del palio in otto piste, una per ogni squadra. Ognuna avrà i suoi metri quadrati di grano da mietere. Si procede con il sorteggio. Alla presenza dei giudici di linea, mediani e di testa, 24 in tutto, si dà il via alla gara.

Gli uomini fanno velocemente muovere la falce che trancia il grano piegandosi a terra mentre le donne dietro si danno da fare per raccoglierlo e fare delle fascine, in dialetto chiamate gregne. Èun

momento di grande concitazione in cui braccia e gambe lavorano per mietere prima degli altri la propria

striscia di grano fino a raggiungere la bandiera del proprio rione. La vittoria però ancora deve arrivare. Le donne chiamate a raccogliere le fascine nel campo dovranno poi accatastarle fino a formare una vurredda. Solo quando le donne di una delle squadre avranno terminato questa operazione uno degli uomini potrà dalla pista correre verso la vurredda con la bandiera del proprio rione. Saranno loro i vincitori. Durante la gara, anche per riproporre antiche usanze, per dare vigore ai lavoratori e alle lavoratrici, si fa la pausa dell’aglio. Tradotto: uno

Socialità e integrazione E ci sono poi i valori aggiunti della socialità, dell’integrazione, delle relazioni sociali nate dall’esperienza del Palio. Anche il sistema del “comparaggio” tra paesi, questo legame che unisce delle persone, attraverso un comune senso di appartenenza, acquista una forza antropologica tale da mettere in secondo piano le unioni scritte nei protocolli d’intesa. Valgono le condivisioni di intenti e le strette di mano. Michele Granato, giovane neo presidente della Pro Loco di Caselle in Pittari, vive questo evento popolare da anni: «Forse se tanti giovani non hanno deciso di fare le valigie, rimanere qui riscommettere su questo territorio, forse lo si deve anche al mondo del Palio, ai suoi principi, alle sue azioni, e all’energia che riesce a muovere».

LA SCHEDA

Camp’ di Grano, laboratorio per imparare la cultura contadina Il Palio del Grano da qualche anno viene preceduto da un altro momento importante a cui è stato dato il nome di Camp’ di Grano. Che cos’è? «Prima- spiega Rivello della Pro Loco di Caselle in Pittari - era semplicemente alfabetizzazione rurale ora invece va nella direzione di una vera e propria summer school. Ci rivolgiamo a persone che già hanno un bagaglio di conoscenze, alle aziende, alle cooperative». Camp’ di Grano è un laboratorio dove si parla di agricoltura e di nuova agricoltura, di produzioni ed identità. «Una settimana di vita rurale sul campo - viene definita sul sito www.paliodelgrano.it – in cui si imparerà dagli antichi contadini cilentani l’arte della mietitura tradizionale e di tutti i processi di lavorazione del grano». Parole e saperi antichi e moderni con tanto di hashtag si muovono nello spazio architettonico rurale del teatro del grano. Un teatro di paglia dove ci si siede, si fa colazione e si affronta il tema della terra e dell’agricoltura, della sostenibilità e della ruralità contemporanea. Il Palio insegna. Camp’ di grano insegna. giugno 2015 Scarp de’ tenis

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GENOVA

Attori e detenuti insieme sul palco di Angeli con la pistola

Angeli con la pistola, i detenuti diventano attori di Paola Malaspina

«Il fatto che possa esistere un teatro dentro al carcere non significa che il teatro non debba uscire da quei confini. Anzi lo deve fare». L’idea è chiara e la ribadisce al telefono Sandro Baldacci, tra i fondatori di Teatro Necessario onlus, associazione che da dieci anni organizza spettacoli teatrali con la partecipazione di detenuti del carcere di Marassi.

info Teatro Necessario Piazza de Marini 3/38 Genova Tel. 010 24 75 125 Teatro dell’Arca Piazzale Marassi 1 Genova (accesso da via Clavarezza) www.teatronecessariogenova.org

Dopo Pinocchio, Amleto e una buona serie di testi shakespeariani, per questo ottavo spettacolo la scelta è caduta su un genere diverso: la commedia musicale, un adattamento del celebre film di Frank Capra, Angeli con la pistola. Una produzione diversa che ha potuto avvalersi di una nuova e importante risorsa: il teatro dell’Arca, moderna struttura in legno costruita all’interno di un’ala in disuso della casa circonda-

Dall’esperienza del teatro dell’Arca nasce una nuova produzione teatrale che va in scena anche fuori dal carcere 42 Scarp de’ tenis giugno 2015

riale di Marassi, con il supporto dei detenuti stessi. Entrare in carcere, uscirne «I lavori del teatro dell’Arca stanno finendo e pensiamo di inaugurare la struttura entro l’anno – spiega Sandro – ma l’auditorium è già utilizzabile, anzi noi già lo usiamo per provare e vi abbiamo realizzato diversi spettacoli, soprattutto rappresentazioni per le scuole. Siamo arrivati ad avere 3 mila spettatori». Ragguardevole soprattutto perché non si tratta di un teatro come gli altri: entrare in una struttura carceraria, accettarne l’impatto a livello fisico e psicologico, adeguarsi alle regole e alle limitazioni che impone (una su tutte: niente telefoni cellulari) non è un’esperienza da tutti i giorni e richiede consapevolezza anche da parte dello spettatore. «Anche se poi, per fortuna, non è così difficile – mi spiega Sandro – quando si è dentro al teatro, si dimentica tutto il resto, è una delle cose più belle». E così devono pensarla anche i detenuti che hanno preso parte all’allestimento e alla produzione: 18,

per la precisione, affiancati dai registi, un piccolo gruppo di attrici e attori professionisti e 4 ragazze del locale liceo coreutico, per un totale di una compagnia di 27 elementi. Un gruppo numeroso, affiatato e ben coordinato, al punto che, dopo il successo delle rappresentazioni di aprile al Teatro della Tosse di Genova, porterà lo spettacolo anche in tournée: prime date fissate, il 20 e il 21 luglio al Festival teatrale di Borgio Verezzi, il bel borgo in provincia di Savona che ogni anno ospita un’importante rassegna estiva di teatro all’aperto. Compagnia in rinnovamento «Una riprova che, a partire dal carcere, si può andare molto lontano», commenta Sandro. E in effetti le proposte di “tournée” non mancano, anche se la compagnia si è data l’obiettivo di valutarle anche in ragione delle esigenze degli attori. «Dobbiamo considerare che anche il gruppo dei detenuti varia nel tempo e non ha un assetto pienamente stabile. Pensa che, dalla produzione dell’anno scorso, solo due elementi sono rimasti, mentre tutti gli altri erano new entry». Il che rappresenta una bella opportunità, ma anche una sfida. «Nella maggior parte dei casi, l’uscita dalla compagnia è legata a cause positive, di cui non possiamo che rallegrarci: la fine della pena detentiva, oppure il raggiungimento, anche grazie a quest’esperienza, dei crediti necessari per l’inserimento lavorativo e i permessi di semilibertà. Lavorare ogni anno con persone diverse è una bella sfida e un gran lavoro per noi registi: molti sono esordienti al 100%, per lo più stranieri e di nazionalità diverse, ma il ricambio apporta grandi risorse al gruppo e permette ogni anno di rinnovare le proposte, migliorandoci». La scelta di Angeli con la pistola non è casuale. «Lo spettacolo mostra un gruppo di persone per lo più animate da buone intenzioni e capaci di trasformarsi. Ci è parso un modo scanzonato di affrontare il tema della riabilitazione. Il messaggio che passa è la grande potenzialità rieducativa di questo lavoro».


VICENZA

Un momento di una delle performance di danza che vanno in scena nelle sale del museo civico di Bassano

Storia di Eva: la farfalla, mister P. e la danza di Anna Trevisan

scheda Dance for Health & Parkinson è un progetto internazionale che in Italia è ospitato a Bassano del Grappa (VI) grazie al Csc Casa della Danza, in collaborazione con i Musei Civici, e sostenuto dalla Fondazione Only The Brave. Nato in Olanda per iniziativa del danzatore Marc Vlemmix, ammalatosi di questa patologia, Dance for Health combina i principi della danza con tecniche riabilitative. La forza e la peculiarità del progetto stanno nella sua interdisciplinarietà, perché coinvolge anche fisioterapisti, medici e ricercatori universitari. A Bassano le classi di danza sono nate nel 2013 e si svolgono i lunedì e i venerdì mattina nelle sale del museo Civico. Le classi sono gratuite e aperte a tutti. Info www.danceforhealth.nl www.operaestate.it mail –comunicazionefestival@comune.bassano.vi.it

La storia di Eva è quella di una giovane madre, bella e solare, che da dieci anni convive con il marito, i due figli, e Mr. P. «All’inizio ha dato molto fastidio perché si è intromesso nella mia vita, una vita normale. Sembrava davvero impossibile conviverci, anche perché non avevamo una stanza in più per quest’ospite inatteso – scherza –. Poi, abbiamo imparato a conviverci».

suoi gesti, dei suoi movimenti quotidiani: lavarsi i denti, tagliare una bistecca, spazzolarsi i capelli, annodarsi le scarpe. A guardarla danzare oggi, libera e fluida, nelle sale del museo, tra i dipinti di Jacopo Da Ponte e i bozzetti di Canova, si rimane increduli. Grazie alla danza, infatti, Eva sembra aver ritrovato quella serenità interiore e quell’armonia del movimento che credeva irrimediabilmente perdute.

Mentre lo dice sorride e si guarda intorno, nella sala del museo affollata di dipinti. Si scosta i capelli, e per un attimo, la sua mano vibra, come una foglia scossa dal vento. Mr. P è il nome che Eva ha dato affettuosamente alla sua malattia: il morbo di Parkinson. «Mamma, perché tremi?», le ha chiesto un giorno sua figlia, quando aveva quattro anni. Colta di sorpresa, Eva, non sapendo che dire, le ha raccontato che in giardino ha raccolto una farfalla e non l’ha più lasciata andar via. Quello sfarfallio leggero e a volte impercettibile è diventato parte di lei, dei

La danza come terapia La danza è arrivata all’improvviso, per caso, “come un messaggio sussurrato”. La parola stessa: “danza” ha fatto la differenza per Eva, attirando subito la sua attenzione perché, per la prima volta, le veniva proposto non una terapia ma un corso di danza, non un ciclo di fisioterapia ma un appuntamento con l’Arte e la Bellezza. Una piccola rivoluzione lessicale che faceva ben sperare. «La danza fa quest’effetto: ti fa sentire normale, con le stesse capacità di tutti gli altri, sia che tu arrivi a lezione tremando, sia che tu

arrivi in perfetta forma. La danza mi fa sentire bella, mi ha ridonato quel senso di armonia che pensavo di aver perso. Da quando frequento le classi ho una maggiore elasticità nelle giunture, il recupero parziale della motilità e della precisione di alcuni movimenti, il miglioramento posturale e nell’equilibrio». Le sale del museo civico di Bassano ospitano da ormai due anni le classi di danza. Il gruppo di danzatori è numeroso, affiatato ed eterogeneo: ci sono persino dei bambini, molte le donne, ma anche uomini, di tutte le età. Nessuna differenza Eva si mescola tra i partecipanti: tra loro i familiari dei parkinsoniani, gli amici ma anche tante persone che sono venute a vedere di che si trattava e sono tornate ancora. Una gremita e allegra comunità di persone, guidata da un team di insegnanti, tutti danzatori professionisti formatisi tra Maastricht, Rotterdam e Bassano con la collaborazione di fisioterapisti, medici e ricercatori universitari. I danzatori eseguono i movimenti quasi all’unisono, come fossero un unico organismo. Osservandoli si resta interdetti, perché non sappiamo riconoscere chi tra loro è il paziente. A fine lezione, Eva chiacchiera con gli altri. L’insegnante ascolta attento, e fa tesoro di ogni commento per rimodulare gli esercizi e progettare insieme a loro la prossima lezione. Con il tempo, Eva ha imparato a trasformare Mr. P. A passo di danza. giugno 2015 Scarp de’ tenis

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Rifugio diffuso, un nuovo modo di accogliere di Enrico Panero e Vito Sciacca

Si tratta di un tipo di accoglienza basata sulla sensibilizzazione delle famiglie a ospitare un rifugiato nella propria abitazione, un modello che ha prodotto buoni risultati: 122 le famiglie coinvolte finora che hanno accolto 143 profughi 44 Scarp de’ tenis giugno 2015

Una situazione paradossale quella che riguarda l’accoglienza dei profughi nel nostro Paese. «Una delle cause di questa situazione – sostiene il direttore della Pastorale Migranti della Diocesi di Torino, Sergio Durando –, è da ricercarsi nel fatto che, dei circa 8 mila comuni italiani, solo 450 hanno aderito allo Sprar: una maggiore partecipazione potrebbe favorire una più equa distribuzione, oltre che aumentare il numero dei posti disponibili». Allo stato attuale varie persone già riconosciute come rifugiate, terminato il periodo di accoglienza nei Cara (Centri di accoglienza richiedenti asilo) e non trovando posto nello Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) si accampano in strutture di fortuna. Il servizio stranieri Il Servizio stranieri del comune di Torino è attivo su questo fronte fin dal 2001: «La condizione essenziale per la presa in carico da parte del Comune è che il richiedente abbia


TORINO

A sinistra il salvataggio di alcuni immigrati in mare. Qui sopra l’ex pensionato La Salette, dove i richiedenti asilo sono seguiti da diversi enti, tra cui Caritas

info L’accoglienza in Piemonte Nel 2014 sono giunti in Italia 170 mila profughi, solo 66 mila sono rimasti e di questi 20 mila hanno trovato posto all’interno dello Sprar, il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati, una rete di enti locali volontari gestita dal ministero dell’Interno in convenzione con l’Anci che si attiva quando lo straniero non può essere accolto nei centri d’accoglienza (che attualmente ospitano 10 mila persone). Ne consegue che circa 36 mila profughi sono rimasti fuori dal programma di accoglienza.La percentuale a carico del Piemonte aggiornata ad aprile 2015 è intorno al 7-8%, e corrisponde a 3.144 persone delle quali 831 sono state prese in carico dallo Sprar, circa 500 a Torino (fonte: Regione Piemonte). Per ovviare a questa situazione è prevista un’accoglienza straordinaria gestita dalle prefetture.

i requisiti richiesti per legge. Nel caso la richiesta d’asilo sia rifiutata, oppure se mancano i requisiti il Comune non può farsene carico» – spiega Salvatore Bottari, responsabile dell’assistenza sociale presso il Servizio che accoglie attualmente 432 persone, alloggiate in varie strutture con capienze che variano dai 100 ai due posti. Dal 2008 il Comune di Torino sperimenta anche, primo in Italia, un’altra modalità di accoglienza che ora chiede al servizio centrale di istituzionalizzare.

Si tratta del “rifugio diffuso”, basato sulla sensibilizzazione delle famiglie ad accogliere un rifugiato nella propria abitazione, un modello che ha prodotto buoni risultati: 122 le famiglie coinvolte finora che hanno ospitato 143 profughi, 28 nei primi mesi del 2015. «Un altro ser-

vizio erogato dal Comune è l’inserimento lavorativo: 440 attivati nel 2014 e se ne prevedono circa 200 quest’anno» – osserva Bottari, sottolineando che il Servizio stranieri segue anche richiedenti asilo che non hanno trovato posto nelle strutture comunali –. «Non è pensabile portare tutti in una situazione di autonomia, ma al termine del percorso chi si è rivolto al Servizio stranieri possiede strumenti utili alla sua integrazione». Stranieri ospitati da stranieri La cooperativa Progetto Tenda è uno dei soggetti attuatori del progetto comunale “rifugio diffuso”. Anna Bertrand, socia della coope-

rativa, spiega come viene attuato: «Il progetto è diretto unicamente alle persone che hanno già fatto un percorso integrativo e cui occorre un altro po’ di tempo per trovare una stabilità lavorativa. Delle famiglie che si sono dette

disponibili attualmente solo il 3040% sono italiane. La maggior parte sono invece straniere, spesso connazionali delle persone che accolgono in casa. Ogni periodo di accoglienza dura 12 mesi suddivisi in due semestri, e oltre all’individuazione delle famiglie disponibili la cooperativa provvede ad individuare ed attivare tirocini lavorativi». Il lavoro è infatti fondamentale in un processo d’integrazione, come spiega Bertrand: «Un anno di permanenza in un grosso centro di accoglienza viene spesso vissuto come un limbo ed alla lunga diviene deresponsabilizzante; se invece si dà alla persona la possibilità di guadagnare, magari anche di mandare aiuti ai familiari in patria, le si fornisce una spinta motivazionale ad integrarsi al meglio nella società in cui vive».

LA STORIA

Dall’occupazione all’accoglienza: a La Salette esperimento unico in Italia Torino garantisce ai cittadini stranieri senza dimora titolari di protezione internazionale, il diritto di iscriversi all’anagrafe con la residenza virtuale di via della Casa comunale n. 3. È un primo passo, ma i profughi (circa 900) dimoranti nelle otto case occupate presenti a Torino rimangono in uno stato di semi-clandestinità. L’ex pensionato per lavoratori e studenti La Salette, di proprietà della congregazione dei missionari Nostra Signora della Salette, è stato occupato nel gennaio 2014 da un gruppo di profughi con l’aiuto del Comitato di solidarietà rifugiati e migranti. Nello stabile, che ospita circa 90 persone, è stato attuato un esperimento mai visto in Italia: «L’Ufficio Pastorale Migranti - spiega il direttore Sergio Durando - in accordo con la Congregazione dei Salettiani, con la Caritas e con la Diocesi di Torino, ha dato vita ad un gruppo che include gli abitanti della casa, il Comitato di solidarietà, alcune cooperative sociali, operatori sociali e professionisti. Un progetto finalizzato al prendersi cura dei migranti e a sostenerli nel loro percorso di integrazione». Così, l’ordine religioso proprietario dello stabile ha concesso la struttura in comodato d’uso, mentre la Curia torinese provvederà alla ristrutturazione, coinvolgendo anche gli occupanti in un’ottica d’auto recupero. «I lavori dell’edificio sono effettuati un piano per volta, in modo che i profughi possano continuare a risiedere nello stabile – precisa Durando - mentre nel frattempo verranno attivati percorsi di inserimento lavorativo». Contrariamente ad altre strutture d’ospitalità, qui non sarà prevista una data di permanenza massima: le persone lasceranno la struttura solo ad autonomia raggiunta. giugno 2015 Scarp de’ tenis

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Il Samaritano: dagli scarti nasce nuova vita di Elisa Rossignoli

Adrian ha le mani grandi, “grandi come panare”, si direbbe a Verona. Del resto, è un omone grande e grosso anche lui. Grosso come Mos craciun, Babbo Natale nella sua lingua, e come lui è arrivato d'inverno. Frequenta i laboratori del centro diurno da quando ha ottenuto la detenzione domiciliare a “La dimora del Samaritano”, ed è palesemente felice di poter passare alcune ore in modo attivo e produttivo. «Ho sempre lavorato con le mani, anche se non ero falegname», dice guardandosele. Al momento è impegnato nella costruzione di una cornice da regalare alla sua bambina. «È la cosa più importante per me, la mia famiglia. Prima non lo sapevo, ora l'ho imparato. E voglio usare le mie mani per fare qualcosa di buono per loro».

Alla casa di accoglienza veronese il laboratorio di falegnameria è ormai diventato uno dei cardini del loro stile di accompagnamento. Ma non solo. Grazie all’abilità degli ospiti gli scarti delle lavorazioni si sono trasformati in un “serraglio” molto ambito 46 Scarp de’ tenis giugno 2015

Il controllo qualità Accanto a lui, Simone dipinge pezzi di legno di forme diverse. Sorride mentre lavora con meticolosità e impegno degni di un artigiano. Cosa che lui non è: faceva il magazziniere, prima. Ma si gusta l'attività in cui ha scelto di impegnarsi. Seguendo la sua indole precisa, fa attenzione a posarli sui supporti giusti, perché non si contaminino con gli altri colori. Il “controllo qualità” è e dev'essere severo, e questi mesi hanno insegnato al gruppo quanto un mo-


VERONA

Mani operose al lavoro in “coloreria”. Sopra, gli animaletti realizzati in “coloreria”. A sinistra in basso le famose “panare” della falegnameria

info Il Samaritano Alla casa accoglienza Il Samaritano della Caritas diocesana di Verona, struttura che ospita persone senza dimora, è attivo un centro diurno con diverse attività creative che vede impegnate circa 15/20 persone che si dividono fra servizi per la casa, attività di scrittura e laboratori artigianali. via Dell’Artigianato 21 - Verona tel. 045 8250384 segreteria@ilsamaritanovr.it www.caritas.vr.it

mento di distrazione di un singolo può compromettere giorni di lavoro di tutti. «L'attività nella falegnameria è uno dei cardini del nostro stile di accompagnamento sociale della persona – spiega Alessandro Ongaro, responsabile del Centro Diurno –, perché permette di valorizzare, risvegliare abilità, scoprirne di nuove, mettersi in gioco per raggiungere un obiettivo concreto. E si valorizzano anche le idee che ciascuno porta al gruppo e alle attività. Nel nostro laboratorio artigianale operano persone che chiedono di essere accompagnate in un tratto difficile e impervio della loro vita. Ogni prodotto è lavorato da mani desiderose di essere produttive e utili. Mani che a poco a poco divengono sempre più esperte. I prodotti finiti sono testimoni del faticoso percorso che queste mani compiono per tornare a essere apprezzate». Il laboratorio artigianale ha due stanze. Nella prima si tengono le attività di falegnameria vera e propria: taglio a macchina, carteggio, assemblaggio. Nella stanza adiacente, detta affettuosamente “la coloreria”, si assembla, si rifinisce, ma soprattutto si dipinge ciò che arriva dalla falegnameria. Agli oggetti progettati e prototipati, che si producono in serie, ma sempre e comunque a mano, si è aggiunta una produzione basata sulla “spigolatura” e il riciclo di pezzi di legno inutilizzati.

Le Panare «Era quasi Natale – racconta Alessandro –. Eravamo attivi da alcuni mesi, ci serviva un obiettivo concre-

to, un oggetto che potesse diventare commerciabile, e ci eravamo concentrati, sulla produzione di semplici giochi, piccole bacheche in legno e sughero e alcuni oggetti – leggii e supporti per icone – commissionatici da un negozio di articoli religiosi di Verona. A quel punto di “equilibrio” abbiamo ricevuto uno scossone con una commessa inaspettata: 150 taglieri, fra cui le “panare”, su cui tradizionalmente si versa la polenta, che oggi si utilizzano anche come piatti di portata. Il numero era alto, e mentre nella riunione di équipe ci passavamo di mano in mano i prototipi ci siamo chiesti se eravamo pronti. Abbiamo deciso di raccogliere la sfida e ci siamo messi all'opera. Per Natale abbiamo completato la commessa, con grande soddisfazione di tutti».

SCHEDA

Metti un giorno in “coloreria”, dove la fantasia è la vera protagonista «Avete pezzi da colorare? Siamo in tanti e finiamo in fretta». «Di pronto no, però ci sono tutti questi pezzi, vedete cosa ne potete tirar fuori». E così sono approdate nella "coloreria" due ceste di pezzi avanzati dal taglio delle panare, il cui profumo ha riempito la stanza superando persino l'odore della vernice. «E questi cosa sono?» è stata la domanda. «Secondo te cosa potrebbero essere?» questa era la risposta. «Così abbiamo cominciato a guardare davvero quei ritagli – dice Massimiliano, operatore del centro diurno –. Erano scarti di legno buoni per il fuoco. Ma li abbiamo visti per ciò che avrebbero potuto diventare. Come fanno i bambini o i sognatori. E tutti, operatori e ospiti, ci siamo lasciati andare all'immaginazione. Da qui è nato un serraglio abbastanza vario: volatili di varie dimensioni e specie, draghi, serpenti, pinguini, pesci a iosa, squali compresi, elefanti, mammuth e, new entry del gruppo, lumache e balene. Doveva essere un'attività ad esaurimento, invece è diventata permanente, dato che anche i taglieri e le panare, la fonte di materia prima, sono entrati nella nostra produzione ordinaria. Questi animali ci insegnano cose importanti, a raccogliere le sfide, a non pensare “è impossibile”. A “buttarsi” in ciò che si fa, sapendo che da una cosa ne possono nascere altre, inaspettate. A capire che non c'è una strada sola, lineare e con tappe ben precise ma anche i sentieri che le intrecciano, e permettono di cogliere altri lati della vita. A non “buttar via” ciò che non serve più, perché può diventare una risorsa, come la pietra scartata dai costruttori di cui parla il Vangelo. A non guardare qualcosa, o qualcuno, solo per ciò che è, ma avere il coraggio di vederlo per ciò che potrebbe diventare. Forse soprattutto questo». giugno 2015 Scarp de’ tenis

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FRATELLI DI SA AN FRANCESC CO D’ASSISI

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La Fondazione Fratelli di San Francesco d’Assisi On Onlus, offre accoglienza e assis s tenza alle persone in stato di bisogno e ugp|c" Þuuc" fkoqtc." cfwnvk." cp|kcpk" g" okpqtk." rtqowqxgpfqpg" nc" nqtq" fkipkv 0 In n un anno abbiamo offer to un letto a 60259" persone, distribuito 3 039403;7" rcuvk, offer to ceeqinkgp|c" c" 5:9" okpqtk, fo forniti 980483" ugtxk|k" ad anziani, o offer to 6:0277" rtguvc|kqpk"ogfkejg, inccontrato con l’wpkv "oqdkng"pqvvwtpc"43 0;22"rgtuqpg, effettuati"6950:27"ugtxk|k"fk"fqeeg"g"iwctfctqdc ed offer to corsi di italia l no, di informatica, orienta amento al lavoro, assistenza legale e e previdenziale, suppor to psico p logico e sociologico.

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VENEZIA

Centro di ascolto, luogo aperto da cui si può ripartire di Enrichetta Queirolo

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info entro di ascolto Fondamenta Santa Chiara, Santa Croce 495/a – Venezia orario: da lunedì a venerdì dalle 9.00 alle 12.00 tel/fax: 041 5238700 mail: cda.caritasve@libero.it

Alcuni anni fa si presentò al centro di ascolto di Venezia, che allora aveva sede sulla riva di fronte alla Stazione S. Lucia, un uomo di circa trentacinque anni, era senza dimora, emaciato, molto impacciato nel parlare, fortemente dipendente dall'alcol, era lì quasi per caso, aveva visto la porta aperta e la dicitura della targa: centro di ascolto Caritas.

serto esistenziale in cui viveva.Era alcolizzato e “figlio di strada” fin dai primi anni di vita, avendo vissuto con genitori alcolizzati già dalla sua nascita. Il cammino di recupero fu lungo. Per parlare del centro di ascolto diocesano della Caritas di Venezia ho sentito il bisogno di incominciare raccontando l'esperienza di quest’uomo, per poterci soffermare sul significato del “luogo dell'incontro”.

Fu accolto dai volontari presenti quella mattina, l'uomo rimase stupito e colpito dal fatto che alcune persone potessero provare interesse per la sua persona e per la sua storia. Dopo quella prima volta tornò e potè essere seguito anche con un percorso di sostegno psicologico e, poi, di promozione della fiducia e di recupero delle risorse, completamente annebbiate e inaridite dal de-

Attivo dal lontano 1983 Il centro di ascolto di Venezia è stato aperto nel 1983 e nei primi anni fu frequentato prevalentemente da veneziani , da cittadini della provincia e in percentuale minore da persone senza dimora “itineranti”, che provenivano da varie città d'Italia e anche dall’estero. Persone affette da vari problemi, come l'alcool o la droga, ma anche in crisi per il lavoro, altre con situazioni di estrema povertà, con problemi psichici di varia natura e gravità, alcune in cura presso i centri di salute mentale, ma alla ricerca di un ascolto meno clinico, meno istitu-

Il centro di ascolto Caritas, nel corso degli anni, si è sempre “adeguato” nel rispondere a esigenze sempre diverse

zionalizzato. Si presentavano anche anziane appesantite dalle difficoltà economiche ma anche da un senso di solitudine e di emarginazione. Si cercava di stabilire un circuito di accoglienza affinché le persone prive di alloggio e di sostentamento, oltre all'aiuto materiale potessero anche trovare una risposta empatica, che valorizzava i tentativi di arginare il disorientamento di una vita “per strada”. Nel frattempo l'utenza del Centro andava cambiando: cominciarono ad arrivare le “badanti”, donne provenienti dalla Moldavia, dall'Ucraina, dalla Polonia che chiedevano aiuto per trovare lavoro. Cambiare per crescere Attualmente lo scenario del nostro centro è ancora cambiato ed è caratterizzato dal drammatico evento della sempre più massiccia immigrazione che ha sconvolto completamente le coordinate precedenti, l'afflusso sempre in aumento di immigrati dai paesi africani , dal medio oriente ha ridisegnato la “geografia antropologica” del nostro centro. Non si può però nascondere il senso di impotenza a cui i volontari sono esposti data la drammatica situazione attuale, il pericolo è quello di un sentimento diffuso di fatalismo o peggio di rassegnazione. Si tratta perciò di ripensare e ridisegnare la nostra presenza al centro di ascolto: la difficoltà, per esempio, della comunicazione linguistica è un grande ostacolo anche se abbiamo sperimentato la possibilità di una comunicazione altra che stimola la voglia di trasmettere alla persona la nostra solidarietà. Il centro continua, però, ad essere frequentato da persone “senza dimora”, per le quali è importante e prioritario promuovere tentativi di reinserimento, evitando il ricorso a categorie e schemi troppo tecnici, spesso fallimentari in questi casi, ma avvicinandoci alla comprensione delle loro modalità esistenziali e facendo ricorso ad un lavoro di “squadra” capace di promuovere la fantasia operativa dei volontari e in grado di sostenerli nella loro esperienza di accoglienza e di ascolto. giugno 2015 Scarp de’ tenis

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Umar e gli altri, tra accoglienza e integrazione di Angela De Rubeis

I 700 morti nel canale di Sicilia di qualche settimana fa hanno rialzato il polverone su di una questione al centro dell’agenda politica internazionale. Il fatidico nodo al pettine non solo è giunto ma ha portato alla luce tutti gli altri problemi mai affrontati. Intanto i luoghi comuni si sprecano, le bugie e le informazioni approssimative idem. La prima ci tocca da vicino.

All’Hotel Royal, citatissimo dal leader della Lega Matteo Salvini, non solo non c’è la piscina ma nemmeno più i rifugiati. Tranne uno che, ormai, è entrato a far parte della famiglia degli albergatori. Storie di uomini. In fuga.

A Rimini ci mordiamo le mani ogni volta che Matteo Salvini in un comizio, in una comparsata televisiva o su facebook cita l’Hotel Royal di Cattolica, il 3 stelle dove vengono ospitati i profughi “35 euro al giorno, sulle spalle degli italiani. E hanno anche la piscina”. Prima cosa l’Hotel Royal non ha la piscina (ci sono andata di persona); seconda cosa questi ragazzi non vivono sulle spalle di nessuno ma cercano di sopravvivere e galleggiare dentro un Paese che non ha ancora le idee chiare sul loro status. Ma torniamo a Cattolica. I 78 ragazzi che sono stati qui tutto l’inverno se ne sono andati via, alla spicciolata. A metà maggio non c’era più nessuno, solo in questo modo i proprietari hanno potuto

50 Scarp de’ tenis giugno 2015


RIMINI

A sinistra un momento del pranzo comunitario all’ormai famoso Hotel Royal. Qui sopra una foto di Umar, accolto da Caritas Rimini

info Caritas Diocesana Rimini via Madonna della Scala, 7 Rimini Tel 0541.26040 Fax 0541.24826 mail caritas@caritas.rimini.it www.caritas.rimini.it

cominciare a lavorare con i turisti. Ma Giorgio Pollastri, direttore della struttura ci tiene a dire che uno di loro qui è rimasto. Il nigeriano di Rimini Si tratta di Osas, nigeriano di 25 anni che attende lo status di rifugiato politico e con il quale Giorgio ha instaurato un rapporto particolare: «Osas non ha più nessun familiare, nessun altro punto di riferimento oltre me e mia moglie. Ormai ci chiama papà Giorgio e mamma Rosy». Il direttore ha vissuto mesi e mesi con loro e ci racconta che «hanno subito moltissime violenze in Libia. Per essere messi su un barcone hanno lavorato per 8 mesi in cambio solo di acqua e pochissimo pane. Questi ragazzi mi hanno mostrato ferite da coltello e da armi da fuoco. Un ragazzo del Mali aveva ancora schegge di bombe nelle gambe e in testa. Dovrà operarsi. E tanti altri come lui, abbiamo dovuto accompagnarli più volte in ospedale».

Come loro Umar di 29 anni (arriva dal Mali), uno dei 290 migranti accolti nel riminese che oggi vive alla Caritas diocesana di Rimini. «Cinque mesi li ho passati nelle carceri di Tripoli, mangiavo una pagnotta e una scatoletta di tonno al giorno. Sono stato picchiato e umiliato. Ho risparmiato una vi-

ta per pagare i mille euro che mi hanno portato qui. Scappavo dai ribelli che mi volevano arruolare alla guerra. Sono stati i carcerieri a mettermi sulla barca e quando l’ho vista ho pensato che su quella barca ci sarei morto». Umar ha viaggiato con 114 com-

pagni di sventura, ammassati, sempre in piedi, senza dormire, senza mangiare. Amal invece è pakistano, anche lui è domiciliato alla Caritas di Rimini, anche lui ha una storia da raccontare. Ha 25 anni, un amore impossibile, una “guerra” tra i suoi genitori sunniti e quelli della sua Giulietta, sciiti. «Abbiamo deciso di fuggire insieme per sposarci. Nessuno sapeva di noi, della nostra nuova vita, della nostra nuova casa. Una sera, il fratello di mia moglie, assieme ad altre due persone, fece irruzione a casa nostra, armato. In quel momento, io mi trovavo in una stanza con un mio amico, mia moglie in cucina. La presero, cercai di fermarli, ma suo fratello mi inseguì sparandomi con la pistola. Per fortuna riuscii a mettermi in salvo insieme al mio amico e a rivolgermi alla polizia per denunciare l’accaduto». La polizia non si mosse, “Giulietta” appartiene ad una famiglia ricca e potente, Amal fuggì temendo ritorsioni. Settemila euro il costo della sua traversata, partito da Karachi e poi attraverso l’Iran, la Turchia, la Grecia e, alla fine, l’Italia.

«Temo di essere ucciso. Da quel che mi risulta, la famiglia di mia moglie mi sta ancora cercando ma non sanno che sono scappato dal mio paese». Siamo ben lontani dagli stereotipi profusi e abbiamo passato una mezza giornata con loro. È bastata una mezza giornata. Rifugiati e volontari Intanto il comune di Rimini sta lavorando ad un progetto che prevede, fra le ipotesi, quella di inserire i migranti ospiti del territorio nei gruppi Ci.Vi.Vo. «Potremmo inserirne due in ogni gruppo in modo che possano dare una mano nelle scuole o in altre realtà in cui sono già attivi questi gruppi civici» – spiega il vicesindaco Gloria Lisi. Il periodo potrebbe essere quello di attesa dei documenti, periodo nel quale queste persone non possono svolgere attività lavorative retribuite –, «non si tratterebbe di sfruttare i profughi ma di far svolgere loro attività importanti dal punto di vista educativo e di integrazione». Modena è già partita. Rimini è sulla buona strada.

LA SCHEDA

In aumento gli arrivi in Italia: il 60% fugge da zone di guerra Tra gennaio e aprile 2015 gli arrivi sono stati 24 mila contro i 20 mila del 2014. Per il 2015 ne sono stimati 200 mila. Nel 2014 sono sbarcate in Italia 170 mila persone (43 mila nel 2013), principalmente da Siria, Eritrea e Somalia, il 60% fuggiva da zone di guerra. I migranti arrivati via mare nel periodo 2006-2014 (fonte: Guardian) sono stati 324.668 in Italia, 87.067 in Grecia, 39.771 in Spagna, 13.821 a Malta. Appena sbarcati in Italia, ai migranti vengono prese le impronte digitali e inserite nel database Eurodac. Un passaggio non gradito perché la maggioranza vorrebbe raggiungere parenti e amici nei Paesi nord-europei. Per effetto della Convenzione di Dublino per cui si può chiedere asilo e stabilirsi solo nel primo Paese sicuro, se andassero all’estero sarebbero espulsi. Una volta alloggiati, presentano domanda alle Commissioni territoriali per chiedere il riconoscimento dello status di rifugiato che nel 2008 erano 10 e oggi sono state portate a 40. Secondo Caritas Italiana, in questo momento, dei circa 8 mila comuni italiani solo 500 hanno dato la loro disponibilità a dare un tetto ai migranti. giugno 2015 Scarp de’ tenis

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aforismi

POESIE

di Emanuele Merafina

L’albero piccolo Fra un groviglio di macchine rotte è nato un piccolo albero Vita La mia vita è un gomitolo a doppio filo, quello tuo e quello mio

Pensieri all’alba

Suggerimenti Fai una cosa alla volta, ma falla bene, senti il tuo corpo, inventa nuovi esercizi per aiutarlo. Stimola le endorfine con il massaggio dell’acqua, in movimento, sciogliti, prova piacere a snodare i tuoi nervi, rilassati… Fai una cosa alla volta, se no inciampi, anche se puoi pensare a tante cose contemporaneamente ed elaborarne di nuove. Siamo su questa terra per imparare e dobbiamo fare tanta esperienza, il più possibile sana. Anzi se ci proviamo, ciascuno di noi può migliorare il mondo…

Si spengono tacite le stelle, apro gli occhi lentamente ma non con cuore indifferente ma quasi come un gioco per poter sognare ancora un poco. C’è silenzio, intorno tutto tace solo un rombo di motore mi fa destare dal torpore. Dalla parete io guardo il Cristo in croce. Sparge l’alba tenui colori soffici come uno scialle che caldo cinge le spalle. Silvia Giavarotti Mi inchino in ringraziamento e con Il fachiro passi felpati corro incontro al vento. fortunato Mirella

Fondi tondi occhi Ho riaccarezzato il mio assoluto Sogno nel ritrovar quegli occhi fondi tondi Lo riconosco dai solcati segni dalle spezzate oblunghe bianche unghie Profuma sempre di un regal sorriso il mio sovrano bisogno d’Amore Conserverò l’essenza il solo necessario il rischiarante Astro Il focale punto fermo del luminarmi l’Infinito puro senso. Mino Beltrami

Briciole

C’era una volta un fachiro indù sotto la statua del dio Visnù. Suonava bene e anche cantava, però la gente non lo ascoltava. Era assai povero e disperato perché nessuno lo aveva mai aiutato. Ma la Fortuna un bel dì l’aiutò e del fachiro la sorte mutò. Nella gran statua del dio Visnù c’era un passaggio ignoto ai più. Questo passaggio il fachiro scoprì perché un topino si infilò lì. Così il fachiro anche lui vi entrò e, oh, meraviglia!, un tesoro trovò. Divenne ricco come un rajah e questa storia finisce qua.

Raccolgo con lo sguardo la corona sinuosa delle cime l’oscurità avvenente delle forme silvestri nel pallore dell’alba, l’indecisione cosmica di uno specchio di sole latitante da giorni. Intorno chiacchiericcio umorale di passeri e studenti cinguettii tecnologici forieri di messaggi. Il giorno è in crisi, canto di promesse la giornata insolente, come Mary L’idea di un giovane volontario sempre, trascinerà vagoni di domande scontate, irragionevoli, inevase. della Ronda della dicarità La speranza ostinata cercherà invano briciole vita. di Milano:

una App controAida loOdoardi spreco alimentare giugno 2015 Scarp de’ tenis

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VOCI DALL’EUROPA

Oggi ortiche, domani pomodori. Storie di agricoltura solidale

di Mauro Meggiolaro

scheda Mauro Meggiolaro, nato a Verona nel 1976. Ha lavorato per banche e finanziarie etiche in Germania e a Milano (Etica Sgr, Banca Etica). Azionista critico alle assemblee di Enel ed Eni, nel 2009 ha creato la società di ricerca Merian Research. Scrive anche per “Valori” e “Il Fatto Quotidiano”. Nel 2013 è tornato a vivere a Berlino.

«Il nostro è prima di tutto un progetto politico» – spiega Frank Wesemann al primo incontro del gruppo di agricoltura solidale “SoLaWi - Wühlischstraße”. Siamo in una trattoria di Berlino-Friedrichshain, quartiere operaio ai tempi del Reich e della Ddr, oggi nuova patria per migliaia di giovani tedeschi, europei, americani. Ai tavoli sono seduti i futuri soci del SoLaWi: studenti, programmatori, operatori sociali, insegnanti. Molti vegani con taglio undercut e tatuaggi. Cosa c'entrino carote e patate con la politica, Wesemann – che preferisce essere chiamato “contadino Frank” – lo mette subito in chiaro: «grazie al vostro contributo possiamo vendere i prodotti senza intermediari. Saltiamo la grande distribuzione e paghiamo uno stipendio equo ai lavoratori. E voi partecipate alla vita della fattoria ». A prima vista sembra funzionare come un Gas (Gruppo d'acquisto solidale). In realtà è molto di più. Ogni “unità d'acquisto” (singole persone, coppie, gruppi di coinquilini) versa 61 euro al mese e si impegna a versare il contributo per un anno. In cambio riceve frutta e verdura biodinamica a seconda del raccolto.

il contadino Frank arriva dalla fattoria Waldgarten nelle campagne di Barenthin, un'ora e mezza da Berlino, e scarica la sua merce in una cantina di Friedrichshain.

Contadino Frank ha una fattoria nelle campagne di Barenthin, a un’ora e mezza da Berlino. Il 40% del suo raccolto lo vende tramite gruppi di agricoltura solidale: ogni unità di acquisto versa 61 euro al mese e si impegna a versare il contributo per un anno. In cambio riceve frutta e verdura biodinamica ma accetta anche di condividere i rischi

Con Frank si condividono anche i rischi che qualcosa possa andare storto: per-

ché ha fatto più freddo o più caldo del previsto oppure ha piovuto troppo o la grandine ha rovinato i raccolti. Ogni mercoledì

Frutta e verdura vengono divise ogni settimana tra le unità d’acquisto

I soci sono protagonisti Tutto il resto è organizzato dai soci: gli “abitanti della città”, come sono chiamati nel contratto. Sono loro che calcolano la quantità di frutta e verdura da assegnare a ogni “unità d'acquisto”: il SoLaWi – Wühlischstraße ha 18 unità e quindi tutto deve essere diviso in diciottesimi. Ognuno pesa la sua quota di patate, ortiche, insalata, coste, scalogno. Ogni settimana c'è qualche verdura strana, di cui non si è mai sentito parlare prima. Sulla piattaforma online ci si scambiano anche consigli su come cucinare i vari prodotti, si possono organizzare cene e ospitare a casa propria gli altri soci.

E si organizzano le giornate di lavoro da Frank: quattro giorni all'anno per ogni unità. In gennaio si riunisce

l'assemblea plenaria dei tre SoLaWi legati alla fattoria Waldgarten. L'anno scorso “gli abitanti della città” hanno deciso di rinunciare alla coltivazione degli asparagi, troppo costosi e delicati, per investire in un nuovo impianto di irrigazione. Sperimentata per la prima volta in Giappone, l'idea del SoLaWi (Solidarische Landwirtschaft, “agricoltura solidale”) si è diffusa in Germania a partire dagli anni ottanta. Oggi i SoLaWi attivi sono 78 in tutto il paese. La fattoria Waldgarten vende attraverso il sistema SoLaWi il 40% del suo raccolto. Il resto lo acquistano le catene del biologico o viene venduto nei mercatini rionali. Frank sogna una fattoria tutta gestita dal basso, con l'aiuto degli “abitanti della città”. Perché un'altra agricoltura è possibile. giugno 2015 Scarp de’ tenis

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VENTUNO

Una ricerca sui migranti Opportunità per le economie È immaginabile riflettere sulle migrazioni non come qualcosa da cui difendersi ma come a un’opportunità? Uno studio francese: la libera circolazione degli uomini farebbe bene a Stati e migranti

testi e foto di Andrea Barolini

scheda

Ventuno come il secolo nel quale viviamo, come l’agenda per il buon vivere, come l’articolo della Costituzione sulla libertà di espressione. Ventuno è la nostra idea di economia. Con qualche proposta per agire contro l’ingiustizia e l’esclusione sociale nelle scelte di ogni giorno.

56 Scarp de’ tenis giugno 2015

Non capita di rado che il pensiero economico della maggior parte dei governi dei Paesi occidentali sia bloccato da una serie di convinzioni ferree, di fronte alle quali le proposte alternative spesso vengono scartate senza essere neppure prese in considerazione. È il caso, ad esempio, dell’immigrazione: la tragedia (ennesima ed ampiamente annunciata) dello scorso 19 aprile, costata la vita a più di 700 persone, ha costretto i leader italiani ed europei a tornare ad affrontare (brevemente) il tema. Per qualche giorno la notizia ha campeggiato sulle prime pagine dei giornali europei. Ed alcuni leader, tra cui il presidente del Consiglio Matteo Renzi, hanno organizzato in tutta fretta un vertice. Dal quale è uscita, sostanzialmente, la stessa, solita omogeneità pressoché totale di vedute. «L’Italia non è più sola», ha dichiarato Renzi al termine del summit, sottintendendo che anche gli altri Paesi europei, adesso, si fa-

ranno carico del “problema”. «L’Italia è un paese accogliente ma stanco. Con l’eccesso di accoglienza si alimenta il razzismo», spiegava ad un programma radiofonico il ministro dell’Interno Angelino Alfano nel novembre scorso, aggiungendo che «non possiamo accogliere tutti». «Un problema non solo italiano ma europeo», aveva ribadito a febbraio il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni in un’intervista al Messaggero.

Insomma, se c’è un concetto sul quale buona parte della politica sembra concordare è che i migranti sono un “problema”. Prima di tutto logistico, ma anche economico (sulla base della re-

torica leghista del «vengono qui e ci rubano il lavoro»). Un’idea condivisa, tra l’altro, anche da buona parte della popolazione. Eppure è proprio su questo che, forse, dovremmo interrogarci: i migranti sono davvero un problema logistico ed economico per l’Europa? È possibile pensare al tema dell’immigrazione cambiando “paradig-

ma” di riflessione? È immaginabile riflettere sulle migrazioni non come qualcosa da cui difendersi ma, addirittura, come un’opportunità? Il progetto Moglob Un gruppo di ricercatori francesi ha deciso di provarci. Per farlo, gli studiosi hanno analizzato la situazione delle migrazioni non solo nel Mediterraneo ma a livello globale, dando vita al progetto Mobglob (Mobilité globale et gouvernance des migrations). Le conclusioni alle quali sono giunti potranno risultare, per molti, sorprendenti: «Le frontiere in tutto il mondo non sono mai stati così chiuse. Eppure non ci sono mai stati così tanti migranti. Qualcosa non torna...», ha spiegato al quotidiano Le Monde lo scorso 20 aprile François Gémenne (del Centro per gli Studi e le Ricerche Internazionali di Parigi), tra i partecipanti al progetto. «I nostri studi dimostrano che l’apertura o la chiusura delle frontiere non crea né impedisce i flus-


Sull’isola di Lampedusa da anni ormai continuano a sbarcare senza sosta i profughi provenienti dalla Libia e dalle altre regioni dell’Africa. Il Canale di Sicilia è il tratto di mare in cui si sono verificate anche le recenti tragedie con centinaia di morti

si. Una frontiera chiusa non impedisce ad un migrante di pagare 5 mila dollari e rischiare la propria vita. A Ceuta e Melilla (sulla costa settentrionale del Marocco, ndr), ci sono migranti che tentano cinque, dieci, cento volte di passare. I divieti non servono a niente, se non ad accrescere i rischi». Cosa servirebbe dunque? Secondo Catherine Wihtol de Wenden, (del Centro nazionale per le ricerche francese, Cnrs, anche lei coinvolta in Mobglob), il modello attuale non solo è mortale e inefficace, ma comporta anche effetti economici negativi. Al contrario, ed è questa la principale “novità” emersa dal gruppo parigino, una

libera circolazione degli uomini, sulla scorta di quanto già accade per merci e capitali, gioverebbe ai migranti come agli Stati che li accoglierebbero. «Abbiamo analizzato le conseguenze possibili di una liberalizzazione dei passaggi in cinque aree geografiche – spiega Gémenne –. Il nostro lavoro non è terminato, ma possiamo afferma-

re che non si verificherebbe alcun aumento dei flussi. È per questo

La concessione di permessi di soggiorno col contagocce fa il gioco degli scafisti ed è all’origine delle tragedie in mare che si moltiplicheranno

che l’apertura delle frontiere sarebbe la soluzione. Ep-

pure, si tratta di una proposta che i governi e l’opinione pubblica in Europa non ascoltano neppure». La stessa ricercatrice ha specificato al quotidiano 20Minutes che il Vecchio Continente «non ha bisogno solo di ingegneri, ma anche di manodopera poco qualificata». Le aziende non di rado non riescono a trovare i lavoratori necessari e gli andamenti demografici porteranno in futuro gli Stati dell’Ue ad incontrare difficoltà crescenti nell’equilibrio finanziario degli enti previdenziali. Per questo, l’apertura delle frontiere «sarebbe la scelta economicamente e tecnicamente più saggia e lungimirante», conclude Gémenne. L’economista Jean Matouk, dalle colonne del magazine Rue89, ricollegandosi ai lavori di Mobglob, spiega che la

concessione di permessi di soggiorno col contagocce «fa il gioco degli scafisti, ed è all’origine delle tragedie in

mare che si moltiplicano». Aprendo le frontiere, si toglierebbe di fatto ai criminali il “monopolio” del mercato delle persone che, disperate, sono disposte a tutto pur di lasciare le proprie terre. Come ben riassunto di recente dallo scrittore Erri De Luca, «sono come quelli che si gettano dai palazzi in fiamme: sanno che moriranno, eppure si buttano pur di non lasciarsi bruciare».

Va detto che l’ingresso dovrebbe essere accompagnato da una lotta senza quartiere al “sommerso”, se

si vuole far sì che dia vantaggi reali alle economie e ai sistemi previdenziali. Ma «mettendo a confronto questo traffico di esseri umani a quello della droga o delle prostitute – spiega Matouk – alcuni economisti hanno dimostrato che esiste un equilibrio possibile tra allargamento dell’accoglienza e repressione del lavoro nero. A patto di avere un po’ di coraggio politico, quello che manca oggi in Europa». Un punto di vista che sembra condiviso, se non dal governo, per giugno 2015 Scarp de’ tenis

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VENTUNO

Il vantaggio per le economie reali e per i sistemi previdenziali ha bisogno soltanto di una condizione: una lotta senza quartiere al “sommerso”

lo meno dai sindacati italiani. Cgil, Cisl e Uil hanno celebrato l’ultimo Primo maggio a Pozzallo, in provincia di Ragusa: uno dei porti simbolo per gli sbarchi in Sicilia. «Non abbiamo più parole per descrivere quello che succede nelle acque del Mediterraneo», ha esordito il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, ricordando che

«l’articolo 10 della Costituzione spiega che esiste il diritto di asilo in questo Paese mentre l’articolo 11 dice l’Italia ripudia la guerra». «Abbiamo scelto Pozzallo – le ha fatto eco il segretario generale della Cisl Annamaria Furlan –per ringraziare i cittadini di questa città e di tutta la Sicilia che stanno fornendo un esempio straordinario di accoglienza, solidarietà e fratellanza che deve essere seguito da tutta

L’appello di Caritas e Ong: «Fermate le carneficine»

l’Europa. Nell’altra sponda del Mediterraneo muoiono ogni giorno migliaia uomini, donne anziani e bambini per fame, per la guerra, per la minaccia del terrorismo dell’Isis: noi dobbiamo essere pronti ad accoglierli e a dare loro un futuro». La sindacalista ha quindi ringraziato papa Francesco, che ha a più riprese richiamato ad un senso di responsabilità, di solidarietà e di umanità. «Il messaggio del pontefice – ha sottolineato mons. Giancarlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes al sito news.va – è importante perché ritorna a rileggere la frontiera non come una categoria di esclusione, di divisione di tipo nazionalistico, non come un invito ad un ritorno al controllo delle frontiere del Mediterraneo, ma come una strada per unire».

Dal 1998 ad oggi, inoltre, ad annegare sono stati tra i 15 ed i 20 mila migranti. Soltanto a partire dall’inizio di quest’anno, le vittime delle stragi nel Mediterraneo sono state più di 1.600. Mentre nel periodo dell’operazione della Marina militare Mare Nostrum, (da novembre 2013 a ottobre 2014) le vittime erano state solo poche decine. Numeri che

raccontano quella che, secondo le Ong umanitarie, è «una guerra che giorno dopo giorno si sta svolgendo nel Mediterraneo sotto i nostri occhi, di fronte a un’Europa bloccata da veti incrociati, timidezze, egoismi e discorsi propagandistici».

Per le organizzazioni umanitarie i drammi e le tragedie che si consumano nel Mediterraneo non sono più tollerabili 58 Scarp de’ tenis giugno 2015

Per questo Oxfam Italia e altre sette organizzazioni – Concord Italia, Save the Children, AOI, Arci, Focsiv, Cospe e Cocis – hanno lanciato un appello al governo italiano e alle istituzioni dell’Ue affinché si mobilitino (seriamente) per fermare

Lo sfogo dei lampedusani stride con l’invito del Papa a rileggere la frontiera non come categoria di esclusione ma come strada per unire

la carneficina nel Mediterraneo. «L’ennesima mostruosa strage (quella dello scorso 18 aprile, ndr) deve rappresentare uno spartiacque tra ciò che è stato e ciò che non potrà più essere – si legge nel documento –. Avanziamo una serie

di richieste ai governi non più come singole associazioni, ma creando un coordinamento

che chiarisca quanto, a fronte di una situazione che ci appare intollerabile, intendiamo alzare la nostra voce a tutela dei diritti dei migranti coinvolti in una vera e propria catastrofe umanitaria». Le Ong chiedono in particolare di «avviare un’operazione di ricerca e salvataggio (sul modello di Mare Nostrum) promossa, coordinata e finanziata a livello europeo, con il mandato del soccorso e della protezione dei migranti in mare». È necessario, inoltre, «garantire a uomini, donne e bambini, un transito sicuro verso l’Europa, in coordinamento con spazi umanitari e


LA SCHEDA

La voce di Caritas italiana: «Le centinaia di migliaia di profughi che premono alle frontiere dell’Europa, spinti da guerre o fame, che muoiono in mare per il proprio sogno di felicità, sono persone, nostri fratelli, sono il nostro prossimo»

campi profughi, con la regia dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e con la partecipazione attiva delle organizzazioni della società civile e per i diritti dei migranti». A tal fine, una misura urgente che le associazioni chiedono di adottare è la sospensione «per almeno 12 mesi del Regolamento di Dublino che, obbligando i migranti a richiedere asilo nel Paese di arrivo, genera squilibri e prolunga il calvario anche dentro le frontiere europee».

Parallelamente, anche la Caritas Italiana si è fatta promotrice di un’iniziativa analoga: un appello sottoscritto da tutte le organizzazioni cattoliche aderenti alla Campagna Cibo per tutti. È compito nostro. «Riteniamo nostro indispensabile dovere richiamare i capi di Stato e di governo alle proprie responsabilità, in quanto rappresentanti di nazioni che si dichiarano garanti dei diritti umani spiegano -. Le centinaia di migliaia di profughi che premono alle frontiere dell’Europa, spinti da guerre e fame, che muoiono in mare per il proprio sogno di felicità, sono persone, nostri fratelli, sono il nostro prossimo». Per questo, le

organizzazioni cattoliche hanno di fatto ri-

sposto al ministro dell’Interno Alfano, che ha paventato la possibilità di bombardare i barconi: «Un’iniziativa militare, fosse anche mirata, porterebbe ad un’escalation di violenza, oltre a non essere efficace per risolvere il problema. Metterebbe a rischio i Paesi europei della sponda mediterranea, inclusa l’Italia, per eventuali ritorsioni di ogni genere da parte di formazioni estremiste. E impedirebbe alle numerose fazioni libiche sul campo qualsiasi forma di coesistenza con i migranti provenienti da Oriente e dall’Africa subsahariana: tali formazioni troverebbero più conveniente provvedere allo sterminio sistematico dei profughi piuttosto che provvedere al loro mantenimento». Tanto più che, sul piano meramente logistico, il bombardamento di barche, pescherecci e gommoni è di difficilissima attuazione. Anche perché sulla sponda libica, non c’è un governo col quale è possibile agire congiuntamente. giugno 2015 Scarp de’ tenis

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INCONTRI

LABORATORI

AUTOBIOGRAFIE

CALEIDOSCOPIO

Marina aveva una lanciatissima agenzia di organizzazione eventi. Poi ha deciso di dire basta e iniziare a fare ciò che le piace per davvero. E con i suoi spettacoli incanta il pubblico

Marina, una voce dai mille travestimenti Marina Madreperla ha sempre avuto la passione per la musica e sin da giovane l’ha studiata e coltivata. Terminati gli studi superiori, perfeziona la voce con alcuni maestri di canto. Contemporaneamente, con l’aiuto del suo compagno, crea un’agenzia di organizzazione eventi. Inizia così a collaborare con la Rai e diverse radio nazionali. «Ero diventata una macchina – racconta – finché un giorno ho detto basta». Così chiude l’agenzia e tutto quello che gli stava attorno e ricomincia tutto da capo. Marina inizia questa nuova vita svolgendo diversi lavori. «Gli spettacoli che faccio adesso sono musica in libertà – racconta –. Non ho vincoli di scadenze e contratti: mi alzo, controllo la posta elettronica, vedo la postazione giornaliera e repertorio alla mano vado». Molti tra i passanti chiedono una foto, altri si uniscono a cantare con lei. Il suo repertorio è vasto, va dagli anni ‘60 agli anni ‘80.«Sono un’artista a cappello da oltre un anno e i miei colleghi con più anni di carriera mi Antonio Vanzillotta consigliano e proteggono. Amo questo lavoro e lo farò finché reggeranno la voce e l’entusiasmo. giugno 2015 Scarp de’ tenis

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NAPOLI

PAROLE

La tradizione napoletana che nutre anche l’anima

Homeless e cibo: si mangia di tutto, per disperazione Quando mangio un cibo che mi piace non mastico, ingoio, così ingrasso. Non gusto nemmeno il sapore. Quando sono nervosa mangio di più, il mio rapporto con il cibo è discordante: voglio fare la dieta ma anche mangiare. Non ho vizi, mangio tutto. Quando non sai come provvedere al cibo, ti devi accontentare di quello che ti passano le mense o i volontari che, per strada, portano il sacchetto: un panino con la frittata di uova, una bottiglia d’acqua e un succo di frutta. Il panino è quasi sempre lo stesso e la cosa che mi dava e mi da fastidio è il dover fare la fila. La nostra vita è fatte di file e di attese e ci vuole pazienza, quella pazienza che aveva solo Giobbe. Quando hai fame e non hai un euro in tasca devi imparare a sopravvivere come, ad esempio, arrivare alle mense un’ora prima per non perdere il posto e rischiare di rimanere a bocca asciutta perché le persone che prendono il cestino non sono solo gli immigrati o i poveri dei dormitori, lo prende anche chi ha casa e famiglia. Di file ne ho fatte tante in passato, quando non c’era ancora la guida della Comunità di Sant’Egidio dove ci sono tutte le informazioni sulle mense e quando erano frequentate solo da senza dimora e tossicodipendenti. Di frittate di uova ne ho mangiate tante, e tante volte immaginavo, per darmi coraggio che ci fossero anche le patate o gli spinaci. Quando si sta per strada si mangia male e la salute ne risente, non c’è niente di romantico, solo disperazione. Maria Esposito

Nutrire il pianeta energia per la vita è lo slogan che guida l’Esposizione di Milano

PAROLE

Il cibo salva ma può far male Il cibo per me è un problema perché sono diabetico e devo valutare quel che mangio. A volte ci sono solo piatti che mi fanno male e so che fare un’alimentazione sbagliata mi potrebbe causare dei danni anche se non me ne accorgo. Non solo sono diabetico, dormo al dormitorio pubblico, vivo anche per strada e vado a mangiare alle mense. A volte il cibo che servono non è adatto a me ma, in questo contesto, non posso scegliere. Non posso scegliere cosa e quando mangiare, non posso scegliere quando fare la doccia, quando riposare. La tua vita non la puoi comandare, sei solo un numero e vivere così giorno per giorno. È umiliante perdere l’orgoglio e vivere in queste strutture pubbliche. Antonio Casella

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Oggi per me mangiare significa assaporare, degustare. Noi napoletani, abbiamo tanti cibi squisiti tramandati dall’antica tradizione della cucina casalinga. I primi piatti sono tantissimi: i classici spaghetti al pomodoro e anche gli spaghetti aglio, olio e peperoncino e quelli con le vongole; la pasta e patate con la provola, la pasta mista con i legumi che chiamiamo pasta mischiata o anche pasta maritata. La mozzarella di bufala poi è proprio una bontà mentre il nostro cibo più conosciuto al mondo è senz’altro la pizza margherita. Io ho ascoltato da piccola i racconti di mia nonna paterna che aveva vissuto la guerra e quindi sapeva cosa era la fame, mi diceva che spesso, anche per alcuni giorni di seguito avevano solo piselli in scatola o quelle poche cose che gli spettavano con la tessera del pane. Ancora oggi milioni di persone, soprattutto bambini, negli altri Paesi soffrono la fame a causa delle carestie e delle guerre, invece nei Paesi più ricchi si parla di cibo e si fanno molti sprechi. Se avessimo fame tanto cibo non lo butteremmo di sicuro. Certo oggi si sta attenti a quello che si mangia, informandosi su dove viene prodotto e su come è stato prodotto. Per me il cibo buono è quello della tradizione nutre soprattutto l’anima perché non sazia solo lo stomaco ma ci fa sta stare bene, ci dà piacere e ci fa ricordare bei momenti. Marianna Palma


SALERNO

Il cibo è nutrimento quando hai una casa

Si parla molto di Expo e si scrive molto su Expo. È un avvenimento molto importante nella nuova Milano e sta coinvolgendo le migliori menti, armate delle migliori intenzioni. Qualcuno ha anche voluto descrivere il tutto con dieci semplici parole. Di queste, ballando fra idee, ricordi e sensazioni che mi hanno suscitato, ne ho scelta una: casa. Casa è la parola. Chi ha subìto la disavventura di cadere in disgrazia sa di cosa parlo: alla mensa pubblica si va per nutrirsi, non a cercar calore, per sedersi e stare un po’ al coperto giacché, a volte, è difficile scambiare affetto con chi ti sta a fianco. È il cibo per il cibo, nient’altro. Piacere e gusto, affetto, amore e calore sono solo della casa e della famiglia. Lì c’è il completo nutrimento di stomaco e di cuore, fosse anche aiutare la mamma ad apparecchiare o a grattugiare il parmigiano mentre parli di scuola. Casa è la parola. Anche oggi, da adulto, ora che grazie a Scarp ho una piccola casa, so che stare in cucina a trafficare con i fornelli non è mai tempo perso e se combino qualche pasticcio o mi sorprendo a parlare da solo poco importa; a casa posso fare anche quello. In mensa no. Bruno Limone

Chi è costretto a vivere per strada e si rivolge alla mensa pubblica sa bene che non basta nutrire il corpo. L’anima ha bisogno di altro

PAROLE

Materia prima scarsa e poca varietà: tutte le difficoltà delle mense per i poveri Nelle mense italiane organizzate per chi non riesce a garantirsi un pasto sicuro, non possono cucinare solo per te e quindi spesso ci trovi piatti che non ti piacciono o che non puoi mangiare per qualche malattia, non c’è quasi mai la carne di maiale perché i fratelli musulmani non la mangiano, quindi ti devi accontentare di quello che c’è. C’è anche un altro motivo: spesso gli operatori e i volontari si riforniscono degli ingredienti al Banco Alimentare e non hanno molta scelta, a volte non c’è nemmeno una scelta. Questo lo so perché a volte ho scaricato il camion dei viveri destinati alle mense e ho visto cosa c’è. I volontari fanno quello che possono. A volte c’è solo latte e biscotti, come formato di pasta solo i tubetti. C’è scatolame in genere ma mancano l’olio o il formaggio. Qualche gruppo di volontari varia un po’ perché può utilizzare delle materie prime offerte dai commercianti della propria zona. Ho sentito molte volte i commenti degli utenti che si lamentano perché possono mangiare solo e sempre le stesse cose e i volontari, anche quelli che portano i pasti caldi e i panini per strada, a volte non sanno come cucinare qualcosa di diverso. Non è facile nemmeno per loro e spesso noi non ci rendiamo conto che organizzare la buona volontà non è semplice. Massimo De Filippis


CALEIDOSCOPIO

Mentre io scruto il mare Mentre io scruto il mare il mio amore nudo e crudo. Ma presente nel destino della vita. Che s’innamora a un cuore clandestino in un luogo felice nel suo presente. Fra le ombre che s’allungano sulla sabbia. In un sole al tramonto dove tutto è risoluto in se stesso. A plagi di gioia in un infinito abbraccio. Nella luce gioviale di un ricordo assai generoso e felice in un amore sincero. Armando Marchesi

Il labirinto della vita La vita a volte è un labirinto In alcuni momenti ti senti vinto, senza via d’uscita, senz’aria come in una stanza chiusa e solitaria, senza porte ne finestre. I problemi ti chiudono le porte e le giornate non sembrano più così corte. Ma lunghe, eterne. Fin quando, anche se da lontano, s’intravede una luce nessun labirinto sarà senza uscita. Neanche quello della vita. Carmela

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Homeless e cittadini “in rete” per trovare alternative alla strada di Salvatore Couchoud

La parola “condivisione” è il manifesto programmatico messo a punto dal centro diurno Caritas da quando, per risolvere l’annoso dilemma su come inserire i senza dimora comaschi in una rete di relazioni che ne valorizzasse il protagonismo e la creatività, si è pensato di chiedere direttamente agli ospiti “che fare” per migliorare il servizio. Ne è nato un coinvolgimento realmente vitale e partecipativo di tutti alla voglia di cambiamento, come pure la loro entusiastica adesione a un triplice percorso –Artecucina, Corso di Teatro e Preparazione di pranzi etnici – che si è già aperto alla cittadinanza, senza distinzioni tra i “con” e i “senza” dimora. Per Ivana Fazzi, la giovane studentessa dell’Università Cattolica che da due anni opera come volontaria al centro diurno, «Il primo elemento di sorpresa è stato per noi la sod-

disfazione dei senza dimora per il solo fatto di essere stati interpellati. E così siamo partiti con il corso di pittura tenuto dall’architetto Doriam Battaglia, a cui partecipano gratuitamente, oltre agli ospiti del Centro e a quelli dell’Ozanam, alcuni cittadini che si sono mostrati interessati all’esperimento, e a conclusione del quale terremo una mostra cittadina in sede e data da stabilire (non comunque prima di ottobre, mese entro il quale è previsto l’epilogo della manifestazione)». Alla parrocchia di sant’Eusebio si svolgerà invece il corso di Teatro tenuto dal maestro Graziano Castoldi, e infine ancora al Centro saranno sviluppati il corso di preparazione dei pranzi etnici, che confluirà nel concorso “Nutrire la vita” già programmato in vista di Expo 2015. «Il tutto – conclude Ivana – sarà improntato nell’ottica della “condivisione”, ossia del lavorare in rete tra cittadini comuni e cittadini temporaneamente, si spera, senza tetto, allo scopo di ottenere risultati certi, verificabili e soprattutto solidali».

Casa della carità a Lampedusa, un viaggio sui luoghi degli sbarchi di Paolo Riva Una settimana in Sicilia tra Catania e Lampedusa. Per vedere da vicino i luoghi di sbarco dei migranti, quelli da cui sono passati, tra fatiche e speranze, tanti dei 2.500 ospiti che la Casa della carità ha accolto nei suoi dieci anni di vita. È quella che hanno trascorso tre operatori della Fondazione a metà aprile. «Siamo partiti - esordisce Fiorenzo De Molli, uno dei tre - perché le coste siciliane e, soprattutto, l’isola di Lampedusa sono per i migranti dei luoghi dal forte valore simbolico, ma al tempo stesso anche di grande impatto sulla vita che condurranno nel nostro Paese e nel nostro continente». «Catania, Acireale, Pozzallo, Scicli, Ragusa, Marina d’Acate, Agrigento e Lampedusa sono state le tappe di un viaggio che – spiega il collega Peppe Monetti –, ci ha consentito di visitare i luoghi di arrivo e accoglienza, di incontrare personalità e associazioni im-

pegnate sul territorio, di osservare e riflettere, a contatto con una realtà fisicamente distante da Milano, ma strettamente connessa con il contesto in cui la Casa si trova ogni giorno ad operare». Anche se in pochi giorni, gli operatori della Fondazione hanno avuto la possibilità di vedere le criticità e le storture del sistema d’accoglienza così come hanno avuto modo di conoscere esempi virtuosi di ospitalità, in un’altalena di sentimenti ed emozioni che ha avuto il suo culmine all’arrivo a Lampedusa. «Qui abbiamo incontrato Costantino Baratta, un muratore di 56 anni che il 3 ottobre del 2013 era uscito a pescare con un amico – ricorda Fiorenzo –. Ci ha raccontato di persona come si sia ritrovato in mezzo al tragico naufragio che ha causato la morte di 336 migranti e di come, a mani nude, sia riuscito a ripescarne 12 salvando loro la vita. È stato toccante». Il racconto del viaggio con video, foto e audio è disponibile all’indirizzo: www.casadellacarita.org/viaggio-sicilia-migranti2015-racconto


SCIENZE

Non esistono prove scientifiche che la cosiddetta memoria dell’acqua funzioni. Quello che funziona, e bene, è l’effetto placebo

Omeopatia: una scienza che non è scienza di Federico Baglioni

scheda Federico Baglioni Biotecnologo, divulgatore e animatore scientifico, scrive sia su testate di settore (Le Scienze, Oggi Scienza), che su quelle generaliste (Today, Wired, Il Fatto Quotidiano). Ha fatto parte del programma RAI Nautilus ed è coordinatore nazionale del movimento culturale “Italia Unita Per La Scienza”, con il quale organizza eventi contro la disinformazione scientifica.

Milioni di italiani fanno uso di prodotti omeopatici, quindi si tratta di una medicina che funziona. Questa la principale argomentazione di chi sostiene la medicina omeopatica, ma su che principi si basa? Innanzitutto bisogna dire che l’omeopatia è nata a metà dell’Ottocento, in un periodo in cui la medicina era ancora molto simile alla magia. Il suo “inventore”, Sa-

un bicchiere di acqua fresca con un po’ di zucchero? Gli omeopati hanno formulato un’altra teoria, quella della “memoria dell’acqua”, ovvero un fenomeno per cui l’acqua sarebbe in grado di mantenere un ricordo delle sostanze con le quali è venuta a contatto, anche se diluite. Una scoperta che sarebbe sensazionale, perché aprirebbe a nuove prospettive della medicina, ribaltando le conoscenze della chimica.

muel Hannemann, formulò la teoria per cui il simile cura il simile e in particolare che è possibile curare le malattie con “sostanze” di quelle malattie in dosi particolarmente diluite. Diluizioni talmente forti da rendere i prodotti omeopatici privi di qualsiasi molecola del principio attivo, cioè quello che dovrebbe avere un effetto. Ma allora come può funzionare

Non esiste prova scientifica Però, non esistono studi scientifici che dimostrino o anche solo ipotizzino l’esistenza del fenomeno. Le due ricerche scientifiche che in passato sostennero di aver dimostrato questo effetto, nel 1988 e nel 2009, furono delle truffe o esperimenti particolarmente malfatti. Il risultato di tutti gli altri studi

è che i rimedi omeopatici, visto che sono diluiti al punto da non contenere nemmeno una molecola di principio attivo, non hanno alcun effetto. Eppure molti sostengono che l’omeopatia funzioni. Qual è la verità? È vero che l’omeopatia sembra funzionare, ma questo è dovuto al cosiddetto effetto placebo, un meccanismo psicologico per cui il solo pensare che qualcosa funzioni ci fa guarire sul serio. Un fenomeno molto studiato che è una parte importante della medicina: l’attenzione per il paziente e la fiducia che quest’ultimo ripone nel proprio medico quando è bravo (sia esso omeopatico o meno) può avere effetti davvero formidabili sulla salute. Ma questo è, appunto, un effetto psicologico, unito al fatto che gran parte delle malattie che l’omeopatia sostiene di curare tendono a guarire anche senza l’utilizzo di alcuna terapia. Qual è il modo di stabilire se una terapia funziona? Vedere se il farmaco in questione ha effetti superiori al normale effetto placebo citato sopra. E l’omeopatia non ha mai superato questi test. L’effetto placebo Se vi state rispondendo “ma su di me funziona” considerate che probabilmente state trattando una malattia che spontaneamente dopo qualche tempo sparirebbe o, più probabile, che la vostra fiducia nel medico che vi presta attenzione vi stia guarendo. Quello però non è merito del prodotto omeopatico ma di un meccanismo psicologico potente e affascinante che fa parte della cosiddetta “medicina convenzionale”. Perché la medicina alternativa, se funziona ed è verificata a livello scientifico, è semplicemente medicina.

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Le persone in stato di difficoltà a cui Scarp de’ tenis ha dato lavoro nel 2014 (venditori-disegnatori-collaboratori). In 20 anni di storia ha aiutato oltre 800 persone a ritrovare la propria dignità

IL VENDITORE DEL MESE

Una bella foto di Piergiovanni. Grazie al giornale sta cercando di risalire lentamente la china. L’incontro con Scarp gli ha fatto capire che esiste sempre una via d’uscita

Piergiovanni «Scarp mi ha aiutato a dialogare con il mondo reale» di P.G.M.

info Piergiovanni collabora con Scarp a Torino da qualche mese, con piena disponibilità per ogni situazione di vendita che gli viene proposta. A Torino Scarp è presente ogni mese in 29 parrocchie e altri punti vendita, grazie al lavoro di 7 venditori.

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TORINO

La mia vita fino a un certo punto è stata uguale a quella di milioni di persone. Fin da ragazzino ho lavorato nella ditta familiare con altri tre fratelli. A 18 anni mi sono sposato e ho avuto due figlie. Poi, dopo la morte di mio padre, sono iniziati problemi familiari che hanno portato alla divisione della società e alla separazione da mia moglie, problemi che non ho saputo affrontare in modo maturo e ho annegato nell’alcol, tanto che a 27 anni mi sono trovato in fin di vita. La mia àncora è stata la comunità di “MondoX” dove, dopo un periodo di riabilitazione, ho deciso di restare come operatore. Una riacquisita fiducia in me stesso, la volontà di riprendere un rapporto continuativo con le figlie e un intervento chirurgico al cuore mi hanno portato alla decisione di lasciare la comunità un paio di anni fa. Sono uscito dalla comunità con ottimi propositi e grandi speranze. Ma dal lato affettivo né da quello lavorativo non si è presentata alcuna possibilità concreta, vuoi per il troppo distacco o vuoi per i motivi di sa-

lute che purtroppo non sono migliorati, anche a causa dello stile di vita al quale sono costretto: dormitori, mense, vita di strada. Qualche mese fa ho conosciuto Scarp de’ tenis e mi sono lasciato coinvolgere iniziando l’attività di venditore. Non dico che ho risolto i miei problemi ma il progetto di Scarp mi ha talmente coinvolto che mi sta aiutando a risalire la china, a riprendere un dialogo con le persone e con il mondo reale, che come me è pieno di difficoltà e problemi. Perciò oggi non mi piango più addosso, ma cerco di vivere. In questi anni ho capito che la nostra vita è una serie di storie: un attimo siamo felici e un altro attimo siamo sommersi da pensieri e problemi. Poche volte ci succede però di riflettere che la vita è un “dono”. E se questa vita è un dono, perché ci è così difficile viverla come tale e gioire del suo lato positivo o negativo insieme agli altri? Ho deciso di scrivere queste righe non tanto per uno sfogo, ma per far riflettere chi come me si è trovato “sotto una slavina” e non vede più speranza.




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