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Foto: Frank Dries / Straatnieuws Insp - Spedizione in abbonamento postale 45% articolo 2, comma 20/B, legge 662/96, Milano

LA MOSTRA

LE CANZONI DI JANNACCI AL CASTELLO SFORZESCO DI MILANO

la le del i s n e Il m

strada

www.scarpdetenis.it dicembre 2015 gennaio 2016 anno 20 numero 197

INTER ESCLUVISTA SIVA

Papa Francesco “Vorrei un mondo senza poveri” «UN CREDENTE NON PUÒ PARLARE DELLA POVERTÀ O DEI SENZATETTO E POI VIVERE DA FARAONE».

IL PAPA DEL CAMBIAMENTO E DEL RINNOVAMENTO SI RACCONTA AI GIORNALI DI STRADA DI TUTTO IL MONDO

ph. uezzo.com reclam.com

Siate egoisti, fate del bene!

Fare del bene è il miglior modo per sentirsi bene.

Dare una mano a Opera San Francesco significa dedicare una parte di sè e delle proprie risorse a chi ha bisogno di aiuto e può ricambiarci solo con un sorriso o uno sguardo di gratitudine: significa dare speranza e fiducia e, per questo, sentirsi meglio.

Viale Piave, 2 - 20129 Milano ccp n. 456202 Tel. 02.77.122.400

www.operasanfrancesco.it Ringraziamo

Chi sostiene OSF contribuisce a offrire ogni anno 870.000 pasti caldi, 67.000 docce e 40.000 visite mediche a poveri ed emarginati. Da più di 50 anni, con il lavoro di oltre 700 volontari, le donazioni di beni e danaro e i lasciti testamentari, OSF aiuta chi non ha nulla.

Opera San Francesco per i Poveri Una mano all’uomo.

Tutti i giorni.

EDITORIALE

Un mondo senza poveri Il grido di Papa Francesco

LA PROVOCAZIONE

La strada per la pace passa attraverso politiche serie di inclusione di don Roberto Davanzo direttore Caritas Ambrosiana

di Stefano Lampertico [

@stefanolamp ]

Quando ho ricevuto dalla nostra rete internazionale dei giornali di strada il messaggio nella casella mail che preannunciava un’intervista esclusiva della quale tutti i media internazionali se ne sarebbero occupati, ho subito pensato a un colloquio con Papa Francesco.

Non mi sbagliavo. Il Papa ha incontrato i giornalisti, e un venditore del giornale di strada olandese Straatnieuws,alla fine del mese di ottobre. E ha risposto alle domande che gli sono state rivolte, anche a nome di tutti i giornali di strada del mondo, molti dei quali sono già usciti con la copertina e l’intervista al Papa. Lo facciamo anche noi, in forma esclusiva per l’Italia, proponendo ai nostri lettori l’intervista integrale. Che, inutile sottolinearlo, è molto ricca di spunti e i cui contenuti principali sono già stati ripresi dai media italiani, a partire da quel concetto subito ribattutto dalle agenzie e relativo al fatto che un “credente non può parlare della povertà o dei senzatetto e poi vivere da faraone”.

L’intervista a Papa Fran-

cesco ci ha costretto a rivoluzionare il timone del giornale. Che avrebbe dovuto avere in copertina un richiamo evidente alla grande mostra “Gente d’altri tempi. Enzo Jannacci, nuove canzoni a colori”, che inauguriamo il 10 dicembre (e che starà aperta fino al 15 gennaio 2016) al Castello Sforzesco di Milano. Una mostra molto importante per Scarp de’ tenis. Un omaggio che i grandi fumettisti, illustratori e artisti fanno al cantautore e poeta milanese. Le storie di Jannacci, quel mondo di diseredati, sconfitti, emarginati, sono le storie di Scarp. E siamo molto felici di poter riproporre una nuova mostra, tributo al grande maestro.Tutti i dettagli li trovate nelle pagine centrali del giornale e alla pagina facebook “Gente d’altri tempi. Enzo Jannacci, nuove canzoni a colori”.

C’è anche un’altra bella novità.

Abbiamo avviato, e ne vedrete già nei prossimi numeri qualche esempio, una collaborazione

con la Scuola del Fumetto e dell’Illustrazione di Milano. Giovani fumettisti e illustratori accompagneranno le storie di Scarp con i loro lavori. Una bella opportunità per noi. Una bella occasione per far conoscere il lavoro di tanti giovani autori.

L’intervista esclusiva a Papa Francesco ci ha costretto a rivoluzionare il timone di questo numero di Scarp che avrebbe dovuto avere in copertina un richiamo forte alla grande mostra “Gente d’altri tempi. Enzo Jannacci, nuove canzoni a colori”

contatti Per commenti, idee, opinioni e proposte: mail scarp@coopoltre.it facebook scarp de tenis twitter @scarpdetenis www.scarpdetenis.it

Esiste un rapporto tra le stragi di Parigi e la grave emarginazione? Ovvio, non tutti gli esclusi della società diventano terroristi, ma non c’è dubbio che le situazioni di emarginazione possano rappresentare un brodo di coltura di un odio, di un risentimento che – col fanatismo religioso – generano i mostri con cui l’Europa sta facendo i conti. Le radici di questa follia terroristica sono complesse e certamente dipendono dalla feroce conflittualità tra le due grandi componenti dell’islam, il mondo sunnita e sciita. Insieme possiamo dire che queste radici sono alimentate e nutrite da una duplice frustrazione. A livello nazionale, interno, rappresentata dalle tante forme di banlieue in cui vengono confinate le seconde e le terze generazioni di giovani immigrati, in possesso di un certificato di cittadinanza, ma di fatto emarginate, esposte quindi al rischio di diventare carne da macello nelle mani dell’ultimo pifferaio magico.

Ma vorrei parlare anche di una frustrazione di respiro internazionale rappresentata dalle modalità sempre cangianti di un neo colonialismo che ha di fatto giustificato guerre assurde e devastanti come quelle che si sono, e continuano ad essere combattute, in Afghanistan, in Iraq, in Libia, ponendo le premesse per quella che da anni insanguina la Siria. Guerre che autorizzano i sempre vivi seminatori di odio a identificare l’occidente come l’impero del male. Le soluzioni non sono né facili né a buon prezzo. La strada è impegnativa e passa attraverso politiche di inclusione capaci di superare ogni forma di emarginazione. Una strada che ha bisogno di visioni lungimiranti in grado di abbattere quella inequità che “è la radice dei mali sociali” (Evangelii Gaudium 202). dicembre 2015-gennaio 2016 Scarp de’ tenis

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SOMMARIO

Più pagine, più contenuti, più storie.

E un invito Quello che state leggendo è un numero davvero speciale di Scarp de’ tenis. L’intervista straordinaria al Papa, la mostra dedicata alle canzoni di Jannacci, il racconto del venditore del giornale di strada americano che ha incontrato Richard Gere, il cammino del Lupo, la banda larga

a basso costo per tutti i cittadini di Verrua Savoia. Storie. Sì, perché è questo il tratto specifico di un giornale come il nostro. Raccontare storie. Di speranza, di rinascita, di ripartenza. Come le storie dei migranti ospitati nelle tante parrocchie di tutta Italia che hanno raccolto l’appello di Papa Francesco. O come le storie delle maestre che non stanno in classe ma seguono ogni giorno i bambini ricoverati negli ospedali.

Un numero speciale con più pagine rispetto al solito. In un momento di difficoltà, per la stampa cartacea,

cerchiamo di dare un segnale diverso offrendo ai lettori più contenuti e più proposte.

Un’altra anticipazione e un invito.

L’anticipazione. Stiamo già lavorando sul numero speciale di aprile.

Sarà il duecentesimo della storia ventennale di Scarp. E merita di essere preparato con particolare attenzione. Ci saranno sorprese!

L’invito. Vi aspettiamo alla mostra organizzata da Scarp “Gente d’altri tempi. Enzo Jannacci, nuove canzoni a colori”. Dal 10 dicembre al 15 gennaio. Al Castello Sforzesco di Milano.

Dopo i temporali non viene più il sereno c'è poca minestra, poterla spartire con qualcuno che sai c'è anche il telefono...

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rubriche

servizi

PAG.11 PAG.13 PAG.14 PAG.17 PAG.18 PAG.24 PAG.25 PAG.53 PAG.63 PAG.73 PAG.74

PAG.6 COPERTINA Papa Francesco: «Vorrei un mondo senza poveri» PAG.26 L’INTERVISTA Richard Gere, «I venditori dei giornali di strada? Eroi» PAG.28 INCHIESTA Rifugiati? A casa nostra PAG.36 L’EVENTO Gente d’altri tempi. La nuova mostra su Jannacci PAG.40 DOSSIER Scuola del cuore, maestre in corsia PAG.44 INNOVAZIONE Internet sociale senza fili e senza confini PAG.46 LA STORIA Camminare insieme al Lupo a cuor leggero PAG.48 MILANO A New York, un viaggio da matti PAG.50 SOLIDARIETÀ Cibo più buono con camerieri e cuochi speciali PAG.52 TORINO La vita di strada raccontata in presa diretta PAG.55 GENOVA O’Press, dal carcere un prodotto equo, solidale e sociale PAG.56 RIMINI La vita con Matilde è uno spettacolo PAG.58 VENEZIA Alterity for art. Un artista ospite a Casa S. Alvise PAG.59 NAPOLI Arte napoletana. I pastori secondo Ferrigno PAG.60 REPORTAGE Sannio, dopo l’alluvione lavoro a rischio PAG.69 CALEIDOSCOPIO Incontri, laboratori, autobiografie

(IN)VISIBILI di Paolo Lambruschi IL TAGLIO di Piero Colaprico LE STORIE DI MURA di Gianni Mura PIANI BASSI di Paolo Brivio LA FOTO di Pascal Rossigno/REUTERS LE DRITTE di Yamada VISIONI di Sandro Paté POESIE VOCI DALL’AMERICA di Damiano Beltrami SCIENZE di Federico Baglioni IL VENDITORE DEL MESE

Scarp de’ tenis Redazione di strada e giornalistica via degli Olivetani 3, 20123 Milano tel. 02.67.47.90.17 fax 02.67.38.91.12 scarp@coopoltre.it

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Scarp de’ tenis dicembre 2015-gennaio 2016

Direttore responsabile Stefano Lampertico Redazione Ettore Sutti, Francesco Chiavarini, Paolo Brivio

Segretaria di redazione Sabrina Montanarella Responsabile commerciale Max Montecorboli

Redazione di strada Roberto Guaglianone, Antonio Mininni, Lorenzo De Angelis, Alessandro Pezzoni

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Foto Reuters, Insp, Romano Siciliani, archivio Scarp Disegni Sergio Gerasi, Ilaria Pasqua, Gianfranco Florio, Luca Usai, Loris Mazzetti, Claudia Discacciati

da

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Il men

aforisma di Merafina Il giornale Il giornale cosa dice di me che sono giornalista giornalaio giornaliero Il tweet di Aurelio [Il bonazza

, .

@aure1970 ]

novembre 2015. La Spezia. Picchia la compagna e il figlioletto che vuole aiutarla.

Cos’è

Cucina abitabile, bagno, 2 camere, un salotto. Box doppio. Nuova palazzina in quartiere rispettabile. L'inferno lo senti gridare dai muri.

Scarp de’ tenis è un giornale di strada noprofit nato da un’idea di Pietro Greppi e da un paio di scarpe. È un’impresa sociale che dà voce e opportunità di reinserimento a persone senza dimora o emarginate. È un’occasione di lavoro e un progetto di comunicazione.

va beh, ne faremo a meno non si sa mai.

Dove vanno i vostri 3,50 euro L’uomo a metà - tributo a Enzo Jannacci

Vendere il giornale significa lavorare, non fare accattonaggio. Il venditore trattiene una quota sul prezzo di copertina. Contributi e ritenute fiscali li prende in carico l’editore.

Quanto resta è destinato a progetti di solidarietà.

Per contattarci

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TOP 15

Miliardari per Paese 1 2 3 4

Ilaria Pasqua

Approved Index, 2015 - dati in dollari

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Progetto grafico Francesco Camagna Sito web Roberto Monevi Editore Oltre Soc. Coop. via S. Bernardino 4, 20122 Milano Presidente Luciano Gualzetti

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Stati Uniti Honk Kong Taiwan Svizzera Svezia Singapore Israele Norvegia Libano Kuwait Cipro Principato di Monaco Islanda St. Kitts and Nevis Guernsey

Registrazione Tribunale di Milano n. 177 del 16 marzo 1996 Stampa Tiber via della Volta 179, 24124 Brescia

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Direzione e redazione centrale - Milano Cooperativa Oltre, via degli Olivetani 3 tel. 02.67479017 scarp@coopoltre.it Redazione Torino Casamangrovia, corso Novara 77, tel. 011.2475608 scarptorino@gmail.com Redazione Genova Fondazione Auxilium, via Bozzano 12 tel. 010.5299528/544 comunicazione@fondazioneauxilium.it Redazione Verona Il Samaritano, via dell’Artigianato 21 tel. 045.8250384 segreteria@ilsamaritanovr.it Redazione Vicenza Caritas Vicenza, Contrà Torretti 38 tel. 0444.304986 scarp@caritas.vicenza.it Redazione Venezia Caritas Venezia, Santa Croce 495/a tel. 041.5289888 info@caritasveneziana.it Redazione Rimini Settimanale Il Ponte, via Cairoli 69 tel 0541.780666 rimini@scarpdetenis.net Redazione Firenze Il Samaritano, via Baracca 150/e tel. 055.3438680 samaritano@caritasfirenze.it Redazione Napoli Cooperativa sociale La Locomotiva via Pietro Trinchera 7 scarp@lalocomotivaonlus.org Redazione Sud Caritas diocesana, Salita Corpo di Cristo, Teggiano (Sa) tel.0975 79578 info@caritasteggianopolicastro.it

Consentita la riproduzione di testi, foto e grafici citando la fonte e inviandoci copia. Questo numero è in vendita dal 5 dicembre 2015 al 29 gennaio 2016

www.insp.ngo

dicembre 2015-gennaio 2016 Scarp de’ tenis

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Papa Francesco «Dobbiamolottare per un mondo senza povertà »

Max Rossi / Reuters

L’INTERVISTA

Jorge Mario Bergoglio, il primo Papa a chiamarsi Francesco, è considerato il Papa del cambiamento e del rinnovamento della Chiesa

testo di Stijn Fens e Jan-Willem Wits

«Un credente non può parlare della povertà o dei senzatetto e poi vivere da faraone». L’intervista a Papa Francesco raccolta da Straatnieuws, in esclusiva per i giornali di strada di tutto il mondo È ancora presto quando ci presentiamo al portone di servizio del Vaticano, a sinistra della Basilica di San Pietro. Le guardie svizzere sono al corrente del nostro arrivo e ci fanno passare.

Dobbiamo andare alla Casa Santa Marta, perché lì abita Papa Francesco.

scheda In queste pagine l’intervista esclusiva a Papa Francesco che Scarp de’ tenis pubblica, insieme ai giornali di strada di tutto il mondo aderenti alla rete Insp. L’intervista è stata raccolta dal giornale di strada olandese Straatnieuws nel corso di un incontro in Vaticano di fine ottobre.

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Casa Santa Marta probabilmente è l’hotel a tre stelle più particolare del mondo. Un grande edificio bianco dove pernottano cardinali e vescovi che svolgono il loro servizio in Vaticano o vi si trovano di passaggio e che è anche la dimora dei cardinali durante il conclave.

Anche qui sanno del nostro arrivo. Due signore alla reception, come in ogni albergo, gentilmente ci indicano una porta laterale.

La stanza dell’incontro è già stata preparata. Uno spazio abbastanza grande con una scrivania, un sofà, alcuni tavoli e sedie, questo è il luogo di ricevimento infrasetti-

Scarp de’ tenis dicembre 2015-gennaio 2016

manale del Papa. Poi, inizia l’attesa. Marc, il venditore di Straatnieuws, è il più tranquillo di tutti e aspetta, seduto sulla sedia, ciò che verrà.

Di colpo si presenta il fotografo ufficiale. «Sta arrivando il Papa», ci bisbiglia.

E prima che ce ne rendiamo conto entra nella stanza: Papa Francesco, il capo spirituale di più di un miliardo di cattolici.

Porta con sé una grande busta bianca. «Mettetevi seduti, amici – dice con un gesto gentile della mano –, che piacere avervi qui».

Visto da vicino dà l’impressione di un uomo calmo e amichevole, ma allo stesso tempo energico e preciso.

Una volta seduti si scusa per il fatto di non parlare l’olandese. Glielo perdoniamo subito.

re in cui è cresciuto? Che immagini le vengono in mente pensando alle strade della sua infanzia?

Da quando avevo un anno fino al momento in cui sono entrato in seminario, ho vissuto nella stessa via. Era un quartiere semplice di Buenos Aires, tutte case basse.

C’era una piazzetta, dove noi giocavamo a calcio. Mi ricordo che scappavo da casa e andavo a giocare con i ragazzi dopo la scuola.

Mio papà lavorava in una fabbrica che era distante cento metri. Era ragioniere e i nonni abitavano a pochi metri da noi. Mi ricordo anche i nomi delle persone, che poi, da sacerdote, ho rivisto e incontrato per i sacramenti o per l’ultimo conforto. Questi sono i miei ricordi spontanei.

Lei giocava anche a calcio?

Le nostre interviste iniziano sempre con una domanda.

Lei, Santo Padre, cosa ricorda della strada e del quartie-

Sì.

Era forte?

No. A Buenos Aires, quelli che gio-

cavano a calcio come me, li chiamavano pata dura. Che vuol dire avere due gambe sinistre. Tante volte giocavo come portiere.

Com’è nato il suo impegno per i poveri?

Mi vengono in mente tanti momenti del passato. Ricordo una signora che veniva a casa nostra tre volte alla settimana per aiutare la mia mamma. Per esempio aiutava in lavanderia. Aveva due figli. Erano italiani, venivano dalla Sicilia e avevano vissuto la guerra. Erano molto poveri, ma tanto buoni. Di quella donna ho sempre mantenuto il ricordo. La sua povertà mi colpiva. Noi non eravamo ricchi, ma arrivavamo alla fine del mese.

Non avevamo una macchina, non facevamo le vacanze. Ma a loro mancava il necessario e mia mamma le dava qualcosa. L’ho rincontrata quando già ero arcivescovo di Buenos Aires, aveva 90 anni. E l’ho accompagnata fino alla morte, avvenuta all’età di 93 an-

ni. Un giorno lei mi ha dato una medaglia del Sacro Cuore di Gesù che porto ancora oggi con me.

Questa medaglia mi fa tanto bene. Vuole vederla?

(Con un po’ di fatica, il Papa tira fuori la medaglia, completamente scolorita, dopo che è stata portata per così tanti anni).

Così penso a lei ogni giorno e a quanto ha sofferto per la povertà. E penso a tutti gli altri che hanno sofferto. La porto e la prego.

Qual è il messaggio della Chiesa per i senzatetto? Che cosa significa la solidarietà cristiana per loro in concreto?

Ritengo siano due le cose importanti. Gesù è venuto al mondo senzatetto e si è fatto povero. La Chiesa vuole abbracciare tutti e dire che è un diritto avere un tetto sopra la testa. Nei movimenti popolari (in America latina, ndr) si lavora con tre ‘t’ : trabajo (lavoro), techo (casa) e tierra (terra). Per la chiesa ogni persona ha diritto a

queste tre ‘t’.

A Buenos Aires quelli che giocavano a calcio come me li chiamavano pata dura.

Che vuol dire avere due gambe sinistre.

Ma tante volte giocavo come portiere

Lei chiede spesso attenzione per i poveri e per i profughi.

Non teme che in questo modo si possa generare una forma di stanchezza nei media e nella società in generale?

A tutti noi viene la tentazione – quando si affronta un tema difficile – di dire: “Ma, finiamola: questa cosa stufa troppo”. La stanchezza esiste, ma non mi fa paura.

Devo continuare a parlare della verità e di come stanno le cose. È suo dovere?

Si, è mio dovere. Lo sento dentro di me. Non è un comandamento, ma come persone tutti dovremmo farlo.

Non teme che la sua difesa della solidarietà e dell’aiuto per i senzatetto e dei poveri in generale possa essere sfruttata politicamente? Cosa deve dire la Chiesa per esdicembre 2015-gennaio 2016 Scarp de’ tenis

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Lei crede che finora nel suo pontificato c’è stato un cambiamento di prospettiva, per esempio nella politica?

Non saprei cosa dire. Non lo so.

So che alcuni hanno detto che io ero comunista. Ma è una categoria un po’ antiquata (ride). Forse oggi si usano altre parole per dire questo…

Marxista, socialista…

Hanno detto tutto questo.

I senzatetto hanno dei problemi finanziari, ma coltivano la propria libertà. Il Papa non ha nessun bisogno ma8

Scarp de’ tenis dicembre 2015-gennaio 2016

teriale, ma è considerato da alcuni come un prigioniero in Vaticano. Non sente mai il desiderio di mettersi nei panni di un senzatetto?

Mi ricordo il libro di Mark Twain Il principe e il povero: quando uno può mangiare tutti i giorni, ha da vestirsi, un letto per dormire, una scrivania per lavorare e ha anche degli amici, allora non gli manca niente. Ma questo principe di Mark Twain vive in una gabbia d’oro.

Santo Padre, Marc vuole invitarla a mangiare una pizza con noi. Che ne pensa?

Mi piacerebbe, ma non riusciremmo a farlo. Perché nel momento in cui esco mi si avvicina molta gente. Quando sono stato a cambiare le lenti dei miei occhiali in città, erano le sette di sera, non c’era molta gente in strada. Mi hanno portato dall’ottico, sono uscito dalla macchina, una donna mi ha visto e ha gridato: “Ecco il Papa”. Io ero nel negozio e fuori c’erano tante persone...

Le manca il contatto con la gente?

Non mi manca perché la gente viene da me. Ogni mercoledì c’è l’Udienza Generale, qualche volta vado nelle parrocchie: sono in contatto con la gente. Per esempio ieri (26 ottobre, ndr) sono venuti più di cinquemila rom e sinti nell’Aula Paolo VI.

Il suo omonimo San Francesco scelse la povertà radicale e vendette anche il suo evangeliario. In quanto Papa, e vescovo di Roma, si sente mai pressato a vendere i tesori della Chiesa?

Questa è una domanda facile.

Non sono i tesori della Chiesa, ma sono i tesori dell’umanità. Per esempio, se io domani dicessi che la Pietà di Michelangelo sia messa all’asta, questo non si può fare, perché non è proprietà della Chiesa. È in una chiesa, ma è dell’umanità. Questo vale per tutti i tesori della Chiesa. Abbiamo cominciato a vendere alcune cose che mi sono state regalate. E i proventi della vendita vanno a monsignore Konrad Krajewski, che è il mio elemosiniere. Ad esempio sono state vendute delle automobili e il ricavato è stato donato ai poveri. Se ci sono cose che si possono vendere, si vendono.

Due giorni dopo essere stato eletto Papa sono andato a prendere possesso dell’appartamento papale nel palazzo Apostolico.

Non è lussuoso, ma è largo, grande.

Mi è sembrato un imbuto al rovescio.

Grande ma con una porta piccola

Si rende conto che la ricchezza della Chiesa può creare questo tipo di aspettative?

Se facciamo un inventario dei beni della Chiesa, si pensa: la Chiesa è molto ricca. I beni immobili sono molti, ma li usiamo per mantenere le strutture ecclesiastiche e per finanziare tantissime opere che si realizzano nei Paesi più poveri come ospedali e scuole. Ieri, per esempio, ho chiesto di inviare in Congo 50 mila euro per costruire tre scuole. L’educazione è una cosa importante. Ho fatto questa richiesta all’amministrazione competente e i soldi sono stati inviati.

Alla fine anche Marc fa alcune domande. Vuole sapere, tra l’altro, se il Papa già da piccolo sognava di diventare Papa. Il Santo Padre risponde con un risoluto “No”.

Vi faccio una confidenza. Quando ero piccolo non c’erano tanti negozi. C’era il mercato dove si trovava il macellaio, il fruttivendolo eccetera. Io ci andavo con la mamma e la nonna per fare la spe-

Frank Dries, Straatnieuws / INSP

Si sente libero qui in Vaticano?

Due giorni dopo essere stato eletto Papa sono andato a prendere possesso dell’appartamento papale nel Palazzo Apostolico. Non è un appartamento lussuoso. Ma è largo, è grande… mi è sembrato un imbuto al rovescio, cioè grande ma con una porta piccola.

Questo significa essere isolato.

Ho pensato: “Non posso vivere qui perché mi farebbe male”. All’inizio sembrava una cosa strana, ma ho chiesto di restare a Santa Marta. E questo mi fa bene perché mi sento libero. Mangio nella sala da pranzo dove mangiano tutti. E quando sono in anticipo mangio con i dipendenti. Incontro gente, la saluto e questo fa sì che la gabbia d’oro non sia tanto una gabbia. Ma mi manca la strada.

Si vede che le piace fare il giro della piazza durante l’Udienza Generale… È vero. Sì, è vero.

Frank Dries, Straatnieuws / INSP

sere influente e allo stesso tempo rimanere fuori dagli schieramenti politici?

Ci sono situazioni che possono portare a commettere errori. Vorrei sottolineare due forti tentazioni. La Chiesa deve parlare con la verità e la testimonianza: la testimonianza della povertà. Se un credente parla della povertà o dei senzatetto e conduce una vita da faraone, questo non si può fare.

Questa è la prima tentazione.

L’altra tentazione è quella di fare accordi con i governi. Si possono fare accordi, ma devono essere accordi chiari e trasparenti. Per esempio: noi gestiamo questo palazzo, ma i conti sono tutti controllati, per evitare la corruzione.

Perché c’è sempre la tentazione della corruzione nella vita pubblica. Sia politica, sia religiosa.

Ricordo che una volta, con dolore, ho visto – quando l’Argentina sotto il regime dei militari è entrata in guerra con la Gran Bretagna per le Isole Malvine – che la gente donava delle cose e ho visto tante persone, anche cattolici, incaricati di distribuirle, che le portavano a casa. C’è sempre il pericolo della corruzione. Anni fa ho chiesto a un ministro argentino, un uomo onesto, capace di lasciare il proprio incarico perché non poteva andare d’accordo con alcune cose poco chiare: «Quando inviate aiuti – siano cibo, vestiti o soldi – ai poveri e agli indigenti, di quello che inviate, quanto arriva loro?». Mi ha risposto: il 35 per cento. Significa che il 65 per cento si perde. È la corruzione: un pezzo per me, un altro pezzo per me.

L’INTERVISTA

sa. Ero piccolino, avevo quattro anni. E una volta mi hanno domandato: «Cosa ti piacerebbe fare da grande?». Ho risposto: «Il macellaio».

tima è come una bolla di sapone.

Per molti fino al 13 marzo 2013 lei era uno sconosciuto.

Poi da un momento all’altro, è diventato famoso in tutto il mondo. Come ha vissuto quest’esperienza? È successo e non me l’aspettavo.

Ma non ho perso la serenità. E questo è una grazia di Dio. Non penso tanto al fatto che sono famoso. Dico a me stesso: “Adesso ho un posto importante, ma tra dieci anni nessuno si ricorderà più di me” (ride). Sai, ci sono due tipi di fama: la fama dei ‘grandi’ che hanno fatto grandi cose, come Madame Curie, e la fama dei vanitosi. Ma quest’ul-

Sì.

Così, lei dice “adesso sono qua e devo dare il meglio” e continuerà questo lavoro fino a quando ne sarà in grado?

Santo Padre, si può immaginare un mondo senza poveri?

Vorrei un mondo senza poveri.

Noi dovremmo lottare per questo. Ma sono un credente e so che il peccato è sempre dentro di noi.

E la cupidigia umana c’è sempre.

La mancanza di solidarietà e l’egoismo creano povertà. Per questo mi sembra un po’ difficile immaginare un mondo senza poveri. Pensate ai bambini sfruttati nel lavoro, o a quelli vittime degli abusi sessuali, o ai bambini uccisi per il traffico degli organi. Ucci-

Dovremmo lottare per un mondo senza poveri.

Ma sono un credente e so che il peccato è sempre dentro di noi.

E la cupidigia umana c’è sempre.

Mancanza di solidarietà e egoismo creano la povertà

dere i bambini per questo è cupidigia. Non so se ce la faremo a costruire un mondo senza poveri, perché il peccato c’è sempre e porta egoismo. Ma dobbiamo lottare, sempre, sempre. *** Abbiamo finito. Ringraziamo il Papa per l’intervista. Anche lui ci ringrazia e dice che il colloquio gli è piaciuto molto. Poi prende la busta bianca che per tutto il tempo è rimasta accanto a lui sul sofà ed estrae per ognuno di noi un rosario. Vengono scattate delle foto e poi Papa Francesco si congeda.

Tranquillo e rilassato com’è arrivato, ora esce dalla porta. Pronto per il prossimo appuntamento.

Courtesy of INSP News Service www.INSP.ngo/Straatnieuws dicembre 2015-gennaio 2016 Scarp de’ tenis

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(IN)VISIBILI

Non ho paura di Ayla, Sena e Khalifa.

Dagli invisibili lezioni di umanità

di Paolo Lambruschi

Non riesco a levarmi dalla testa il volto sorridente di Valeria Solesin, la ricercatrice veneziana 28 enne uccisa a Parigi la maledetta sera di venerdì 13 novembre dalla follia dei terroristi del sedicente stato islamico insieme a tanti altri ragazzi colpevoli solo di essere a un concerto rock o a un ristorante. Co-

sa c’entra con gli invisibili questa ragazza? Era di intelligenza, cuore e cultura fuori dal comune. Una giovane donna buona. Così era stata volontaria di Emergency e a Parigi portava i pasti serali ai senza dimora dopo giornate di studio in una delle principali università del globo. Non è facile trovare persone di tale sensibilità, che ci danno una lezione di umanità anche con la compostezza e la dignità della propria famiglia nel momento che nessun genitore vorrebbe vivere. Credo non sia un caso che fosse amica del popolo più solo, quello della strada.

Si potrebbe pensare e insinuare – come qualche politico della paura ha già fatto – che l’apertura e l’amicizia verso gli ultimi sia diventata pericolosa in Europa dopo il 13 novembre. Che

Valeria Solesin era di un’intelligenza, cuore e cultura fuori dal comune.

E se penso a lei, penso che chiuderci in noi stessi, impauriti, equivalga a darla vinta ai terroristi, nemici dell’umanità

solidarietà e compassione verso profughi, senza dimora, rom, verso quelli che definiamo diversi sia un lusso che l’Ue non si possa più permettere. Che vada tirata giù la clér, come diciamo a Milano, possibilmente dopo aver buttato fuori dal giardino di casa gli ospiti indesiderati, diventati potenziali nemici. Eppure non

mi sento minacciato da Aylan Kurdi, il piccolo siriano di tre anni trovato morto a primi di settembre sulla spiaggia di Bodrum, Turchia occidentale, dopo il naufragio in cui sono morti sua mamma e il suo fratellino di 5 anni. Nemmeno mi spaventa

Sena, 4 anni, siriana, annegata anche lei nell’Egeo il 18 novembre e spiaggiata anche lei a Bodrum. Di loro conosciamo nomi, di tanti loro compagni di sventura neppure quelli, neppure sappiamo chi siano gli oltre 20 mila che giacciono sul fondo del Mediterraneo, partiti da Libia ed Egitto per un viaggio senza fine.

scheda

Paolo Lambruschi è nato a Milano nel 1966. Lavora ad Avvenire, come capo degli interni, dopo essere stato per tanti anni inviato. Ha diretto Scarp de’ tenis e il mensile di finanza etica Valori. Nel 2011 ha vinto il prestigioso premio giornalistico “Premiolino” per le inchieste sul traffico di esseri umani nel Sinai.

Si può obiettare che dalla rotte balcanica e libica arrivano i terroristi. A me questa storia convince poco. I fatti dicono che perlopiù i terroristi sono cresciuti, spesso nati nelle periferie europee, dalle quali sono partiti per arruolarsi nel Daesh, combattere in Siria e Iraq poi tornare – indisturbati e su aerei di linea o automobili, non sui gommoni – per colpire.

Poi se tra i 700 mila si sia infiltrato un kamikaze nessuno lo può sapere. Ma siccome è probabile

che proventi del colossale traffico di esseri umani del Mediterraneo vadano almeno in parte a finanziare terroristi, aprire corridoi umanitari e controllare chi ha diritto di entrare in Ue per chiedere asilo potrebbe aiutare.

Dobbiamo allora diffidare del popolo della strada per paura che ci colpisca a tradimento? Non riesco ad aver paura di Khalifa, senza dimora e sans papier del Bangladesh che vive in una baracca sul Tevere e – nonostante rischiasse la vita e l’espulsione – da lì si è gettato per salvare una donna che stava per annegare. L’ho incontrato al Quirinale lo scorso 17 novembre, premiato assieme ad altri eroi del sociale con la massima onorificenza repubblicana. È rimasto a vivere sul Tevere, ha un permesso umanitario, si arrangia per campare e alcuni volontari gli hanno regalato il vestito per la cerimonia. Spero diventi cittadino italiano per merito.

Gli invisibili ancora una volta ci danno una lezione di apertura e di umanità. E se penso a Valeria, penso che chiuderci in noi stessi, impauriti, equivalga a darla vinta ai terroristi, nemici dell’umanità. No, anche grazie a lei non dobbiamo avere paura.

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IL TAGLIO

Che triste declino per il “giornalismo dei fatti” I giornalisti sono come vetrinisti, scrive un detenuto del carcere di Como, e immagina ogni articolo di giornale come un negozio. È una buona

di Piero Colaprico

metafora, emersa durante un incontro con questo titolo: «I detenuti giudicano i cronisti: come ci siamo letti nelle cronache». Per una volta, in cattedra, c’erano persone in attesa di giudizio, o già condannate, e di fronte una platea di oltre 60 cronisti, molti di redazioni locali, che mai erano stati dentro le mura blindate, dentro i colori, oltre le sbarre di un carcere.

Scusate se chiamo me stesso a testimone, ma serve.

Tante volte, negli ultimi trent’anni, m’è capitato di entrare nelle celle e nei corridoi senza luce e di discutere anche di giornalismo con i detenuti. C’era un ergastolano, Marco Medda, considerato un vero pericolo pubblico, gran lettore di Dostoevskij, che a volte m’inchiodava con le sue domande e a sua volta veniva inchiodato dalle mie risposte. Noi

giornalisti, gli dicevo, abbiamo un dovere, quello di cercare la verità, che esiste, nonostante quello che affermano i filosofi. Sarà parziale, sarà

scheda

Piero Colaprico (Putignano 1957), giornalista e scrittore, vive a Milano dal 1976. È inviato speciale di Repubblica, si occupa di giustizia e di cronaca nera. Ha scritto alcuni romanzi, tra cui Trilogia della città di M. (2004), vincitore del Premio Scerbanenco. Una penna tagliente. Come questa rubrica che cura per Scarp.

complessa, ma ogni cronista sa che a volte può affermare davanti a tutti: sin qui il fatto è vero, è proprio come lo scrivo, come l’ho visto e sentito, dopo aver cercato e trovato la strada, la persona, la famiglia. Se sbagliamo, e capita, lo facciamo in buona fede, ma tante volte abbiamo visto giusto.

Uscito dal carcere di Como sono andato con la lettera sul vetrinista scritta dal detenuto, a un incontro dove c’erano quasi 300 giornalisti.

Ne ho letto un pezzo perché ritenevo fosse necessario questo “bisogno di realtà”, per “leggere” gli attentati di Parigi del 13 novembre.

Ci sono giornalisti diventati i dobermann della «politica della paura», ringhiano contro tutto ciò che fa ringhiare i politici di riferimento Davanti ai sindaci francesi, il premier Hollande ha detto che «non avremo pietà»; ha rivendicato la necessità dei bombardamenti e l’invio di una portaerei; ha chiesto all’Europa di dare una mano e ha parlato di «guerra». Ma in tutto il discorso, che mescolava dolore e onore, lutto e democrazia, conclusosi con i sindaci in piedi che cantavano la Marsigliese, Hollande non ha mai nominato, nemmeno una volta, una parola. Quale?

Islam.

Ora c’è una domanda che i vetrinisti dei giornali italiani dovrebbero farsi: se Hollande non ha puntato il dito, come ha potuto un quotidiano milanese titolare «Bastardi islamici»? Forse perché da molto, molto tempo nella provincia mondiale chiamata Italia è in declino il giornalismo dei fatti. Una volta, nelle redazioni, si diceva: «I fatti sono sacri, i giudizi sono liberi». Non vice-

versa. Oggi, a volte, sembra che i fatti siano liberi, nel senso che poco importa la corrispondenza alla realtà o se si dà libero sfogo alla fantasia più truculenta. I giudizi, anche sballati, stanno diventando sacri.

Lo si è visto tante volte, nei casi di cronaca nera, o nei processi con imputati i politici. Si sa, ci sono giornalisti gregari delle fazioni che si schierano a priori, senza studiare indizi, titoli di reato, inchieste e processi. C’è una divisione tra guelfi e ghibellini che finisce per alzare cortine fumogene sui fatti.

Questa volta però siamo basiti.

In mezzo ai morti, agli assalti contro persone inermi dentro il Bataclan o sedute ai tavolini del bar, una

parte del giornalismo italiano s’è dimenticato che altrove –in America, in Germania, in Inghilterra, in Francia – contano i fatti, e non conta la nebbia sui fatti. E così, mentre nei paesi civili, anche giornalisticamente, si parla di terroristi internazionali, o di terroristi islamisti, qui si può scrivere «bastardi islamici».

E persino vantarsene. Ci sono giornalisti, dobermann della «politica della paura», che ringhiano contro tutto ciò che fa ringhiare i politici di riferimento, abbaiano a favore di un pugno di voti che si può acquistare sfruttando l’ignoranza e la debolezza delle persone. Ce ne sono altri invece, diventati i cuccioli affettuosi delle minoranze, degli iman, dei migranti, delle periferie. Non va bene, in entrambi i casi: i giornalisti,

come dicono gli americani, sono i cani da guardia della democrazia. Puntiamo ai fatti: quello è il nostro osso da rosicchiare. Saremo anche bastardi, ma la catena che ti obbliga a soffiare sul fuoco, sapendo bene che con il fuoco non si scherza, uno può mettersela o non mettersela. dicembre 2015-gennaio 2016 Scarp de’ tenis

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Jim Thorpe l’amerindio di talento.

Non era poi così lucente il sentiero

di Gianni Mura

Jim Thorpe era un amerindio, un pellerossa se preferite. Nacque in una riserva indiana in Oklahoma, forse a Bellemont forse a Prague, il 28 maggio 1887, o forse 1888, Jakobus Franciscus Thorpe, riporta l’anagrafe, ma per la sua gente era Wa-Tho-Huk, “Sentiero Lucente”. Il nome lo scelse la madre, quando un raggio di luna illuminò la capanna in cui stava partorendo. I genitori erano nati da donne amerindie, il padre era figlio di un irlandese, la madre era figlia di un francese. Jim non ebbe vita facile: suo fratello morì di polmonite quando aveva otto anni, sua madre quando ne aveva dieci. Jim continuava a scappare di casa, suo padre a riportarcelo. All’età di 16 anni Jim perse anche il padre. A quei tempi vivevano a Carlisle, in Pennsylvania. Jim lavorava in una

L’illustrazione in questa pagina è di Claudia Discacciati, allieva della Scuola del Fumetto e dell’Illustrazione di Milano, con la quale Scarp ha avviato una collaborazione

scheda

Gianni Mura è nato a Milano nel 1945. Giornalista e scrittore.

Su Repubblica cura la rubrica Sette giorni di cattivi pensieri, nella quale – parlando di sport, s’intende – giudica il mondo intero. In questa rubrica racconta invece le storie di sport che, altrove, faticherebbero a trovare spazio.

fattoria e nel 1907 scoprì di avere talento atletico: vinse una gara di salto in alto con 1.75. Ma gli piacevano di più il baseball e il football americano. Nel 1911, in una partita contro Harvard vinta 18-13, marcò tutti i punti.

Da eroe nazionale a baro

Fu selezionato per le Olimpiadi del 1912, a Stoccolma, e iscritto in quattro specialità: pentathlon, decathlon, salto in alto e salto in lungo. Nel pentathlon vinse 4 gare su 5 finendo terzo nel lancio del giavellotto: medaglia d’oro. Nello stesso giorno si qualificò per la finale del salto in alto, dove si piazzò quarto, e settimo nel salto in lungo. Il decathlon era per la prima volta nel cartellone olimpico e il favorito era uno svedese, Hugo Wieslander.

14 Scarp de’ tenis dicembre 2015-gennaio 2016

squalificassero. Pare che la

Al ritorno in patria venne accolto come un eroe nazionale, sfilò per le vie di Brooklyn su un’auto scoperta. Si stupì che quella folla

federazione di atletica leggera fosse a conoscenza della cosa già prima di Stoccolma, ma decise di fare il pesce in barile. Ragionamento sottinteso: prima semmai si vincono le medaglie, a levargliele c’è sempre tempo. Fu una revoca fatta contro il regolamento olimpico.

Le contestazioni, come le accuse agli atleti di essere professionisti, potevano essere fatte nel mese successivo alla fine dei Giochi. Non sei mesi dopo, come fecero gli editori del Worcester Telegram. L’articolo era del gennaio 1913. Thorpe scrisse una lettera chiedendo clemenza, sostenendo di non aver imbrogliato nessuno, semplicemente non conosceva i regolamenti (cosa abbastanza credibile) ma non ci fu modo di far cambiare il verdetto. Scrisse: “Spero di essere scusato, almeno in parte, ero un semplice studente indiano e non sapevo tutto quello che c’era da sapere. Davvero, non sapevo che stavo facendo una cosa sbagliata, perché molti altri studenti avevano fatto la stessa cosa, solo che non avevano usato i loro veri nomi”. Da eroe nazionale a

scandisse il suo nome: “Non credevo che un solo uomo potesse avere tanti amici”. Non tanti, oppure sì, ma dipendeva dalle circostanze.

baro. Lo salvò lo sport. Come atleta era squalificato, come giocatore di baseball e football americano era arruolabile. E si arruolò da en-

Nel 1913 il Worcester Telegram pubblicò la notizia che Thorpe non era da considerarsi un dilettante, perché aveva disputato qualche partita nel North Carolina nel 1909 e nel 1910. Era vero, aveva intascato qualche dollaro da semiprofessionista del baseball. E questo

trambe le parti, perché il diverso calendario lo consentiva. Nel 1915 indossò la maglia dei Canton Bulldogs, che lo pagavano 250 dollari a partita, una bella cifra per l’epoca. Vinse tre campionati e fu anche allenatore della squadra. A baseball cominciò nel 1913 coi New York Giants, poi passò ai Boston Braves. Col fo-

bastò perché gli ritirassero le due medaglie d’oro e lo

otball smise a 41 anni. Aveva già manifestato un de-

Da eroe nazionale a baro.

Lo salvò lo sport.

Come atleta era squalificato, come giocatore di baseball e football americano era arruolabile.

E si arruolò da entrambe le parti Thorpe riuscì ad arrivare tra i primi quattro in tutte e dieci le prove e superò Wieslander di oltre 700 punti. Quindi un’altra medaglia d’oro, più due doni speciali da parte del re di Svezia, Gustavo V e dallo zar di Russia, Nicola II.

LE STORIE DI MURA

bole per l’alcool, passò gli ultimi anni della sua vita da alcolizzato, vivendo in una roulotte a Lomita, in California, con la terza moglie, Patricia. Le due precedenti, Iva e Freeda, gli avevano dato 4 figli a testa. Gli fu sempre più difficile mantenere una famiglia numerosa, specie dopo

la Grande Crisi del ’29. Lavorò come comparsa in molti film western, spesso nella parte di un capotribù indiano, fu muratore, buttafuori di un night, marinaio.

Sempre più alcool e acciacchi, sempre meno dollari. Nel ’50

riuscì a pagare le spese di un ricovero in ospedale (tumore alla bocca) solo grazie a una colletta. Nel

già venduto i diritti alla Mgm nel ’31(per 1.500 dollari). Morì

1951 uscì un film sulla sua vita, Pelle di rame, interpretato da Burt Lancaster e diretto da Michael Curtiz.

Buon successo, ma Thorpe non ne ricavò nulla perché aveva

Protagonista anche da morto

d’infarto a 65 anni.

La famiglia, giustamente, chiedeva che Thorpe fosse seppellito in Oklahoma, dov’era nato, ma il governatore dell’Oklahoma negò il permesso. La vedova apprese che c’erano paesi e sconosciute cittadine ansiosi di ospitare morti illustri per attirare turisti. Scelse Mauch Chunk

e East Mauch Chunk, in Pennsylvania, che si fusero chiamandosi Jim Thorpe e in suo onore inaugurarono una statua e aprirono un museo. Le sue spoglie furono trasferite lì. E intanto continuava la battaglia giuridico-sportiva per riottenere le due medaglie di Stoccolma. Che vennero riconsegnate, in facsimile, ai figli di Thorpe nel gennaio 1983, a 70 anni dalla squalifica. Non fu tolto l’oro ai secondi classificati di Stoccolma,

Thorpe fu definito co-vincitore. Parte della famiglia, il figlio Jack in particolare, ha continuato a battersi per una sepoltura in Oklahoma: “Non ho niente contro la città che si chiama Jim Thorpe, ma certe cose non sono in vendita”. Nel 2013 la corte della Pennsylvania ha stabilito che Jim Thorpe debba restare a Jim Thorpe. E la Suprema corte degli Stati Uniti, cui era arrivata la pratica, ha deciso di non decidere e tutto rimarrà come prima.

L’ultimo e inappellabile giudizio è del 4 ottobre 2015.

Professionista involontario da vivo e involontario da morto: non era così lucente il sentiero. dicembre 2015-gennaio 2016 Scarp de’ tenis

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PIANI BASSI

Una saetta di speranza nei giorni della barbarie

di Paolo Brivio

Campane a distesa. Scioglietele, che stavolta è festa davvero. Natale? Sì, beh, naturalmente. En passant: dai piani bassi, auguri e un abbraccio à tout le monde! A cominciare da famigliari, amici e conoscenti dei Falcidiati. I nostri fratelli e sorelle –umani come noi, a qualunque piano della piramide sociale appartenessero –,

caduti per mano della barbarie senza futuro. I Falcidiati di

l’autore Paolo Brivio, 48 anni, si è appassionato ai giornali ai tempi dell’università.

E ha coniugato questa passione-professione con l’esplorazione dei “piani bassi” della nostra società. Direttore di Scarp dal 2005 al 2014, oggi fa il sindaco: pro tempore, perché rimane “giornalista sociale” in servizio permanente effettivo

Parigi. Del Medio Oriente. Di ogni dove si combattano guerre e si pratichino terrorismi senza senso.

Non fraintendete: la violenza armata è sempre senza senso. Ma lo è tanto più, quando si scaglia contro gli Inermi Innocenti. Senza nemmeno poter accampare una legittimazione ideale, per quanto pervertita. I terrorismi del passato, pur con tutto il loro carico di criminale crudeltà, colpivano simboli di istituzioni e poteri, dichiarando di voler riscattare classi sociali o popoli vessati. Si giustificavano,

piani bassi abbiamo già abbastanza problemi: faremmo volentieri

a meno di pazzie sanguinarie, da cui scaturiscono stati di emergenza, investimenti massicci in armamenti, esodi giganteschi di sradicati.

Tutte cose che complicano maledettamente la vita. A chi ne è vittima diretta. All’intera società. A noi che stiamo ai margini. E che siamo i primi a essere trascurati (se non criminalizzati), quando comunità e autorità hanno allarmi impellenti da tamponare.

Denominazione burocratica.

Però è un documento ben scritto, sistematico, proclamando di battersi per strategico, la libertà dei dominati, o l’inconcreto. clusione dei senza-diritti.

Stavolta, dai piani bassi, nelle In Italia abbiamo imprese dei seminatori di terrore un quadro certo, non riusciamo a scorgere che bestialità. Quale sarebbe la causa che finalmente, autorizza a massacrare persone che per chi vuole ascoltano musica, guardano una combattere partita, si mangiano un’omelette? A questi combattenti per conto di po- l’homelessness. teri (locali e globali) che si conten- Non tutto, dono supremazie geopolitiche regionali e business energetici lucro- di questi tempi, sissimi, vorremmo segnalare che ai è bestialità…

Federazione cruciale Però, siccome siamo testardamente ottimisti, oggi vogliamo fare festa.

Perché ogni tanto saettano, nel cielo plumbeo dell’attualità, energici segnali di speranza.

Uno di essi ci riguarda da vicino, a noi persone senza dimora. Ha una

denominazione burocratica (“Linee di indirizzo per il contrasto alla grave emarginazione adulta in Italia”). Ha una fonte governativa (ministero del lavoro e delle politiche sociali). Ha una genesi in cui un ruolo cruciale l’ha giocato la Federazione italiana organismi persone senza dimora (Fiopsd). Viene

presentato a Roma il 10 dicembre. Ed è un documento con tanti pregi: è ben scritto (dunque comprensibile al non specialista), sistematico (definisce il fenomeno, analizza risposte tradizionali e innovative, ragiona su utenti e operatori dei servizi, ribadisce diritti), strategico (oltre l’approccio da sempre emergenziale al problema), concreto (snocciola puntuali raccomandazioni operative).

Ecco, abbiamo un quadro certo, e moderno, per chi, nel nostro paese, vorrà fare politiche e azioni di lotta all’homelessness, accedendo a fondi pubblici. Uno strumento per superare lo spontaneismo generoso ma pasticcione. Per tessere

relazioni e percorsi d’inclusione. Con fatica, ogni giorno. Ma sul serio. Perché la violenza è repentina e brutale nel prendersi la scena.

Ma l’umanità, per fortuna, sa trovare mille strade per vanificarla. dicembre 2015-gennaio 2016 Scarp de’ tenis

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LA FOTO

REUTERS/Pascal Rossignol

scheda

La “giungla di Calais” è tra i più grandi campi di migranti d’Europa. A Calais ne vivono migliaia, che cercano di entrare nel Regno Unito: dormono per lo più in baracche, tende, senza accesso a servizi igienici e facendo affidamento sull’aiuto dei molti gruppi di volontari per cibo, vestiti e aiuto legale.

Un bambino siede in mezzo a donne provenienti da Etiopia ed Eritrea mentre pregano durante la messa celebrata in una chiesa improvvisata ne “la nuova giungla” vicino a Calais.

Circa 3 mila migranti vivono in un campo di fortuna, facendo del porto settentrionale francese una delle prime linee della più grave crisi migratoria mai avvenuta in Europa.

29.019 Sono gli eritrei sbarcati sulle coste italiane nei primi mesi del 2015.

1/1.000 In media l’Italia accoglie un rifugiato ogni 1.000 persone. La Svezia più di 11 ogni mille. Il Libano, al confine con la Siria, ospita circa 1.200.000 rifugiati pari a un quinto della popolazione

5.073.000 Gli stanieri residenti in Italia (Istat 2015)

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IN BREVE

europa Dopo Parigi pericolose semplificazioni di Enrico Panero La strage terroristica del 13 novembre a Parigi ha innescato una serie di assurde semplificazioni e strumentalizzazioni che mettono a rischio la già difficile politica dell’Ue in materia di asilo. Il ritrovamento sui luoghi degli attentati di un passaporto intestato a un richiedente asilo siriano, anche se falso o rubato, ha infatti scatenato i numerosi imprenditori politici della xenofobia attivi in tutta Europa, nel chiedere la chiusura delle frontiere e la fine di ogni programma di accoglienza dei profughi.

Consapevole dei rischi che l’emotività del momento potrebbe far correre al progetto europeo fondato sulla convivenza multiculturale, il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha subito sottolineato l’importanza di «non confondere i terroristi con i richiedenti asilo, con i migranti che hanno una buona ragione per bussare alle nostre porte; e non confondere coloro che hanno commesso queste atrocità con chi fugge dalla filosofia e mentalità che ispirano azioni come quelle di Parigi».

Così come il problema del terrorismo non si risolve uccidendo i terroristi ma eliminando le ragioni che li rendono tali, il problema delle migrazioni non si risolve chiudendo le frontiere ma affrontando le ragioni che le creano e alimentano. Insensato connettere le due questioni pensando di risolvere il problema del terrorismo chiudendo le frontiere, scaricando su un generico “altro” ogni responsabilità.

Il profugo è persona che fugge dai colpevoli fallimenti politici, a vari livelli, e dalla violenza estremista, per questo va supportato e non colpevolizzato.

Dal carcere di Opera il Calendario Poetico 2016

ma anche il simbolo di un ricongiungimento possibile dei Visibili con gli inVisibili di tutte le situazioni: quelli dietro le mura di un carcere ma anche di quelli che sono fuori, nella città. I testi del ca-

La poesia che nasce dal carcere è un quotidiano sforzo di ricucitura della propria esistenza lacerata fra rabbia, speranza,

lendario sono scritti dai detenuti del carcere di Milano-Opera e le foto sono donate dalla fotografa Margherita Lazzati che collabora al progetto da 4 anni. Il ri-

rimorsi, desideri, rimpianti, attese e, pur sempre, voglia di amare e di essere amati. Nasce dal laboratorio di scrittura creativa del carcere di massima sicurezza di Opera, il Calendario Poetico 2016, dedicato a Milano e soprattutto agli inVisibili. Ago, filo e nodo: fotografia di copertina del calendario

cavato della vendita permetterà ai detenuti di continuare nelle loro attività laboratoriali di letteratura e poesia. Edito da La vita felice, a offerta libera.

Info e ordinazioni www.lavitafelice.it

street art In Portogallo l’arte di strada è over 60 Chi l’ha detto che l’arte di strada deve essere solo giovane?

In Portogallo l’associazione Lata 65 ha abbattuto stereotipi e ha dato in mano agli over 65 bombolette, mascherine e guanti. A Lisbona in particolare Lata 65 ha coinvolto oltre 100 anziani in un progetto artistico dedicato a loro. Prima hanno fatto formazione in laboratori dove i giovani street artist hanno insegnato loro le diverse tecniche, hanno studiato la storia e le origini, recenti, dell’arte di strada e poi hanno avuto a disposizione gli spazi ad hoc per mettersi alla prova. In questo modo gli anziani hanno contribuito a migliorare l’aspetto delle zone più grigie e degradate della città. L'obiettivo principale di questo progetto è stato quello di aiutare le persone ad avvicinarsi a nuove forme d'arte contemporanea, a farle soprattutto divertire, ma anche ad abbattere i pregiudizi: spesso proprio gli anziani non amano la street art perché la confondono con le odiose scritte vandaliche che deturpano le nostre città.

on

off

Gli scacchi stanno per entrare nella scuola italiana.

Il Ministero dell’Istruzione ha fatto sapere che la “circolare scacchi” sta per essere inviata alle scuole italiane.

Il Ministero vuole introdurre un percorso omogeneo per far crescere il gioco in aula. Perché? Numerosi studi dimostrano che gli studenti che praticano gli scacchi migliorano il rendimento scolastico, soprattutto in matematica. E che questo gioco apre la mente e consolida il carattere perché insegna a perdere. In diversi Paesi il gioco è già entrato nelle aule, l’ultimo è la Spagna, e l’Unione Europea si è espressa a favore del gioco degli scacchi a scuola. Finora in Italia solo alcune scuole lo praticavano: il liceo scientifico sportivo di Rieti, Carlo Jucci, ad esempio, ha introdotto la materia nell’orario settimanale. Ma nei prossimi due anni il gioco entrerà di diritto nelle 350 scuole medie scelte dal Ministero per la sperimentazione.

Aumentano i minori stranieri non accompagnati che arrivano sulle coste italiane e allo stesso tempo si incrementa il numero di quelli che diventano irreperibili. Nel 2014 erano oltre 14 mila gli arrivi segnalati, di circa 4 mila non se ne sono avute più tracce. Secondo il rapporto sull’accoglienza di migranti e rifugiati in Italia, presentato dal Ministero dell’Interno, quest’anno le cose sono peggiorate. Al 31 agosto 2015 si è già superato, rispetto all’intero 2014, il numero dei minori arrivati in Italia (14.378 rispetto ai 14.243), ma è più alto anche il numero degli irreperibili: 5.434. Al 31 agosto 2015, al primo posto come presenze di minori in Italia, risultavano gli egiziani (1.975), seguiti dai minori albanesi (1.137), dagli eritrei (953). Tra gli irreperibili, invece, gli eritrei sono al primo posto. I relatori del rapporto hanno evidenziato la necessità di una gestione corretta dei minori, persone particolarmente vulnerabili da seguire con estrema attenzione.

Scacco matto alla matematica nelle aule italiane?

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Arrivano. E poi?

Sempre più minori irreperibili

[ pagine a cura di Daniela Palumbo ]

Un concorso per rompere il muro del silenzio

I Peanuts a WOW Spazio Fumetto di Milano Fino al 15 gennaio presso WOW Spazio Fumetto - Museo del fumetto, dell’illustrazione e dell’immagine animata di Milano sarà possibile visitare la mostra dedicata al gruppo di bambini più amato della storia del fumetto. Tavole originali di Charles Schulz, pannelli biografici, divertenti photoset, statue, installazioni multimediali, video, volumi, riviste, quotidiani d’epoca, gadget, giochi, documenti, comic books, manifesti cinematografici che raccontano un successo lungo sessantacinque anni. Il tutto per festeggiare l’anniversario della nascita dei Peanuts.

Info: www.museowow.it

pillole homeless Gli inglesi si prendono cura degli invisibili a Roma

mi riguarda Il tentativo di cambiare le regole della psichiatria

Padiglione 25 è il docufilm che prova a ripercorrere un’esperienza coraggiosa che avvenne nell’estate del 1975 quando un gruppo di infermieri del manicomio di Santa Maria della Pietà, di Roma, decise di autogestire uno dei padiglioni.

Gli infermieri scelsero il padiglione 25, lo arredarono e vi portarono i pazienti. La loro azione era ispirata alle nuove idee di Franco Basaglia e l’iniziativa aveva come obiettivo la definitiva dimissione dei degenti. L’esperienza durò quasi 2 anni: il gruppo originario era composto da 8 infermieri, prima della chiusura se ne contavano 14. I primi 12 mesi tutto il loro operato fu raccolto in un diario. E proprio dalla rilettura di quel diario è nato un libro pubblicato nel 1978 da Marsilio. Ora Massimiliano Carboni ha voluto raccontare la storia del Padiglione 25 anche attraverso le immagini, una ricostruzione scrupolosa che ripercorre un’esperienza incredibile di impegno civile. Claudia Demichelis, antropologa, firma con Carboni il docufilm.

Info www.padiglione25.it/perche-il-film/

Vogliamo darvi una mano, offrire piccoli gesti e farvi capire che non siete degli invisibili: è il testo del volantino distribuito a Roma da Mary Stuart Miller, una bella signora inglese di mezza età, davanti alla stazione Tiburtina. Mary è originaria di una piccola cittadina a sud di Londra. Da due anni vive a Roma e si è data una mission: soccorrere chi è in strada. Per farlo ha costruito dal nulla una rete di trenta volontari che durante la settimana si danno da fare per la raccolta fondi, la distribuzione dei pasti e dei vestiti davanti alle stazioni. Ha chiamato la sua rete Project Rome, ed è riuscita ad aiutare più di un centinaio di senzatetto. Italiani, ma anche rifugiati e donne incinte con situazioni familiari disagiate. Ma Mary ha un sogno: sul modello delle charity inglesi vorrebbe costruire un palazzo della solidarietà in cui possano essere donati abiti usati, oggetti in disuso e piccole somme in prestito per chi ne ha urgenza.

Fondazione Aiom (Associazione Italiana di Oncologia Medica) indice un concorso letterario dal titolo: Federica, le parole della vita, indirizzato ai malati, ai familiari dei pazienti e agli operatori sanitari del settore oncologico. Con questa iniziativa l’Aiom vuole rompere il muro del silenzio e incoraggiare tutti coloro che vivono, o hanno vissuto, direttamente o indirettamente, la malattia, a raccontarsi. Gli organizzatori hanno scelto di intitolare il concorso letterario a Federica, una giovane donna che ha combattuto fino all’ultimo momento, e fino all’ultimo momento ha continuato a sognare, scrivere e progettare il futuro. La condivisione degli stati d'animo e delle speranze può far sentire meno soli: da qui l’impegno dell’Aiom per ripetere ogni anno il concorso letterario cercando di dare voce a chi la malattia la vive dal di dentro. Fino al 31 gennaio 2016 sarà possibile inviare i propri scritti a premioletterariofederica@fondazioneaiom.it

La tecnologia ti accompagna quando fai tardi Si chiama Companion app ed è stata creata da cinque studenti dell’Università del Michigan. Consente a un amico o familiare di supervisionare in tempo reale un tragitto attraverso una mappa. E può lanciare un Sos anche alle forze dell'ordine. Companion app è un’applicazione gratuita per smartphone. Quando ci si mette in cammino si invia una richiesta “di accompagnamento” a uno dei numeri della rubrica. Il sistema funziona anche con i contatti che non hanno scaricato la app.

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IN BREVE

Andrea Pedrinelli racconta la canzone milanese e i suoi maestri, partendo da lontano fino ai giorni nostri

Fiabe di riso Le avventure di un chicco di riso in un libro e dvd Un nuovo lavoro per la bravissima e prolifica Claudia Ferraris, collaboratrice di Scarp de’ tenis.

Ha illustrato il libro “Fiabe di riso”, per bambini, con i testi di Mauro Ginestrone (Effedì Edizioni, 20 euro). La storia del chicco Lino con le sue mille avventure dentro e fuori le risaie è la storia del raccolto del riso e del lavoro contadino che c’è dietro i campi. I bambini sapranno apprezzare le illustrazioni di Claudia, semplici e poetiche, dense di colore e di magia.

La storia è tradotta in russo, inglese e in spagnolo. In allegato un dvd con bellissime animazioni. www.claudiaferraris.it

Il Bambin Gesù di Roma attiva uno sportello in aiuto dei genitori Il Bambin Gesù di Roma ha attivato uno sportello per aiutare le famiglie, non solo romane, con figli soggetti a disturbi del comportamento alimentare.

Si chiama: “Mio figlio non mangia” ed è uno sportello telematico messo a disposizione dei genitori e volto a sviluppare un percorso riabilitativo del paziente attraverso un corretto e consapevole rapporto con il cibo. Previsto anche un gruppo chiuso su Facebook, nel quale le famiglie condivideranno le proprie esperienze con il nutrizionista, e infine un profilo Facebook ufficiale dell'ospedale che comprende un appuntamento a cadenza quindicinale con gli specialisti. miofigliononmangia@opbg.net

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CINQUE DOMANDE

La canzone a Milano da Maria Monti a Jannacci di Daniela Palumbo

Personaggio poliedrico Andrea Pedrinelli. Critico musicale, scrittore, attore, autore, giornalista. Che altro? Innamorato della canzone d’autore, di Milano e di Enzo Jannacci.

Ultimamente è stato più che mai prolifico: è appena uscito per Hoepli, La canzone a Milano, sul quale abbiamo chiacchierato con lui. Sempre da poco, insieme a Susanna Parigi è uscito anche il libro Il suono e l’invisibile, edizioni Infinito. Infine, per Giunti, Universo Zero, il romanzo di Renato.

Dalle canzoni di strada alle filastrocche fino alle musiche colte e impegnate di un Vecchioni o Jannacci. Quali sono le peculiarità della canzone milanese?

La canzone milanese è soprattutto contaminazione, o forse direi meglio summa, di più generi. Come la città che ha attraversato molte dominazioni e poi dato spazio e voce a emigrazioni, così la canzone di Milano contiene al proprio interno non solo il genere canzone in sé e il canto popolare, ma anche il teatro impegnato, il cabaret, il jazz.

A Jannacci, che definisci maestro, hai dedicato un capitolo intero. Non possiamo che essere d’accordo. Ma parlaci di lui come critico.

Enzo Jannacci ha prima “creato” la canzone moderna in lingua milanese, poi ha cantato Milano in italiano. Ha saputo dare voce alla tradizione e portarla

nella modernità; ha fatto conoscere Milano in tutto il paese. Era poi un primattore nello spettacolo: nel cabaret, nel teatro impegnato, suonando jazz, in televisione, e anche al cinema. Era persino un talent-scout! Jannacci poi “è” Milano anche per come l’ha vissuta, da uomo, medico, benefattore. Se poi spostiamo tutto sul piano nazionale, a mio avviso arriva ai livelli di Gaber e De André, se pensiamo che lui scriveva tutto da solo, senza un Luporini o un Mauro Pagani. E guardiamo come ha vissuto. Un artista che, sul palco, cantava “gli ultimi” e subito dopo correva al pronto soccorso come medico.

Mi sembra proprio che la sua opera sia stata una grande espressione di coerenza.

Molte anche le donne di cui parli. E hanno avuto ruoli importanti nella canzone milanese.

Ce le racconti?

Milly è stata la voce vera di Milano. Una artista immensa, poliedrica, molto colta. Maria Monti ha dato il via alla ricerca popolare e forse è stata la prima cantautrice italiana del dopoguerra. Ornella Vanoni ha dato voce alla canzone popolare e allo stesso tempo colta, e poi Milva raccogliendone in qualche modo il testimone l’ha espressa all’ennesima potenza nel mondo. E arriviamo ad Andrea Mirò, una delle migliori cantautrici degli ultimi quindici anni e io penso anche del prossimo futuro. Senza dimenticare Wanda Osiris, la prima diva anche della canzone, Sandra Mondaini, Liliana Feldmann, Giusy Ferreri o Malika Ayane, e ovviamente Lucia Mannucci. Che non era solo un quarto dei Cetra, era ben di più.

IN BREVE

Aiutaci ad aiutare. Riparte la campagna di aiuto concreto

La Cooperativa di commercio equo e solidale Chico Mendes Altromercato, in collaborazione con alcune delle piu ̀ importanti realta ̀ milanesi di cooperazione sociale - il Consorzio Farsi Prossimo, il Consorzio SIS e la Cooperativa sociale La Strada - ripropongono Aiutaci ad Aiutare: un doppio gesto di solidarietà per il Natale. Con una spesa di prodotti del commercio equo nelle Botteghe Altromercato della cooperativa Chico Mendes o al Banco di Garabombo, sara ̀ possibile non solo so-

stenere le piccole imprese fair trade, ma anche donare uno o piu ̀ di questi prodotti a persone in grave difficolta ̀ economica e sociale che abitano nella nostra citta ̀.

I partner dell’iniziativa, infatti, da anni aiutano famiglie italiane e straniere, persone svantaggiate e profughi di guerra fornendo accoglienza, cibo e assistenza.

I prodotti donati, saranno distribuiti dalle Cooperative Sociali partner direttamente alle

persone piu ̀ in difficolta ̀, tra le quali sono state selezionate tre categorie in particolare: mamme con bambini; anziani soli; adulti in situazione di emergenza abitativa. Un occhio ai numeri: sono 78 le madri (con 149 bambini) ospitate in comunita ̀ nel 2014 a causa di sfratto per morosita ̀ incolpevole.

Sono circa 7 mila gli anziani fragili, gli over 75 che vivono da soli e con problemi di salute. Sono 8.155 gli inquilini delle case popolari seguiti dai custodi sociali. A Milano circa mille persone all’anno, in condizioni di fragilita ̀, necessitano di un alloggio di emergenza o temporaneo. Nel 2013 a Milano sono state 1.900 le richieste di accoglienza di nuclei famigliari con minori.

Una chiavetta usb per rileggere in musica la storia d’Italia Il docente, scrittore e performer Claudio Sottocornola, bergamasco, autore di lezioni-concerto che affrontano la Storia italiana a partire dalla canzone pop, rock e d’autore, ha pubblicato su chiavetta usb sette ore di live con gli studenti e un archivio di articoli, immagini, relazioni degli alunni sul rapporto fra musica popolare e società italiana. I live sono stati registrati nel 2o11. Una notte in Italia è una trilogia ora a disposizione di tutti (può essere richiesta a info@cld-claudeproductions.com) dedicata all'identità culturale nazionale, celebrata in occasione dei 150 anni di Unità d'Italia.

In queste lezioni-concerto il “filosofo del pop” ha interpretato alcuni brani memorabili della nostra storia musicale. Caratteristica del docente bergamasco è il coinvolgimento attivo degli allievi che interagiscono con la lezione concerto attraverso musica, danza, lettura, recitazione, diventando protagonisti di una didattica alternativa e performativa dal sapore innovativo.

Info aiutaciadaiutare.chicomendes.it

LA STRISCIA

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LE DRITTE DI YAMADA

Novella degli scacchi Una partita che vale la vita

Avete presente i ponti di passeggiata delle navi dove si sosta(va) imbacuccati sulle deckchairs a guardare lo struscio dei passeggeri?

Vi invito proprio lì, su un grande piroscafo che ha appena lasciato New York alla volta di Buenos Aires. Nostro immaginario

vicino sul ponte è lo scrittore Stefan Zweig, e la Novella degli Scacchi è il suo gioiello di cui vi scrivo, l’ultimo suo libro pubblicato nel 1942, anno in cui si tolse la vita. Di origine ebrea, Zweig era in fuga negli anni dell’ascesa al potere di Hitler. I suoi libri, che nel decennio dai Venti ai Trenta avevano conosciuto successo e grandi tirature, nel 1933 venivano bruciati a Berlino. Nel 1941 lui e la moglie, Lotte Altmann, si trasferirono in Brasile, a Petrópolis: lì, contemporaneamente, lavorò, da ultimo, al suo memoir – Il mondo di ieri – e appunto alla Novella degli scacchi.

Che comincia – andando alla trama – con il bailamme degli ultimi istanti prima che il piroscafo salpi: gente che scende e sale, valigie, fiori, agitar di mani.

Il narratore è sul ponte con un amico quando un flash fa loro supporre di avere a bordo una celebrità: difatti trattasi del campione mondiale di scacchi Mirko Czentovic, in viaggio verso nuovi trionfi argentini. Avere un campione a portata di mano e volerci giocare contro, per l’Io narrante diventa – nei dodici giorni di navigazione da ingannare – un’os-

Il narratore è sul ponte con un amico quando un flash fa loro supporre di aver a bordo una celebrità: trattasi del campione mondiale di scacchi Mirko Czentovic, in viaggio verso nuovi trionfi argentini

il libro Novella degli scacchi di Stefan Zweig

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Filololò è una ragazza con un cervello molto speciale, che vede poco, non sa leggere né camminare da sola, ma inventa frasi surreali che sanno di poesia, e sa a memoria centinaia di brani musicali. Due voci, quelle della madre e del padre, fanno canto e controcanto alla storia straordinaria di Filololò che rema nell’aria.

sessionante priorità. Comincia dunque l’appostamento per avvicinare il Czentovic che alla fine acconsentirà a sfidare (per la cifra di 250 dollari a partita) tutti gli altri amanti degli scacchi riuniti in un’unica squadra nella sala fumatori. La partita comincia e tra gli amateursfa capolino un uomo che il narratore aveva già notato sul ponte per via del pallore del viso «incorniciato alle tempie dai capelli d’un bianco accecante che dava la sensazione che quell’uomo fosse invecchiato di colpo».

Quell’uomo, Dr.B., sarà fondamentale per la sorte della seconda partita degli amateurs contro il campione. Non rivelerei altro della storia. Zweig era un appassionato di psicologia, amico intimo di Freud. Questo per bisbigliarvi che la meraviglia di questo

Paolo Ghezzi e Emanuela Artini Filololò rema nell’aria Erickson edizioni, euro 15

Alessandra sta con gli invisibili L’autore riscopre Alessandra Massini Ravizza a cento anni dalla sua morte. Alessandra era milanese, donna concreta che ha condotto nella sua vita una lotta incessante in aiuto dei disperati. Ha costruito dal nulla istituti di cura, di educazione e di assistenza per i diseredati: prostitute, ladri e senza tetto.

racconto è tutta nella descrizione scrupolosa dei tipi psicologici di Czentovic, Dr.B e del narratore: vivono davvero nella nostra lettura.

Ottuso, gretto, incapace di giocare a memoria una sola partita, avido, autoreferenziale, inerte intellettualmente e borioso, lo slavo; homo obscurissimus, dotato d’inventiva e forza immaginativa (da riuscire a mandare a memoria le 150 partite più famose trovate dentro un compendio di scacchi che gli farà salva la vita ma rovinata la mente) l’austriaco, in balia degli eventi della Storia cattiva dopo l’Anschluss, l’annessione dell’Austria alla Germania. Svelo solo che siederanno di fronte – prima partita reale con un avversario, per Dr.B., una delle tante partite, per Czentovic – occhi negli occhi, mentre la nave va.

A cura di Giuliana Nuvoli e Claudio A. Colombo Alessandrina Ravizza La Signora dei Disperati Raccolto edizioni, euro 15

Una storia fatta di aria

[ a cura di Daniela Palumbo ]

testo di Yamada

Una ragazzina speciale

Trentatrè lezioni di volo tenute da Chicca Gagliardi, gagliarda scrittrice che ama Milano e la poesia. Il poeta dell'aria del libro si rivolge direttamente al lettore, lo invita a sedersi al suo fianco sul cornicione. A trovare il proprio modo di cadere o di volare. Nella storia ci sono tante trame, gesti e parole interessanti.

Di Bruno Munari, Emily Dickinson, Marina Cvetaeva.

Chicca Gagliardo Il poeta dell'aria Hacca edizioni, euro 15

VISIONI

Per 14 anni il gruppo composto da sei ragazzi e una bambina ha avuto come unico modo per comunicare con l’esterno e vedere il mondo la visione di film in tv

Papa Francesco, al servizio della Chiesa Daniele Luchetti mette in scena Francesco, il Papa argentino che vuole cambiare la Chiesa.

Nessuno sa se riuscirà nel suo intento. Il racconto si concentra sulla giovinezza di Francesco e sugli anni della maturità, rievocando un papa Bergoglio schietto e pieno di umanità, come siamo abituati a conoscerlo.

The Wolfpack Un branco di lupi

Bhagavan, Govinda, Narayana, Mukunda, Krisna, Jagadesh e la piccola Visnu amano il cinema. Quello di Quentin Tarantino, in particolare, lo adorano, lo divorano e appena hanno un attimo di tempo libero cercano di impararne a memoria le sequenze preferite. Mostrano i copioni dei film trascritti a mano pazientemente, costruiscono pistole di cartone con le confezioni dei fiocchi d’avena e improvvisano nel corridoio del loro appartamento le scene più truculente di film come “Le iene” o “Pulp fiction”. Sono sempre insieme. Ok, ma a scuola non vanno mai?

Ecco la famiglia Angulo che vede film a ripetizione, costruisce strani oggetti per ripetere le scene preferite e non esce mai di casa

Questa la domanda che sorge spontanea guardando il curioso progetto cinematografico di Crystal Moselle, quasi debuttante e già vincitrice dell’ultimo Sundance Film Festival. In realtà, la lezione che ci regala con Wolfpack è di andare sempre alla ricerca di storie per quanto paradossali possano sembrare. Gli Angulo brothers, qui protagonisti, non escono mai, ma proprio mai da un appartamento nel Lower East Side a Manhattan. In tutto il 2009, ricorda uno dei ragazzi, non hanno mai

il film The Wolfpack Un film di Crystal Moselle.

Con Mukunda Angulo, Bhagavan Angulo, Jagadisa Angulo, Krsna Angulo, Narayana Angulo. Documentario, durata 80 min, USA 2015

Un cast internazionale per A perfect day Il difficile mestiere dell’operatore umanitario. Sempre sul filo del pericolo. Il film, produzione spagnola con Benicio Del Toro e Tim Robbins, racconta di un gruppo di persone che si trova a lavorare in una zona di guerra.

Hanno opinioni diverse sul loro lavoro e sul luogo in cui si trovano. Tutti in cerca di se stessi.

L’unica certezza è che a volte si può perdere di vista il destino e la storia personale di una famiglia costretta a una vita da reclusa. Per fortuna per loro tutto cambia nel 2010, quando Mukunda, allora poco meno che sedicenne, indossa la maschera di Michael Myers, il protagonista della saga horror Halloween di John Carpenter, altro regista noto al Wolfpack, ed esce di casa. Oltre a passanti spaventati, ben presto sulla sua strada incontrerà un assistente sociale, un terapista e, finalmente, qualcuno sensibile alle strane abitudini della famiglia Angulo. Da

quel giorno anche questi ragazzi avranno diritto a vestiti della taglia giusta, un bagno in mare e, finalmente, un film su uno schermo gigantesco.

Ovviamente, al cinema si va tutti insieme. In branco.

Leone nel Basilico Viaggio in mezzo ai vinti

[ a cura di Daniela Palumbo ]

di Sandro Paté

messo la testa fuori casa. Gli anni successivi, poco più.

La scelta di farli crescere lontano da tutto e da tutti è presa dai genitori, Susanne e Oscar, forse impauriti da ciò che potrebbe accadere al gruppo di figli, una volta in giro per New York. Forse per colpa di mal assimilati precetti del movimento Hare Krishna di cui tutta la famiglia è seguace. O forse, non c’è una ragione chiara.

Maria Celeste (Ida di Benedetto) sola in una Roma deserta a metà agosto, si ritroverà a salvare la vita di Leone, un bambino di pochi mesi abbandonato tra le sue braccia da una madre stravagante. Il regista Leone Pomponucci inizia così a raccontare la solitudine e l’emarginazione di due esseri umani abbandonati entrambi.

Il realismo cinico del tema si riscatta con la poesia e l’ironia.

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Richard Gere con Oren Moverman durante l’incontro di presentazione del loro nuovo film Time Out Of Mind

Richard Gere « I venditori dei giornali di strada?

Sono degli eroi» a cura della redazione di One Step Away - giornale di strada di Philadelphia

La star americana parla con Jerry Tucker, venditore di un giornale di strada, di ciò che ha imparato interpretando la parte di un clochard nel suo nuovo film, Time Out of Mind.

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Richard Gere si confida con One Step Away, streetmagazine di Philadelphia, e loda il lavoro dei giornali di strada, definendo “eroi” i loro venditori. Succede a Philadelphia, dove Gere, per promuovere il suo nuovo film, Time Out of Mind, in cui interpreta un senzatetto di nome George che vive sulle strade di New York, ha partecipato a una proiezione privata per organizzazioni non governative che lavorano con i senzatetto di Philadelphia. «Penso che queste persone siano eroi, veri e propri sopravvissuti. I vostri venditori sono là fuori, e per farlo hanno compiuto un gesto eroico. Si sono tirati fuori da un abisso molto profondo, e non lo hanno fatto da soli». Tra il pubblico c’è Jerry Tucker, venditore di One Step Away. Con il quale, la star

hollywoodiana, si apre.

Nel suo ultimo film, Time Out of Mind, Gere interpreta un uomo che fatica a lasciarsi alle spalle la vita di strada e a ristabilire un rapporto con la figlia dalla quale si è allontanato.

«Abbiamo prestato la massima cura e attenzione, dedicandoci anima e corpo a questo film –, racconta a Jerry –. Sono profondamente, profondamente orgoglioso di questo film.

Penso che racconti una storia che umanizza la vita di strada fino a farci identificare con i senzatetto a un livello molto più profondo e che onora le persone che, per qualsiasi motivo, si ritrovano a vivere in strada: il motivo non è solo uno, vi è una miriade di motivi per cui qualcuno potrebbe perdere tutto e ritrovarsi in strada. Lo ripeto sempre: il nostro desiderio più grande è entrare in contatto con quel qualcosa di prezioso e magnifico che è dentro di noi.

Tuttavia, siamo esseri sociali: far parte di una comunità di persone che riconosce il nostro valore è estremamente importante per tutti noi».

George, il personaggio interpretato da Gere, cerca rifugio al Bellevue Hospital, un centro di accoglienza di Manhattan per uomini senza fissa dimora.

Stringe amicizia con Dixon, un altro ospite del centro interpretato da Ben Vereen, che lo aiuta nel tentativo di recuperare il rapporto con la figlia.

«La mia speranza è quella di ritrarre esseri umani», ha affermato Gere sul modo in cui sono ritratti i due personaggi principali del film.

Il tema centrale del film è la lotta di George: la lotta contro l’invisibilità, la lotta per la sopravvivenza in strada dopo essere stato cacciato dall’edificio

Interpretare un homeless è stata un’esperienza profonda e disorientante.

Una lezione profonda che spero di trasmettere anche al pubblico

abbandonato che occupava abusivamente e la lotta per instaurare un rapporto con la sua famiglia. La trama, come sottolinea il regista Moverman, è la condizione dell’essere senzatetto.

E Gere racconta a Jerry e Jeff, venditori di One Step Away come l’esperienza sulla strada lo abbia toccato molto. «È stata un’esperienza profonda e disorientante», ha affermato. «Se persino un personaggio ricco, famoso e benvisto come Richard Gere può starsene fermo a un incrocio ed essere trattato come immondizia... È una lezione profonda per me personalmente, ma penso dovrebbe esserlo anche per il pubblico. Ha cambiato radicalmente la mia opinione di me stesso e del tessuto sociale che mi circonda».

Il film eccelle nel ritrarre la distruzione e la condizione fisica della vita in strada, ma Gere si spinge oltre, mostrando fedelmente la più ampia devastazione mentale ed emotiva del ritrovarsi nell’instabilità e nel circolo vizioso dell’essere senzatetto. Il film mostra inoltre le difficoltà che affliggono George quando cerca di soddisfare le sue esigenze fondamentali nelle interazioni con il sistema della vita in strada: un sistema che spesso aliena ulteriormente quegli stessi individui che tenta di aiutare.

«Non ci sono cattivi in questo film», afferma Gere. «Ci so-

L’INCONTRO

Richard Gere con Jerry Tucker, venditore del giornale di strada One Step Away

no persone che si comportano male, persone che sono stressate al limite delle loro capacità e impreparate ad affrontare ciò che stanno vivendo, intrappolate nella burocrazia e nella follia, ma siamo tutti, profondamente, sulla stessa barca».

Il pubblico può vedere lo sfinimento e la frustrazione sul volto di Gere nel corso del film.

In una scena, chiede un letto in un rifugio per senzatetto, ma l’assistente sociale lo interroga prima con una serie infinita di domande nonostante sia chia-

scheda Richard Gere è da tempo propugnatore delle causa a difesa dei senzatetto, membo dell’associazione Coalition for the homeless di New York e sostenitore del movimento dei giornali di strada.

A Philadelphia per presentare il suo nuovo film Time out of mind, film presentato lo scorso anno al Festival di Toronto, ha incontrato Jerry Tucker, venditore di One Step Away, il giornale di strada di Philadelphia che, come Scarp de’ tenis, aderisce a Insp, il network internazionale dei giornali di strada.

Per conoscere le attività di One Step Away e di Insp: www.osaphilly.com www.insp.ngo

ramente esausto e voglia solo dormire. «Mi ricorda quello che ho passato io, è proprio così», conferma Jerry di One Step Away. «Ricordo quando ero nel centro di accoglienza, ci facevano dormire in otto in una stanza, proprio come nel film. Non c’era spazio per respirare. Non era una bella situazione, e se rimanevi nel centro, rimanevi intrappolato. È per questo che sono diventato un venditore di One Step Away».

Time Out of Mind si conclude con una nota di speranza per George, il personaggio interpretato da Gere. Nella vita reale, storie come quella di Jerry sono una testimonianza del fatto che la vita di strada sia una situazione da cui è possibile uscire, a prescindere dalle difficoltà affrontate per riuscirci.

Jerry vuole dare questo consiglio a chi, attualmente, si ritrova a vivere in strada: «Se posso farcela io, potete farcela anche voi. Se lo si vuole, c’è sempre una possibilità».

Traduzione dall’inglese all’italiano a cura di Sara Maghini Per gentile concessione di Insp News Service www.insp.ngo/ One Step Away

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INCHIESTA

Nel 2014, a fronte di 170 mila arrivi sulle nostre coste, le domande di asilo politico son state 65 mila.

Quest’anno, a giugno, si contavano 60 mila persone sbarcate e circa 25 mila richieste: solo il 49 per cento ha ottenuto qualche forma di protezione internazionale

Rifugiati?

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A casa nostra Le nuove modalità di prima accoglienza dei profughi sulle coste italiane: con i nuovi hotspot all’arrivo di un barcone una task force europea deve identificare e registrare chi sbarca, distinguendo tra chi può avere lo status di rifugiato e chi deve essere rimpatriato in base al Paese d’origine. In barba alla convenzione di Ginevra. Intanto, però, si moltiplicano le buone pratiche di accoglienza su tutto il territorio nazionale. Non profughi ma esseri umani. Da integrare

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INCHIESTA

di Alberto Rizzardi

Nel ricco vocabolario della migrazione da qualche tempo è entrato un nuovo termine: hotspot, ovvero “punto caldo”. Nei mesi scorsi l’Europa, nel pieno dell’ennesima ondata migratoria, ha cercato di recuperare il corposo ritardo (e un colpevole lassismo) introducendo il sistema delle quote, cioè il trasferimento e la redistribuzione dei migranti che arrivano in Europa nei vari Paesi membri.

Punto centrale di questa nuova strategia, su cui molti Paesi stanno già facendo in parte marcia indietro, è la prima accoglienza dei migranti nei luoghi in cui si registra il maggior numero di arrivi via mare, Italia e Grecia. Obiettivo: identificare e registrare i migranti, distinguendo tra richiedenti asilo e irregolari, per

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permettere ai primi di entrare nel programma di relocation. In buona sostanza, strutture già esistenti, come quella di Lampedusa, vengono ampliate per diventare hotspot (sei quelli teoricamente previsti in Italia), dove apposite task forceformate dalla Polizia italiana e funzionari delle agenzie europee Europol, Eurojust, Frontex ed Easo devono procedere, entro 48/72 ore dallo sbarco, a operazioni di screening sanitario, preidentificazione, accertamento di vulnerabilità e fotosegnalazione.

«Di hotspotsi parlava già qualche anno fa – precisa Valerio Landri, direttore della Caritas di Agrigento – come tentativo di suddividere tra tutti i Paesi europei le responsabilità dell’accoglienza che il regolamento di Dublino attribuiva solo ai luoghi di frontiera».

Insomma, sulla carta una buona idea, ma poi in concreto le cose

sono ben diverse e i nodi sono già venuti al pettine.

Una nuova procedura La nuova procedura, ufficialmente attiva da settembre, è entrata in vigore a singhiozzo e in Italia si naviga ancora a vista: appena due al momento gli hotspot più o meno operativi (Lampedusa e Porto Empedocle); gli altri (Pozzallo, Trapani, Taranto e Augusta) dovrebbero aprire nei prossimi mesi. Quando non si sa. All’arrivo di un barcone con centinaia di migranti, la taskforce europea deve identificare e registrare chi sbarca, distinguendo tra chi può avere lo status di rifugiato e chi deve essere rimpatriato. La procedura prevede che chi ha diritto a restare perché proveniente da un Paese che l’Europa riconosce come non sicuro, stia nei cosiddetti “hotspotchiusi”, come a Lampedusa, per

IL PROGETTO

“Rifugiato a casa mia”, storie belle e difficili di accoglienza

A sinistra il momento delle identificazioni dei profughi subito dopo lo sbarco.

Con l’introduzione di nuovi hotspot la “cernita” tra chi ha diritto a chiedere asilo e chi no, dovrebbe avvenire subito, formulando un questionario in inglese

poi essere trasferito in “hotspot aperti” nel nord Italia (che oggi non esistono ancora) e infine essere ricollocato in Europa.

«Chi, invece, non proviene da un “Paese terzo non sicuro” – continua Landri – dovrebbe essere inserito nei Cie ma, poiché i centri sono già pieni, viene dato un foglio di respingimento alla frontiera di Fiumicino che lo invita a ritornarsene in patria».

Stop: niente informazioni aggiuntive, niente mezzi, nessun sostegno. E, soprattutto, le valutazioni, frettolose e sommarie, paiono basarsi solo sull’area di provenienza dei migranti, senza tener conto delle storie individuali alle spalle, in barba alle convenzioni, su tutte quella di Ginevra «che – ricorda Landri – riconosce un istituto ben preciso: il diritto di protezione per persone che

numeri Oltre 170 mila persone arrivate via mare. Con un dato che ha superato la somma dei tre precedenti, il 2014 è stato un anno da record per gli sbarchi in Italia.

E il 2015 sembra assestarsi su cifre simili. Numeri, però, che impallidiscono se confrontati con quelli della Grecia. Da gennaio a metà novembre, in Italia sono sbarcate 142 mila persone, sulle isole elleniche oltre 600 mila. Nel 2014, a fronte dei già citati 170 mila arrivi, le domande di asilo politico son state 65 mila. Quest’anno, a giugno, si contavano 60 mila persone sbarcate e circa 25 mila richieste.

Ad andare oltre sono somali, siriani e, soprattutto, eritrei, che sono la prima nazionalità.

A chiede asilo, invece, sono nigeriani, gambiani, senegalesi, pakistani e maliani.

Ma con quali esiti?

Nel primo semestre del 2015, il 49 per cento dei richiedenti asilo ha ottenuto una qualche forma di protezione internazionale. Nel 2014, il dato era più alto e si attestava intorno al 60 per cento.

Matteo Di Mattei ha 37 anni e la moglie, Alice, 36. Hanno due bambine di 8 e 5 anni. La loro è una storia familiare di prossimità.

Hanno iniziato dal lavoro dando vita, a Busto Arsizio, a una Cooperativa società agricola, in Cascina Burattana, che realizza percorsi di reinserimento sociale attraverso il lavoro, per persone con disagio sociale. Sullo stesso terrorio opera anche Casa Onesimo che lavora anch’essa sul disagio. Qui la famiglia Di Mattei ha conosciuto Mortaza, un ragazzo che oggi ha 29 anni, fuggito dalla guerra afghana, al quale l’Italia ha riconosciuto lo status di rifugiato tre anni fa. In quei giorni Mortaza aveva concluso a Casa Onesimo il ciclo di borsa lavoro e i responsabili parlarono con Matteo e Alice per capire se volessero aderire al progetto Caritas “ Rifugiati a Casa Mia”, offrendo ospitalità e lavoro al ragazzo.

«Abbiamo deciso subito – racconta Matteo – di aderire al progetto. Mortaza ha una storia familiare drammatica. Ha perso la moglie e i figli nella guerra. Aveva bisogno di vivere in un contesto familiare, dove si sentisse a casa».

Mortaza si è stabilito subito in Cascina, insieme alla famiglia Di Mattei. Pasti e uscite di festa condivisi, ma anche il quotidiano passato insieme, cercando di far elaborare a Mortaza la tragedia che aveva sopportato. Ha funzionato. Piano piano il ragazzo era diventato uno di famiglia. Anche le bambine si erano affezionate al nuovo ospite.

«Quando Mortaza è venuto ad abitare con noi – è sempre Matteo che racconta – nostra figlia di 5 anni era troppo piccola per capire, ma alla più grande abbiamo spiegato che questa persona aveva bisogno di aiuto perché era stato sfortunato nella sua vita.

Va detto che per le mie figlie tutto questo è la normalità, Mortaza non è stato l’unico “estraneo” con il quale si sono relazionate in casa nostra. Certamente il programma Caritas richiedeva una convivenza molto stretta, più concreta, anche perché l’integrazione della persona nel tessuto sociale dove vive e lavora è l’obiettivo del progetto».

Fino a un paio di mesi fa, Mortaza faceva progetti per il futuro.

«Immaginava di compare un’automobile, una casa, cominciare un’esistenza nuova, dopo tanta sofferenza. Era bello sentirlo parlare di sogni. Poi all’improvviso qualcosa è cambiato, si è come spezzato. Mortaza ha cominciato a rivivere la rabbia di quello che gli è accaduto. Oggi ce l’ha con tutto il mondo. È caduto in una depressione a tratti profonda. Noi gli siamo vicini e lui continua a vivere con noi. Ma rifiuta ogni contatto umano e sociale e non riesce a farsi aiutare. Non vuole reagire. Abbiamo provato a dirgli che ha bisogno di un percorso terapeutico, ma non ne vuole sentire parlare. Noi stiamo aspettando, sperando che si lasci aiutare».

Pur con le grandi difficoltà di questi ultimi mesi, quando si chiede a Matteo cosa è importante sapere per poter gestire un’ accoglienza così profonda, risponde: «Non ci si deve affidare solo al buon cuore nell'accoglienza. I problemi ci sono, una famiglia viene destabilizzata, niente deve ritenersi scontato. Occorre una lunga e meditata formazione, che noi abbiamo affrontato con il Consorzio Farsi Prossimo. È molto utile anche la condivisione con le famiglie che hanno già accolto per non sentirsi soli se insorgono problemi. Il bene non si improvvisa anche perché si può far del male alla propria famiglia, ma anche alla persona che viene accolta».

Daniela Palumbo dicembre 2015-gennaio 2016 Scarp de’ tenis

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INCHIESTA dimostrano di avere una storia di persecuzione personale nel Paese d’origine».

Non manca qualche tranello fetente, emerso dalle prime testimonianze. Ad alcuni migranti pare sia stato chiesto se venissero in Italia per trovare lavoro o per chiedere asilo: facile intuire cos’abbiano scelto, non sapendo molti neanche cosa sia l’asilo politico. Ma, così facendo, si sono auto preclusi la possibilità di richiedere protezione. Non è detto, poi, che i migranti capiscano il contenuto del provvedimento emesso nei loro confronti. Cosa prevede la direttiva? Che, in mancanza di interpreti e mediatori, il provvedimento venga raccontato all’interessato in inglese. Che l’interessato parli o meno inglese poco importa.

Proprio su queste contraddizioni si basano i ricorsi che in queste settimane vengono portati avanti, comunque una piccolissima parte rispetto al numero di arrivi.

Respingimenti anomali «Assistiamo ad anomali respingimenti differiti di massa – spiega Chiara Peri del Centro Astalli – che riguardano nazionalità che fino a un paio di mesi fa erano quelle dei richiedenti asilo (Nigeria, Mali, Gambia, Costa d’Avorio). È una fase di assoluta confusione nell’applicazione della procedura e l’approccio hotspot in Italia non ha ancora una sua declinazione legale. La preoccupazione è massima: tante persone, potenziali richiedenti asilo, vengono lasciate sole sul territorio in modo troppo tempestivo e con procedure poco trasparenti».

Il rischio concreto è che centinaia di migranti vengano buttati sul territorio nazionale, uscendo dal monitoraggio e dall’accoglienza fin qui garantita prettamente dal privato sociale, messo ancora una volta a dura prova. Una fase opaca ed enigmatica che rischia di creare una pericolosa distorsione nelle procedure d’accoglienza che l’Italia aveva faticosamente maturato negli anni.

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Foto di profughi per richiedenti asilo, volontari, operatori, parrocco e sindaco di Cesano Maderno.

Un esempio virtuso di accoglienza

A Cesano Maderno l’accoglienza è di casa di Ettore Sutti

Da oltre un anno 24 ragazzi nigeriani sono ospiti della comunità locale.

Che si è “scoperta” più accogliente

Una nuova casa. E una comunità accogliente capace di far generare germogli di speranza. A questo pensava don Flavio Riva, parroco della comunità pastorale Pentecoste di Cesano Maderno (provincia Monza e Brianza) quando, grazie al supporto dei parrocchiani, nel settembre del 2014 ha creato in via Delle Rose, negli spazi dell’ex oratorio femminile, “Il giardino della Carità”, struttura che attualmente ospita 24 ragazzi (ai 16 iniziali se ne sono aggiunti altri 8) richiedenti asilo provenienti dalla Nigeria.

«Il giardino della Carità spiega don Flavio – è diventato un luogo di accoglienza e di dialogo tra i ragazzi, i volontari e gli operatori della cooperativa Comunità Brianza». L’ex oratorio femminile è infatti un luogo

17o mila 65 mila

60 mila

le persone arrivate via mare sulle coste italiane durante il 2014

le persone arrivate via mare in Italia da gennaio a giugno 2015

le domande di asilo politico presentate in Italia nel 2014

LA DENUNCIA

L’avvocato: «Illegale distinguere in base al Paese di provenienza» «Alle persone giunte alla Caritas di Roma da Agrigento con in mano il foglio di respingimento ho suggerito di presentare domanda di protezione, perché il provvedimento emesso non lo impedisce». Così l’avvocata Caterina Boca, esperta di protezione internazionale e immigrazione.

Insomma, il provvedimento è impugnabile?

So che ci sono stati già dei ricorsi, anche se è difficile quantificarne il numero e conoscerne l’esito. Ma la questione è complessa perché i ricorsi contro i provvedimenti emessi ad Agrigento vanno fatti ad Agrigento e queste persone vengono sollecitate ad andarsene. A Torino alcuni colleghi si sono opposti al provvedimento puntando su un discorso più procedurale: se uno riceve un provvedimento di respingimento o di espulsione e presenta domanda di asilo, è trattenibile nel Cie. E, se la domanda di asilo viene poi accettata, il provvedimento di allontanamento viene automaticamente cancellato.

La decisione dell’Europa è una forzatura e presenta storture: in Gran Bretagna, Danimarca, Norvegia e Svezia un afghano non viene riconosciuto come avente diritto di protezione, mentre in Italia sì.

Se venissero confermate le notizie che parlano di irregolarità durante le interviste ai migranti (domande contradditorie, eccetera), si potrebbe far leva anche su questo per i ricorsi?

Sì, assolutamente: le recenti norme introdotte in materia hanno aperto le maglie in modo inverosimile, prevedendo che la domanda di protezione non venga espressa solo oralmente ma anche solo con l’atteggiamento. Il problema è che se poi un migrante non pronuncia la formula richiesta per chiedere asilo, la domanda non viene accettata.

È legale distinguere tra rifugiati e migranti economici solo in base al Paese di provenienza?

No, non dovrebbe esserlo in base alla Convenzione di Ginevra, per la quale il riconoscimento dello stato di rifugiato è personale, indipendentemente dal Paese da cui questi proviene.

LA STORIA

- posto in centro al paese – nel quale si incontrano associazioni, gruppi di mamme e bambini e dove avviene la distribuzione di generi alimentari ai poveri. In questi mesi gli ospiti hanno contribuito, e continuano a farlo, alla gestione della casa e hanno partecipato ad attività di volontariato sul territorio: 6 ragazzi con “Auser” si sono occupati di lavori di manutenzione nell’area cani comunale e hanno prestato servizio di vigilanza davanti alle scuole, 2 con l’associazione “Volontari Parco Borromeo” hanno curato il verde nell’omonimo parco, 2 al cinema teatro “Excelsior” hanno svolto mansioni di operatori di cabina e proiezione, 2 con l’associazione “Sacai” hanno fatto gli aiuto parrucchieri e 1 con la “Lipu” si è preso cura del verde cittadino. Ma non solo: praticamente tutti hanno seguito la scuola di italiano organizzata dai volontari, un paio stanno

frequentando scuole medie e molti di loro hanno partecipato ad un campionato di calcio provinciale grazie all’interessamento della Pob Binzago di Cesano Maderno.

Paul vuole la sua mamma Ma chi sono questi ragazzi? Cosa li ha portati qua? Cosa sperano per il loro futuro? Hanno un sogno?

Paul 22 anni è in Italia da un anno e quattro mesi. «Vengo da Uromi, piccola città del sud della Nigeria.

Mio padre era un contadino. Cinque anni fa si è ammalato e non è più riuscito ad andare nei campi a coltivare. Per dare una mano ho lasciato la scuola e mi sono trovato un lavoro.

Aiutavo le persone a portare a casa la spesa del mercato in cambio di una mancia. Poi a dicembre 2013 mio padre è morto. Qualche giorno dopo ho ripreso a lavorare e quando una signora che ho aiutato si è rifiu-

Mi piace qui, tutti sono gentili e hanno solo buone parole per me.

A Cesano faccio il volontario alla Lipu, frequento le scuole medie e spero di trovare un lavoro.

Il mio sogno?

Far venire qui la mia mamma.

Mi manca tanto

tata di darmi qualcosa mi sono messo a piangere in mezzo alla starda.

Un signore che passava mi ha visto e ha voluto sapere la mia storia. Lui lavorava in Libia e ha chiesto a un amico di trovare un lavoro in Libia anche a me. Grazie a lui dopo cinque mesi ero in Libia a lavorare. Facevo il piastrellista a Tripoli. Sono andato avanti cinque mesi. Poi un giorno il mio datore di lavoro non mi ha pagato e mi ha fatto minacciare da un gruppo di ragazzi. Ho chiesto aiuto al signore che mi aveva portato lì e lui mi ha portato in un posto vicino al mare. Dopo due giorni ci hanno caricato su una barca: abbiamo navigato per tre notti. Poi una nave ci ha preso e portati a Napoli. Da lì a Lissone e poi qui. Mi piace: faccio il volontario alla Lipu, frequento le medie e spero di trovare un lavoro.

Il mio sogno? Far venire qui anche la mia mamma. Mi manca tanto». dicembre 2015-gennaio 2016 Scarp de’ tenis

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INCIHESTA Friday scappa da Boko Haram Friday viene dal nord della Nigeria, dalla zona in cui imperversa Boko Haram. «Mia padre era cristiano e mia madre musulmana –racconta – e la per la mia famiglia ci sono stati sempre grandi problemi: le famiglie paterna e materna non sono mai andate d’accordo e vivere da cristiani in una zona mussulmana è stato difficile. Mia padre è morto quando avavo 8 anni e mia madre se ne è andata in Ghana insieme a mia sorella lasciandomi con il nonno. Quando mia mamma è morta lo scorso anno e la situazione è iniziata a peggiorare per gli attacchi, un amico di mia madre mi ha aiutato ad andare in Libia.

Ma li c’era la guerra. Sono rimasto solo due settimane. L’amico di mia madre una sera è venuto a prendermi a casa e mi ha portato in un posto vicino al mare dove ci hanno fatto salire su delle barche. Una nave italiana ci ha portato a Bari. Qui sto bene. le persone sono gentili con me.

Io sono un fabbro. In Nigeria non ho più nessuno: spero di potere avere un futuro in Italia.

VICENZA

Il vescovo apre casa sua: accolti quattro rifugiati Lo scorso febbraio il vescovo di Vicenza, Beniamino Pizziol raccogliendo il monito di Papa Francesco, conclude gli esercizi spirituali dei presbiteri, diaconi e seminaristi della diocesi con l’invito a farsi carico dell’ospitalità dei richiedenti asilo, individuando un appartamento delle parrocchie o di qualche laico disponibile. Ma monsignor Pizziol non si ferma qui, individua all’interno del giardino dell’episcopio un appartamento, lasciato libero dall’ortolano, in buono stato, ammobiliato, con tutti i comfort e decide di ospitare a casa sua quattro profughi. Unica richiesta è che siano di lingua francofona, per poter parlare con loro, conoscerli e poterli frequentare senza problemi di lingua. E così succede infatti, il vescovo una sera alla settimana va a trovare i quattro giovani e si ferma a conversare un po’ con loro. A poco a poco la timidezza viene vinta, le difficoltà di linguaggio anche e la disponibilità dello stabile diventa occasione di incontro e di amicizia. Accanto al vescovo quattro parrocchiani si sono fatti avanti per accompagnare i giovani maliani nel percorso di accoglienza con il coordinamento della Caritas diocesana. Racconta l’avvocato Celestino Verlato: «Siamo stati accolti con simpatia, quasi ci conoscessimo da tempo. Pur nella difficoltà di comprensione, ci hanno messo a nostro agio offrendoci un bicchiere di tè, e invitandoci a tavola con loro. Vincendo quel timore del diverso che mi sentivo addosso, da quel giorno ho cominciato una frequentazione assidua. Oggi mi rendo conto che sono loro a dare molto a me: vederli sorridere quando vado a trovarli mi ha arricchito di un dono inatteso».

Cristina Salviati

Accogliere piccoli gruppi per creare relazioni di Ettore Sutti

Nella diocesi di Milano 80 parrocchie e 14 istituti religiosi sono pronti ad accogliere profughi e rifugiati.

Un modello pensato per integrare 34 Scarp de’ tenis dicembre 2015-gennaio 2016

Nella Diocesi di Milano sono 80 le parrocchie che hanno messo a disposizione locali e appartamenti per l’accoglienza dei profughi e 14 gli istituti religiosi ed enti che si sono dichiarati pronti ad aprire le porte, rispondendo in questo modo agli appelli arrivati questa estate da Papa Francesco e dell’Arcivescovo di Milano, Angelo Scola.

«Il piano diocesano – spiega Luca Bettinelli, responsabile dell’area stranieri di Caritas Ambrosiana – prevede che tutti gli immobili siano ceduti in comodato gratuito alle cooperative di Caritas Ambrosiana.

Saranno poi loro ad assolvere agli obblighi di legge previsti: fornitura di vitto e vestiti, accompagnamento legale, alfabetizzazione, avvio di percorsi di inserimento lavorativo».

Sarà questo il pilastro sui cui poi costruire una rete di iniziative fondamentali per favorire l’accoglienza

Il piano di Caritas Ambrosiana prevede l’accoglienza diffusa di gruppi medio-piccoli per favorire progetti di integrazione sociale e lavorativa.

nei territori e affidate ai gruppi di volontariato erogate senza alcun contributo pubblico secondo un modello già sperimentato in occasioni di precedenti emergenze, come quella Nord Africana del 2011.

Quasi 800 posti disponibili «Questo piano –continua Bettinelli – consentirebbe di aggiungere circa 350 posti ad un sistema di accoglienza che già può contare su 781 posti in strutture diocesane (456 posti in 25 strutture in convenzione con le Prefetture e 325 posti, in 18 strutture, all’interno del Sistema di protezione per richiedenti asilo nazionale Sprar). L’idea è quella di promuovere accoglienze diffuse strutturate su gruppi medio-piccoli. Questo perché inserire poche persone in situazione di capillarità favorisce i progetti di inclusione sociale».

L’obiettivo di Caritas, infatti, non è semplicemente quello di garantire un tetto e riempire un piatto ma

NAPOLI

Accoglienza: dall’emergenza alla ricerca di un lavoro

MILANO

creare cittadini. E tutto diventa più semplice se i gruppi su cui si lavora sono piccoli.

«Lo straniero e il diverso spaventano, inutile negarlo – dice ancora Bettinelli –: lavorando con poche persone alla volta creare relazioni e quindi facilitare la conoscenza reciproca è meno complicato». Certamente le parrocchie da sole non sono in grado di gestire tutto ciò. Per questo è previsto un affiancamento da parte di operatori che siano in grado di garantire le professionalità necessarie (educatori, traduttori, esperti di diritto) per garantire un servizio efficace.

«In quest’ottica – conclude Bettinelli – è facile comprendere come i “famosi” 35 euro al giorno di rimborso per ogni rifugiato ospitato possono essere tanti o appena sufficienti. Dipende dai servizi che si garantiscono e dalla quantità di persone che si ospitano. Su numeri piccoli non è certo un affare».

LA SCHEDA

Diverse le modalità di protezione: dai richiedenti asilo agli umanitari Secondo la legge, le persone che arrivano nel nostro Paese hanno il diritto di presentare richiesta di asilo politico. Vale per chi arriva in aereo, via terra e, ovviamente, anche via mare. Secondo la Convenzione di Ginevra, una persona che nello Stato di cui è cittadino o residente rischia di essere perseguitata per ragioni di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o politico, ha diritto ad ottenere asilo e le nazioni firmatarie della convenzione, tra cui l’Italia, hanno il dovere di riconoscerglielo.

Per riconoscerlo, il migrante che ne fa richiesta (e che quindi diventa un richiedente asilo) segue un iter burocratico, molto lungo in Italia, che culmina in un’audizione in una delle 20 Commissioni territoriali, un colloquio in cui il richiedente asilo, portando le prove in suo possesso, spiega per quali motivi ha lasciato il suo Paese di provenienza.

Gli esiti possibili sono diversi. Se viene riconosciuto il diritto d’asilo, il richiedente ottiene lo status di rifugiato che dà diritto a un permesso di soggiorno (rinnovabile) della durata di 5 anni. In alternativa, la Commissione, se ritiene che per la persona in questione ci sia un rischio effettivo di un grave danno in caso di rientro nel Paese d’origine, può decidere per la protezione sussidiaria. E per il conseguente permesso di soggiorno di 3 anni. L’ultima opzione è quella del permesso per motivi umanitari, di durata variabile, che viene concesso richiedenti asilo particolarmente vulnerabili sotto il profilo sanitario o sociale o che non possono essere rimpatriati per altri motivi.

Se la domanda di asilo viene invece rigettata, il migrante viene espulso, a meno che non faccia ricorso al Tribunale contro la decisione della Commissione.

Paolo Riva

Abasi, Bikila, Danjuma, Oba. Quattro nomi, quattro persone con storie diverse, provenienti da Paesi diversi dell’Africa occidentale ed arrivati a Napoli, dove oggi vivono e lavorano. Sono andati via dai loro villaggi per i motivi più diversi ma le tappe del loro viaggio sono state le stesse: hanno attraversato il Mali, il Niger e sono arrivati in Libia dove hanno conosciuto il carcere, per motivi quasi inesistenti, e scontato la loro pena lavorando per persone che, poi, gli hanno pagato il viaggio per andare via.

Spesso, senza conoscere neppure la destinazione.

A Napoli hanno trovato un posto dove stare, da cui ripartire per costruire una nuova vita, è il Centro Accoglienza di via Tribunali, nato nell’ex convento delle Pie Venerine, grazie alla collaborazione tra Curia Arcivescovile di Napoli, Movimento Cristiano Lavoratori e Virtus Italia.

«Il Centro nasce in piena emergenza, nel 2013, - spiega Michele Cutolo, presidente provinciale Mcl – e oggi ospita quasi cento immigrati».

Il centro è ben strutturato ma i migranti, il più delle volte, non restano a Napoli, proseguono il loro viaggio per il Nord Europa per ricongiungersi alle famiglie. «Quelli che restano – conclude Cutolo – riescono a trovare quasi sempre un lavoretto, che gli permettono di pagarsi i beni di prima necessità».

Claudia Sparavigna

dicembre 2015-gennaio 2016 Scarp de’ tenis

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La nuova mostra su Jannacci

L’EVENTO

Gente d’altri tempi di Sandro Paté e Davide Barzi curatori di “Gente d’altri tempi. Enzo Jannacci, nuove canzoni a colori”

Tre opere tratte dalla mostra.

Gli autori sono (dall’alto): Fabiano Ambu, Andrea Venturi, Mauro Muroni

scheda “Gente d’altri tempi. Enzo Jannacci, nuove canzoni a colori” è la nuova grande mostra tributo al maestro, curata da Davide Barzi e Sandro Paté e organizzata da Scarp de’ tenis, che raccoglie l’omaggio di cinquanta artisti e fumettisti al cantautore milanese.

La mostra si terrà presso il Castello Sforzesco di Milano dal 10 dicembre al 15 gennaio.

Inaugurazione 10 dicembre 2015, ore 18 Gente d’altri tempi. Enzo Jannacci, nuove canzoni a colori

“Ma che musica è? La cantiamo anche in tre… massimo quattro!”. No, Enzo. Le parole di Secondo te… che gusto c’è? sono proprio sbagliate. A dire il vero, le

tue canzoni le ascoltano, le cantano e le studiano ancora oggi in tanti.

Dopo molti eventi organizzati da Scarp de’ tenis per celebrare il medico cantautore dei diversi, ci siamo accorti che queste canzonette, come le chiamava lo stesso Jannacci, hanno uno strano potere.

I disegnatori, illustratori e fumettisti che hanno ricevuto l’invito a partecipare a “La mia gente. Enzo Jannacci, canzoni a colori”, la prima mostra dedicata alle piccole grandi opere del cantautore, si sono lasciati ispirare.

L’esecuzione con uno stile non-stile, l’arte di improvvisare, il vezzo di parlare quando si dovrebbe cantare e viceversa, il talento di trovare un posto in musica anche a ciò che non è prettamente musicale come le stonature, la voce ruvida “da operaio della Breda”, le grida, gli sbagli, la voglia di raccontare storie in pochi minuti, tutto questo ha generato vere e proprie opere d’arte. Ce ne siamo resi conto mettendo gli occhi sulle tavole originali che tanti professionisti, jannacciani e non, hanno prodotto ascoltando queste canzoni.

Ancora non li abbiamo messi a fuo-

co, questi piccoli racconti d’altri tempi. Abbiamo capito solo che quel mix di suggestioni fatto di jazz, musica d’autore, cabaret, scrittura o “forse un po’ de tüsscos” che viene fuori dai dischi di Enzo Jannacci ha un’energia che sarebbe un peccato disperdere. Così, dopo l’asta di beneficenza con vendita degli originali, mentre cinquanta opere illustrate venivano mostrate in tante regioni italiane e migliaia di persone, letteralmente, guardavano le canzoni di Enzo Jannacci, tornando a canticchiare suoni e motivi musicali di qualche anno fa, con gli amici di

Scarp de’ tenis abbiamo pensato a una nuova mostra per dare spazio ad altri cinquanta artisti italiani tra i migliori.

“Tutti mi domandano della Milano della mia epoca – ci disse qualche anno fa Enzo Jannacci – come fosse la vera protagonista dei miei pezzi. Assolutamente no. Io scrivevo dei bozzetti che poi col tempo hanno avuto una loro evoluzione, o magari involuzione... non si sa mai! Ma per me erano assolutamente splendidi. Il riferimento era già allora il passato, la Prima Guerra Mondiale, gente del ’10-’12. La Milano con il cuore in mano per quanto mi riguarda non è mai esistita. (…)

Di Milano salvo solo le cose solide, le cose vecchie... come i tram”.

Abbiamo consegnato a ciascun artista una canzone di Enzo Jannacci. Ancora non rapdicembre 2015-gennaio 2016 Scarp de’ tenis

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L’EVENTO

presentata su tavola, nuova per molti, davvero d’altri tempi per noi. E come filo conduttore abbiamo tenuto Gente d’altri tempi, titolo di una canzone recente ma anche rivelazione sulla vera fonte d’ispirazione del nostro. Non solo quindi una nuova mostra basata sulla produzione discografica di Jannacci, vero “spettacolo d’arte varia” per citare Paolo Conte, amico e collega di Enzo che ci ha omaggiato di un’opera, ma un’occasione per guardare al passato, a quando le canzonette venivano registrate sui dischi, alle buone abitudini dimenticate come quella di trovarsi nei locali la sera e alle persone di una volta.

Chi è questa gente d’altri tempi? La risposta migliore l’ha data proprio Enzo Jannacci nel brano che dà il titolo alla mostra: «Ma che gente è? Guarda caso c’è…

C’è qualcuno che è rimasto legato a dei momenti fatti di felicità, paura, odio, fame, spari… ecco! Gente d’altri tempi. Meno male che… che c’è ancora un po’ di gente che… vive quando vive, mangia quando può».

Una canzone vale più di mille parole. Questa spiega il senso di “Gente d’altri tempi. Enzo Jannacci, nuove canzoni a colori”, che diventa anche e soprattutto un’occasione per fornire un supporto concreto ai venditori di Scarp de’ tenis attraverso una nuova asta di beneficenza. Il tutto sotto l’egida di un brano che fa appello a persone di un certo tipo. “Abbiamo bisogno della gente giusta”, diceva Enzo in Se me lo dicevi prima.

Chi ha aderito al nostro nuovo invito e ha dimostrato interesse per questa nuova avventura. Chi

ci ha aiutato a realizzare questo progetto dimostrando sempre entusiasmo. Chi si farà influenzare dalle canzoni di Enzo Jannacci.

Tutte queste persone, in fondo, sono uguali. È gente d’altri tempi.

37 Scarp de’ tenis dicembre 2015-gennaio 2016

Al Derby la “follia” si trasformava in poesia di Francesco Carrà, Marcello Zuccotti, Sandro Paté

Pubblichiamo uno stralcio del racconto presente sul catalogo della mostra “Gente d’altri tempi. Enzo Jannacci, canzoni a colori”, edito da cooperativa Oltre (può essere richiesto all’editore 02 67479017, 4 euro) ***

I primi anni del Derby, via Monte Rosa 84, Milano, sono indissolubilmente legati all’emergere della personalità artistica e del talento di Enzo Jannacci. Dopo una prima fase jazzistica del locale curata dal maestro Enrico Intra, Gianni Bon-

giovanni detto il Bongio, anfitrione e proprietario del locale, colui che si esprimeva con

Uno stralcio dal catalogo della mostra. Il ricordo dei tempi del Derby, tempio del cabaret di qualità

frasi astratte e originali giri di parole, decise infatti di puntare forte sul cabaret. Si era reso conto, sera dopo sera, che il pubblico iniziava a gradire con sempre maggiore enfasi

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300

Sono i fumettisti e gli artisti che hanno donato le opere

Enzo Jannacci a partire dagli anni Cinquanta e per sette decenni diversi ha cantato più di trecento brani

IL TRIBUTO

Ecco l’opera di Paolo Conte che andrà all’asta «I due miei concerti organizzati al Teatro Pier Lombardo da Nanni Ricordi e Sergio Martin significavano molto per me, era la prima volta che mi esibivo a Milano, allora non avevo orchestra, solo piano e voce. Quando ho saputo che c’era Jannacci tra il pubblico, a metà spettacolo ho detto semplicemente: “Jannacci, sei circondato, salta fuori”» (tratto dal libro di Sandro Paté Peccato l’argomento. Biografia a più voci di Enzo Jannacci, LOG Edizioni, Milano)

Il tratto inconfondibile di Staino, al quale abbiamo affidato la canzone Un amore da 50 lire. Anche questa tavola sarà in mostra al Castello e poi battuta all’asta il 1 febbraio da Porro & C.

Abbiamo fatto la stessa cosa.

Siamo andati da Paolo Conte, cantautore e artista, e gli abbiamo chiesto un’opera che vi mostriamo in anteprima qui a fianco, che potrà essere ammirata da vicino alla mostra “Gente d’altri tempi. Enzo Jannacci, nuove canzoni a colori” e che potrà essere anche acquistata nel corso dell’asta delle opere che si terrà il 1 febbraio a Milano presso la Casa d’aste Porro & C. di via Olona 2.

IL RICORDO

degli intermezzi folli e spiritosi che il batterista Pupo De Luca improvvisava tra una canzone e l’altra. Con astuzia e lungimiranza decise di

affidare la direzione artistica del locale al Gruppo Motore, ovvero: Cochi Ponzoni, Renato Pozzetto, Bruno Lauzi, Felice Andreasi e, ovviamente, Enzo Jannacci. Presente sin dai primi anni del locale anche Walter Giovanni Nicola Pinetti in arte e musica Walter Valdi si pone e pone a chi lo vuole ascoltare, sono quesiti fondamentali del tipo: “E se Pitagora fosse morto di calcoli?”, e ancora “La Torre di Pisa, e se avesse ragione lei?”, fino ad arrovellarsi su annose questioni del calibro di: “Mi domando: ma che faccia avrà fatto Maometto quando la montagna gli ha bussato alla porta”. Da Rivera ai giocatori dell’Inter di Herrera, da Bettino Craxi a Mike Bongiorno, dalle

gemelle Kessler a Renato Vallanzasca, dagli attori di teatro ai semplici ladruncoli, tantissimi sono scesi in quel seminterrato fumoso di una villetta in stile liberty in zona S.Siro, solo per vedere che tipo di spettacolo ci fosse. Molti venivano da fuori alla ricerca di un ingaggio. Ci provavano. Son riusciti ad essere confermati dal Bongio, tra i tantissimi e tutti bravissimi, Paolo Villaggio, Enrico Beruschi, i Gatti di Vicolo Miracoli, Gianfranco Funari, Franco Califano e per un periodo anche i Gufi. Persino chi girava film a Roma, se non lavorava, passava al Derby il proprio tempo libero. Enzo Jan-

nacci, in particolare, era talmente folle che faceva soggezione, capace com’era di alternare uscite clamorose a canzoni drammatiche: “Vengo anch’io? No tu no” e “Ti te se no”, diverse in tutto, sono state entrambe suonate al Derby.

SCHEDA

Dove, come, quando Le info utili per visitare la mostra “GENTE D’ALTRI TEMPI. Enzo Jannacci, nuove canzoni a colori” Inaugurazione:

giovedì 10 dicembre 2015 alle ore 18.00

Date esposizione:

dall’11 dicembre al 15 gennaio 2016

Sede:

Castello Sforzesco Sala conferenze della Raccolta “A.Bertarelli”

Orari:

dal lunedì al venerdì - 9.00 / 17.30 sabato – domenica 14.00 / 17.30

Ingresso libero Per informazioni: tel. +39 02 884.67778 – 63660 www.milanocastello.it - www.comune.milano.it/museiemostre C.CRAAIBertarelli@comune.milano.it M1 (Cairoli); M1 M2 (Cadorna); M2 (Lanza); Tram linea 1-2-4-12-14-27; Autobus 50-57-58-61-94 Ufficio stampa Elena Conenna | elenamaria.conenna@comune.milano.it Comune di Milano tel. 02 884.53314-50101 Ettore Sutti | e.sutti@caritasambrosiana.it | scarp@coopoltre.it Cooperativa Oltre tel. 02 67479017 Asta di beneficenza

1 febbraio 2016, ore 18 presso Porro & C., via Olona 2 - MIlano ricavato a favore di Caritas Ambrosiana

dicembre 2015-gennaio 2016 Scarp de’ tenis

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da lla stra sile de Il men

Gente d’altri tempi a cura di Davide Barzi e Sandro PatÊ

Enzo Jannacci, nuove canzoni a colori

fumetto, illustrazione, pittura 10 dicembre 2015 • 15 gennaio 2016 Sala conferenze della Raccolta delle Stampe "A. Bertarelli"

Castello Sforzesco Milano

DOSSIER

Scuola del cuore: maestre in corsia di Daniela Palumbo

Sono maestre a tutti gli effetti ma lavorano in ospedale a stretto contatto con la malattia e la sofferenza. «Ci troviamo a mediare fra una diagnosi infausta e il dolore. Ci vogliono testa e cuore per affrontare queste situazioni» 40 Scarp de’ tenis dicembre 2015-gennaio 2016

Quando si parla di eccellenze spesso sentiamo elencare numeri e tabelle. L’eccellenza siamo abituati a concepirla in plusvalore economico, o di immagine. Invece noi vogliamo parlare di un’eccellenza milanese che dispone di pochi numeri e di nessun guadagno. Anzi, è un servizio che il comune di Milano, assessorato all’Educazione e Istruzione, garantisce in perdita. In perdita se parliamo di cifre. Ma noi vogliamo raccontare tutt’altro.

Lucetta Ostaldo da tre anni è responsabile dei servizi ospedalieri del Comune di Milano. In particolare, delle educatrici dei reparti pediatrici degli ospedali milanesi.

Attualmente sono dodici le educatrici che dai servizi cittadini per l’infanzia (nido o materna) sono approdate in dieci reparti pediatrici di quattro grandi ospedali: Luigi Sacco, Istituto dei Tumori, San Raf-

Una delle tante attività pensate per i bambini in ospedale. Nella foto sotto Rossana e Patrizia le due educatrici che operano all’interno dell’Ospedale Sacco di Milano

Le maestre prendono in carico i bambini di tutte le fasce di età e le loro famiglie.

Nei reparti pediatrici, infatti, i genitori devono obbligatoriamente stare con i figli.

In quei momenti la mamma e il papà preferiscono il rapporto con le educatrici alle figure ospedaliere

faele, San Paolo. «Il loro compito è tessere relazioni –racconta Lucetta Ostaldo –. Noi prendiamo in carico i bambini di tutte le fasce di età e le loro famiglie. Nei reparti pediatrici, infatti, i genitori devono obbligatoriamente stare insieme ai figli. Ci troviamo a mediare fra una diagnosi infausta e il dolore. In quei momenti la mamma e il papà preferiscono il rapporto con le educatrici alle figure ospedaliere. Lì si vede una buona professionista: perché ci vuole testa e cuore. A volte arrivi con il cuore ma poi ti è indispensabile la testa per gestire la difficoltà estrema della situazione, altre volte arrivi prima con la testa ma hai bisogno del cuore per metterti nei panni di quella madre, altrimenti tutto è inutile».

Ancora pochi gli ospedali Sono pochi però gli ospedali che fanno richiesta della convenzione con il Comune. «Qualcuno l’ha richiesta ma poi non sono in grado di rispettare i parametri che noi chiediamo. Ma io auspico che si possa avviarne altre. Senza nulla togliere alle associazioni di volontariato che lavorano magnificamente, ma non hanno la professionalità e soprattutto la continuità delle nostre educatrici: 30 ore settimanali più 5. Sono le educatrici, insieme ai primari, che gestiscono l’organizzazione della giornata dei bambini in ospedale perché è un luogo dove tutti i giorni non sono uguali. Girano come trottole, ma lo fanno con senso di responsabilità e non se ne lamentano mai».

LA STORIA

Educatrici al Sacco: «Lavoro bellissimo Cerchiamo di coltivare la gioia di vivere» Il reparto pediatrico dell'ospedale Sacco, alla periferia di Milano, è un luogo decisamente accogliente. A cominciare dal primario del reparto stesso, Laura Pogliani che sostiene con energia tutte le iniziative delle due educatrici del Comune, Rossana e Patrizia.

Rossana è educatrice in forza al Sacco da 11 anni, Patrizia da 3. Due vulcani di iniziative. L'ultima idea sulla quale stanno lavorando è un video di tre minuti sui pregiudizi che ancora emarginano gli ammalati di Hiv. Il pediatrico del Sacco ha il reparto di infettivologia, diabetologia ed endocrinologia. Fra i pazienti della pediatria ci sono anche quelli che hanno contratto l'Hiv. «Devono ancora vivere nascosti – esordisce Patrizia – perché i pregiudizi sono duri a morire. Io e Rossana che li conosciamo bene siamo molto arrabbiate perché la società non è ancora matura per capire che le cure e la profilassi per questa malattia hanno fatto passi da gigante. Noi beviamo dai loro bicchieri e spesso sono loro i primi a dire: no, ci ho bevuto io. Reagiscono così perché sono abituati a essere emarginati».

Rossana ha fatto l'educatrice, poi la coordinatrice in un asilo nido, poi era diventata un'amministrativa. Ma stava perdendo tempo.

«Ero abituata – racconta – a relazionarmi con bambini da 0 a 6 anni. Invece qui sono soprattutto gli adolescenti ad aver bisogno di noi, pazienti cronici. È un'età difficile. Lo è già di per sé e nella malattia diventano chiusi, musoni, rabbiosi. Ma se riesci a entrare in relazione con loro diventa un rapporto più forte di qualsiasi altro».

Per stabilire una relazione profonda con questi ragazzi e ragazze (circa 150 fra reparti, ambulatorio e day hospital) le due educatrici inventano sempre nuove attività, anche oltre l'orario di lavoro.

Teatro, laboratori, uscite settimanali, gite e una settimana l'anno li portano in vacanza, al mare o in montagna. Oltre a un bellissimo orto che curano tutti insieme. «In questo modo anche se i pazienti cronici sono qui una volta al mese in day hospital o in ambulatorio, noi in realtà li vediamo molto più spesso. Su whatsapp abbiamo tutti i gruppi divisi per le varie attività. Il primario e tutto il personale qui ci assicurano tutto l'appoggio necessario».

Guai, però, a trattarle come delle sante.

«Ci piace il nostro lavoro e cerchiamo di dare il meglio, tutto qui.

Ti affezioni, certo che succede. Tanti ragazzi io li ho visti crescere – racconta Rossana –. A volte non hanno molti altri riferimenti oltre noi. Quando ti rivedono dopo una settimana ti raccontano da dove avevano lasciato e guai se non ricordi. È come averli dimenticati. Quando sono qui quello che cerchiamo di fare io e Patrizia è fargli emergere la gioia di vivere». Rossana ricorda anche i momenti difficili: «Non sempre riesci a tornare a casa e lasciare tutto qui. Recentemente si è suicidato un ragazzo. Lo conoscevo da tanti anni. Inizialmente ero molto arrabbiata, anche con lui. Poi ho cercato di capire, e basta. Come avevo sempre cercato di fare. Era un ragazzo fragile che aveva un lavoro, era più tranquillo rispetto ad altri, ma alla fine, non ha retto». [dp] dicembre 2015-gennaio 2016 Scarp de’ tenis

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DOSSIER È la stessa Ostaldo a scegliere le persone. Succede che un’educatrice d’infanzia chieda di uscire dall’istituzione scolastica. Ci sono due possibilità: essere spostati nella didattica museale o negli ospedali. Su 200 colloqui che ha fatto in tre anni, solo 30 persone le hanno chiesto di entrare negli ospedali. Solitamente chiedono la didattica nei musei.

«Occorrono persone risolte - spiega la Ostaldo strutturate, che non abbiano esperienze di dolore non elaborato alle spalle. Incontro le educatrici una volta al mese, tutte insieme: si raccontano le diverse esperienze, il confronto è importante per me e per loro.

Periodicamente, incontrano il primario che valuta le loro, eventuali, nuove proposte sull’organizzazione del lavoro. Inoltre, io da sola vedo il primario in diverse occasioni per capire se ci sono problemi. È capitato solo un caso in cui un primario mi ha detto: «Guardi che quella educatrice porta con sé il proprio vissuto, non è adatta, meglio che stia lontana da questa realtà». E così è stato. Non è facile essere “adatte” a stare con bambini ammalati gravemente. Succede che le educatrici abbiano bisogno dell’intervento della psicologa, garantita dall’ospedale, per chiedere consigli, per sottoporre un caso più complicato, per sfogarsi».

«Eppure – conclude – quando capiscono di potercela fare, guai a toglierle da quell’incarico. Non è più possibile. Chi non regge, lascia subito. Ma quando superano l’impatto iniziale allora non le puoi più allontanare, l’ospedale fa parte della loro vita».

Abbiamo chiesto all’assessore Francesco Cappelli se ha intenzione di candidare le educatrici all’Ambrogino d’Oro (la massima benemerenza milanese). Sarebbe un peccato non farlo.

42 Scarp de’ tenis dicembre 2015-gennaio 2016

SCHEDA

Il Sacco diventa ospedale amico del bambino

Il 10 dicembre l'Ospedale Sacco aprirà lo Spazio Mamma-Bambino-Papà nel padiglione 1. Lo spazio, voluto dal primario Laura Pogliani, sarà dedicato all'incontro e confronto tra futuri e neo genitori e professionisti in grado di accompagnarli in questo

percorso fisico ed emozionale. Il progetto si sviluppa all'interno di un percorso che il Sacco ha intrapreso con Asl e Unicef per diventare “Ospedale Amico del Bambino”. È il primo ospedale a Milano a ricevere la certificazione.

Molti studi hanno eviden-

«Sentivo odore di ospedale Oggi è la mia casa» di Daniela Palumbo

ziato l’importanza dei primi 1000 giorni nella crescita del bambino: proprio in questo periodo errori o cattiva informazione possono condizionare la salute del bambino, con maggiore rischio di insorgenza di sindrome metabolica, obesitaà, diabete.

Stefania Benedetti ha 50 anni e da 11 è all’Istituto dei Tumori di Milano. Educatrice nel reparto pediatrico oncologico che ha attualmente 19 posti letto. I bambini arrivano da tutta Italia, qualcuno anche dall’estero.

«Quando mi chiedono: perché fai questo lavoro? Io rispondo che qualcuno lo deve fare. E sono felice che sia io. Succede che entri in una stanza e vedi un bambino che è allo stremo. I genitori sono lì e, a volte, non ci sono le parole; basta guardarsi, chi sta soffrendo vede l’ascolto dentro il nostro sguardo».

All’Istituto dei Tumori fra ambulatorio e day hospital passano mediamente una trentina di pazienti al giorno, più quelli del reparto.

VERONA

In classe insieme a Pippo: «Tra i banchi soltanto sorrisi»

Sopra la scuola in corsia del Sacco di Milano.

A sinistra un momento delle attività

Arrivo alle 8,30, la mia collega sta sistemando i quaderni.

«Metto una stellina a Elena, guarda che brava – mi dice».

Sorrido davanti a un quaderno di prima elementare tanto bello da sembrare un album illustrato. «È ancora in stanza?». «Sì, ha i valori bassi, ma la mamma mi ha dato il quaderno con i compiti che ha fatto ieri. Ho promesso di correggerglieli prima che arrivino gli altri».

Tempo fa mi avrebbe presa una stretta al cuore a questa frase.

Ma ora, dopo alcuni mesi di lavoro qui, non accade più. Vedo soltanto una bambina sorridente e avida di imparare, che non vede l’ora di star meglio per potersi sedere con gli altri intorno all’unico tavolo della scuola e godersi ogni minuto insieme a noi come l’acqua di una fontana in un giorno assolato d’agosto. Non che ci “dimentichiamo” della malattia e della situazione dei bambini. La malattia c’è, e come si fa a far finta che non ci sia? Ma nella malattia si vive, qui lo sperimentiamo ogni giorno.

Dietro al vetro della porta si intravvede la figura di un bambino affiancato da una piantana. Non si sa bene chi tiri

chi, di certo Pippo (il nome della piantana, cui il proprietario si rivolge come a un essere umano) non si diverte gran che a ricevere tanti strattoni. Ma lui non ci fa caso.

«Ciao maestre», esclama portando una ventata di entusiasmo. Sarà il pigiama che sembra un costume di carnevale o sarà che anche noi maestre ci siamo abituate all’atmosfera di questo mondo? Non è un'aula normale la nostra. È l'aula della scuola in ospedale, nel reparto di pediatria. Gli alunni soffrono di malattie oncologiche e stanno spesso male. Ma quando entrano in questa aula minuscola portano solo sorrisi e vita e non è irrispettoso dire che sembrano scoppiare di salute. Qui gli alunni sono felici di vederti, se per caso non ci sei si rattristano anziché fare festa, perché sei il loro aggancio alla “normalità”. Quella salute che sbuca fuori da ogni pertugio non appena glielo si permette.

Qui i bambini non hanno i capelli e quando sono in più di 4 seduti intorno al tavolo dobbiamo stare attenti che Pippo non si incastri con le altre piantane (il che fa ridere il suo proprietario, un po’ meno noi).

Dobbiamo anche fare in modo che mettano la mascherina se siamo in un numero troppo elevato, o se noi abbiamo anche solo un accenno di raffreddore. Veramente dovremmo metterla noi. Ma un giorno in cui eravamo soltanto in due Salvatore, che ha undici anni ed è molto saggio, mi ha detto: «Dai maestra, me la metto io la mascherina, tu non sei abituata». Ho fatto come diceva. Ma in realtà non ci facevo nemmeno più caso alla mascherina: ciò che c’è oltre è talmente vivo che alla fine vedi soltanto quello.

Elisa Rossignoli

MILANO

«La fascia di età – racconta Stefania –, va dai 6 anni ai 25 anni perché se un ragazzino è stato curato qui e si riammala quando è grande non puoi mandarlo nel reparto adulti, deve continuare a stare dove è stato curato all’inizio della malattia, e dunque noi ci relazioniamo anche con i giovani adulti. Nel reparto ci sono i saloni dedicati ai piccoli con giochi simbolici, farina, libri, tappetoni. Per i grandi abbiamo il teatro, i laboratori di pelle e di carta, c’è la videoteca, playstation, libri».

Stefania ricorda la prima volta che mise piede nel reparto: «Sentivo forte l’odore di “ospedale” e pensavo che l’avrei sentito per sempre, invece ho cominciato presto a non sentirlo più perché è diventata un po’ anche la mia casa. Quel giorno ri-

cordo che c’era un bambino che stava molto male, era piccolo, è stato terribile per me. In quel momento mi sono detta: se supero questo momento potrò farcela, altrimenti meglio andare via subito, prima che cominci la mia nuova vita qui dentro.

L’ho superato e ho pensato che sarei rimasta sempre. Oggi lo posso dire con cognizione di causa, lo sceglierei ancora mille e mille volte.

Perché so di fare qualcosa di utile».

La relazione con i genitori è fondamentale. «Anche loro hanno bisogno di sostegno – spiega Stefania –, sono sempre accanto ai figli e, come è normale che sia, controllano come noi ci comportiamo. I genitori tendono, come è naturale che sia, a mettere meno regole possibili, a derogare molto, ma i bambini ospe-

info Alla scuola inserita nella struttura complessa di oncologia pediatrica dell’Istituto nazionale per lo studio e la cura dei tumori possono partecipare i pazienti che frequentano la scuola primaria o secondaria di 1° e 2° grado in quanto sono presenti 1 insegnante di scuola primaria, dal lunedì al venerdì per 24h/settimana, 3 insegnanti di scuola secondaria, presenti una volta alla settimana, 3 ore ognuno.

dalizzati hanno bisogno di sentirsi dire dei No. Noi cerchiamo di rispondere a questa esigenza di normalità».

Questo lavoro tiene conto anche della grandezza dei bambini: «C’è chi fa cure durissime, invasive, chi soffre terribili costrizioni a causa della malattia, la chemio ti toglie le forze. Eppure sopportano tutto e conservano la voglia di giocare e di ridere, di sfogare la rabbia, diritto sacrosanto e noi cerchiamo di aiutarli a fargliela buttare fuori. Un giorno ho assistito a un dialogo fra una bambina a cui manca un braccio e uno sulla sedia a rotelle, parlavano di protesi e di sedie a rotelle come se fossero le cose più naturali del mondo. Queste cose ti aiutano ad andare avanti». dicembre 2015-gennaio 2016 Scarp de’ tenis

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INNOVAZIONE

Internet sociale senza fili e senza confini di Enrico Panero

A Verrua Savoia, piccolo comune del Monferrato è nato il primo progetto di connessione internet nato dal basso: grazie alla collaborazione attiva della popolazione è nato un provider fatto da cittadini che garantisce la copertura a prezzi bassi 44 Scarp de’ tenis dicembre 2015-gennaio 2016

«La misura dell’intelligenza è data dalla capacità di cambiare quando è necessario» sosteneva Albert Einstein, principio a cui si è ispirata la prima esperienza in Italia di “banda larga di comunità”, nella consapevolezza che una comunità per essere intelligente (smart community)deve essere connessa, socialmente e tecnologicamente.

Verrua Savoia è un comune del Monferrato a circa 50 chilometri da Torino, troppo piccolo e collinoso perché i grandi gestori della rete fossero interessati a connetterlo via cavo. Destinato quindi a essere vittima di quel divario digitale che colpisce molti territori di un’Italia ancora lontana dall’obiettivo dell’Ue di portare la banda larga (30 Mb) al 100% della popolazione entro il 2020, nonostante la recente Dichiarazione dei diritti in Internet (luglio 2015) definisca l’accesso al web «diritto fondamentale della persona e condizione per il suo pieno sviluppo individuale e sociale».

Avere accesso al web significa non essere isolati, condizione im-

Una delle partecipatissime riunioni in cui si è deciso di realizzare in proprio la copertura internet. A destra uno dei microripetitori impianti sul territorio

portante soprattutto nella piccole realtà rurali perché evita l’emigrazione e porta sviluppo locale. Se poi sono i membri di una comunità che si attivano a questo scopo l’interconnettività non è solo tecnologica ma anche sociale.

Si è costituita un’associazione di cittadini, chiedendo al Ministero di poter operare come Internet service provider per poter garantire 15 Mb, acquistando la banda larga da un operatore ma gestendo in proprio distribuzione, impianti e loro manutenzione, a un costo di 80 euro all’anno per ogni utente

Sperimentazione sociale Nel 2010, il Politecnico di Torino avviò una sperimentazione sul territorio verruese per provare a dimostrare che si poteva realizzare un’infrastruttura di connessione internet di buon livello (15 Mb) che coprisse un territorio collinare con costi contenuti: una realizzazione sostenibile e durevole da esportare.

Verrua Savoia fu scelta sia perché esempio ideale di un piccolo comune collinare italiano in digital divide, sia perché territorio ben conosciuto dal responsabile della sperimentazione, l’ingegnere elettronico Daniele Trinchero, verruese e fondatore degli iXem Labs del Politecnico, specializzati nello studio di sistemi di comunicazione wireless che negli anni immediatamente precedenti avevano portato il web prima sul Monte Rosa e poi in Amazzonia.

«Dal 2010 al 2014 la sperimentazione si è connotata sempre di più dal punto di vista sociale: siamo passati da 70 a 260 utilizzatori della rete, ma soprattutto abbiamo constatato che la realizzazione del servizio veniva mantenuta anche con la loro diretta collaborazione» racconta Trinchero, ricordando come i protagonisti della sperimentazione abbiano organizzato turni per mantenere puliti dalla neve i pannelli solari connessi agli impianti e aiutato a effettuare varie riparazioni.

«Questo significa – continua Trinchero – che le persone hanno maturato fiducia nel progetto e aderito con una partecipazione attiva al suo mantenimento. Ci siamo resi

conto che avevamo realizzato qualcosa che il territorio voleva e di cui aveva bisogno».

Banda larga “fai da te” «Al termine della sperimentazione si sono valutate le possibilità per tenere in piedi il servizio –spiega Trinchero –. Una era trovare un provider: quelli nazionali però non avrebbero mai preso in carico una rete costruita “dal basso” e low cost, mentre quelli locali avrebbero fatto business minando la collaborazione sociale collettiva che era nata sul territorio». È così nata l’idea di costituire un’associazione di cittadini, chiedendo al ministero dello Sviluppo Economico di poter operare come Internet service provider. Ottenuta la licenza, è stato scritto uno statuto sulla base delle caratteristiche sociali intrinseche del servizio, per cui l’associazione doveva essere rigorosamente non a scopo di lucro, a partecipazione collettiva, e gli avanzi di

cassa dovevano essere reinvestiti per potenziare la copertura della rete o contrastare il divario digitale. Su richiesta del Ministero le apparecchiature sperimentali sono state sostituite con quelle disponibili sul mercato ed è stato fatto un piano d’impresa: garantire 15 Mb a 180 persone, acquistando la banda larga da un operatore ma gestendo in proprio distribuzione, impianti e loro manutenzione, a un costo di 80 euro all’anno per ogni utente.

«Abbiamo fatto una presentazione a novembre 2014 e abbiamo ottenuto subito 255 adesioni, oggi a un anno di distanza siamo a 360», raccon-

ta Trinchero, ora presidente dell’associazione denominata “Senza fili senza confini”».

Sono anche nate varie attività, volontarie, che hanno istituzionalizzato il comparto sociale: corsi di alfabetizzazione informatica nelle scuole e per gli anziani che costituiscono circa il 50% degli abitanti del territorio. Inoltre, il modello dell’associazione permette di chiedere a ogni socio la disponibilità ad ospitare un micro-ripetitore, cosa che dà la possibilità di coprire in modo capillare il territorio.

IL PROGETTO

Il progetto può essere replicato: tutti i segreti raccolti in “senza esclusi” Il successo mediatico dell’iniziativa di “Senza fili senza confini” e le centinaia di richieste di informazioni giunte in pochi mesi da tutto il territorio nazionale e non solo (una addirittura dall’Alaska), hanno indotto i promotori a cercare di creare un modello della loro esperienza in modo da renderla replicabile. È così stato dapprima redatto e pubblicato un manifesto programmatico dal titolo “Senza esclusi”, rivolto alle amministrazioni confinanti proponendo un supporto informativo e tecnico, e in un secondo momento è stato costituito un ente di secondo livello denominato federazione “Senza esclusi”, in pratica un’associazione di associazioni aperta a tutti coloro che condividono lo spirito e lo statuto di “Senza fili senza confini”: no profit, assistenza sociale, volontariato, connotazione territoriale, partecipazione popolare. I membri di questa federazione saranno accompagnati in tutti i passi necessari per realizzare sul loro territorio un servizio di “banda larga di comunità”.

Info www.senzafilisenzaconfini.org dicembre 2015-gennaio 2016 Scarp de’ tenis

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Camminare insieme al Lupo A cuor leggero di Stefania Culurgioni

Manuele aveva tutto: una casa, un lavoro bello e di responsabilità con stipendio annesso. Ma poi tutto questo non gli è più bastato. Ha iniziato a camminare e, dopo aver fatto di tutto, anche chiesto la carità, ha trasformato i passi in un lavoro 46 Scarp de’ tenis dicembre 2015-gennaio 2016

Seduto su un gradino con le mani in mano un ragazzo guarda i fedeli che entrano in chiesa. Non fa niente. Non chiede, non porge un cappello, non ha nulla. Sta lì, e basta. È la vigilia di Natale. Qualcuno si fa prendere dall’atmosfera e gli allunga cinque euro, qualcuno gli mette una moneta in grembo, nessuno sa che è la sua prima volta.

Nonostante la sua faccia da afgano, è più genovese di tutti loro messi insieme. Fino a pochi anni fa faceva il lavoro dei suoi sogni, l’editor di poesie in una casa editrice, poi ha mollato tutto. Questa è la storia di Manuele Poggio, che con questa barba lunga diresti che è un po’ strano, e invece no. Ha solo fatto una cosa che in pochi hanno il coraggio di fare, e cioè assecondarsi e rischiarsi un po’ di cose certe nella vita per spendersi la sua in un modo più autentico. Ma partiamo dall’inizio.

Orfano di mamma, morta per una malattia degenerativa, cresciuto senza papà scomparso chissà dove in tempi remoti, Manuele è nato e vissuto a Genova con i nonni e un

LA STORIA

Manuele Poggio nel bel mezzo di alcuni dei suoi “cammini del Lupo”, viaggi a piedi in cui le persone imparano a conoscersi meglio

Ai suoi “cammini” si presentano le persone più diverse: chi ha problemi in famiglia e ha bisogno di staccare, chi è confuso su una decisione da prendere, chi vuole ricominciare da capo. Ci si sposta in tenda, ma si dorme anche nei bed and breakfast.

Le persone si conoscono e raccontano la loro storia

fratello. «Mi sono laureato in lettere e a 26 anni sono stato assunto in una casa editrice come correttore di bozze e presto sono diventato redattore di una collana di poesie – racconta – era il sogno della mia vita, decidevo io che cosa era buono o no, che cosa pubblicare o meno».

I soldi non sono tutto Col tempo, però, si rivela un ambiente fatto di ambizioni, sgambetti, tensioni, rancori e invidie. I 1.800 euro al mese erano un ottimo stipendio ma psicologicamente Manuele cominciava a sentirsi, come si dice, un po’ fritto. «Non stavo bene.

Pensavo che gli scrittori fossero anime gentili e gente illuminata – ricorda – invece mi sembrava una giungla in cui sopravviveva il più forte».

Non è stato un processo veloce, dall’oggi al domani, ma accumula un giorno e accumula un altro, alla fine è scoppiato. Per curarsi l’anima, si è preso 40 giorni di pausa, ha fatto lo zaino ed è andato a fare il cammino di Santiago. «Era il 2007 – racconta – e ancora il cammino non era così inflazionato. Ne ero affascinato e lo fu anche il mio editore. Mi disse: Manuele, ti lascio campo libero, basta che una volta alla settimana mi mandi una mail e mi racconti cosa vedi, ci interessa pubblicare qualcosa». Una buona soluzione per entrambi.

Qui entra la metafora dello zaino. Il suo pesava 10 chili, era stracolmo, c’era dentro mezza casa. «Solo col tempo ho

imparato che più sei insicuro più lo zaino pesa».

Infatti, nel suo c’erano 5 paia di pantaloni, un pesantissimo sacco a pelo, scarpe di riserva, diversi libri.

Dopo tre giorni di cammino, gli è venuta la tendinite: «Uno zaino non dovrebbe mai superare un decimo del proprio peso, sennò è troppo pesante – dice Manuele – ma soprattutto, non serve».

L’incontro più importante, in quel cammino, lo ha fatto con la stanchezza ma ogni mattina all’alba, quando apriva gli occhi sul mondo in cui si trovava, ritrovava il coraggio.

Di scrivere le mail all’editore dagli internet point manco a dirlo.

Poi è arrivato il momento di tornare e ovviamente la vita presenta il conto. L’editore non ha più voluto saperne di Manuele, ma forse nemmeno lui dell’editore, e d’altronde se l’aspettava. Dopo pochi mesi i risparmi sono finiti.

«La cosa più sensata che mi è venuta da fare è stato mendicare. Era la vigilia di Natale, non è che ci ho pensato molto. Ero emozionato, non umiliato: ho raccolto 25 euro.

Ho continuato per tre anni».

La prima chiesa l’ha potuta occupare, sui gradini, per un colpo di fortuna. Già il giorno dopo, i mendicanti “di ruolo” gli hanno fatto presente che il posto era già di qualcun altro.

Leggi di strada. Manuele però ha trovato una chiesa libera, quella di San Francesco d’Albaro dove una donna rom gli ha detto che lì ci poteva stare benissimo, ma solo dal lunedì al venerdì, che la domenica c’era lei. Per-

fetto. Da quel momento si è aperta una parentesi incredibile.

«Io stavo lì, e non ho mai fatto conoscenza con così tante persone. Di fronte ci sono dei negozi di abbigliamento, a volte c’era più coda per parlare con me che davanti alle vetrine – racconta Manuele – io mi sono riscoperto uno che ama ascoltare. E le persone mi parlavano. Un’umanità sola e bisognosa a cui bastava dare un po’ di attenzione». Quando ha messo insieme abbastanza soldi, si è comprato un computer. E qui si apre il terzo capitolo di questa storia.

Ricominciare camminando Un’amica gli disse: «Un amico ha una baita in Trentino, perché non organizzi lì un corso di meditazione?». Da lì è cominciato un nuovo lavoro: meditazione, yoga ma soprattutto “I cammini del lupo”, cioè viaggi a piedi in cui si percorre insieme l’Italia. L’offerta è libera, lo zaino leggero. Quell’amica, che si chiama Angela, è diventata la sua compagna e adesso vivono insieme in una casa a Genova. Nei suoi “cammini” si presentano le persone più diverse: c’è chi ha problemi in famiglia e ha bisogno di staccare, c’è chi è confuso su una decisione da prendere, c’è chi vuole ricominciare da capo. Ci si sposta in tenda, ma chi vuole può anche dormire nei bed and breakfast.

Le persone si conoscono e raccontano la loro storia.

LA SCHEDA

Partire con “I cammini del Lupo”, un viaggio per conoscere se stessi Manuele è contattabile alla sua pagina facebook “I cammini del Lupo”. «Il cammino – dice Manuele - è una metafora della vita: le difficoltà che ti si presentano sono le stesse che hai ogni giorno. Se nel cammino sei vinto dalle paure e hai lo zaino troppo pesante significa che anche nella vita sei troppo preso dalle paure. L’importante è non prendere mai decisioni alla fine della giornata, quando si è stanchi e sofferenti. Il cammino significa rimettersi in gioco ed avere sempre una meta che ti illumini e che ti sproni ad andare avanti».

Facebook i cammini del lupo dicembre 2015-gennaio 2016 Scarp de’ tenis

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Due belle immagini del viaggio a New York fatto dai pazienti psichiatrici seguiti dal Cps 4 dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano

A New York un viaggio da matti di Carlotta Peviani

Sei ospiti del Cps 4 del Fatebenefratelli di Milano, pazienti schizofrenici e psicotici a livello medio grave, hanno affrontato, con medici e infermieri, un viaggio nella Grande Mela. Un’esperienza che li ha aiutati a far uscire la parte “sana” che c’è in loro 48 Scarp de’ tenis dicembre 2015-gennaio 2016

Gli sguardi s’incrociano, qualche sorriso, qualche sospiro. Nell’aria si percepisce emozione e un senso di attesa. È l’atmosfera che si respira il giorno del report ufficiale del progetto “La Grande Mela” organizzato dal centro psico sociale 4 del Fatebenefratelli di Milano. I protagonisti sono loro: Natalina, Andrea, Giovanni, Marian, Roberto e Sergio. In comune hanno un’esperienza unica in Italia: aver affrontato un viaggio a New York con un bagaglio impegnativo come la malattia psichiatrica.

Sono pazienti schizofrenici e psicotici a livello medio-grave – molti di loro a causa della malattia hanno smesso di lavorare o perso il lavoro – i 6 partecipanti che lo scorso 22 settembre sono partiti alla volta di New York. Il viaggio è riuscito, eccome. Lo confermano gli organizzatori del progetto, il dottor Carlo Scovino, co-responsabile dell’attività di riabilitazione Uop 55 e Ines Marroccoli, coordinatrice infermieristica del Cps, ma soprattutto i diretti interessati.

MILANO

L’obiettivo è stato raggiunto: c’è stata una crescita della loro autostima.

Nel clima famigliare che abbiamo ricreato è stata stimolata la parte “buona e sana” che c’è in ogni paziente.

Non abbiamo mai dovuto integrare la loro terapia farmacologica consueta.

E questo è motivo di grande soddisfazione

Un viaggio avventura C’è quello più timido e quello più chiacchierone, come in tutti i gruppi, ma da ognuno di loro traspare un senso di orgoglio nell’essere stato in grado di affrontare una settimana impegnativa, durante la quale non solo hanno vissuto i tipici ritmi del turista, tra musei, negozi e monumenti, ma hanno condiviso anche l’esperienza della convivenza visto che alloggiavano in una villa a mezz’ora da Times Square, dove ognuno aveva un compito preciso.

Una sorta di viaggio-avventura, dunque, dove mettere alla prova e sfidare tutte le proprie paure, ansie e limitazioni che la malattia mentale determina.

«New York è bellissima –racconta Andrea –, era la prima volta che la visitavo, ma troppo, troppo caotica per i miei gusti. Se ci ritornerei? Non penso proprio, io voglio vedere Vienna. La visita a Ground Zeroè stato il momento più emozionante per me. Anche il viaggio in aereo è andato bene, ho avuto solo un momento di agitazione al ritorno quando al metal detector mi hanno fatto togliere le scarpe».

Di tutt’altro avviso la mascotte

del gruppo, Natalina l’unica donna – escluse le due tirocinanti e la coordinatrice infermieristica – etiope di nascita ma milanese di adozione, che con i suoi 29 anni sprizza entusiasmo nel descrivere la Grande Mela: «Una città stupenda. I negozi poi. E pure il Moma bellissimo. Mi sono divertita molto, io ci ritornerei subito. Mi è piaciuta la gita in battello per vedere la Statua della Libertà. Il giorno prima della partenza ero preoccupata dell’aereo, ma il fatto di essere tutti insieme mi ha aiutato a sentirmi più forte».

Centrato l’obiettivo del progetto dunque: il gruppo e la condivisione come forza in più per affrontare le sfide della vita di tutti i giorni, accrescendo così l’autostima e dimostrando che la malattia mentale non è un limite per affrontare un viaggio.

C’è poi chi, come Giovanni, 44 anni da cinque in cura al Cps 4, ha saputo anche attingere a una propria risorsa personale, «ho potuto approfondire l’inglese e aiutare anche i miei compagni. Mi sono divertito, mi sembrava di essere in un film. C’è stato un solo momento in cui ho avuto un attimo di paura,

quando ho perso in un negozio per pochi minuti il gruppo che però ho subito ritrovato».

Il più giovane dei sei, Marian 25 anni di origine rumena, è tra i più loquaci, ha tanta voglia di raccontare, «Ero molto preoccupato i giorni precedenti la partenza. Avevo paura di non essere pronto. Invece è andato tutto bene. Durante il viaggio ho sentito la fatica fisica: visitare la città e muovermi in mezzo alla gente mi faceva sentire insicuro e in ansia. La presenza di Chiara e Jyoti come guide – le due tirocinanti al Cps partite come volontarie –mi ha aiutato ad essere più sereno. È stata un’esperienza importante».

La riuscita del viaggio è soprattutto merito del lungo percorso educativo che l’ha preceduto. «L’obiettivo è stato

raggiunto: dai questionari è emersa una crescita della propria autostima.

Nel clima famigliare che abbiamo ricreato si è potuta così stimolare la parte “buona e sana” che c’è in loro.

Non abbiamo mai dovuto integrare la loro terapia farmacologica consueta. E questo per noi è motivo di grande soddisfazione».

LA SCHEDA

Il viaggio diventa una terapia capace di far emergere il meglio «In tutti questi anni all’interno del nostro Centro Psicosociale abbiamo utilizzato il viaggio come fil rouge per affrontare la malattia psichiatrica – spiegano il dottor Scovino e la coordinatrice infermieristica Maroccoli –. Così abbiamo guidato diversi gruppi di nostri pazienti nell’avventura del viaggio, alla base del quale c’è sempre il concetto che il gruppo è una grande forza per affrontare la malattia mentale e sfidarla insieme ai suoi pregiudizi che ancora la caratterizzano. In particolare il viaggio a New York nasce da un’idea, da un sogno di uno dei nostri pazienti, Roberto. Quella che sembrava inizialmente, una pazzia, si è poi trasformato in un progetto complesso».

Nella scelta dei partecipanti al viaggio, reso possibile grazie al prezioso sostegno del centro di ascolto della parrocchia S. Maria del Suffragio, si è pensato ai pazienti più giovani e a coloro che, essendo in cura da molti anni, stavano terminando un percorso terapeutico.

«Il viaggio rappresentava un tassello in più. Vederli ballare al ritmo della musica Gospel in una delle chiese che abbiamo visitato mi ha fatto sentire fiero del mio gruppo, eravamo nella vita tutti insieme, con o senza malattia mentale». dicembre 2015-gennaio 2016 Scarp de’ tenis

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Il ristorante Gustop a destra in alto lo staff de La Locanda alla mano e, sotto, Cascina Coriasco: realtà gestite grazie alla collaborazione di disabili

Cibo più buono con camerieri e cuochi speciali di Simona Brambilla

Tre diversi esercizi commerciali con una caratteristica in comune molto speciale: sono gestiti da ragazzi disabili. Stiamo parlando del ristorante Gustop, della Cascina Coriasco e della Locanda alla Mano di Milano.

Gustop è uno dei primissimi progetti di questo tipo realizzati in Italia promosso da Via Libera cooperativa sociale onlus e L’Impronta associazione onlus che si concre-

Sono sempre di più le associazioni e le cooperative sociali che offrono inserimenti lavorativi in servizi di catering a persone con disabilità o difficoltà cognitive. Servizi che stanno diventando sempre più professionali. Viaggio di Scarp tra sapori diversi

tizza attraverso due attività in campo alimentare: un laboratorio in grado di fornire servizi di catering e un ristorante self-servicenato dentro un centro commerciale che garantisce lavoro a persone in difficoltà. Viola è una di queste.

«Nel 2012 Viola, giovane adulta disabile, era reduce da diversi tirocini lavorativi non andati a buon fine per diverse ragioni tanto da presupporre per lei un futuro di non occupazione – racconta Roberto Strada, di Via Libera –. Tuttavia grazie alle capacità lavorative intraviste in lei si è deciso un inserimento fin dal primo giorno di apertura, affidandole

50 Scarp de’ tenis dicembre 2015-gennaio 2016

SOLIDARIETÀ ghini, della cooperativa Cascina Bianca –. In quel periodo abbiamo potuto valutare i ragazzi per poterli selezionare e creare l'attuale gruppo lavorativo. Poi, a seguito della partecipazione ad un bando di gara, abbiamo avuto in concessione la cucina di Cascina Coriasco a Lacchiarella per alcuni anni e siamo cresciuti».

Grazie al lavoro in Cascina i ragazzi hanno piano piano acquisito sicurezza e sono riusciti a superare anche paure come quella di usare coltelli o avvicinarsi al calore.

«Abbiamo lavorato per potenziare le loro abilità, cercando di far affiorare le potenzialità nascoste. Attualmente continuano a necessitare di una supervisione costante ma capacità e abilità sono molto cresciute, così come lo spirito di gruppo. Lo stesso vale per il ragazzo di sala che ora interagisce attivamente coi clienti. La disabilità non finisce mai di stupirci per le sue potenzialità».

info Gustop via Salvanesco 77 Milano tel 02.89309263 www.gustop.it Cascina Coriasco sp 40 Melegnano-Binasco Lacchiarella tel 346.6435018 www.cascinacoriasco.it Locanda alla Mano piazza del cannone Milano tel 328.6568094 Facebook locandaallamano

la mansione di lavapiatti. I primi mesi non sono stati semplicissimi, ma la volontà ferma di Viola unita al supporto del resto del team ha portato a un inserimento lavorativo duraturo». La vita di Viola è cambiata: «Èmutata la percezione di se stessa, Viola ha acquisito maggior consapevolezza dei propri mezzi e una maggior dignità rispetto all’esterno, in quanto lavoratrice. Viola oggi è una nostra collega ed è un esempio per i suoi amici con fragilità cognitiva».

Cascina solidale Cascina Coriasco è invece un progetto nato nel 2010. Anche se la storia della Cascina risale all’ XI secolo.

La leggenda racconta che fu teatro della drammatica storia d’amore tra Zarina, figlia di Matteo Visconti signore di Milano, e Riccardo Langosco, dell’omonima famiglia di conti di Pavia, nemici dei Visconti. Nel 1300 ospitò anche l’ordine monastico delle Sorelle Umiliate. Oggi è stata ristrutturata e ospita i ragazzi della cooperativa sociale Cascina Bianca. «Inizialmente abbiamo avviato un laboratorio al pomeriggio in via Fleming – racconta Donatella Lon-

Un posto alla mano La storia de La Locanda alla Mano, promossa dalla cooperativa Contè

e patrocinata da Expo 2015 e dal Comune di Milano, è iniziata a luglio 2013. La locanda è nata dall’incontro tra Fabio Bocchiola e Martina, una ragazza con sindrome di down che un giorno si è ribellata al posto di lavoro non retribuito. Questo è infatti il destino di molti giovani ragazzi down che, anche se portano a termine un percorso scolastico, spesso poi non riescono a lavorare.

E così è nata la Locanda alla Mano. «Il nome della locanda ha un duplice significato: offrire una mano a ragazzi svantaggiati per aiutarli a trovare un lavoro e sottolineare l’importanza di rapporti interpersonali informali, alla mano», racconta Carlo Giuggioli, responsabile della Locanda alla Mano.

Questo spazio doveva rimanere aperto per tre mesi, ma in realtà sono diversi anni che è in attività. «La Locanda è un posto sicuro dove potersi fermare e ricaricarsi in tutti i sensi, fisicamente e mentalmente – conclude Giuggioli –. Tante persone si sono incrociate qui, con il loro carico di sogni, di impegno e quel qualcosa di magico che rende la Locanda un posto davvero alla mano».

LA SCHEDA

Non solo promozione sociale: grande attenzione anche alla qualità Oltre ad avere un’importante mission sociale, Cascina Coriasco, Gustop e Locanda alla Mano, offrono ai clienti prodotti di qualità. In Cascina per esempio viene proposta una cucina casalinga: «I dolci e il pane vengono fatti da noi, inoltre il martedì facciamo gnocchi freschi nelle diverse varianti: gnocchi di patate o spatzle» – spiega Longhini della Cooperativa Cascina Bianca. La Locanda alla Mano invece offre agli avventori un servizio di tavola fredda, caffetteria e pasticceria, prediligendo prodotti di fornitori che condividano la vision della cooperativa Contè e che siano impegnati nell’inserimento lavorativo di manodopera disabile. «L’offerta della Locanda non si limita a cibo e bevande – precisa Giuggioli -sono programmate anche attività aggregative, di svago e gioco, per bambini o per adulti come concerti, esposizioni, presentazioni di libri». La frase “Cucina e persone genuine” racchiude gli ingredienti di Gustop: «genuino è il termine che più ci piace per definire il prodotto del nostro lavoro – conclude Strada - che è il frutto di una scelta di materie di qualità, di una lavorazione e di una presentazione curata nei dettagli e resa possibile dall’impegno quotidiano di 13 persone». dicembre 2015-gennaio 2016 Scarp de’ tenis

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TORINO zione: Carla Grippa e Marco Bertora, con il contributo tecnico di Samuele Wurtz.

Nessun fuoco nessun luogo è un documentario che racconta la vita di strada in presa diretta

La vita di strada raccontata in presa diretta di Vito Sciacca

Il documentario Nessun fuoco nessun luogo è stato proiettato la sera del 22 ottobre a Torino all’interno della mini rassegna Cine Social Forum, organizzata dalla casa di quartiere Le vallette in collaborazione con Stalker Teatro (www.stalkerteatro. net/casaquartiere.html).

Un’opera che tratta, in maniera lieve e rispettosa pur rifuggendo dal lirismo, il tema della vita di strada.

info Il documentario www.nessunfuoconessunluogo.com nessunfuoconessunluogo@gmail.com

Rispetto ad opere analoghe, spesso afflitte da una vena descrittiva e didascalica, Nessun fuoco nessun luogo (il titolo proviene dal detto francese ni feu ni lieu che indica le persone senza dimora) si svolge interamente in strada rappresentando momenti della giornata di otto persone senza dimora, sempre accompagnate con discrezione ma

Cento ore di girato, in strada, senza filtri, per realizzare 75 minuti di film che racconta la vita da homeless 52 Scarp de’ tenis dicembre 2014-gennaio 2015

spesso con uso intensivo di primi piani, senza alcun copione captando dialoghi spontanei, gesti e azioni affascinanti nella loro immediatezza. Su tutto, onnipresente come un leit-motiv maligno, i rumori della città, una Genova resa irriconoscibile da un abile uso della fotografia, a rimarcare la privazione principale che la strada infligge ai suoi abitanti: la totale assenza di privatezza, la condanna a vivere ogni attimo della giornata sotto gli occhi degli altri, “altri” che scorrono indifferenti impegnati nelle loro vite “normali”.

Un approccio che non può non ricordare la narrativa di Carter: in settantacinque minuti riesce a trascinare lo spettatore in strada, a renderlo partecipe di quelle presenze spesso rifuggite.

La regia del documentario, che rientra nel progetto “Quando la città soffre” sostenuto dalle Caritas italiana e genovese, dal comune di Genova, dall’Università degli studi di Genova, Fio.psd e fondazione Casa della Carità, è opera di due giovani registi presenti alla proie-

Come è nata l’idea di realizzare un film proprio sulle persone senza dimora? É il proseguimento di un progetto preesistente volto a rappresentare la condizione dell’essere umano inserito nello spazio urbano, con particolare riferimento alle zone storiche e periferiche e a come esse ne condizionino (o limitino) il comportamento. Quella dei senza dimora è soltanto una sfaccettatura della città, una tipologia di persone che spesso più che fruirla la subisce, spesso nell’indifferenza generale.

Entrare nelle loro vite con una telecamera vi ha creato problemi d’approccio?

Per contattare le persone non siamo passati attraverso associazioni o servizi, nessuno ci ha presentato dei “casi”: abbiamo scelto di scendere in strada nei posti frequentati dai “barboni” e parlare con loro passando dall’approccio alla conoscenza alla fiducia. Poi abbiamo esposto il nostro progetto: abbiamo ottenuto dei dinieghi, ma chi ha accettato lo ha fatto in maniera totale, fornendo piena collaborazione. Molte delle persone che vivono in strada hanno voglia di raccontarsi. Tutte le immagini sono state girate con il pieno consenso degli interessati: nel nostro documentario non esistono immagini rubate.

Avete seguito qualche criterio particolare durante le riprese?

Fondamentalmente abbiamo seguito i loro ritmi, siamo stati testimoni piuttosto che interlocutori; tant’è che nel documentario non vi sono narrazioni in prima persona, quanto piuttosto momenti di dialogo tra loro, rituali come la preparazione del giaciglio di fortuna per la notte, momenti di vita comune e molto altro. Si è trattato di un lavoro che ci ha tenuto impegnati per tre anni, basti pensare che, anche se il film dura settantacinque minuti, abbiamo ripreso oltre cento ore di girato.

aforismi

POESIE

di Emanuele Merafina

Il museo Nel museo ci sono le statue sempre ferme con un cuore di pietra e un occhio di vetro Uno strano condominio L’amministratore è un ladro e i topi alzano la voce

Chi ha tempo?

Al momento giusto non c’è mai tempo.

Quando il vento soffia su codesti fogli non li raccogli perché non puoi.

Ti penti o menti?

Lo (rim)piangi e dici se credevo ma ormai è troppo tardi.

La verità è che siam in un mare di falsità.

Giovanni Ricciardi

Mio Dio In un saluto a te, mio Dio, tutti i miei sensi si affondano e sfiorano questo Mondo ai tuoi piedi. Come una nube di settembre, bassa, sospesa col suo carico di piogge non versate, tutti i miei pensieri s’inchinino alla tua porta in un saluto a te, mio Dio come uno stormo di rondini che nostalgiche fanno ritorno volando notte e giorno ai loro nidi, così tutta la mia vita intraprenda il suo viaggio verso l’eterna dimora in un saluto a te, mio Dio. Gaetano “Toni” Grieco

La magia del presepe

Ancora tempo Non io, piuttosto quel che resta di quella donna forte, volitiva dell’araba Fenice, che non risorge, ormai dalle sue ceneri.

Non più io, ma l’esigua rimanenza del sorriso e del canto di una volta… della gioia ostinata nonostante la vita.

Adesso, solo, solo adesso, l’oblio, la nebbia fitta di chi ama nascondersi a se stesso, di chi rumina eventi insuperati.

A stento trascinando la sua croce a chi appartengo se non al giogo greve dell’odissea infelice?

Chi mi appartiene più se la mia carne vive la mia distanza senza pena?

Pure l’istinto reclama ancora tempo Aida Odoardi

Chi di noi non è diverso?

Ci chiamano handicappati ma possiamo amare ed essere amati i nostri sentimenti non sono castrati la nostra mente non pensa lacunosamente ma a volte la gente non ci capisce per niente e se pensate di essere normali siamo noi a non capire perché vi comportate da animali e come mai abbiate lingua per parlare non orecchio per ascoltare ed una mente solo per disprezzare.

Il nostro amore non è disabile ed è per questo che da tutti è conquistabile.

Il presepio a Napoli è tradizione. Si trasmette di generazione in generazione.

E’ quasi una magia fatta con polverina di creta e fantasia.

Prendono forma personaggi e storie e dai banchi del mercato si sente l’odore mentre la cometa indica la strada ai tre Magi assai affaticati per portare i donidi delun creato nel giorno L’idea giovane volontario che fa posto alla NotteRonda più magica dell’anno. della della carità di Milano: Domenico Capuozzo

una App contro lo sprecoFerdinando alimentare Garaffa

dicembre 2015-gennaio 2016 Scarp de’ tenis

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A N ATA T LE M E T T IC I IL C U O RE

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Ringraziamo

GENOVA esperienza ha un significato speciale: ci permette di unire l’attenzione ai lavoratori di paesi lontani, da sempre al centro del nostro commercio, a quella per i vicini, quanti sperimentano percorsi difficili qui a casa nostra. Insomma: equo, solidale e sociale».

Il laboratorio di serigrafia nato dentro il carcere di Marassi sta diventando un’opportunità di riscatto per molti

O’Press, dal carcere un prodotto equo, solidale e sociale di Mirco Mazzoli

Questa storia inizia e finisce con le parole di Fortunato.

«Grazie a chi ha lavorato con me in O’Press, a Bottega Solidale e ai suoi operatori, che si sono sempre affidati e fidati di me, hanno saputo risvegliare le mie sedate capacità, hanno fatto in modo che la mia inventiva e le mie esperienze lavorative pre-detenzione sfociassero in piena libertà. Hanno saputo farmi sentire lavoratore, responsabile, impegnato, insomma, detenuto sì, ma uomo con delle capacità».

info O’Press opress@bottegasolidale.it Referente: Paolo Trucco.

Le magliette “Canzoni oltre le sbarre” sono acquistabili on line su shop.bottegasolidale.it

Fortunato, oggi, è di nuovo un uomo libero e se vede una prospettiva diversa davanti a sé è anche grazie al lavoro svolto nella serigrafia del carcere di Marassi, un progetto unico in Italia, sostenuto da La Bottega Solidale di Genova.

«Unico – spiega Paolo Trucco, referente del progetto – perché coinvolge i detenuti di una sezione di alta sicurezza e perché la Bottega non li prende come collaboratori ma li assume a tempo determinato».

Insomma un lavoro vero, che og-

gi impiega 5 persone. «Un lavoro che certamente finisce quando si esce dal carcere – aggiunge Paolo – ma che serve a rafforzare la persona e la aiuta a non ricadere».

Produrre conto terzi La novità di questi mesi è che O’Press – così si chiama la serigrafia – si apre al conto terzi, alla produzione per i clienti che possono scegliere di servirsi della serigrafia in carcere per le loro esigenze: «Grazie ai nuovi macchinari e alle specializzazioni dei detenuti, oggi possiamo offrire un ampio ventaglio di lavorazioni, dalle magliette a un assortito merchandising, tazze, spille, shopper, per ogni tipo di committenza, dalla campagna nazionale alle esigenze del piccolo gruppo».

La sfida è lanciata: il primo committente di peso è stata Caritas Italiana, che ha fatto stampare nel carcere di Marassi il materiale della campagna “Cibo per tutti”.

«Per noi di Bottega Solidale – spiega Cristiano Calvi, uno dei volti storici di questa realtà che è tra le prime 10 botteghe in Italia – questa

Un catalogo molto ricco L’esempio perfetto sono le magliette della collezione “Canzoni oltre le sbarre”: cotone ottenuto rispettando i diritti dei lavoratori del Bangladesh e serigrafia studiata e impressa in carcere. Non è cosa da poco, sempre che interessino i diritti dei lavoratori asiatici e lo scopo rieducativo che la legge italiana assegna alla pena detentiva. Oggi la collezione con i versi delle migliori canzoni italiani e annovera 50 diversi soggetti.

«Tutto è iniziato – ricorda Trucco –dall’idea di una ragazza in servizio civile da noi unita all’esperienza di un nostro volontario, attivo nella scuola grafica “Ruffini” dentro al carcere. Abbiamo iniziato a stampare le prime grafiche con telai di legno fissati ai banchi di quella scuola.

Pensavamo a una iniziativa singola e decidemmo di lavorare su De André: in occasione del decennale dalla morte proponemmo a Palazzo Ducale, che lo ricordava con una mostra, di inserire le magliette nel bookshop. Ne vendemmo 6 mila in 6 mesi. Questo ci incoraggiò a ragionare su una prospettiva più lunga e iniziammo a proporre le nostre magliette in diversi contesti. Grazie al coinvolgimento di Dori Ghezzi ottenemmo il permesso di riprodurre anche alcune frasi di Battiato e Capossela. A poco a poco abbiamo costruito un catalogo con 50 grafiche diverse, con citazioni da Bennato a De Gregori, da Rino Gaetano a Francesco Guccini, da Carmen Consoli alla Bandabardò, fino al premio Nobel Dario Fo, che ci ha lasciato un disegno appositamente dedicato e autografato».

Conclude Fortunato: «Quando un detenuto riacquista la sua libertà tende a rimuovere ciò che ha vissuto in carcere. L’esperienza con O’Press e Bottega Solidale mi rimarranno piacevolmente nel cuore». dicembre 2015-gennaio 2016 Scarp de’ tenis

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RIMINI

La vita con Matilde è uno spettacolo di Angela De Rubeis

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Il cuoco, vedendosi scoperto, impallidì. «Siete in arrosto – intimò il poliziotto – ho un mandato di cottura». (Snoopy da Peanuts - C.M. Schulz).

Quando Riccardo Bianchi mi ha mandato la sua prima mail, in risposta alle mie richieste d’informazioni, ho letto in calce questo monito di Snoopy e ho subito capito che ho fatto bene a voler parlare con lui. Pratico e con un gran senso dell’umorismo.

Ma partiamo dall’inizio. Riccar-

no quelle di Samuele Bersani, Luca Carboni, Paolo Conte, Cristiano De André, Eugenio Finardi, Ivano Fossati, Luciano Ligabue, Negrita, Paul Weller. Molte parole sono le mie.

Matilde è al suo primo anno di scuola media…

Sì. Tutto nuovo, nuovi compagni, nuove abitudini, nuovi ostacoli da superare e nuove avventure.

Per tutti.

Nelle foto a lato un bellissimo primo piano di Matilde. Qui sopra un momento dello spettacolo “Cosa sai di me” messo in scena dal papà di Matilde per raccontare la bellezza di essere genitore

do Bianchi è il papà di Matilde, una bimba di 12 anni con la sindrome di Down. Da oltre un anno porta in giro per la provincia di Rimini lo spettacolo teatrale Cosa sai di me che ha un particolare punto di vista: quello dei genitori. Genitori e punto.

«Sì –racconta –, perché in questi anni abbiamo promosso un sacco di progetti e iniziative per i nostri figli (attraverso l’associazione Crescere Insieme, di cui Riccardo è vicepresidente, ndr), ma ci siamo resi conto di non esserci mai raccontati. I genitori dei figli con difficoltà vengono spesso scambiati per eroi, altre volte per matti, altre ancora per persone a cui non va mai bene niente, persone tristi oppure arrabbiate con il mondo».

Volevi raccontare la tua versione dei fatti, insomma?

Proprio così. Anche se è un discorso molto personale. Volevo allora trovare un modo per raccontare la nostra esperienza di genitori di una bimba con la sindrome di Down senza però avere la pretesa di rappresentare nessuno oltre me stesso e la mia famiglia, perché poi ognuno vive queste cose in modo diverso.

I genitori di figli con difficoltà vengono spesso scambiati per eroi, altre volte per matti, altre ancora per persone a cui non va mai bene niente, persone tristi oppure arrabbiate con il mondo.

Volevo raccontare la mia versione dei fatti

È uno spettacolo di musica e parole. Come lo hai costruito?

Sono partito da dieci canzoni per me particolarmente significative, non tanto per il testo nella sua interezza, quanto per alcuni passaggi o immagini o perché capaci di evocare in me emozioni profonde. Alla ricerca di un filo conduttore che le legasse, mi sono imbattuto in un post sul blog imprevisti.wordpress.com, ora diventato parte del libro Lo zaino di Emma (di Martina Fuga - ed.

Mondadori) che mi è piaciuto molto e a cui mi sono ispirato per la scrittura dei testi recitati.

Di cosa parli?

Semplificando molto, sono dieci risposte a dieci domande che i genitori di persone con sindrome di Down si sentono rivolgere molto spesso. Poi non vi dico altro. Bisogna vederlo.

Dicci solo una cosa: ci sono più musiche oppure parole?

Parlano le emozioni, la musica scavalca le parole. In 70 minuti di spettacolo parlo di me, della mia casa, della mia famiglia, del mio essere genitore di Matilde. Le musiche so-

La vita con Matilde Matilde è una bellissima bambina bionda. Una scout. Mi abbraccia e mi sorride quando mi vede. La sua mamma Evy la porta in bici, in giro per Rimini, e ogni volta che mi incontra ci tiene molto a raccontarmi dove sta andando, cosa deve fare di lì a poco, oppure cosa l’aspetta la domenica. Quasi sempre una gita con gli scout, oppure una passeggiata in spiaggia, la messa con il coro e l’immancabile pranzo dalla nonna con gli zii e i cugini. Mi dice che in casa sua, sul frigo c’è la scheda delle faccende da fare e che prende una stellina tutte le volte che porta a compimento una piccola, grande, missione. Quando mi è capitato di chiamare a casa sua per parlare con Riccardo oppure con Evy, tira sempre aria di movimento: Prendi Matilde…che io vado al telefono! Non scrivere sul tavolo. Raccogli quei giochi, vieni che impastiamo la piadina. Ma ho capito che in quella casa quella che tira non è aria di movimento. È aria di vita.

«Un’ultima cosa. Puoi dire questo?»

«Cosa?», rispondo a Riccardo.

«Guarda è scritto nella locandina che distribuiamo in sala quando c’è lo spettacolo. Tutte le offerte raccolte durante la serata sosterranno le attività di Crescere Insieme onlus, associazione di volontariato della provincia di Rimini, che promuove progetti per persone con sindrome di Down e disabilità intellettiva. Se questo viaggio tra musica e parole è stato di vostro gradimento, aiutateci a portarlo in giro per il mondo. Contattateci al 393 850 2649».

«E come no, Riccardo. Certo che lo dico...». dicembre 2015-gennaio 2016 Scarp de’ tenis

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Un’immagine de el vovo cellula abitativa temporaneo per artisti ospitata alla casa S. Alvise di Venezia

VENEZIA anche negli ospiti un modo nuovo e diverso di porsi e raccontarsi. Altra cosa molto interessante è aver capito ancora meglio che il fare le cose insieme aiuta moltissimo a relazionarsi».

Il progetto presentato da Talbot-Kelly e risultato vincitore del bando, prevedeva la realizzazione di una magic box con materiale di scarto, raccolto in città. La costruzione

Alterity for art Un artista ospite a casa S. Alvise di Michele Trabucco

info Casa dell’Ospitalità di Mestre.

Via S.Maria dei Battuti 1/d Mestre (VE) tel. 041-958409.

La Casa dell’Ospitalità continua a innovare e cercare vie per il recupero delle persone.

In questa linea si è aperto un nuovo servizio: 2 posti letto per persone senza dimora dimesse dall’ospedale e bisognose di cure post ospedaliere. Iniziativa nata in collaborazione con Emergency, la Croce Rossa e le realtà locali dell’ambito sanitario.

Una “residenza per artista” in casa S. Alvise (centro di accoglienza per senza dimora) a Venezia. Un artista di fama mondiale ospite tra gli ospiti senza dimora. Un progetto che ha entusiasmato tutti e a tutti ha lasciato qualcosa di importante. È successo grazie a un’idea di due architetti, Andrea Zanchettin e Gabriele Cavassano, che hanno progettato una cellula abitativa temporanea dal nome intrigante, el vovo (l’uovo in dialetto veneziano) da collocare in uno spazio ristretto, circa 4x4 metri, in luoghi degradati delle città per ospitare un artista che, in un lasso di tempo contenuto, potesse dare vitalità, decoro, slancio, riqualificazione all’area individuata.

Così la Fondazione Casa dell’ospitalità ha indetto un bando internazionale, attraverso la piattafor-

L’artista canadese Matthew Talbot-Kelly ha vissuto, dormito e prodotto arte insieme agli ospiti 58 Scarp de’ tenis dicembre 2015-gennaio 2016

ma gloosom, per realizzare un progetto di “B&A” (bed & art) dal titolo Alterity for Art. L’artista, gli altri e Venezia. Il 18 settembre è arrivato direttamente dal Canada il vincitore del bando Matthew Talbot-Kelly che si è sistemato nella sua cellula abitativa temporanea in una delle sale al piano terreno di casa S. Alvise.

Da subito si è fatto accogliere ed accettare dai 18 ospiti per la sua semplicità e per il suo mettersi immediatamente al loro passo, mangiando e lavando i piatti insieme a loro. E così è stato fino al 6 ottobre. Una presenza che ha dato moltissimo.

Scommessa vinta «Abbiamo accettato questa scommessa – racconta Gabriele Soave, uno degli operatori della casa – sapendo che era un’incognita. Quello che ci ha colpito è stata la presenza di una persona estranea a noi, di provenienza culturale e linguistica diversa, priva di pregiudizi e con una visione delle cose molto diversa dalla nostra, sia per i suoi motivi professionali sia per la sua sensibilità.

Questo suo atteggiamento ha creato

e l’assemblaggio doveva essere fatto con la libera partecipazione degli ospiti. E giorno per giorno tutti gli uomini si sono resi disponibili, secondo capacità e preferenze personali, a contribuire alla costruzione di questa piccola struttura fatta di porte, battenti, assi di legno vecchi.

Dentro questa cabina (dagli ospiti definita anche come un “cesso da campo”) c’erano dei tasti da premere che attivavano dei suoni registrati in casa S. Alvise o in giro per la città.

«Questo progetto – spiega Sergio, operatore della casa – ha permesso di aprirci ancora di più al territorio, alla città. L’evento finale del 4 ottobre è stato il culmine di un andirivieni di persone venute per vedere la casa e quello che stavano facendo gli ospiti con Matthew, e noi che siamo andati a coinvolgere e a raccontare la nostra esperienza».

Sentirsi valorizzati Le difficoltà non sono mancate poiché gli ospiti avevano paura di essere strumentalizzati, ma gli incontri di preparazione tra loro e gli operatori e la presenza di Matthew hanno sciolto ogni riserva. Anzi. Tutti si sono dati da fare sentendosi valorizzati per le loro capacità e inclinazioni, davanti a una persona che li cercava e accoglieva. È proprio l’indole dell’artista saper guardare la realtà e le persone con uno “sguardo diverso, altro”, rispetto a tutti gli altri. Ed è soprattutto questo che ha segnato e colpito tutti.

«Ora abbiamo in vista altri progetti – ha detto Gabriele – perché vogliamo continuare a lavorare e far maturare i semi che sono stati gettati in quei giorni».

Marco Ferrigno e alcune delle sue creazioni famose in tutto il mondo dentro il suo laboratorio bottega a San Gregorio Armeno

Arte napoletana: i pastori secondo Ferrigno di Maria Esposito

L’arte napoletana conosciuta in tutto il mondo è quella dei pastori di terracotta. Nel centro storico di Napoli, a San Gregorio Armeno, c’è una bottega, quella di Ferrigno, che li produce. Questa bottega esiste dal 1836 e si tramanda di generazione in generazione. Oggi in bottega c’è Marco Ferrigno, prima di lui suo padre, Giuseppe e prima ancora il nonno.

info Giuseppe e Marco Ferrigno via San Gregorio Armeno, 8 Napoli mail info@arteferrigno.it tel 081 552 31 48

Marco, da piccolo, andava sempre nella bottega quando usciva da scuola. La mamma e il papà non solo vendevano i pastori ma li realizzavano. Marco è laureato in Economia Aziendale ma oggi fa il mestiere del padre e crea i pastori, che sono le statuine bibliche: la Madonna, i Re magi, San Giuseppe e il Bambino Gesù.

Ma non solo: ci sono tante statue, da Papa Francesco a Totò, da Eduardo De Filippo a Pino Daniele che vanno bene come soprammobile.

Marco ci racconta che lavora tanto su commissione, c’è chi per Natale si fa fare una statua con il volto del papà o del figlio. Le sue statue sembrano vive, come se par-

lassero con le rughe, con i nasi grandi, con gli occhi, con i vestiti di seta di San Leucio. Ècome se ti guardassero. Ognuna ha la propria storia, sembra di stare in un teatro e vede-

NAPOLI re tanti burattini che raccontano la loro vita. Nella bottega, salendo le scale, troviamo il laboratorio.

Qui lavorano quattro ragazzi di nazionalità diversa con un’unica passione: fare statue. Giusy, con uno stampino e la terracotta ne fa il corpo, Teodoro un ragazzo bulgaro, che lavora in bottega da 10 anni, colora le guance e i visi, e Charly, un ragazzo cingalese crea i lineamenti del viso. Charly è in bottega da sei mesi e deve imparare che i visi della tradizione napoletana non sono come quelli delle sue origini. Infine c’è un ragazzo che aggiunge gli occhi di cristallo alle statue.

Giusy lavora in bottega da dieci anni, prima faceva i fiori di ceramica ed era bravissima, pian piano sta imparando a fare le statue. Teodoro prima lavorava in un bar e portava il caffè in bottega. Si fermava molto tempo a guardare, gli piaceva osservare come facevano le statuine.

Grazie a questo suo interesse, Marco l’ha preso a lavorare e adesso è in grado di realizzare una statuina per intero. Marco ha un figlio di 12 anni, una bella famiglia, è un uomo sveglio, simpatico e genuino, un napoletano verace, conosciuto per la sua arte in tutto il mondo.

SCHEDA

Una bottega piena di capolavori Tra tanti negozietti, quasi uno attaccato all’altro, e tante bancarelle dove la concorrenza è all’ordine del giorno, sulla discesa di San Gregorio Armeno c’è il negozio di terracotte di Marco Ferrigno e al piano superiore c’è la bottega, dove giovani artigiani creano i pastori. Marco, 46 anni, gestisce con maestria questa bottega artigiana, tramandata di padre in figlio. Questa sua passione, il suo talento, è cresciuta pian piano, da quando - fin da piccolo – andava al piano superiore a fare i compiti. Marco è una persona determinata che con capacità porta avanti un mestiere antico. Nel suo negozio c’è di tutto e di più. All’entrata ci sono due grandi statue: una è del cantante Pino Daniele, una somiglianza impressionante. All’interno c’è un vasto assortimento di pastori, presepi allestiti in modo tradizionale e caratteristico. Salendo al piano di sopra, abbiamo conosciuto i quattro artigiani, ragazze e ragazzi molto giovani, ognuno con il proprio compito e con la loro specializzazione. È stato bello trascorrere una giornata tra statue e presepi ad ammirare le strade già addobbate, in attesa del Natale.

Marianna Palma dicembre 2015-gennaio 2016 Scarp de’ tenis

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REPORTAGE

Sannio, dopo l’alluvione lavoro a rischio di Stefania Marino

Ad oltre un mese dal violento nubifragio che ha messo in ginocchio Benevento e parte del suo territorio la situazione è tutt’altro che risolta.

Uno dei problemi maggiori è legato alla difficoltà delle aziende della zona di ricominciare a produrre 60 Scarp de’ tenis dicembre 2015-gennaio 2016

C’è qualcuno che nel ricordare quella notte descrive onde di fango. Un’immagine quella del nubifragio del 15 ottobre scorso destinata a rimanere nella memoria della città di Benevento. “Eccezionali eventi meteorologici” e cioè pioggia, tanta pioggia, che in poche ore ha causato l’allagamento di strade e case, ha distrutto centinaia di automobili, infangato aziende costrette a fermare la produzione. È quello che è accaduto nel Sannio in un autunno che doveva scorrere come tutti gli altri e che invece ha riportato alla mente l’alluvione del 2 ottobre 1949. Anche allora il fiume Calore ruppe gli argini. Il maltempo ha colpito non solo la città papalina ma anche tanti altri comuni del territorio provinciale, come Paupisi, Solopaca, Ponte, Pago Veiano dove una donna è morta travolta dall’ondata di acqua.

A Montesarchio un uomo ha perso la vita per un malore mentre spalava fango dalla sua abitazione e qualche giorno dopo un operaio a Ponte Valentino è morto a causa di una scarica elettrica. Dal balcone

A sinistra un volontario Caritas al lavoro nelle ore immediatamente successive all’alluvione che ha colpito il Beneventano.

A destra due immagini emblematiche della furia del fiume Calore

della Cittadella della Carità “Evangelii gaudium” quartier generale della Caritas diocesana di Benevento, si vede poco lontano il fiume che attraversa la città. Qui dove la cruda realtà ha superato l’immaginazione gli alberi si mostrano piegati, abbattuti dalla furia dell’acqua che per lunghe ore non ha risparmiato niente e nessuno.

Situazione difficile È il 10 novembre e, a circa un mese dall’alluvione, le conseguenze si toccano ancora con mano. Un segnale stradale semicoperto dal fango parla da sé di ciò che è stato. Il fango, asciugatosi, è diventato polvere che copre i marciapiedi. Basta parlare con don Nicola De Blasio, il direttore della Caritas diocesana per farsi un’idea del lavoro fatto nei momenti di massima emergenza quando nella mensa si preparavano anche mille pasti al giorno.

«Nel dormitorio – racconta don Nicola – ci sono ancora 5 famiglie sfollate, costrette a lasciare la propria abitazione lì nel quartiere Pantano, una delle zone maggiormente colpite dall’alluvione».

Lui e il suo staff lavorano ininterrottamente dall’alba

numeri Volontari 1.051 Personale Caritas 30 Servizio Civile 40 Professionisti (Cuochi, avvocati, tecnici) 11 Totale persone coinvolte : 1.132 Pasti caldi offerti: 14.804 di cui 7.848 per famiglie e 6.956 per volontari 850 interventi effettuati con donazione di beni materiali 228 famiglie seguite 134 i kit pulizia casa/igiene personale/infanzia per famiglie 272 panieri alimentari distribuiti di cui 243 nella sola città di Benevento 144 famiglie che hanno ricevuto indumenti 29 persone accolte nel dormitorio Caritas

del 15 ottobre. In poche ore hanno predisposto un sistema organizzativo per poter preparare centinaia di pasti per chi non poteva più entrare in casa.

«La prima cosa fatta la mattina del 15 ottobre – continua don Nicola – è stata recuperare pale e guanti per spalare. E pronti a dare una mano sono arrivati tantissimi volontari, come gli studenti Erasmus o i rifugiati delle strutture Sprar. E poi è arrivata la solidarietà di un’Italia intera, da nord a sud. Il primo acquisto è stato una macchina di 900 euro consegnata ad un papà di un ragazzo disabile. Bonifici ma anche donazioni brevi manu; come quella di una donna di 94 anni che arriva una sera e dopo la messa mi ha consegnato una busta con mille euro. Li aveva messi da parte per il suo funerale.

Ma poi si è resa conto di quello che era successo alla sua Benevento e ha deciso che quei soldi potevano servire a qualcosa, a qualcuno».

Piccoli e grandi gesti di solidarietà come quello di un bambino che arriva in Caritas con un barattolo di cioccolata da voler condividere con altri bambini. Il fondo straordinario istituito per l’emergenza “Alluvione

nel Sannio” è stato finalizzato per l’acquisto di materiale per ristrutturare le abitazioni, ma anche letti, televisioni, lavatrici, frigoriferi. Il minimo per ripristinare la vita quotidiana. Squilla in continuazione il cellulare di don Nicola che ascolta e dispone. Ci sono ancora persone a distanza di venti giorni che chiedono indumenti e kit pulizia. L’organizzazione Caritas ha predisposto delle squadre che si recano nelle varie zone interessate dal maltempo. Fanno visite domiciliari anche fornendo supporto psicologico specializzato e si rendono conto delle condizioni di vulnerabilità delle famiglie.

Aziende in ginocchio Il grande problema ora è legato ai danni subiti da quelle aziende che hanno dovuto chiudere i cancelli.

«La grande emergenza è il lavoro», sentenzia don Nicola.

Intanto sono state messe in campo diverse azioni di sostegno tra cui il “Progetto Bartimeo” che mette a disposizione delle famiglie una rete di tecnici (architetti, ingegneri, idraulici, falegnami) per fare una stima dei danni a cui seguono degli interventi sostenuti dalla Caritas diocesana.

Nel frattempo il Governo ha deliberato lo stato di emergenza stanziando per il Sannio 38 milioni di euro per interventi di somma urgenza.

Si stimano 700 milioni di euro di danni di cui 150 solo nell’area di sviluppo industriale. Sul sito del Comune di Benevento uno spazio ad hoc mette a disposizione i moduli per la rilevazione dei danni al patrimonio edilizio privato e alle attività economiche e produttive. dicembre 2015-gennaio 2016 Scarp de’ tenis

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VOCI DALL’AMERICA

Silicon Valley: notte sull’Hotel 22, l’autobus che ospita gli homeless

di Damiano Beltrami

Per rendersi conto della povertà estrema della Silicon Valley, una delle zone che producono più ricchezza al mondo, basta prendere un autobus. Precisamente il numero 22. Tra sbuffi, fischi e scossoni, tocca le città dell’eldorado tecnologico: San Josè, Santa Clara, Sunnyvale, Mountain View, Palo Alto.

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Ma di notte, più che un autobus, è un ostello per senzatetto su quattro ruote. Diventa l’Hotel 22. Verso le 11 di sera gli homeless occupano già quasi tutti i posti.

«Lo so che dormirete qui – dice l’autista al microfono con tono severo –, per cui capiamoci, via i piedi dai sedili, lasciate il bus in ordine per quelli che lo useranno domani mattina per andare al lavoro. Niente scenate, è chiaro? Altrimenti le conseguenze le sapete».

scheda Damiano Beltrami, nato a Genova. Classe 1982. Reporter.

Negli Stati Uniti dal 2008 con una borsa Fulbright. I suoi articoli e i suoi video sono apparsi su testate americane e italiane, tra cui il New York Times, l’Huffington Post e il magazine mensile del Sole24Ore IL. Nel tempo libero ama camminare nei boschi.

Un albergo su ruote L’albergo mobile, i cui inquilini sono per lo più ispanici e neri, scivola lungo El Camino Real, la leggendaria strada di mille chilometri che collega la California con il Messico. Sotto la luce bluastra dei neon, emerge un basso continuo di respiri affannosi.

Ci sono fronti appoggiate ai sedili, teste ricurve in cappucci di felpe, corpi raggomitolati in mantelline di nylon. Qualcuno si tappa il naso, sopraffatto dall’odore acre tutt’intorno.

Alle tre di notte un messicano dal viso smunto si rivolge all’autista: «Perché non accendi sto cavolo di riscaldamento? – lo rimprovera –. Abbiamo pagato il biglietto» Ne segue un battibecco, il guidatore minaccia di lasciarlo a piedi. Torna il silenzio. Poco dopo,

Ho chiesto ad alcuni ospiti dell’Hotel 22 perché non si trasferiscono a a vivere da un’altra parte dove i prezzi degli affitti sono più abbordabili – racconta la regista Elisabeth Lo –.

Alcuni, da tempo in graduatoria per una casa popolare, mi hanno risposto: “Io in questa zona ci sono nato e cresciuto, perché mai dovrei andarmene?”

Un’immagine dell’autobus 22 rifugio notturno su ruote per homeless

a metà autobus, un signore asiatico, ubriaco e forse infastidito da una vicina di posto, scatta in piedi e snocciola insulti razzisti contro i neri. Un afromericano seduto davanti si gira, gli ordina di chiudere il becco. Piovono altre parole grosse.

Alle cinque e trenta l’Hotel 22 arriva al capolinea, Eastridge Way, San Josè. Per gli ospiti dell’albergo mobile è ora di sloggiare. Di botto si accendono tutte le luci. Len-

tamente uomini e donne imbacuccati e assonnati si alzano e provano a sgranchirsi. L’autista procede al check-out dell’Hotel 22 senza convenevoli: «Ok, sveglia! Siamo arrivati, fuori, amici, sciò».

Le storie di Hotel 22 A catturare questi frammenti di disperazione nascosti tra le pieghe del boom tecnologico della Silicon Valley, dove tutti i problemi sembrano risolvibili con una app dello smartphone, è stata una giovane documentarista, Elisabeth Lo, cresciuta a East Palo Alto e laureata in Documentary Film e Video all’università di Stanford, non lontana dal tragitto dell’Hotel 22.

Nessun nome di senzatetto è citato nel breve film “Hotel 22” di 8 minuti e mezzo, un concentrato di sei notti trascorse dalla regista a filmare sul bus. Il protagonista della storia è appunto l’autobus, il rifugio quasi segreto, conosciuto tramite il passaparola, che aiuta questi reietti a sopravvivere.

«Ho chiesto loro perché non vanno a vivere da un’altra parte dove i prezzi degli affitti sono più abbordabili – racconta Elisabeth Lo –.

Alcuni, da tempo in graduatoria per una casa popolare, mi hanno risposto: «io in questa zona ci sono nato e cresciuto, perché mai dovrei andarmene?». dicembre 2015-gennaio 2016 Scarp de’ tenis

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VENTUNO

L’Onu fissa i nuovi obiettivi per un mondo più giusto Le Nazioni Unite hanno approvato, alla fine di settembre, il programma per lo Sviluppo sostenibile, che rappresenta il prosieguo del lavoro iniziato con gli Obiettivi del Millennio nel 2000, chiuso tra luci e ombre di Andrea Barolini

Alla fine dello scorso mese di settembre le Nazioni Unite hanno approvato a New York i nuovi “Obiettivi per lo Sviluppo sostenibile”. Si tratta della riedizione degli otto “Obiettivi del Millennio per lo sviluppo” che erano stati lanciati nel 2000 (e terminati, tra luci e ombre, quest’anno): con il nuovo programma si vuole cercare di garantire un futuro migliore agli 8,5 miliardi di persone che abiteranno la Terra nel 2030.

scheda

Ventuno come il secolo nel quale viviamo, come l’agenda per il buon vivere, come l’articolo della Costituzione sulla libertà di espressione.

Ventuno è la nostra idea di economia. Con qualche proposta per agire contro l’ingiustizia e l’esclusione sociale nelle scelte di ogni giorno.

L’iniziativa assunta dai 193 Paesi che compongono l’Organizzazione delle Nazioni Unite appare particolarmente ambiziosa.

Entrerà ufficialmente in vigore l’1 gennaio 2016, e ha comportato un lunghissimo negoziato: tre anni di discussioni cominciate nel 2012 a Rio de Janeiro, in occasione del summit “Rio+20” (all’epoca, le nazioni implicate erano una settantina).

«Stavolta, i nuovi obiettivi sono stati fissati dai Paesi membri assieme a numerosi attori della

64 Scarp de’ tenis dicembre 2015-gennaio 2016

LA SCHEDA

Ecco i nuovi obiettivi per lo sviluppo sostenibile Eliminare la povertà in tutte le sue forme Azzerare la fame e realizzare un piano per la sicurezza alimentare Migliorare la salute, in particolare per le partorienti, e scongiurare le morti di bambini di età inferiore a 5 anni per cause che si possono prevenire Garantire a tutti un’istruzione di qualità, inclusiva e paritaria Realizzare l’uguaglianza di genere e migliorare le condizioni di vita delle donne Gestire ovunque in modo sostenibile le risorse idriche Assicurare a tutti l’accesso a fonti di energia pulita e a prezzi ragionevoli Promuovere una crescita sostenibile e la piena occupazione, con un lavoro decoroso, per tutti Promuovere un’industria sostenibile e favorire innovazione e ricerca Ridurre le disuguaglianze con politiche fiscali, salariali e di protezione sociale Rendere sicuri, inclusivi e sostenibili gli spazi di vita nelle città e nelle comunità Garantire modelli di consumo sostenibili, riducendo sprechi e inquinamento Agire urgentemente per combattere i cambiamenti climatici e le loro conseguenze Adottare politiche di salvaguardia di mari e oceani Proteggere gli ecosistemi terrestri, combattendo la desertificazione, difendendo le foreste e la biodiversità Garantire a tutti l’accesso alla giustizia, ridurre violenza e promuovere società pacifiche Rivitalizzare le collaborazioni a livello globale per realizzare uno sviluppo sostenibile, con la collaborazione di tutti i Paesi.

per il diritto all’istruzione.

società civile, al contrario di quelli del 2000 che erano stati approvati solamente dai governi» ha spiegato al quotidiano francese Le Monde Anne-Laure Jeanvoine, consigliera del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Pnud).

«La nostra – ha spiegato Helen Clark, dirigente del Pnud, all’indomani dell’approvazione – è l’ultima generazione in grado di scongiurare gli effetti più disastrosi del riscaldamento dell’atmosfera, e la prima a disporre dei mezzi economici e delle conoscenze necessarie per sradicare la povertà. Se la comunità in-

17 obiettivi, 169 target

I 193 Paesi dell’Onu hanno così definito un totale di 17 obiettivi, declinati in 169 target specifici. Il primo punto prevede di “eliminare la povertà in tutte le sue forme”, partendo dall’assunto che 800 milioni di persone vivono ancora con meno di 1,25 dollari al giorno. Quindi,

tra gli obiettivi del programma figurano la lotta alla fame e alle disuguaglianze, il miglioramento dell’accesso ai servizi sanitari, l’adozione di politiche che combattano i cambiamenti climatici, la possibilità di utilizzare fonti di acqua potabile di buona qualità, nonché nuovi sforzi

Proprio negli anni in cui sono stati spesi 16 mila miliardi di dollari per salvare le banche, non si è riusciti a trovarne molti meno per sconfiggere la povertà e la fame nel mondo

ternazionale sarà pronta, nel suo insieme, a fronteggiare la sfida posta dagli Obiettivi per lo Sviluppo sostenibile, potremo garantire prospettive migliori per il Pianeta e per l’intera umanità». Al fine di valutare gli avanzamenti di ciascun Paese, nonché del Pianeta nel suo complesso, l’Onu ha deciso anche di adottare un’ampia serie di indicatori: in tutto saranno circa 300.

E le risorse?

Il problema è il costo dell’intero programma, stimato tra 3.500 e 5 mila miliardi di dollari. Una cifra colossale.

Come fare per reperire tutto questo denaro? Una parte dovrebbe arrivare dagli aiuti pubblici allo sviluppo. Ma si tratterà con ogni probabilità di una quota insufficiente, anche perché pochi Paesi ricchi hanno mantenuto la promessa di consacrare lo 0,7% della ricchezza prodotta annualmente a questo scopo. Ebbene sì, pro-

prio negli anni in cui sono stati spesi più di 16 mila miliardi di dollari per salvare le banche e il sistema finanziario di tutto il mondo, non si è riusciti a trovarne molti meno per sconfiggere totalmente la povertà e la fame. Per evitare che tali problemi riscontrati negli ultimi 15 anni si ripetano, le Nazioni Unite hanno fatto sapere che tenteranno di aumentare la pressione sui governi (specialmente quelli delle nazioni più agiate) affinché accrescano le risorse destinate agli aiuti allo sviluppo, anche attraverso – ad esempio – la lotta all’evasione e alla corruzione. Ad oggi, i finanziamenti che sono stati dedicati, dicembre 2015-gennaio 2016 Scarp de’ tenis

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VENTUNO

Il bilancio dei primi 15 anni di impegno dell’Onu

nare la povertà e proseguire nello sviluppo avviato negli scorsi decenni occorre aumentare il quantitativo di aiuti che le economie ricche concedono a quelle più svantaggiate, nonché mobilitare risorse private».

In attesa di un’eventuale revisione del meccanismo che governa i finanziamenti, è proprio su quest’ultimo punto che ci si è concentrati nel corso di una conferenza internazionale tenuta ad Addis-Abeba nello scorso luglio, quando i governi hanno sottolineato la necessità di ricorrere anche a fondi non pubblici. «A patto però che le allocazioni non vadano a sostenere pratiche nefaste, come ad esempio lo sfruttamento delle energie fossili, ma politiche sostenibili», ha ammonito Pierre Cannet, del Wwf.

In un articolo pubblicato nell’aprile del 2013, Savio Carvalho, dirigente dell’organizzazione umanitaria Amnesty International – nonché responsabile della campagna Esigiamo la dignità aveva ricordato come mancassero «ormai solamente mille giorni per realizzare gli Obiettivi del Millennio per lo Sviluppo», domandandosi se il bicchiere fosse mezzo pieno o mezzo vuoto.

Ebbene, quindici anni dopo l’adozione degli impegni da parte della comunità internazionale, qual è il bilancio che possiamo stilare? «Effettivamente, alcuni pro-

Tra (poche) luci e (tante) ombre vanno in archivio gli obiettivi con scadenza dicembre 2015. Ecco il bilancio 66 Scarp de’ tenis dicembre 2015-gennaio 2016

Campo profughi di Dagahaley a Dadaab, in Kenya.

Rifugiati somali attingono acqua

Romano Siciliani

Gli aiuti allo sviluppo, che per i Paesi meno avanzati rappresentano il 70% dei finanziamenti provenienti dall’estero, sono fondamentali per il raggiungimento dei nuovi obiettivi

complessivamente, agli Obiettivi dell’Onu sono all’incirca pari a 135 miliardi di dollari (dato riferito al 2014 dall’Ocse): ciò basta a far comprendere quanto tortuosa sia la strada per raggiungere i livelli indicati.

Proprio per questo la stessa Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico ha spiegato pochi mesi fa che è necessario rivedere il meccanismo.

Gli aiuti allo sviluppo sono infatti fondamentali per ottenere gli obiettivi che il mondo si è prefissato: «Essi – spiega l’organismo internazionale – rappresentano per i Paesi meno avanzati più del 70% dei finanziamenti provenienti dall’estero, e oltre un terzo delle entrate complessive. Per questo occorre rivedere la quota dello 0,7% del Pil fissata nel 1970 dalle Nazioni Unite. Per elimi-

gressi importanti sono stati realizzati – ha commentato il quotidiano francese Le Monde –.

In particolare, è stato dimezzato il numero di bambini non scolarizzati, ed è stata diminuita di oltre il 50% la quota di popolazione mondiale che vive in condizioni di povertà estrema (essa è passata da un totale di 1,9 miliardi di persone nel 1990 a circa 836 milioni quest’anno). Avanzamenti si sono registrati anche nella lotta contro la fame e la scarsa alimentazione».

Ma per valutare appieno i numeri è necessario approfondirli, almeno in parte.

Una quota preponderante del merito della riduzione del 50% del numero di poveri nel mondo (ovvero di coloro che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno), ad esempio, è da attribuire ad un’unica area geografica. In particolare,

IL PUNTO

è infatti in Cina che lo sviluppo economico – con una crescita che è ormai da decenni su valori particolarmente alti: circa l’8% nel 2000, il 14% nel 2007 e il 7% lo scorso anno – ha permesso di fare funzionare l’ascensore sociale per milioni di persone. Solamente la decisione di assicurare una protezione sociale “minima” a tutti i cinesi, ad esempio, ha comportato che se nel 2004 solo il 16% della popolazione beneficiava di una copertura sanitaria, tale valore è cresciuto al 99% nel 2012. E dal momento che nel Paese vivono 1,4 miliardi di persone, si comprende la portata del cambiamento anche sulle statistiche mondiali.

In troppi nelle bidonville Ma se alcuni obiettivi sono stati raggiunti (malgrado i dovuti distinguo), altri sono stati mancati.

«Le disuguaglianze persistono e il

progresso non è stato tale per tutti. Nel 2011, nel mondo circa

Una quota preponderante del merito della riduzione del 50% del numero di poveri nel mondo è da attribuire a un’unica area geografica: la Cina

il 60% del miliardo di persone che viveva in povertà estrema era concentrato ancora in soli cinque Paesi», ha ammesso il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, nell’introduzione del rapporto 2015 sugli Obiettivi del Millennio.

Ancora, non sono stati realizzati avanzamenti sufficienti in materia di salute in gravidanza e di contraccezione, in particolare in alcuni Paesi in via di sviluppo. Il rischio di morire a causa del parto è ancora quattordici volte più elevato in tali nazioni, rispetto ai Paesi più sviluppati.

bisogni. Tutti segnali che indicano come la strada da percorrere sia ancora lunga.

«Dobbiamo ricordarci – ha spiegato Carvalho – le parole della Dichiarazione del Millennio pronunciata alle Nazioni Unite dai Paesi membri, nella quale ci si impegnava a “cercare di assicurare, in tutti i Paesi, la promozione e la protezione integrale dei diritti civili, politici, economici, sociali e culturali di ciascun individuo”.

Questa può e deve rappresentare la base di partenza, il fondamento e il cuore stesso delle azioni successive al 2015. Affinché il nuovo programma sia all’altezza delle sue stesse aspirazioni».

Inoltre, almeno 880 milioni di persone vivono ancora in abitazioni giudicate non dignitose (baracche, bidonville), e quasi un miliardo non ha a disposizione bagni per i loro dicembre 2015-gennaio 2016 Scarp de’ tenis

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INCONTRI

LABORATORI

AUTOBIOGRAFIE

CALEIDOSCOPIO Andreas e Miguel al lavoro per le strade di Milano. Messicani di origine ma milanesi di adozione si sono iscritti a un corso di laurea

Andreas e Miguel, acrobati che vogliono la laurea Andreas e Miguel fanno gli acrobati in zona Loreto, si destreggiano sul monociclo giocando con clave o palline. Sono fratelli, arrivano dal Messico e dell’arte di strada ne hanno fatto un modello di vita. Hanno girato tutta Europa ma da 3 anni Milano è diventata per loro quasi una casa, nonostante ogni 3 mesi debbano lasciare il Paese, per poi rientrare. Ma quest’anno sarà diverso perché si sono iscritti all’università. «Ci è sempre piaciuta l’arte circense e, fin da piccoli, giocavano sempre a fare gli acrobati in giardino – raccontano –: lo studio però è importante e necessario. In questi anni abbiamo girato l’intera penisola e il calore che riceviamo dappertutto è indescrivibile: non è raro che le persone ci invitino a casa loro per cena. Anche i vigili qui sono più umani che nel resto d’Europa». Andreas e Miguel dividono una stanza in zona Lambrate con altri studenti, si muovono in bici e così, con il loro guadagno, riescono a pagare le spese e hanno di che vivere dignitosamente. Qualche diAntonio Vanzillotta savventura però l’hanno vissuta: « Un giorno mentre ci stavamo esibendo ci hanno rubato le bici...». dicembre 2015-gennaio 2016 Scarp de’ tenis

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PAROLE

Incontro con Michele, l’uomo delle conchiglie

L’arte di Michele che trasforma conchiglie in cammei Racconto di Michele Persichino, ex vigile del fuoco e soprattutto, per la sua esagerata indole creativa, incisore di cammei. Sembra che sia l’ultimo dei Moicani, nel senso che nessun altro lavora la conchiglia come anticamente si faceva. Ho rispetto per la sua età, gli credo sulla parola. Il suo lavoro è qualcosa di affascinante, crea cammei, lavoro che sembra, all’occhio del profano, qualcosa di facile; ma tutto quello che si lavora con le mani, facile non lo è. Le conchiglie, in verità ce ne sono di due specie, sardonica e corniola, hanno caratteristiche assai diverse sia per struttura che per provenienza. Le sue mani ferme hanno il potere di addormentarle e queste si fanno plasmare senza sentir dolore.

Michele lavora sul suo piccolo tavolino a piazzetta Nilo e lì che, attorniato da curiosi, sfoga la sua arte di incisore. Lavora all’aperto, spirito libero, perché vuole far capire alle persone l’importanza del lavoro fatto con le mani, piuttosto che elaborato in un anonimo laboratorio.

Quando lavora indossa una visiera di color blu, di certo non per vezzo, ma perché questa gli permette, in primis, di avere una visione migliore di ciò che sta creando e anche per non dare occhiate che avrebbero il potere di distrarlo. La gente quando lo vede al lavoro resta meravigliata e si chiede il perché un ottuagenario resti lì, per ore, invece di restarsene a casa e godersi il meritato riposo pensionistico.

La fantasia, l’arte e la voglia di far conoscere ai più giovani quei mestieri che andrebbero preservati, accuditi, insegnati. Questo lo obbliga. Una sorta di missione laica, che lui, sorridendo, compie tutti i giorni, lì sul piccolo tavolino nella splendida cornice di piazzetta Nilo. In quest’epoca di falsi miti, di disturbatori della mente, di lavoro a cottimo, di brutture quotidiane, di talenti assopiti, per fortuna, nella nostra città, c’è un uomo che cerca di far capire e far apprezzare la bellezza manuale. Mi auguro che in futuro, soprattutto i ragazzi, vedendolo lavorare, possano capire che a volte basta un tavolino, una visiera, un bulino e tutto diventa bello.

Il bello che umilia, uccidendolo, il brutto.

Aldo Cascella

70 Scarp de’ tenis dicembre 2015-gennaio 2016

Michele Persichino fotografato al suo tavolo da lavoro a piazzetta Nilo.

I suoi cammei vengono venduti in tutto il mondo

PAROLE

L’artigiano Creazione è cultura, comunicazione Con la semplicità e la spontaneità, della creta senza limiti, con infinite possibilità prende forma la fantasia che non ha età Sono presenti nella mente personaggi famosi Che con la creta diventano formosi Ed il ricordo crea un perfetto accordo.

Antonio Zacco

Come redazione di Scarp de’ tenis siamo stati a trovare Michele Persichino artigiano che crea bellissimi cammei.

Michele fa un mestiere molto originale e ci ha illustrato, con molto amore e passione, i manufatti che rappresentano delle figure mitologiche greche come ad esempio un cammeo di color rosa che rappresentava il Paradiso.

Michele ha iniziato a produrre cammei da bambino, per passione e questa passione se l’è portata dentro tutta la vita facendola diventare una sorta di “missione”.

Con le sue mani ritaglia conchiglie molto speciali e rare (corniola e sardonica), che vengono da paesi molto lontani dell’Africa del Sud. Questo materiale così speciale nelle sue mani, viene plasmato per dargli delle forme molto originali e particolari e lì lungo la strada del Decumano, vicino a Piazzetta Nil0, con il suo bancariello e i suoi ferri del mestiere mantiene viva, con tenacia, una tradizione artigianale che va perdendosi nella realtà moderna e consumistica. Una delle certezze della nostra città è che, nonostante tutto, l’uomo dei cammei è lì che resiste contro il tempo e tutti i modernismi imperanti.

Luciano D’Aniello

NAPOLI

Una vita dedicata al lavoro: «Un mestiere bello e antico» PAROLE

Michele ha imparato l’arte da piccolo e non ha mai smesso di produrre cammei. I suoi lavori richiesti in tutto il mondo Parlo di Michele Persichino, una persona di 78 anni che non si vedono, uno degli ultimi maestri incisori della lavorazione di cammeo, soprannominato Persico.

Napoletano, nato nel 1937, unico degli otto fratelli ad avere l’amore per la scultura, tramandato dal padre, maestro Beniamino, famoso scultore e intagliatore di cammei. Michele ha iniziato all’età di otto anni a imparare questo lavoro e all’età di diciotto anni ha iniziato a lavorare dalle quattro del mattino alle nove di sera anche se guadagnava solo 3 mila lire a settimana. Nonostante questo lavoro fosse la sua vita, a vent’anni si arruolò nei vigili del Fuoco, diventando maresciallo e vi rimase fino alla pensione nel 1994. Quello che mi ha incuriosito di più è che oggi lavora con un banchetto a piazzetta Nilo. Dal guscio di una conchiglia, inciso tutto a mano con un unico arnese, il bulino, nasce il cammeo.

Il guscio ritagliato viene appoggiato su un piccolo pezzo di mazza di scopa e incollato con un collante a base di pece che, alla fine del lavoro, con un colpo secco, rilascia il cammeo senza romperlo. Per realizzare un cammeo servono tre giorni di lavorazione e il costo è di un euro al millimetro.

Michele incide anche medaglioni per i paramenti sacri per i cardinali di tutta Italia, riproducendo sulla conchiglia l’immagine sacra scelta dal prelato.

«Il profilo è la firma dell’incisore» dice Michele. La sua è molto apprezzata e conosciuta anche fuori dall’Italia, fra i suoi clienti ci sono anche giapponesi e americani. Peppe Scognamiglio

Il tuo sorriso illumina Il tuo sorriso illumina il mio cuore Con l’emozione di sempre, emozione senza tempo, segreto accordato dalla musica dei miei sentimenti.

Antonio Zacco

VICENZA

Natale tra tristezza e malinconia ma basta poco per sentirsi ancora vivi Nel Natale 2003 vivevo da solo in casa con uno sfratto incombente e tanti errori che mi avevano costretto a conoscere davvero quanto può essere difficile il mondo.

Era la vigilia di Natale, lo spazio mi circonda con il suo amaro silenzio e gli unici “amici” che avevo erano un litro di Tavernello rosso e un pacchetto di sigarette. Il frigorifero era vuoto come il mio cuore e il conto che mi si presentava davanti mi dava fastidio: in casa c’era solo quel poco per tirare avanti fino al primo del mese quando, puntuali, arrivano i 400 euro per l’invalidità sul lavoro. È allora che mi ha preso la tristezza, facendomi passare la voglia di parlare. Faccio uno sforzo e telefono a mio fratello, e ne ottengo una risposta acida e cattiva. Ci riprovo e chiamo mia sorella, anche se so bene che i rapporti tra noi non sono buoni, e il risultato è lo stesso, idem come sopra.

A quel punto solo il vino poteva darmi conforto e così annegai la mia solitudine.

Mi ubriacai per colmare quel vuoto che mi riempiva. Passo dalla sedia al letto e mi addormento.

Quella notte sognai tante cose belle e al risveglio mi misi a piangere, un vero atto liberatorio. È Natale e tutto quel vuoto intorno, capisco, è il mio vero nemico. Indosso la mia tenuta da camminata, prendo il mio bastone, mi chiudo la porta alle spalle e vado. Affronto la strada per salire al monte Cengio, è pulita ma bagnata, e si scivola, ma io mi sento un guerriero e proseguo senza paura. Dopo la cima imbocco il sentiero del bosco che conosco benissimo. Passo dopo passo arrivo alla casa di Bepi, dove c’è festa. Mi chiamano dentro e mi offrono una fetta di panettone e un bicchiere di vino nero. Poi Bepi mi prepara una borsa piena di cibo e io me ne riparto. La borsa pesa, ma il dono è grande. Sono molto stanco, ma le sorprese non sono finite. Apro la porta di casa e mi trovo davanti un’altra borsa piena di cibi vari. Metto sul tavolo tutto quel ben di Dio e mi commuovo, poi la stanchezza ha il sopravvento e mi addormento vestito sul divano.

A sera mi sveglia Remo, il mio amico. È più disperato di me, ma vedendo le cibarie si dà subito da fare e organizza una cena: mangiamo bene e beviamo bene, poi ci guardiamo in faccia e ci abbracciamo, siamo poveri, ma stasera è Natale anche per noi.

Carlo Mantoan dicembre 2015-gennaio 2016 Scarp de’ tenis

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CALEIDOSCOPIO

Così è fatto l’amore Eterno è il dolore di chi ha provato l’amore.

Grande sensazione, per chi gli va bene.

Perché, se l’amore d’improvviso finisce, non sai che pensare, non riesci a capire.

Hai solo voglia di morire.

Così è fatto l’amore.

E’ un bambino che gioca con il cuore. E quando si stanca di giocare, ti rompe e ti butta via.

Fabio Schioppa

Angelo Splendente Angelo Splendente!

Se sorridi e mi abbracci con le candide ali, se mi avvolgi di piume e gocce lacrimali, se mi canti melodie delle sabbie Stellari…

Allora nella notte riecheggi nel più calmo dei mari per risorgere al mattino nell’Aurora mi appari.

Mino Beltrami

“Piccolo tetto Ozanam”, luogo per i soggetti piu fragili di Salvatore Couchoud

L’idea era nell’aria da tempo, da quando cioè i responsabili della Piccola Casa Ozanam, che offre ospitalità notturna a una trentina di homeless, stavano meditando sull’opportunità di applicare il regolamento della Fondazione anche per quegli ospiti in condizione di suppletivo svantaggio fisico e psicologico, obbligandoli ad abbandonare la struttura alle 8 del mattino.

Fu così che nella scorsa primavera si decise di allestire un apposito spazio al pianterreno dello stabile di via Leoni 21 destinato ad accogliere dalle 9 alle 16 quei soggetti con serie patologie invalidanti sia dal punto di vista della deambulazione sia sul piano dell’equilibrio psichico, in modo da assisterli regolarmente attraverso la collaborazione di operatori della cooperativa sociale Lavoro e Solidarietà (Csls), cui si aggiungono altri due operatori dell’Ozanam che si occupano delle pulizie e di altre piccole incombenze quotidiane.

«Il nuovo servizio, che è stato ribattezzato “Piccolo Tetto Ozanam”, è entrato in

funzione lo scorso 15 settembre – spiega il referente Ozanam del progetto Luca Giancola –, ma siamo entrati in pieno regime solo a partire dal 30 ottobre, dopo aver cioè stipulato con la cooperativa Csls un Ats (Assistenza Temporanea di Scopo, ndr) che ci ha permesso di prestare assistenza diurna, incluso il pranzo servito negli stessi locali a sette persone portatrici di fragilità particolari e di sostenerle nello sviluppo della vita di relazione. Tra le persone che fruiscono del servizio, abbiamo portatori di disagio psichico, reduci da incidenti stradali e lungodegenti che incontrerebbero enormi difficoltà qualora fossero costretti a girovagare tutto il giorno per le vie di Como, senza punti di riferimento e senza la possibilità di ricevere quell’assistenza che per alcuni di loro è in sommo grado doverosa, e per nulla facoltativa come si potrebbe erroneamente immaginare». È l’aiuto ai veri ultimi tra gli ultimi.

«Trattandosi – conclude Luca Giancola – di senza dimora che al disagio preliminare e incontrovertibile della povertà cronica e della marginalità sociale che ne deriva uniscono la sofferenza della malattia, della convalescenza, della difficoltà anche fisica dell’attraversare gli spazi che danno corpo alla città così come la conosciamo».

Vicenza saluta Guido Pollini: «Un creativo che amava Scarp» «Guido era un creativo nato, tendeva naturalmente a creare e ricreare il mondo», lo ricorda così uno dei volontari della Caritas vicentina, quando gli chiediamo un ricordo di questo compagno di viaggio che si è spento lo scorso 31 ottobre, stroncato da un infarto. Guido Pollini aveva fatto parte dei venditori e dei collaboratori della redazione vicentina di Scarp de’ tenis, e aveva contribuito a costituire il team di lettori-attori che da più di tre anni ormai solca le pedane e i palchi di tutta la diocesi. Le sue storie, Il fungo magico e Il di72 Scarp de’ tenis dicembre 2015-gennaio 2016

gitale celeste, resteranno nella memoria di chi l’ha ascoltato e applaudito in quelle prime rappresentazioni, dove noi attori più titubanti di lui, restavamo sempre ammirati di come sapeva muoversi sul palco e intrattenere pubblici di ogni età. Con il suo sguardo sornione e il sorriso sotto i baffi ultimamente accompagnava i turisti in visita alla Basilica Palladiana o al museo Chiericati, dove svolgeva attività di maschera “tutto fare”.

Dalla risata alla freddura, dal brano di storia al commento estetico il nostro Guido sapeva improvvisarsi anche guida e accompa-

gnatore di gruppi. «Ha vissuto il suo mondo, la sua esperienza dotato di grandi capacità – lo ha ricordato così un altro collaboratore della redazione alla cerimonia funebre –. Soprattutto sapeva riconoscere i veri valori della vita, e proprio per questo era spesso in grado di dare buoni consigli».

SCIENZE

Dopo l’allarme lanciato dall’Oms il consumo di carne rossa, all’inizio, è diminuito.

Ma fa davvero male?

La carne rossa fa male?

Dipende dal consumo di Federico Baglioni

scheda Federico Baglioni Biotecnologo, divulgatore e animatore scientifico, scrive sia su testate di settore (Le Scienze, Oggi Scienza), che su quelle generaliste (Today, Wired, Il Fatto Quotidiano). Ha fatto parte del programma RAI Nautilus ed è coordinatore nazionale del movimento culturale “Italia Unita Per La Scienza”, con il quale organizza eventi contro la disinformazione scientifica.

Bufera su carne rossa e carni lavorate dopo che sono state definite rispettivamente come probabilmente e sicuramente cancerogene. Ma come stanno veramente le cose?

Panico tra consumatori e produttori di carne dopo che l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità – agenzia speciale dell'Onu per la salute) ha inserito la carne lavorata nei prodotti “sicuramente cancerogeni” e la carne rossa nei “probabilmente cancerogeni”.

Cosa significano queste indicazioni? Innanzitutto una premessa importante è che il termine cancerogeno non indica che sicuramente si avrà un tumore ma che, consumando un determina-

to elemento a una determinata dose, si ha un aumento del rischio di sviluppare un tipo di tumore. A fine ottobre lo Iarc (associazione intergovernativa dell’Oms) ha realizzato una lista di prodotti, circa 900, divisi in cinque categorie. Non si tratta però di una classificazione sul rischio, ma unicamente su quanto si conosce a livello scientifico, ovvero su quanti studi scientifici di buona qualità sono stati effettuati su un determinato alimento.

Nessun rischio certo Dunque se un prodotto è “probabilmente cancerogeno” significa solo che i dati sono convincenti su modelli animali, ma non su esseri umani, mentre se “sicuramente cancerogeni” significa che

i dati sono sufficientemente chiari per dirci che, ad esempio, la carne lavorata causa tumori. Ma non dice con che probabilità, né con che dose. La notizia, a dire il vero, non è poi così nuova: si sa che tanta carne fa male e che favorisce l’insorgere di malattie, tra cui il cancro. Lo scalpore è più che altro dovuto al fatto che nella stessa categoria delle carni lavorate c’è anche il fumo, che però è molto più pericoloso (provoca l’86% dei tumori al polmone e quasi il 20% di tutti i tumori).

Inoltre nella stessa categoria ci sono anche l’alcool e perfino le radiazioni solari, ognuno con rischi totalmente diversi.

Come comportarsi Come interpretare i risultati? Potremmo dire che, per una buona salute e una buona prevenzione delle malattie, al momento le indicazioni rimangono le stesse di prima: limitare il consumo di carni rosse e lavorate a una massimo due volte alla settimana, privilegiando il consumo di alimenti di origine vegetale, in particolare di frutta e verdura.

Il World Cancer Research Fund raccomanda di consumare non più di 300 grammi di carne rossa a settimana, mentre suggerisce di consumare almeno cinque porzioni di frutta e verdura per un totale di almeno 400 grammi al giorno. L'Harvard School of Medicine restringe il limite di consumo di carni rosse a porzioni non superiori a 80 grammi, al massimo due volte a settimana. Lo Iarc ha concluso che il consumo al di sotto dei 500 grammi alla settimana non costituisce un pericolo per la salute.

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Le persone in stato di difficoltà a cui Scarp de’ tenis ha dato lavoro nel 2014 (venditori-disegnatori-collaboratori).

In 20 anni di storia ha aiutato oltre 800 persone a ritrovare la propria dignità

IL VENDITORE DEL MESE

Une bella foto di Sergio venditore e falegname instancabile. Grazie a Scarp può contare su un piccolo reddito

Sergio Reinventarsi a 57 anni: « Grazie a Scarp ho un lavoro» di Elisa Rossignoli

info A Verona Scarp è presente come vendite dal 2011 e come redazione dal 2013. Sia i venditori che la redazione fanno capo alla Casa di Accoglienza Il Samaritano (Caritas diocesana veronese). E' in vendita presso una decina di parrocchie della città. Conta un abbonato "speciale": p. Efrem Tresoldi, direttore della rivista Nigrizia

VERONA

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La prima cosa che si nota di Sergio è la sua disponibilità.

La seconda il suo sorriso. Ha lavorato per diversi anni come operaio, ma dopo la chiusura dell’azienda in cui lavorava non è riuscito a trovare un nuovo impiego.

Non è facile a 57 anni, ma per un periodo ce l’ha fatta da solo, adattandosi a situazioni abitative precarie per non pesare sui familiari. Quando non è stato più possibile è arrivato alla casa di accoglienza Il Samaritano, circa un anno e mezzo fa.

Lì si è inserito nel centro diurno, prima con vari servizi, poi gli è stato chiesto di impegnarsi nella falegnameria, e da allora ne è la presenza costante e infaticabile. Che fosse una persona adattabile e disponibile se ne erano già accorti tutti, e lui non ha mai smentito questo fatto. Lavora con gusto e buona lena, e dal primo giorno in cui si è infilato il camice blu da lavoro ha tagliato forme di legno di ogni tipo, consistenza e dimensione. Dalle “panare” (tradizionali taglieri rotondi per la polenta) ai pezzi dei giochi da dipingere, dalle parti di piccoli mobili da assemblare

a uno zoo di animali stilizzati e chi più ne ha più ne metta. Se entrate in falegnameria e gli chiedete di tagliarvi quella sagoma improbabile che avete disegnato lui interromperà il suo lavoro – ne ha sempre – e riceverete un sorridente «Va bene».

Poco dopo avrete ciò che avevate chiesto. Nessuno ha ancora sentito un no come risposta. Al massimo, se i tempi sono tiratissimi e l’autobus in arrivo, vi dirà un sorridente «Va ben. Te lo faso doman», in veronese purissimo, e puntualmente il giorno dopo la forma richiesta sarà lì ad aspettarvi.

I suoi tempi devono tener conto degli orari dell’autobus perché da alcuni mesi Sergio non abita più a “Il Samaritano”, ma in un appartamento del progetto casa solidale. Scarpè arrivato alla fine dell’estate, dopo che Sergio ha iniziato ad inserirsi nella sua parrocchia lavorando come volontario alla festa del quartiere. Come venditore ha iniziato proprio da lì, dove lo conoscono in tanti.

Poi, pian piano, ha allargato il proprio raggio di azione. Il lavoro con Scarp gli piace e lo aiuta ad avere un minimo di autonomia.