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Foto fio.Psd - Spedizione in abbonamento postale 45% articolo 2, comma 20/B, legge 662/96, Milano

LA STORIA

MARCO, IL CAMPIONE DI BALLO SULLA SEDIA A ROTELLE

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strada

www.scarpdetenis.it

febbraio 2016 anno 20 numero 198

REPORTAGE VIAGGIO A MOLENBEEK IL GHETTO CHE FABBRICA JIHADISTI

Uno, nessuno, cinquantamila I DATI DELLA SECONDA INDAGINE SULLE PERSONE SENZA DIMORA CHE VIVONO IN ITALIA. POLITICHE DA RIPENSARE, MA GRAZIE ALLE NUOVE LINEE DI INDIRIZZO QUALCOSA SI STA MUOVENDO



EDITORIALE

Educazione e civiltà Per non farli sentire soli

LA PROVOCAZIONE

Casa, lavoro. Per restituire a tutti la dignità di cittadino di don Roberto Davanzo direttore Caritas Ambrosiana

di Stefano Lampertico [

@stefanolamp ]

Milano, capitale. Degli homeless, dei barbun, per dirla in meneghino. I dati recenti della ricerca Istat-Fio.Psd-Caritas sulla presenza dei senza dimora in Italia confermano quanto già soltanto si presumeva. Delle oltre 50

mila persone senza dimora che vivono in Italia, più della metà vive al Nord, dove l’offerta dei servizi è maggiore. Uno su cinque vive a Milano dove – diciamolo – si fa meno fatica, che da altre parti, a trovare un pasto caldo, una cena o un letto per le notte. La “freddezza” di cifre, numeri e statistiche purtroppo non distoglie l’attenzione dal vero nodo della questione. Chi è

povero è sempre piu povero: la stessa persona frequenta 5 volte alla settimana gli stessi servizi per mangiare e 3 volte a settimana gli stessi dormitori per dormire; e vive in strada da oltre quattro anni: sono circa 30 mila le persone senza dimora “croniche” in Italia.

Ora, qualche punto fermo. Uno. Dimentichiamoci il barbone di Jannacci, il clochard romantico che cercava l’amore e

che stava lì sullo stradone che portava all’Idroscalo. Non c’è più. Due. Basta parlare di homelessness (chiedo scusa per la parola, ndr), come di un fenomeno lontano, che non interessa alle comunità locali, che non merita di essere affrontato dalla politica perché insomma “in molti se la cercano una vita così”. Tre. È il tempo di cominciare a mettere in atto progetti seri che rimettano la persona al centro degli interventi, che restituiscano un volto e una voce alle persone che vivono da invisibili, che diano dignità dell’essere cittadino. A partire da una casa. E dai diritti elementari. Spesso negati.

Che successo per il numero speciale con l’intervista a papa Francesco e per la mostra Gente d’altri tempi che si è tenuta al Castello Sforzesco di Milano

Soldi, certo. Ce ne vogliono per contrastare il fenomeno. Ma non di soli soldi abbiamo bisogno. Ma anche di educazione. E di civiltà. Solo così l’“Uno, nessuno e cinquantamila” della copertina si sentirà meno solo. Cambio argomento. E voglio ringraziare i lettori per lo straordinario successo che hanno riservato sia al numero speciale con l’intervista a papa Francesco sia alla mostraGente d’altri tempi. Enzo Jannacci, nuove canzoni a colori. Per tutta la redazione sono un’importante iniezione di fiducia. E uno sprone a fare sempre meglio. Grazie.

contatti Per commenti, idee, opinioni e proposte: mail scarp@coopoltre.it facebook scarp de tenis twitter @scarpdetenis www.scarpdetenis.it

Finalmente è arrivato l’inverno. Dopo un autunno che si è prolungato oltre misura e con temperature che hanno raggiunto livelli assolutamente inusuali per il periodo, pare che si stia tornando alla normalità. Normalità forse apprezzata dai meteorologi, ma non certo da quanti vivono per strada, senza una abitazione, alla ricerca di un tetto per la notte. È di poche settimane fa la pubblicazione di una ricerca dell’Istat che ha stimato il mondo dei senza dimora in Italia attorno alle 50 mila unità. Un numero che pare in continuo aumento, malgrado si moltiplichino strutture di ospitalità e accoglienza come dormitori, mense, centri diurni. E allora, è necessaria una riflessione che riguarda il modo di progettare gli interventi a favore dei senza dimora. La sensazione è che a volte ci si accontenti di far nascere mense o dormitori, di predisporre misure straordinarie per i mesi più freddi, quasi che questo possa bastare. Ma se alla fine di un anno di lavoro le amministrazioni di una città, di un comune, non riescono a contare quanti senza dimora una casa sono riusciti a trovarla, quanti gravi emarginati sono riusciti a rimettersi in piedi sulle proprie gambe... se insomma ogni anno dal territorio della grave emarginazione non esce nessuno, è evidente che dormitori e mense non basteranno mai. Solo un forte investimento educativo, solo processi di accompagnamento sociale e psicologico, solo la disponibilità di una rete di piccoli appartamenti a canone progressivo, solo facilitazioni agli imprenditori disponibili ad inserire lavorativamente persone svantaggiate, potranno farci immaginare che alla prossima ricerca statistica i numeri possano finalmente diminuire. febbraio 2016 Scarp de’ tenis

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SOMMARIO

Foto fio.Psd - Spedizione in abbonamento postale 45% articolo 2, comma 20/B, legge 662/96, Milano

LA STORIA

MARCO, IL CAMPIONE DI BALLO SULLA SEDIA A ROTELLE

le della

A passo veloce verso il numero 200 Venti anni di storia Il futuro davanti

strada

Il mensi

www.scarpdetenis.it

febbraio 2016 anno 20 numero 198

REPORTAGE VIAGGIO A MOLENBEEK IL GHETTO CHE FABBRICA JIHADISTI

Uno, nessuno, cinquantamila I DATI DELLA SECONDA INDAGINE SULLE PERSONE SENZA DIMORA CHE VIVONO IN ITALIA. POLITICHE DA RIPENSARE, MA GRAZIE ALLE NUOVE LINEE DI INDIRIZZO QUALCOSA SI STA MUOVENDO

Come promesso. Il giornale che state leggendo è più ricco. E ha più pagine. Otto in più, e sarà così anche per i prossimi numeri. Questo ci permette di potervi offrire servizi e dossier sempre più curati e approfonditi. In sostanza, per ogni numero, insieme al servizio di copertina,

avremo la possibilità di ragionare in forma ampia anche su un secondo tema. In questo numero, per esempio, oltre all’approfindimento – per noi diremmo quasi obbligatorio – relativo ai più recenti studi sulla presenza di senza dimora in Italia, trova ampio spazio un dossier sull’integrazione. I fatti di Parigi, e anche quelli più recenti, ci interrogano e interrogano tutti, su come sia possibile nella nostra cara vecchia Europa, favorire sentimenti (e meccanismi) di integrazione. E allora spazio a questi temi, a partire da quanto

accade nelle nostre scuole, nei nostri oratori, nelle nostre famiglie. Intanto, abbiamo archiviato, con successo, “Gente d’altri tempi. Enzo Jannacci, nuove canzoni a colori”, la mostra che ci ha visti presenti al Castello Sforzesco di Milano a dicembre e a gennaio. Un successo straordinario, che ci ha fatto molto piacere. E con passo veloce ci avviciniamo a un altro traguardo importante per Scarp: il numero 200. Ad aprile festeggeremoquesto traguardo con un numero che si annuncia ricco di sorprese.

La sera che partì mio padre noi s’era alla finestra a guardare, andare neanche tanto lontano, muovere neanche la mano

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rubriche

servizi

PAG.7 PAG.9 PAG.11 PAG.13 PAG.14 PAG.20 PAG.21 PAG.53 PAG.62 PAG.63 PAG.73 PAG.74

PAG.22 L’INTERVISTA Caparezza: «L’eretico? È chi non paga il pizzo» PAG.24 COPERTINA Uno, nessuno, cinquantamila PAG.32 SPECIALE Prove di integrazione PAG.40 REPORTAGE Viaggio nella fabbrica di jihadisti PAG.42 LA STORIA Campione di ballo, in carrozzina PAG.44 IL PROGETTO Un unico “Gesto” per tutti PAG.47 MILANO Cercasi broccoletti. Lo chef manvora il tram 33 PAG.48 TORINO Un laboratorio per cambiare vita PAG.50 VICENZA Fare cultura insieme ai senza dimora PAG.52 VENEZIA Venditori per un giorno. Per solidarietà PAG.54 VERONA Mosaika, l’orchestra dai mille colori PAG.56 RIMINI Radici, viaggio nei Paesi degli immigrati PAG.59 NAPOLI Un popolo in cammino contro le camorre PAG.60 SUD Carcere, messi alla prova per riparare PAG.64 VENTUNO Famiglie e crisi da debiti. La legge c’è, ma non basta PAG.69 CALEIDOSCOPIO Incontri, laboratori, autobiografie

(IN)VISIBILI di Paolo Lambruschi IL TAGLIO di Piero Colaprico LE STORIE DI MURA di Gianni Mura PIANI BASSI di Paolo Brivio LA FOTO di Zohra Bensemra/REUTERS LE DRITTE di Yamada VISIONI di Sandro Paté POESIE POESIE VOCI DALL’AFRICA di Davide Maggiore SCIENZE di Federico Baglioni IL VENDITORE DEL MESE

Scarp de’ tenis Redazione di strada e giornalistica via degli Olivetani 3, 20123 Milano tel. 02.67.47.90.17 fax 02.67.38.91.12 scarp@coopoltre.it

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Scarp de’ tenis febbraio 2016

Direttore responsabile Stefano Lampertico Redazione Ettore Sutti, Francesco Chiavarini, Paolo Brivio

Segretaria di redazione Sabrina Montanarella Responsabile commerciale Max Montecorboli

Redazione di strada Roberto Guaglianone, Antonio Mininni, Lorenzo De Angelis, Alessandro Pezzoni

Foto Reuters, Insp, Romano Siciliani, archivio Scarp Disegni Sergio Gerasi, Gianfranco Florio, Luca Usai, Loris Mazzetti

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da

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Il men

aforisma di Merafina Il vizio Il vizio di leggere e la troppa cultura fanno paura Il tweet di Aurelio [Il bonazza

@aure1970 ]

Più di un milione di migranti hanno raggiunto l’Europa via mare nel 2015 (Internazionale)

Cos’è Scarp de’ tenis è un giornale di strada noprofit nato da un’idea di Pietro Greppi e da un paio di scarpe. È un’impresa sociale che dà voce e opportunità di reinserimento a persone senza dimora o emarginate. È un’occasione di lavoro e un progetto di comunicazione.

Avere un Mosé, per attraversare il Mediterraneo, farebbe comodo pure oggi. In compenso ora come allora nessuno ci vuole nella Terra Promessa.

e, guardare per vederlo andare,

Dove vanno i vostri 3,50 euro

La sera che partì mio padre - tributo a Enzo Jannacci

Vendere il giornale significa lavorare, non fare accattonaggio. Il venditore trattiene una quota sul prezzo di copertina. Contributi e ritenute fiscali li prende in carico l’editore. Quanto resta è destinato a progetti di solidarietà.

Per contattarci

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TOP 11

Stranieri per Paese 1 2 3 4 5 6 7 8

22 Progetto grafico Francesco Camagna Sito web Roberto Monevi Editore Oltre Soc. Coop. via S. Bernardino 4, 20122 Milano Presidente Luciano Gualzetti

Istat - Eurostat dati 2013

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Svizzera Austria Belgio Spagna Germania Norvegia Grecia Inghilterra Italia Svezia Francia

1.869.070 997.038 1.253.902 5.072.680 7.696.413 457.396 862.381 4.929.279 4.387.721 659.374 4.089.051

23,2% 11,8% 11,2% 10,9% 9,4% 9% 7,8% 7,7% 7,4% 6,9% 6,2

Gli stati che prevedono il cosiddetto ius soli tendono ad avere numeri minori. Includendo coloro che sono nati fuori dal paese l’incidenza in Francia è dell’11,5%, mentre in Italia passerebbe al 9,5%. Il dato della Svizzera dipende dall’elevata presenza di tedeschi, francesi e italiani

Registrazione Tribunale di Milano n. 177 del 16 marzo 1996 Stampa Elcograf Spa Verona

Direzione e redazione centrale - Milano Cooperativa Oltre, via degli Olivetani 3 tel. 02.67479017 scarp@coopoltre.it Redazione Torino Casamangrovia, corso Novara 77, tel. 011.2475608 scarptorino@gmail.com Redazione Genova Fondazione Auxilium, via Bozzano 12 tel. 010.5299528/544 comunicazione@fondazioneauxilium.it Redazione Verona Il Samaritano, via dell’Artigianato 21 tel. 045.8250384 segreteria@ilsamaritanovr.it Redazione Vicenza Caritas Vicenza, Contrà Torretti 38 tel. 0444.304986 scarp@caritas.vicenza.it Redazione Venezia Caritas Venezia, Santa Croce 495/a tel. 041.5289888 info@caritasveneziana.it Redazione Rimini Settimanale Il Ponte, via Cairoli 69 tel 0541.780666 rimini@scarpdetenis.net Redazione Firenze Il Samaritano, via Baracca 150/e tel. 055.3438680 samaritano@caritasfirenze.it Redazione Napoli Cooperativa sociale La Locomotiva via Pietro Trinchera 7 scarp@lalocomotivaonlus.org Redazione Sud Caritas diocesana, Salita Corpo di Cristo, Teggiano (Sa) tel.0975 79578 info@caritasteggianopolicastro.it

Consentita la riproduzione di testi, foto e grafici citando la fonte e inviandoci copia. Questo numero è in vendita dal 31 gennaio 2016 al 26 febbraio 2016

www.insp.ngo febbraio 2016 Scarp de’ tenis

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(IN)VISIBILI

Gesti piccoli, spesso essenziali Ma quanta strada ancora da fare

di Paolo Lambruschi

Ho appena letto la notizia – siamo al 18 gennaio – della prima morte per freddo di un senza dimora in Italia nel 2016. Un uomo di circa 70 anni senza documenti stroncato dalle temperature eccezionalmente rigide anche al sud. Non so che razza d’inverno si profila per loro, mi pare che rispetto a 10 anni fa i numeri degli “utenti” si siano moltiplicati, ma le città in compenso siano più preparate all’emergenza, che assessori e politici siano meno ottusi, che il volontariato stia provando a superare steccati e divisioni, mentre molti cittadini si rendono protagonisti di gesti piccoli, ma spesso essenziali, di solidarietà.

Nel 2016 resta a dormire sotto le stelle chi rifiuta di entrare nei dormitori di fortuna, anche se questo non va preso come rifiuto volontario tout court. Spesso chi dice no al rifugio d’emergenza non ha solo ragioni personali, magari soffre di disturbi psichici. Però nessuno può essere obbligato con la forza a entrarvi. Con il freddo che riporta l’attenzione sugli ul-

Con il freddo che riporta l’attenzione sugli ultimi e con l’approssimarsi della campagna elettorale, ritornano d’attualità anche le promesse di reddito minimo d’inserimento o di cittadinanza. Ma l’Italia su questo tema è ancora molto indietro

scheda

Paolo Lambruschi è nato a Milano nel 1966. Lavora ad Avvenire, come capo degli interni, dopo essere stato per tanti anni inviato. Ha diretto Scarp de’ tenis e il mensile di finanza etica Valori. Nel 2011 ha vinto il prestigioso premio giornalistico “Premiolino” per le inchieste sul traffico di esseri umani nel Sinai.

timi e con l’approssimarsi dell’imminente campagna elettorale per le amministrative, ri-

tornano d’attualità anche le promesse di reddito minimo d’inserimento o di cittadinanza che eviterebbero a tanti cittadini di rovinare sul fondo a causa di un licenziamento, di una fallimento, di una separazione e delle relative ricadute sulla salute psicofisica. Su questo siamo davvero fermi a 10 anni fa, siamo l’unico paese europeo con la Grecia, privo di una misura di sostegno a chi è senza reddito. Causa crisi non ci sono stati progressi anche se gli studi dell’Alleanza contro la povertà – la coalizione nazionale di associazioni e ong che si batte per introdurre la nuova misura nel welfare – stima che costerebbe alle casse statali tre miliardi a livello sperimentale. Non si

parla di cifre alte, 5-600 euro al mese per un periodo limitato, ma per molte persone che vivevano decentemente – penso alle famiglie con bambini e a i tanti insospettabili trovati a dormire in auto – e che si sono trovate nella miseria, farebbe molta differenza. Potrebbe essere il segno che l’Italia è davvero uscita da una lunga notte e ha deciso di voltare pagina. Ma la politica non si muove. Ho appena finito di ve-

volti degli homeless di Los Angeles scattate da un fotografo neozelandese, Michael Faraone. Sotto le pellacce dei volti di uomini e donne senza età e induriti dalla vita si intuisce la sofferenza, certo, ma anche un cuore che pulsa e, attraverso gli occhi – sempre molto vivaci – un’anima curiosa. Da noi non si vede al-

trettanta attenzione da parte dei fotoreporter verso gli invisibili. È molto raro che qualcuno dedichi loro mostre o volumi che scandagliano la loro situazione per raccontare con immagini un dramma sociale che in ogni zona del mondo ha caratteristiche peculiari. Non parlo di reality o programmi spettacolo interessati ai particolari morbosi, intendo dire inchieste giornalistiche serie, al servizio della ricerca sociale. C’è una lunga tradizione negli Usa che risale alla Grande Depressione. Andrebbe trasposta in qualche modo dalle nostre parti, troverebbe un pubblico attento. E sono convinto che aiuterebbe a mutare la percezione del popolo della strada da parte dell’opinione pubblica più in generale, ne attenuerebbe alcune paure e pregiudizi. E finalmente smuoverebbe i politici.

dere le toccanti foto dei febbraio 2016 Scarp de’ tenis

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IL TAGLIO

In Sudafrica come a Milano C’è bisogno di “femminilità” Una parola diventata spesso ambigua, e comunque dai significati molteplici, è “femminilità”. M’è venuta in mente a Langa, una township di Città del Capo, quando ho conosciuto Sugar, Zucchero.

di Piero Colaprico

Ora, sperando che non se la prenda – e difficilmente leggerà quello che vado scrivendo – Sugar ricorda in effetti una zolletta, nel senso che è bassa e larga. Però con una faccia quadrata, due mani da boxeur e uno sguardo limpido. Sugar ha gridato per chiamare una persona, che ha creato due piccoli quadri, con materiali di scarto, che riproducono angoli della township. Per chi non c’è mai stato, detto in estrema sintesi, una township mescola accanto a catapecchie che non si sa come resistono al vento, case in mattoni pagate dallo Stato, vecchie dimore riscattate e cresciute in autonomia, incredibili ville di chi è un professionista e però per varie ragioni là resta. Qui, accanto alla chiesa di San Luca, protetta dal filo spinato e alla chiesa battista e alla moschea, ci sono una serie di negozi. Negozi?

dermi le sue opere. Piccole, strambe. Per me emozionanti. Sugar,

Quale filo unisce la storia e la vita di Zucchero a Langa, nella township di Città del Capo con quella di suor Silvana, francescana in via Ponzio a Milano?

Piero Colaprico (Putignano 1957), giornalista e scrittore, vive a Milano dal 1976. È inviato speciale di Repubblica, si occupa di giustizia e di cronaca nera. Ha scritto alcuni romanzi, tra cui Trilogia della città di M. (2004), vincitore del Premio Scerbanenco. Una penna tagliente. Come questa rubrica che cura per Scarp.

prepara fish & chips, c’è la donna che pela con il ferro rovente le teste di pecora in modo da togliere la lana e mangiare il resto («vuoi cervello fritto?», «no, grazie ho appena fatto merenda»), fruttivendolo, calzolaio, qualsiasi cosa. E a una persona

Silvana a Milano hanno capito che a qualunque età abbiamo tutti un po’ bisogno della femminilità. An-

che se è quella femminilità della mamma per vocazione, per necessità, per vicinanza.

che abita qui dentro è venuto in mente di ricavarne dei quadri. Se uso il termine persona –e mi perdonerete –dipende dal fatto che il suo nome è impronunciabile, ma non solo: l’artista ha

caratteri sia maschili che femminili. Zucchero ha gridato e gridato, finché questa persona non si è alzata da un divano per ven-

Parlavamo di chi va a mangiare, lavarsi e vestirsi dalle “suore della mensa”, uniche suore a gestire una mensa dei poveri in città, e non solo. E la suora ha spiegato: «Noi ci teniamo alla nostra femminilità. Queste persone arrivano da ogni dove, ma non erano così, avevano una famiglia, forse hanno anche loro una mamma, chissà in quale posto, chissà se è viva, ma noi cerchiamo di accudirli un po’ come farebbe una mamma». Detto da una suora

m’è sembrato così forte che in questo labirinto colorato sudafricano mi è venuto automaticamente da pensare a via Ponzio, e poi, ai campi nomadi di Milano, alla sicurezza declinata secondo la legge del manganello, al “via i clandestini dal paese”, al “distruggiamo i barconi degli immigrati”, ai troppi slogan italiani. Zucchero a Langa, suor

Assomigliano alle cabine delle nostre spiagge più sgarrupate. C’è il parrucchiere, c’è chi

scheda

quando strillava dal basso in alto fissando negli occhi questa persona mi ha fatto pensare alla “femminilità”. Ma come me l’aveva raccontata sotto Natale, in via Ponzio a Milano, una suora francescana, suor Silvana.

La donna pela con il ferro rovente la testa della pecora, per togliere la lana e poter mangiare il resto

Una vicemamma può far svoltare molte strade, pensavo guardando com’erano puliti, nelle loro divise, i figli di questi poveracci, che tornavano dalla scuola ai negozi-cabina in cerca di chissà che cosa. Una mamma che non ti fa mettere la canottiera, ma te la cuce se si è strappata. febbraio 2016 Scarp de’ tenis

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LE STORIE DI MURA

Yeman Crippa Una storia dove si include e si somma In atletica, chi dice Etiopia dice Abebe Bikila, due volte vincitore della maratona olimpica (Roma 1960 e Tokio 1964). È una storia

di Gianni Mura

vecchia, bellissima (Bikila vinse 12 delle 15 maratone cui partecipò e fu in un certo senso il portabandiera di un intero continente) e triste nel finale (morì a 41 anni). Oggi racconto una

storia giovane, solo poche pagine sono state scritte. Sono partito da Bikila per via dell’età (mia) e perché tutti abbiamo voluto bene a quell’atleta magro, scalzo, venuto da lontano, da altipiani mai visti né immaginati. Dalle montagne

Si sentirà più etiope o più italiano? La risposta gliel’aveva suggerita papà Roberto correndogli incontro a Samokov tra neve e fango. Correva con due bandiere in mano: una italiana e una etiope

arriva anche Yemaneberhan Crippa, dal villaggio di Robit, provincia di Wollo, nel nord-est. Ed è cresciuto in un paese trentino che si chiama Montagne. In amarico il suo nome significa “il braccio destro di Dio”. L’ha accorciato in Yeman, Yeman Crippa. Parla

italiano con accento trentino, tifa Inter, quando vince qualcosa d’importante mima una mitragliata perché l’ha visto fare a Dejan Stankovic (ma il copyright resta di Batistuta).

scheda

Gianni Mura è nato a Milano nel 1945. Giornalista e scrittore. Su Repubblica cura la rubrica Sette giorni di cattivi pensieri, nella quale – parlando di sport, s’intende – giudica il mondo intero. In questa rubrica racconta invece le storie di sport che, altrove, faticherebbero a trovare spazio.

È diplomato alla scuola alberghiera di Tione, corre con la maglia delle Fiamme Oro, è campione europeo di cross da due anni. Nel 2014 vinse a Samokov, in Bulgaria. Nel 2015 a Hyères, in Francia. Terza medaglia continentale un bronzo sui 5.000.

Passaggio per le porte girevoli, siamo nel 2003. Roberto e Luisa Crippa,

quarantenni, sono una coppia milanese che lavora nel volontariato (Centro Aiuti per l’Etiopia). Visitano l’orfanotrofio di Addis Ababa e decidono di adotta-

re tre fratellini: uno di questi è Yeman. I genitori sono morti a pochi mesi di distanza. Agli orfani in un primo tempo provvedono gli zii, ma non ce la fanno. Anche perché gli orfani sono sei. In due riprese i Crippa li adottano tutti e sei, poi altri due cugini. Totale otto. Per loro si cambia casa (ne serve una grande), si cambia lavoro (da agente di commercio Alberto diventa assistente di invalidi), si cambia vita (da Milano a Montagne, poco più di 200 abitanti, è un bel salto).

sua velocità. Marco Borsari, morto nel 2011, lo avvicina all’atletica. Ora il suo allenatore è Massimo Pegoretti, ex azzurro. Yeman può correre dagli 800 ai 5.000, avrà 20 anni in ottobre ed è presto per chiamarlo specialista, anche se la campestre sembra la gara in cui si esprime al meglio. Anche il fratello Neka, maggiore di due anni, è atleta del mezzofondo. All’inizio di quest’anno, in una classica come il Campaccio, ha vinto un etiope, Merga. Crippa si è piazzato ottavo, secondo degli italiani, dietro a La Rosa. Un buon piazzamento. Un ra-

gazzo da tenere d’occhio, dicono gli esperti. Troppo giovane per le Olimpiadi di Rio 2016, perfetto per quelle del ’20, sempre che abbia voglia di continuare. «Voglio fare tanta strada e vincere tanto», dice lui. Il suo sogno è di costruire una scuola a Robit, dove torna una volta l’anno. L’ha lasciata da bambino pastore, ci torna ogni anno.

Yeman è uno dei tanti atleti chiamati nuovi italiani. Si sentirà più etiope o più italiano? Domanda superflua e forse un po’ stupida.

La risposta gliel’aveva già suggerita papà Roberto correndogli incontro, oltre il traguardo di Samokov tra neve e fango. Correva tenendo una bandiera per mano: una dell’Italia, una dell’Etiopia. Perché in queste storie non si esclude e non si divide: si include e si somma.

Yeman è portato per lo sport. Comincia da ala sinistra, la cosa che colpisce di più gli osservatori è la febbraio 2016 Scarp de’ tenis

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PIANI BASSI

Produttori di marginalità, non accontentiamoci di saperlo...

di Paolo Brivio

Dunque abbiamo la fotografia. O la radiografia. Meglio, in effetti, usare questa seconda metafora. Perché il fenomeno è pur sempre una patologia. Anche se non bisogna commettere l’errore di scambiare chi lo incarna con il sintomo, o peggio con la causa di un acuto male sociale. Semmai – non ci stancheremo mai di ripeterlo – ne è la vittima: ché nessun essere umano davvero libero da rovesci economici, da rotture lavorative, da traumi famigliari, da demoni psichiatrici o dalla deriva di una dipendenza, arriva a scegliere in

lucida autonomia di sdraiare il suo destino sul nudo suolo dell’homelessness.

l’autore Paolo Brivio, 49 anni, si è appassionato ai giornali ai tempi dell’università. E ha coniugato questa passione-professione con l’esplorazione dei “piani bassi” della nostra società. Direttore di Scarp dal 2005 al 2014, oggi fa il sindaco: pro tempore, perché rimane “giornalista sociale” in servizio permanente effettivo

C’è la radiografia, ad ogni modo. La seconda eseguita, in Italia, sul composito e sfuggente (non solo alla statistica) popolo delle persone senza dimora. Nello scorso dicembre Istat, Caritas Italiana, ministero del welfare e Fio.Psd hanno presentato i risultati del “censimento” condotto –a tre anni dalla prima indagine – tra coloro che si rivolgono alla capillare rete di servizi (mense, dormitori, luoghi di aiuto e accoglienza) che innerva, con discontinuità, le città del Belpaese. L’accuratezza della radiografia conferma l’incisività del metodo e degli strumenti d’indagine adottati. Però i risultati sono da mani nei capelli: varcata la soglia dei 50 mila homeless, incremento di oltre il 6% rispetto alla rilevazione del 2011, innalzamento dell’età media di chi

vive senza casa e si rivolge ai servizi, prolungamento dei tempi medi di permanenza sulla strada, aumento –addirittura –del numero di persone che dichiarano di avere un lavoro pur non potendosi permettere un’abitazione, accresciuto impatto delle fratture famigliari come fattore d’innesco delle “carriere” da senza dimora. E dire che nella rileva-

zione non rientravano i segmenti sociali prossimi a quello dell’homeless-fruitoredei-servizi: la ricerca non ha considerato minori, rom e chi, pur non

Varcata, in Italia, la soglia delle 50 mila persone senza dimora. Positivo che i metodi di indagine sull’homelessness si confermino efficaci. Ma bisogna avere il coraggio di chiedersi perché siamo arrivati a questo punto. La marginalità non è fatalità...

avendo casa, è ospitato da “amici, parenti o simili”, e neanche, all’estremo opposto, le persone senza dimora restie a farsi avvicinare dai servizi pubblici. Altrimenti, al-

tro che 50 mila... Indicare i meccanismi Giusto, insomma, vantare la bontà del metodo d’analisi. E più che legittimo, anzi addirittura doveroso,

gongolare per il varo delle Linee di indirizzo adottate dal ministero, che d’ora in poi orienteranno le politiche di contrasto dell’homelessness: per la prima volta in Italia forniscono una cornice organica (e fortemente innovativa) all’azione di soggetti pubblici e privati, autorizzando a sperare che le ingenti risorse di fonte europea spendibili da qui al 2020 vengano impiegate con criterio, responsabilità ed efficacia. Mentre ci si compiace di metodo d’analisi e linee politiche, non sarebbe male, però, chiedersi perché siamo arrivati a questo punto. A

un’Italia “produttrice” sempre più accanita di povertà estrema. La crisi? D’accordo. Ma non può essere l’unica spiegazione. Tanto più che le crisi non sono calamità naturali. Detto altrimenti: la

grave marginalità non è fatalità. E dunque, se è doveroso programmare percorsi per ridurre la patologia, bisogna avere il coraggio di indicare i meccanismi economici e sociali che la favoriscono. Le radiografie servono, eccome, soprattutto se ben fatte. A patto che

non diventino un alibi. febbraio 2016 Scarp de’ tenis

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14 Scarp de’ tenis febbraio 2016


LA FOTO

REUTERS/Zohra Bensemra

scheda Uno straordinario reportage Reuters tra le donne berbere tatuate dell’Algeria. Per la legge islamica hanno commesso un peccato. Molte di loro, in segno di penitenza e per ammenda, hanno donato le ricchezze di una vita. E spesso, ancora oggi, vivono con rammarico il loro volto tatuato

Mazouza Bouglada, 86 anni, è una donna berbera della regione di Chaouia, in Algeria. Con il suo viso tatuato, posa per il fotografo a Taghit, sulle Montagne dell’Aurès. Secondo la tradizione locale, la bellezza di una donna si misurava dai tatuaggi. Bouglada è stata tatuata per la prima volta a 7 anni da un nomade della regione del Sahara. Le donne immortalate sono anziane. Le rughe e i tatuaggi che sbiadiscono raccontano l’esperienza di una vita. Molte di loro vivono oggi con rammarico i loro tatuaggi, in quanto, secondo l’Islam, segno di peccato; per penitenza molte di loro hanno donato le loro ricchezze febbraio 2016 Scarp de’ tenis

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IN BREVE

europa Migrazioni: numeri che richiedono azioni di Enrico Panero I dati resi noti dagli organismi internazionali all’inizio di quest’anno mostrano chiaramente le dimensioni e la drammaticità del fenomeno migratorio verso l’Europa nel 2015. Quando si tratta di migrazioni, va sempre ricordato, i numeri corrispondono a persone che fuggono dai rispettivi Paesi d’origine per sopravvivere. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Acnur-Unhcr) e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) indicano in 972.500 le persone che nel corso del 2015 hanno attraversato il Mar Mediterraneo per raggiungere l’Europa, mentre oltre 34 mila hanno attraversato le frontiere terrestri tra Turchia e Unione Europea. Si tratta del numero più elevato registrato dal 1990, quando divamparono le guerre nella ex Jugoslavia. In circa la metà dei casi si è trattato di cittadini siriani, in fuga dalla guerra nel loro Paese, poi un quinto afghani, il 7% iracheni e percentuali minori per altre nazionalità. A fronte di un lieve calo dei flussi dal Nord Africa verso l’Italia (da 170 mila nel 2014 a circa 150 mila nel 2015) sono aumentati gli attraversamenti del Mar Egeo, che hanno riguardato circa l’80% delle persone giunte in Europa via mare nel 2015. Almeno 3.770 persone però non ce l’hanno fatta e sono morte nel Mediterraneo, tra le quali anche donne e bambini: il numero più alto mai registrato finora. Un numero incredibile, che equivale a una tragica media di oltre 10 morti al giorno per ogni giorno dell’anno. Una strage inaccettabile, che ha tra le cause i gravi e colpevoli ritardi della politica comune europea.

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Il manifesto italiano per la raccolta fondi delle Onlus Un Manifesto per il fundraising che offra garanzia di trasparenza ai donatori. Ma non solo. Secondo Stefano Zamagni, docente di Economia Politica all’Università di Bologna, l’Italia è in coda alle classifiche europee per numero di donatori non solo perché non è garantita la trasparenza dell’uso dei fondi ma anche perché non è garantito l’impatto sociale della donazione, ovvero la concretizzazione del risultato. Ec-

co allora il manifesto italiano per il fundraising promosso dalla scuola di Roma Fund-raising.it e dall’Istituto Italiano della Donazione. Gli specialisti del settore sperano che il Manifesto metta a fuoco un modello di buone pratiche che rilanci le donazioni in Italia. Nel nostro Paese vengono donati 116 euro l’anno a testa, in Inghilterra 220 e negli Stati Uniti sono addirittura 750 euro ciascuno. Info www.scuolafundraising.it

street art Al porto di Catania il ritratto sul muro più grande del mondo L’artista portoghese Vhils, 28 anni, ha disegnato il più grande ritratto mai realizzato. Il volto di un contadino siciliano che guarda verso il mare, al porto di Catania. Stefano Antonelli, fra i curatori del progetto, ha detto che il volto del contadino siciliano del giovane portoghese rappresenta il lavoro e tutti noi uomini. Ci sono voluti 3.250mila litri di vernice ad acqua per realizzare il ritratto che copre una superficie di 1.932,80 metri quadrati. Costo, 80 mila euro. A finanziare il progetto la Fondazione Terzo Pilastro. «Quando con Vhils - ha raccontato Antonelli - siamo andati al porto di Catania per un sopralluogo, era appena arrivata una nave con 200 migranti a bordo. Abbiamo capito che quello era il posto giusto per realizzare l’opera, che guardasse verso il mare e che, a sua volta, dal mare fosse guardata». Info info@999contemporary.com

on

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Invasione musulmana in Italia? I numeri smentiscono. È quanto promette di fare Cild, Coalizione italiana libertà e diritti civili, che ha aperto recentemente un sito di analisi sui flussi migratori – openmigration.org – con il quale si prefigge di smentire, attraverso dati, cifre e infografiche, i falsi miti sulle migrazioni, come quella di un'invasione musulmana in Italia. Cild si prefigge di smentire gli stereotipi non con le opinioni ma con la forza dei dati. Della Coalizione fanno parte tantissime associazioni fra cui Arci, A buon diritto, Antigone, Asgi, Fondazione Moressa. Il sito Openmigration nasce con il supporto di Open Society Foundations. Il portale si apre con un'intervista al sociologo Zygmunt Bauman per i quali i muri contro i migranti sono una vittoria del terrorismo. Interessante è anche l'analisi del linguaggio che la comunicazione usa per raccontare i migranti.

Due ragazzini su dieci sono vittime di bullismo, la fascia di età più colpita è quella fra gli 11 e i 17 anni. Il fenomeno del bullismo (individuabile in un'interazione tra coetanei caratterizzata da un comportamento aggressivo e da azioni vessatorie che possono durare nel tempo) in Italia sta assumendo proporzioni intollerabili: questa volta è l'Istat a raccontarlo nel capitolo “Aspetti della vita quotidiana nel 2014”. Una fotografia impietosa da cui emerge che nel nostro Paese più del 50% degli intervistati (dagli 11 ai 17 anni) ha dichiarato di essere stato vittima, nei 12 mesi precedente all'intervista, di un qualche episodio di violenza o offensivo: si va dalla derisione, alle offese verbali, all'aggressione fisica con spinte e calci. O peggio. Le nuove tecnologie, come è noto, amplificano il fenomeno perché sono ulteriori mezzi a disposizione per cercare nuove vittime e per danneggiare il malcapitato con effetti moltiplicatori.

I dati che smentiscono le paure degli italiani

Il bullismo sta dilagando fra i più giovani


[ pagine a cura di Daniela Palumbo ]

Vicenza, la tecnologia aiuta a difendersi

Fascino oltre le sbarre Le modelle sono detenute Sedici donne hanno posato per un calendario. E fin qui nulla di eccezionale. Ma le modelle erano recluse dietro le sbarre del carcere di Rebibbia e hanno preso parte al progetto Fascino oltre le sbarre: un’iniziativa nata dal lavoro dei fotografi Mauro Rosatelli e Claudio Laconi. Il ricavato delle vendita dei calendari (della durata di 24 mesi, 2016-2017) sarà destinato alla Casa Circondariale Femminile di Rebibbia al fine di realizzare attività che permettano di migliorare le condizioni della popolazione detenuta, in particolare delle madri della Sezione “Nido”. Info Mixzone.it

pillole homeless mi riguarda

Il docufilm italiano che affronta il tema dell’anoressia

Nel documentario Eat Me il regista, Ruben Lagattola, ha indagato l'anoressia. Nel docufilm lo spettatore entra in contatto con la quotidianità delle ragazze: le telecamere infatti le hanno riprese a scuola, a casa, mentre parlano con gli psicologi o nel centro per i disturbi alimentari Heta. L'anoressia, dunque, non è una malattia delle persone superficiali ossessionate dalla linea: «Questa - spiega il regista - non è che la punta dell'iceberg. In realtà l'anoressia nasconde un male di vivere, un senso di vuoto e difficoltà a integrarsi nella realtà. Nel documentario uno spazio molto importante viene dato ai genitori. Quando inizia la terapia psicologica il ruolo dei genitori è importante: è fondamentale che essi condividano il percorso di cura, ne comprendano fino in fondo l'importanza e la logica in modo da aiutare le proprie figlie a percorrerlo. Il film sarà presentato il 15 marzo 2016, giornata nazionale dei Dca, disturbi del comportamento alimentare. Info www.centroheta.it

S.H.A.W., acronimo di Soroptimist Help Application Women, è un’applicazione per smartphone creata per la sicurezza delle donne. Scaricando l’applicazione, disponibile gratuitamente per i sistemi operativi iOS e Android, l’utente può chiedere supporto al più vicino pronto soccorso, centro antiviolenza, o sede delle forze dell’ordine mediante le funzioni di geolocalizzazione e click to call. In pratica, l’app consente il collegamento automatico al 112, il numero internazionale per una chiamata di emergenza di primo soccorso, o al 1522, il numero nazionale accreditato che smista la chiamata ai centri antiviolenza. Grazie alla app è inoltre possibile consultare una scheda con tutte le informazioni sugli aspetti legislativi più importanti in termini di violenza, stalking e prevenzione, sugli eventuali percorsi di codice rosa negli ospedali e sulle modalità di percorso preferenziale per l’accesso ai pronto soccorso. Info www.comune.vicenza.it

Alex, in fuga dalla Siria, ora cucina per i senzatetto

Il libro di Guindani sugli orfani dell’America Latina

Scappato da Damasco nel 2007 perché aveva osato criticare sul web il regime di Assad, è stato poi imprigionato dall’Isis in Libia, è riuscito a fuggire ed è infine arrivato in Germania nel 2014. Alex Assali vuole restituire l’aiuto ricevuto e ha pensato di aiutare a sua volta i cittadini tedeschi meno fortunati. Ogni sabato cucina per i senzatetto della città spiegando alle persone chi sono i rifugiati e da quali situazioni disperate scappano. Spesso soli e male accolti. Alex ha 38 anni e ogni settimana cucina per i senza dimora nei pressi di Alexanderplatz a Berlino. Assali non ha un lavoro fisso, dei 359 euro che il governo tedesco dà ai rifugiati, 200 li utilizza per sé e tutto il resto per i senzatetto. Il suo impegno gli costa 25 euro ogni sabato: cerca di risparmiare un po’ cucinando piatti vegetariani, spaziando dalla cucina siriana a quella italiana. Adesso ha già sei collaboratori che lo aiutano e il suo sogno è di avere una casa dove poter accogliere i senzatetto per offrire un pasto caldo e un luogo accogliente durante l’inverno.

Do you know? È un reportage fotografico, un libro curato interamente dal fotografo Stefano Guindani, realizzato in oltre due anni di viaggi in nove Paesi dell’America Latina. Guindani, fotografo di moda e reportage, da tempo volontario e sostenitore della Fondazione Francesca Rava, ha realizzato il reportage documentando con le sue fotografie il lungo percorso di rinascita dei bambini accolti nelle Case orfanotrofio N.P.H. (Nuestros Pequeños Hermanos, I nostri piccoli fratelli) presenti in America Latina. Il libro è stato appunto voluto da NPH, l’organizzazione internazionale di aiuto all’infanzia, rappresentata in Italia dalla Fondazione Francesca Rava. Il volume è edito da Skira Editore. febbraio 2016 Scarp de’ tenis

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IN BREVE

A Modena la lingua dei segni entra negli uffici pubblici A Modena anche i cittadini sordi potranno richiedere un banale certificato, iscrivere i figli a scuola, avere chiarimenti su una problematica, fare una denuncia. Modena ha fatto un passo in avanti e si è dotata di un servizio apposito. La persona sorda residente nel territorio può rivolgersi all’Ens (Ente nazionale per la protezione e l’assistenza dei sordi) per la realizzazione di interventi di interpretariato a favore dei cittadini con problemi di sordità, nelle sedi di uffici pubblici comunali o provinciali. Dopo che la persona sorda ha ricevuto il servizio di interpretariato il Comune di Modena rimborserà l’associazione. Vale presso gli uffici della Polizia Municipale, del Centro per l’impiego, gli Uffici demografici e i Servizi educativi e scolastici.

I social raccontano meglio i migranti In poche ore ha raggiunto duemila follower su Twitter. L'account @refugeeSweden ha sorpreso tutti perché parla di un argomento non certo popolare: i migranti. E invece Twitter, con i suoi testi brevissimi e concisi, ha raggiunto l'obiettivo raccontando le storie dei rifugiati che giungono in Svezia dopo inenarrabili sofferenze. Ha fatto breccia anche in un Paese come la Svezia, che stava diventando freddo nei confronti dell'accoglienza. Karl Dalèn, social media editor del quotidiano Dagens Nyheter, che si è inventato questo account, ha ribadito di averlo voluto lanciare perché i migranti non sono numeri ma persone, mentre il direttore del giornale, Peter Wolodarski, ha annunciato la volontà di donare una parte degli abbonamenti al suo giornale ai migranti. www.dn.se

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Giorgio Stroppa e le colleghe di Zeta Service con il libro che racconta le storie degli ospiti della Casa di Accoglienza Enzo Jannacci di Milano

CINQUE DOMANDE

Inciampi di vita Che impresa in viale Ortles a Milano di Daniela Palumbo

Inciampi di Vitaè un bel libro di dieci racconti di vita degli ospiti della Casa di accoglienza Enzo Jannacci di Milano. Soprattutto, è il risultato di un progetto di responsabilità sociale d’impresa avviato da Zeta Service, azienda che offre servizi di payroll outsourcing e amministrazione del personale per le medie e grandi aziende. Giu-

seppe Stroppa lavora alla Zeta Service e si occupa di sviluppo e nuove offerte e della direzione del servizio ai grandi clienti. Racconta a Scarpcome è cominciata questa avventura. «Un anno fa abbiamo avviato un progetto di Responsabilità Sociale d’Impresa. I collaboratori di Zeta Service hanno proposto e votato alcune iniziative sulle quali impegnarsi. L’azienda ha contribuito con la concessione di un monte ore da dedicare al progetto scelto. Tra questi, la Casa di Enzo con la quale abbiamo iniziato a collaborare attraverso l’erogazione di corsi di italiano e informatica e aiuto/consulenza nella compilazione dei curriculum vitae. Poi un giorno, a Debora, è venuto in mente di scrivere un libro». Ed è nato Inciampi di Vita. Come avete scelto gli ospiti e le storie da raccontare? Il libro è frutto di un lavoro collettivo ma è merito soprattutto dei protagonisti, cioè i 10 ospiti intervistati. Ad oggi abbiamo venduto circa un mi-

gliaio di copie. La promozione avviene soprattutto grazie ai social: Facebook\inciampidivita. Abbiamo realizzato e pubblicato diverse video-testimonianze di artisti (e non solo) che si sono prestati con entusiasmo: Ricky Gianco, Eugenio Finardi, Fabio Treves, Lella Costa, Claudio Bisio, Raul Cremona, I Boiler, Pis & Lov, Nico Colonna, Seble Woldeghiorghis, Pierfrancesco Majorino. Il nostro Sindaco Pisapia, ci ha inviato una sua foto con il libro in mano. E adesso voi di Scarp! Per lei Enzo Jannacci è più di un personaggio famoso... Enzo, per me, ha sempre rappresentato la parte bella della mia Milano, quella che si dice con il “cuore in mano”. Un medico che pensava che il suo lavoro dovesse servire a far star bene gli altri, un artista unico, un poeta di strada, una splendida persona. Tutto il ricavato delle vendite del libro è destinato a un conto per la realizzazione di piccoli progetti specifici per gli ospiti della Casa. Anche avere i soldi per rinnovare i documenti può essere un grande obiettivo raggiunto. La Casa di Enzo è a due passi da noi. Le persone che la frequentano siamo noi… È vero, qualche storia unica c’è, ma la maggior parte degli Ospiti ha storie “banali”, quelle che possono capitare a ognuno, degli inciampi di vita, appunto. Il libro è acquistabile on line (http://zetaservice.com/servizi/workshop/tutti-a-casa-di-enzo/ ) o sulla pagina facebook dedicata.


IN BREVE

Chef Cracco e La Cena Sospesa di Caritas Ambrosiana “La Cena Sospesa” continuerà per tutto il 2016. Lanciata durante Expo Milano 2015, “La Cena Sospesa” (che nel nome rievoca la tradizione partenopea del caffè sospeso) è già diventata una buona abitudine nel capoluogo lombardo. Dall’inizio di settembre ad oggi sono stati raccolti circa 10 mila euro che hanno consentito a Caritas Ambrosiana di distribuire un migliaio di buoni pasto Ticket Restaurant® per le persone in difficoltà.

I destinatari dell’iniziativa sono stati in particolare 21 persone, la metà delle quali sotto i 30 anni, tutte disoccupate che hanno perso il lavoro negli anni passati e sono ora inserite nei corsi di riqualificazione professionale. «Abbiamo scelto di aiutare in particolare chi è stato colpito dalla crisi ma sta cercando di rialzarsi. I ticket che distribuiamo, grazie alle offerte, integrano altri aiuti erogati dai nostri servizi e permettono di costruire interventi personalizzati», spiega Luciano Gualzetti, vicedirettore di Caritas Ambrosiana. Quando e come si svolge Si può partecipare all’operazione benefica, lasciando un’offerta nelle teche con il marchio “La Cena Sospesa” posizionate nei 24 ristoranti della città che hanno aderito all’iniziativa. Le donazioni rac-

colte da volontari di Caritas Ambrosiana vengono convertiti in Ticket Restaurant® del valore di 10 euro ciascuno che Caritas Ambrosiana stessa distribuisce alle persone in difficoltà. I beneficiari possono spendere i Ticket Restaurant® nei 4 mila esercizi presenti a Milano che accettano i titoli Edenred, partner dell’iniziativa: 3.200 tra ristoranti, pizzerie, bar tavole calde e fredde, 800 supermercati. Voluta dalla Diocesi di Milano, con il patrocinio del Comune, l’iniziativa è realizzata da Caritas Ambrosiana grazie alla partnership di Fipe (Federazione italiana pubblici esercizi), Confcommercio, Epam (Associazione pubblici esercizi Confcommercio Milano), Edenred. Si avvale del contributo tecnico di Banca Sella.

Al Teatro Alta Luce di Milano uno spettacolo ironico sulla donna I piccoli teatri devono crescere. Segnaliamo il Teatro Alta Luce, uno spazio di condivisione nella bella cornice dell'Alzaia Naviglio Grande di Milano giunto al suo terzo anno di attività che propone il 18 e 19 marzo, a cura della Compagnia degli Equilibristi, Forever Young di e con Roberta Mandelli. Uno spettacolo ironico e intelligente per raccontare il desiderio-mito di tante donne, anche quelle più intelligenti, di conservare per sempre la giovinezza. Anche a costo di non diventare mai adulta. E di essere irrimediabilmente ridicola. Ogni sera, dopo lo spettacolo, un brindisi con gli attori protagonisti per continuare a colloquiare sul tema. alt@altaluceteatro.com

LA STRISCIA

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LE DRITTE DI YAMADA

La vita è avventura e sogno grazie a Miss Price

Il libro di cui vi scrivo mi è stato regalato a Natale. Essendo un libro magico, già scartandolo saettava sotto il mio naso delle stelline d’argento. Aprendolo subito alla prima pagina, sei piccole braccia m’han tirato a forza nella storia: Carey, bimba di dieci anni, Charles di nove, e Paul di sei: sono loro i tre fratellini londonerche mi hanno tenuto compagnia in queste settimane. L’autrice della bellissima storia che ha ispirato a Walt Disney, negli anni ‘70, il film omonimo, si chiama Mary Norton. Inglese, scrisse Pomi d’Ottone e Manici di Scopa negli anni Quaranta mentre era temporaneamente a New York e lavorava presso la British Purchasing Commission: fu proprio con questo libro che cominciò la sua carriera di scrittrice per bambini che si arricchì, negli anni Cinquanta, della fortunata saga degli Sgraffignoli. Tornando al libro della recensione, chi – mi domando – non ha mai sognato di partire alla volta di un luogo agognato dentro al proprio letto? Da bambina immaginavo che mi portasse dappertutto: lo vedevo sia da fuori che in soggettiva questo mio volo, e chiudevo gli occhi con forza per prolungare questa fantasia. La storia comincia con i tre fratellini mandati a passare le vacanze dalla zia Beatrice nella contea del Bedfordshire. Siamo d’accordo: bello il posto, bella la campagna inglese, belle le tazze di thé che si riempiono ogni minuto:

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Grazie all’incantesimo di Miss Price il pomello d’ottone del letto di Paul si trasforma in un oggetto magico capace di esaudire desideri

il libro Pomi d’ottone e manici di scopa di Mary Norton

I lombardi che non ti aspetti: bizzarri, creativi, temerari e un po’ folli. Una galleria di tipi dipinti dalla penna di un cronista: il Nonno Ragno, Mariolino il falsario, Sperandio l’eremita, le Nonne Goal, il nuotatore solitario, il collezionista di orologi da campanile. Uomini e donne straordinari nelle loro passioni. Storie da Guinness. Gabriele Moroni Nonno Ragno e gli altri Mursia, euro 15

Biografia di un agente segreto La testimonianza dell’ex agente siriano che ha tradito Assad. 2011: iniziano le proteste pacifiche contro il regime siriano. L’agente incaricato di occultare la verità aiuta invece le famiglie a ritrovare i corpi dei propri figli e parenti, oppositori di Assad e assassinati dai militari. L’agente verrà scoperto e sarà in pericolo di vita. Riuscirà a scappare in Francia. Garance Le Caisne La macchina della morte. Siria: oltre il terrore islamico Rizzoli, euro 17

Una storia di disastri e di sogni

[ a cura di Daniela Palumbo ]

testo di Yamada

l’estate dei tre diviene – però – “avventurosa” da quando scorgono una distinta signora cadere in malomodo e storcersi una caviglia. È Miss Price, la più distinta lady del circondario che abita nel colorato cottage in fondo al vialetto della casa della zia. Il più piccolo dei tre fratelli, Paul, confida agli altri due che Miss Price è caduta da una scopa. Al calar delle tenebre la vedeva sempre sfrecciare –nel cielo d’estate –sulla sua scopa: era magia pura, la sua gioia notturna. Quella sciagurata mattina, Miss Price cade proprio dalla sua scopa prima di essere soccorsa, facendo poi intendere ai tre (essendo stata messa alle strette) di essere un’aspirante strega. Carey, Charles e Paul, a questo punto, fanno un patto con Miss Price: lei produrrà un incantesimo che funzionerà a dovere solo “fino a quando/se” loro tre sapranno mantenere il suo segreto. L’incantesimo trasfigura il pomello d’ottone del letto di Paul: una volta avvitato per metà a un’asta della testiera, si esprime il desiderio del luogo dove si vuole andare. Poi si riprende ad avvitare il pomo fino alla fine: solo allora il letto partirà, a razzo. «È un bell’incantesimo. Vi piacerà. Solo non mettetevi nei pasticci», dice Miss Price. Queste parole di libertà e responsabilità esprimono la bellezza del rapporto di fiducia che lega Miss Price ai tre fratellini. Che fanno esperienze sorprendenti e scoprono quanto riescano a cavarsela –nelle avventure dove approderanno col letto – grazie anche a questa fiducia accordata, cui vogliono rendere premuroso conto e avventuroso onore.

Storie da primato lombardo

1937, Olanda. Fing ha quattro fratelli e due sorelle. Insieme a papà e nonna traslocano in una bizzarra casa vicino a un cimitero. La nonna, dopo la morte della mamma, ha cresciuto i sette figli. Il padre è un pasticcione dal cuore d’oro con scarsa fortuna nel lavoro. Vuole aprire una manifattura di tabacchi ma la nuova avventura produrrà una serie di disastri. Benny Lindelauf Nove braccia spalancate San Paolo, euro 15


Checco Zalone è un personaggio vicino a un’idea di italiano medio che da un lato intriga e dall’altro è satirico

VISIONI

Il passato lascia ombre che fanno male Nostalgia della luce, il docufilm che indaga sugli scomparsi durante la dittatura di Pinochet, 1973. Nel deserto del Nord, in Cile, gli astronomi studiano l’universo. Le donne invece – madri, mogli, sorelle, figlie – scrutano più in basso cercando tracce che possano ricondurle agli scomparsi della dittatura.

Quo vado? Checco Zalone (fa) il fenomeno

«La verità è che non sappiamo quasi nulla del pubblico di questo genere di film. In sala, c’è il bimbo di cinque anni e il nonno di 95. Le ricerca è una sorta di collage. Questo genere è calibrato per rivolgersi a pubblici diversi, una gamma di persone differenti». Per capire meglio i segreti dell’ultimo film di Checco Zalone siamo andati a intervistare Alan

O’Leary, studioso irlandese che ha approfondito come nessuno mai il cinema popolare del nostro paese. «Mentre si fa un film, generalmente – ha detto l’autore del fondamentale Fenomenologia del cinepanettone uscito per Rubbettino un paio d’anni fa - si pensa a uno spettatore, al suo livello di studio, a quello di stipendio. In questo caso devi tenere conto di tutti. Alcune scene non fanno ridere, ma se una ragazza di fianco a te in sala sorride, finisce per trascinarti». L’interesse per il personaggio creato da Luca Medici, vero nome di Checco Zalone è diverso da quello che solitamente spinge un appassionato di cinema a piazzarsi di fronte al grande schermo. Nessuno si è informato sulla storia raccontata, sul tipo di regia e

Gennaro Nunziante, regista, sceneggiatore e Checco Zalone, attore comico, ce l’hanno fatta. Il loro ultimo film Quo vado? è il film italiano più visto di tutti i tempi. Un film che ha conquistato tutti

il film Quo vado? Un film di Gennaro Nunziante. Con Checco Zalone, Eleonora Giovanardi, Sonia Bergamasco, Maurizio Micheli, Ludovica Modugno. Durata 86 min. - Italia 2016

Quando l’America censurava i film Storia dello sceneggiatore che vinse due Oscar... sotto falso nome. Si chiama L’ultima parola. Daniel Trumbo nel 1950 finisce nella lista nera della Commissione per le attività antiamericane del Congresso. Andrà in prigione ma non smetterà di lavorare e scriverà film come Vacanze Romane, anche se potrà farlo solo sotto falso nome.

cosa che assomiglia a un rito di passaggio come quelli delle tribù in cui i giovani sono chiamati a diventare uomini. Per la durata del rito i valori della società (e della tribù) sono esposti in un modo che li rende evidenti e criticabili. Gli antropologi ci dicono che per la durata essi sono rivelati come arbitrari, non naturali e quindi possono essere sfidati. Persino la sorte del ragazzo è in questione. I film come i cinepanettoni son cosi: fanno vedere come siano mutevoli e ipocriti i valori e le convenzioni della società». Uscendo dal cinema si può aderire o non essere per nulla toccati e tornare alla propria realtà dopo una risata più o meno lunga. Come il carnevale, le vacanze, le feste, Quo vado?ha fatto divertire milioni di spettatori facendo dimenticare la propria vita per 86 minuti. Checco Zalone fa divertire tutti ma non piace a nessuno.

1936. La verità su Jesse Owens [ a cura di Daniela Palumbo ]

di Sandro Paté

neppure voleva anticipazioni. Siamo stati tutti conquistati da questo schiavo del dialetto, ignorante e volgare, ma che non si sente mai inadeguato. O’Leary, una vita a studiare i film italiani campioni d’incassi da Vacanze di Natale (1983) passando per Anni ’90 (1992), Paparazzi (1998) via via fino alla saga dei Natale a…, paragona l’esperienza in sala dello spettatore di film popolari a un rito. «La partecipazione non è passiva. Siamo di fronte a qual-

Race, il film che racconta la verità sul più grande atleta della storia, Jesse Owens, vincitore di 4 medaglie d’oro alle Olimpiadi di Berlino nel 1936. Basato sui racconti di Marlene, sua figlia, Race sfata la leggenda secondo la quale Owens fu disprezzato da Hitler. A non volerlo incontrare fu invece il presidente americano Roosevelt. febbraio 2016 Scarp de’ tenis

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Giovanni Salvemini, in arte Caparezza, ha iniziato la sua carriera con il nome d’arte Mikimix. Il successo, nel 2003, con Verità supposte

Caparezza « L’eretico? È chi sceglie di non pagare il pizzo» di Daniela Palumbo

Reagisce a quello che vede. E dice cose intelligenti. Un artista rigoroso, colto e anche un po’ eretico. Ma soprattutto, capace di graffiare. Sui temi che scottano. Come il lavoro. 22 Scarp de’ tenis febbraio 2016

Caparezza ti spiazza. Ti spiazza quando canta e quando lo intervisti. Ma non lo fa di proposito, non è una posa la sua, è genuinamente eretico, o antisistema se vogliamo usare una parola desueta. Sotto i riccioli incolti e disordinati c’è un artista colto e rigoroso, che sa giocare con la parola e i suoi significati e che racconta il mondo da un punto di vista sociale perché, come lui stesso dice: “Reagisco a quello che vedo”. E reagisce non solo con la musica ma si schiera e agisce anche mettendoci il suo lavoro: tanti i suoi concerti gratuiti e le incursioni musicali a sostegno di Emergency, le campagne di solidarietà con i “ragazzi del G8” senza soldi per pagarsi gli avvocati, e poi Legambiente, le


carceri, don Gallo. Uno dei temi forti delle sue canzoni è il lavoro. Forse anche perché suo padre faceva il muratore e sua madre la maestra, a Molfetta. Conosce il lavoro che dà dignità e ha cognizione di quello che succede quando lo perdi. Cosa pensi del mondo del lavoro, della precarizzazione forzata? Ci sono persone che per “tirare avanti” la propria vita e quella della propria famiglia sono umiliate continuamente. Le umiliazioni sono dovute alle condizioni cui il lavoratore è costretto, per l’esiguo salario (quando contemplato), ma spesso anche per il mancato rispetto dei diritti del lavoratore. Come si può bistrattare chi ti permette di esistere? È una deriva insensata. Caparezza, sei un rapper? Se sapessi cantare col cavolo che farei il rapper! No, scherzo. Amo da sempre il rap e sono fiero di essere considerato tale. Sei considerato un artista fuori dal mainstream. Di fatto però sei dentro il mercato, il tuo sito sponsorizza il merchandising Caparezza-style. Contraddizione in vista? Se parliamo di merchandising ti dirò che mi piacciono molto le magliette e i gadget degli artisti (quando vado ai concerti una maglietta la prendo sempre); questo non significa essere diventati stilisti di moda, anzi. Quella è roba del tutto lontana dalla logica del “ce l’hanno tutti, la voglio anch’io”. Sono andato a cercarmi in rete il significato della parola mainstream. Significa “tendenza dominante” e sento di poter escludere il rischio di appartenere a questa specie.

Il qualcunista ha in comune col qualunquista il disprezzo per le istituzioni ma ha una marcia in più. Vuole fare carriera. Possibilmente senza talento, senza studio e senza impegno

L’INCONTRO Parodia e metafora nelle tue canzoni a volte sono state fraintese, vedi Dentro il tunnel e altre: ti hanno preso a manifesto di quel sistema che cercavi di svilire... Ti divertono queste incomprensioni o ti fanno arrabbiare? Quando ero giovane e rubicondo me la prendevo, non mi era chiaro il meccanismo di metabolizzazione di una canzone. Qualcuno è arrivato persino ad accusarmi di scrivere canzoni senza senso (il che per me non

Una delle tue canzoni più belle è Io diventerò qualcuno. Qual è la differenza fra qualunquista e qualcunista? Il qualunquista è l’uomo qualunque del movimento di Giannini, una persona che prova assoluta sfiducia per la politica e che possiamo collocare nell’immediato dopoguerra. Il qualcunista è invece contemporaneo, può avere in comune col qualunquista il disprezzo per le istituzioni ma ha una marcia in più: vuole fare carriera, possibilmente senza talento, senza impegno, senza studio. I testi di Caparezza sarebbero un po’ nudi senza le interpretazioni video che ne configurano lo stile. Come procedi? I video partono da chiacchierate coi videomaker durante le quali spiego la mia visione del brano. Mi piace l’idea che ogni ascoltatore abbia immagini diverse relative ai miei brani, è la forza della musica che si mescola all’umore e al vissuto dell’ascoltatore. I concerti invece sono nati scarni e si sono evoluti in una enorme stanza dei giochi che mi permette di travestirmi, recitare e interagire con gli oggetti di scena. Di solito traccio un canovaccio e lo discuto con due componenti del gruppo (chitarrista e tastierista) che integrano poi con le loro impressioni. È un processo sempre lungo.

scheda Giovanni Salvemini nasce a Molfetta, figlio della maestra Franca Murolo e dell’operaio Giovanni. Inizia la carriera con il nome d’arte di Mikimix ed esordisce con brani di poco successo. Questo comincia ad arrivare nel 2003, con il secondo album, Verità supposte, quando era già diventato Caparezza. Le dimensioni del mio caos nel 2008 lo consacrano icona dei giovani alternativi. Con Il sogno eretico, 2011, il successo è esploso. Una curiosità: nel gennaio 2011 Caparezza esordisce al cinema interpretando se stesso nel film di Checco Zalone Che bella giornata.

è negativo, anzi, amo il non-sense). Adesso queste incomprensioni non mi fanno più arrabbiare. C’è di peggio. C’è chi ama i balli sociali. Parliamo di Museica, ultimo album del 2014, ispirato al mondo dell’arte. Perché è salvifica l’arte? Perché è il motivo per il quale siamo ancora vivi. È l’esercizio dell’immaginazione che è la pulsazione vitale di questa esperienza umana. È una creazione e come ogni creazione è divina (lo dico da agnostico), ultra-terrena, eterna. Non tutta certo… Caparezza l’eretico. Essere eretici è un atto sovversivo perché l’uniformità spesso è un valore. Chi è l’eretico? Chi si assume il coraggio di una scelta. E il valore di una scelta dipende dal contesto. Oggi chi parla come Giordano Bruno di certo non rischia il rogo in piazza, quindi le invettive anticlericali non mi interessano più di tanto, sposto dunque la mia attenzione su chi, per esempio, non paga il pizzo al clan di turno. Quelli sono eretici, fanno una scelta coraggiosa, soprattutto giusta e purtroppo rischiosa. Di questi tempi il tema è la paura... di cosa ha paura Caparezza? Di diventare insensibile. Piaci anche ai giovanissimi. A te piacciono le nuove generazioni? Le nuove generazioni mi piacciono perché sono giovani e i giovani non sono ancora sporchi di mondo come gli adulti. E poi criticare le nuove generazioni è il primo dei sintomi della vecchiaia.

febbraio 2016 Scarp de’ tenis

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COPERTINA

Le immagini di queste pagine sono tratte da Workshop Homelessness, promosso da Fio.Psd per avere immagini rispettose delle persone e del tema grazie alla collaborazione di Sandro Ariu e Federica De Angeli

Sono cinquantamila le persone senza dimora che vivono in Italia secondo la ricerca realizzata da Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Fio.Psd, Istat e Caritas Italiana. Per loro, per la prima volta, sono stati fissati dei livelli minimi di assistenza da erogare. Questo il senso delle “Linee di indirizzo per il contrasto alla grave emarginazione adulta in Italia”, documento che stabilisce criteri e progettualità per lo stanziamento delle risorse nel settore della homelessness. Uno su tutti l’housing first, casa subito a chi vive in strada.

Uno, nessuno, 24 Scarp de’ tenis febbraio 2016


Credits Insegnanti: Federica De Angeli (www.federicadeangeli.com) e Sandro Ariu (www.sandroariu.it) Studenti: Danilo Ciscard, Daniele Zappavigna, Stella Ingrassia, Enzo Berti, Ettore Chernetich, Ilaria Gallizia, Ombretta Cutuli, Paola Peruch Fio.Psd: Michele Ferraris e Paolo Pezzana

cinquantamila febbraio 2016 Scarp de’ tenis

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COPERTINA

di Generoso Simeone

Istat, anno di riferimento: 2014 (novembre-dicembre) Note metodologiche: indagine condotta su 158 comuni italiani Nell’indagine NON sono stati compresi: - i senza dimora che nei mesi dell'indagine non hanno MAI usufruito di un servizio mensa, dormitorio o altro servizio - minori - rom - chi pur non avendo casa è ospitato da amici, parenti o simili

«Un documento storico per una serie di motivi. Per la prima volta non è stato il Ministero a scriverlo, ma si è arrivati alla sua stesura grazie a un processo condiviso e articolato che ha coinvolto tutti gli attori protagonisti. Per la prima volta vengono fissati dei livelli minimi di assistenza da erogare a persone in stato di grave emarginazione. Per la prima volta si spinge a puntare su modelli innovativi». È soddisfatta Cristina Avonto,

CHI È IL SENZA DIMORA UOMO

STRANIERO

VIVE DA SOLO

presidente Fio.Psd (Federazione italiana organizzazioni persone senza dimora) nel commentare le “Linee di indirizzo per il contrasto alla grave emarginazione adulta in Italia”, il documento presentato da Fio.Psd, Ministero del lavoro e delle Politiche sociali e dalle 12 Città metropolitane che stabilisce criteri e progettualità per lo stanziamento delle risorse nel settore della homelessness. «Il lavoro è durato due anni – argomenta Avonto – e ci ha visti impegnati a incontrare tante realtà su tutto il territorio nazionale, a VIVE AL NORD

raccogliere le loro buone pratiche, a farne sintesi e a inserirle nel documento finale, che è stato sottoscritto anche dalla Conferenza stato-regioni. La conseguenza più importante è che, d’ora in poi, ogni ente pubblico che emanerà bandi o erogherà finanziamenti lo farà sulla base di queste Linee guida». A livello di contenuto l’aspetto più importante del documento è l’invito a sperimentare modelli innovativi. Su tutti, quello dell’housing first, che prevede l’accesso immediato dei senza dimora ad appartamenti indipendenti.

HA LA LICENZA MEDIA

39,6% 85,7%

26 Scarp de’ tenis febbraio 2016

58,2%

76,5%

56,0%

È SENZA DIMORA DA PIÙ DI QUATTRO ANNI

21,4%


LA RICERCA

Aumentano i senza dimora in Italia, oltre cinquantamila persone in strada

Dopo una formazione sull’homelessness, e parecchi sopralluoghi prima degli scatti, i fotografi/allievi hanno lavorato per dieci mesi realizzando una serie di immagini che indagano a fondo luoghi e persone

«Se con questo sistema, a New York, sono riusciti a ridurre drasticamente il numero delle persone che dormono per strada, credo sia possibile applicarlo anche in Italia – dice Cristina Avonto –. Non dico di chiudere subito tutti i dormitori perché sarebbe da irresponsabili. I servizi tradizionali devono rimanere anche perché sono la risposta ai grandi numeri. Però dobbiamo far crescere modelli innovativi per concretizzare dei reali percorsi di uscita dalla povertà». Via alla sperimentazione La Fio.Psd, da febbraio 2014, ha avviato una sperimentazione del modello housing first. In 26 comuni di dieci regioni, per un totale di 90 appartamenti gestiti da 51 soggetti del privato sociale, 160 persone sono state tolte dalla strada e inserite in una casa. «I risultati ci sono e per questo si può e si deve seguire que-

scheda Molti l’hanno già definita una rivoluzione culturale. Perché per la prima volta in Italia vengono stabiliti dei livelli minimi essenziali, a livello nazionale, per combattere gli stati di bisogno dei senza dimora. Ma anche perché, d’ora in avanti, chi sui territori eroga servizi di contrasto alla povertà deve fare per forza riferimento, per ottenere finanziamenti, a questa nuova cassetta degli attrezzi stabilita dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Fio.Psd e 12 Città metropolitane. Infine, perché le Linee di indirizzo rappresentano il primo documento ufficiale di programmazione nel settore della grave marginalità che Governo, Regioni ed enti locali sono chiamati a seguire per investire fondi pubblici in servizi e strategie abitative innovative. La seconda grande novità riguarda il servizio di housing first. Nell’ambito del complesso tema della residenza, le Linee di indirizzo evidenziano come le azioni più efficaci siano quelle che permettono alle persone di uscire dalla condizione di homeless tramite l’accesso diretto alla casa. (gs)

Lo scorso dicembre a Roma sono stati presentati i dati della seconda indagine nazionale sulle persone senza dimora curate da Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, Fio.Psd, Istat e Caritas Italiana, a tre anni di distanza dalla prima. La rilevazione sul campo, cuore della nuova indagine, è stata condotta a novembre e dicembre 2014. In quei due mesi, le persone senza dimora che hanno utilizzato servizi di mensa o accoglienza notturna nei 158 maggiori comuni italiani sono state 50.724, il 2,43‰ della popolazione, in aumento rispetto al 2011 (+6,5%), quando erano il 2,31‰ (47.648 persone). Oltre la metà vive nel nord (diminuisce la presenza nel nord-est), circa un quarto nel Mezzogiorno (presenza in aumento), con una notevole concentrazione nei grandi centri urbani, in particolare Milano e Roma. Oltre la metà sono concentrati in sette città: Milano (23,7% del totale dei senza dimora in Italia), Roma (15,2%), Palermo (5,7%), Firenze (3,9%), Torino (3,4%), Napoli (3,1%) e Bologna (2%). Tale distribuzione è legata all’offerta dei servizi di mensa e accoglienza notturna: circa il 60% ha sede nel nord, solo un quinto nel mezzogiorno. Rispetto al 2011, sono diminuiti i servizi (-4,2%), ma sono aumentate le prestazioni erogate (+15,4%); ciò non si è tradotto in un pari aumento del numero di senza dimora, in quanto molte delle prestazioni in più sono state erogate a chi già ne usufruiva. In particolare, i posti letto e le mense sono diminuiti entrambi del 4%, ma le accoglienze notturne sono aumentate del 27% e i pasti erogati del 22%. In crescita servizi diversi: distribuzione medicinali (+6,8%), unità di strada (+8,8%), accoglienze diurne (+3,5%) e centri di ascolto (+7%). Aumentato (+7,3%) anche l’accesso ai servizi sociali. Le persone senza dimora in Italia sono soprattutto uomini, con meno di 54 anni e con basso titolo di studio. Il 68,7% (ovvero il 97,2% degli italiani e il 48,1% degli stranieri) hanno la residenza anagrafica, cioé sono iscritti all'anagrafe di un Comune. Rispetto al 2011, più spesso vivono soli e da più tempo sono nella condizione di senza dimora: diminuiscono coloro che lo sono da meno di tre mesi, mentre aumenta la quota di chi lo è da più di due anni. Più di un quarto dichiara di lavorare (guadagnando in media circa 300 euro), ma diminuiscono coloro che lo fanno stabilmente e aumentano coloro che non hanno mai lavorato, soprattutto tra gli stranieri. Parallelamente cresce anche la quota di chi riceve aiuti in denaro da familiari, amici o parenti e, tra gli stranieri, da estranei (collette, associazioni di volontariato o altro). La separazione dal coniuge o dai figli, insieme alla perdita di un lavoro stabile, è un evento sempre più rilevante, anche per le donne, nel percorso di progressiva emarginazione, sperimentato dal 58% degli stranieri e da quasi il 70% degli italiani (circa 3 punti percentuali in più rispetto al 2011). Dalla precedente analisi, erano state escluse le persone senza dimora che non frequentano mense o accoglienze notturne. Ora c’è un dato. Anche queste ultime a Torino, infatti, sono state stimate attraverso le unità di strada e risultano essere il 4,7% della popolazione complessiva dei senza dimora; una popolazione limitata e, rispetto a chi si rivolge ai servizi, più spesso dormono per strada, sono italiani (circa la metà), non hanno mai formato legami familiari, non lavorano e presentano problemi di dipendenza, soprattutto da alcol. Nicoletta Pannuzi Direzione centrale statistiche socio-economiche Istat febbraio 2016 Scarp de’ tenis

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COPERTINA

DOVE VIVONO

MILANO

23,7%

ISOLE

9,2% SUD

11,1% 2% TORINO

NORD OVEST

38%

BOLOGNA CENTRO

23,7%

3,4%

NORD EST

FIRENZE

18%

3,9%

ROMA

15,2% NAPOLI

3,1% PALERMO

5,7%

sta via – insiste Avonto –. Tenere le persone in dormitori e mense tampona un’emergenza, ma non permette di uscire dalla condizione di bisogno». La presidente Fio.psd evidenzia poi altri aspetti positivi delle Linee di indirizzo: «Finalmente viene data una linea uniforme sul tema della residenza e si spinge verso una reale integrazione tra sociale e sanitario dato che spesso c’è una preponderanza dell’uno a discapito dell’altro. Altro elemento da sottolineare è il riconoscimento della storia dei servizi sociali e di quanto di buono è stato fatto finora. Inoltre, viene dato risalto al lavoro delle unità di strada, cosa finora mai fatta». Nel 2016 la Fio.Psd sarà impegnata a diffondere le Linee guida. «Aiuteremo i nostri soci – dice Avonto – a leggerle e a interpretarle. Spiegheremo anche come progettare politiche innovative». Spazio anche per una critica. «Avremmo voluto – conclude Avonto – qualcosa di più sulle pratiche innovative. E manca del tutto la questione del reddito universalistico. Strumenti di social card non bastano, ma almeno abbiamo ottenuto che vengano erogati su tutto il territorio».

28 Scarp de’ tenis febbraio 2016

Le unità di strada restano uno strumento fondamentale per intercettare tutte quelle persone che non si rivolgono ai servizi di assistenza

Jesce Juorno, nuove opportunità agli homeless di Laura Guerra

Un progetto innovativo a Napoli, in cui i senza dimora hanno davvero un’opportunità di crescita personale

Si chiama Jesce Juornoe deve il suo titolo ad una fra le più belle canzoni di Pino Daniele. Intraducibile invocazione napoletana che propizia la speranza di un giorno migliore dà il nome ad un nuovo servizio di accoglienza diurna attivo nel centro di Napoli. Jesce Juorno offre ogni giorno un’opportunità: c’è lo sportello di ascolto, mediazione familiare, counseling e quello di consulenza legale e tutela dei diritti; ci sono i laboratori di arte e manualità, gli spazi per le attività ricreative, ci sono i percorsi di prequalificazione professionale, un internet point, una biblioteca. Si esce dai centri di accoglienza notturna e invece di doversi organizzare in qualche modo il tempo,


50.724

2,43 ‰

+ 6,5%

il numero dei senza dimora in Italia

i senza dimora sul totale della popolazione

percentuale di crescita rispetto al 2011

Housing first a tempo per chi non ha reddito: «Così in molti hanno potuto ricominciare» Come una coincidenza, proprio mentre gli operatori della Caritas di Padova stavano lavorando al loro primo progetto di housing first, una parrocchia del centro città li contattò per mettere a disposizione due appartamenti in comodato d’uso. «Ci è sembrato un segno – racconta Sara Ferrari –. Come Caritas ne avevamo altri due, e siamo partiti con il progetto La strada verso casa». Quello che stanno sperimentando a Padova è una sorta di ibrido tra l’accoglienza tradizionale e il modello “puro” di housing first nordeuropeo, che prevede una sola persona per casa. «Da noi non sarebbe stato sostenibile, perché le persone non hanno un reddito di cittadinanza e chi non ha un lavoro non può contribuire alle spese. Per questo non restano per un tempo indeterminato ma per circa un anno». Così dal 2013 hanno accolto una ventina di persone, di cui otto camminano già con le proprie gambe. Alcuni avevano quindici anni di strada alle spalle, altre l’avevano persa da poco o erano a rischio. Come Alessandro: era un artigiano, ma a causa della crisi perse il lavoro, la casa, tutto. E arrivò pure una condanna a dodici mesi in carcere. Lì scoprì di soffrire di una grave forma di diabete che richiedeva molti esami e cure continue. «Finché è stato dentro ha potuto curarsi, quando è uscito, senza casa, non è più riuscito a essere costante nelle cure: e come si fa in strada? Aveva iniziato a fare dentro e fuori dal-

PADOVA

l’ospedale, peggiorando sempre più». Fu il dormitorio a segnalarlo alla Caritas. «Gli abbiamo dato una delle nostre case: con uno spazio suo è riuscito a curarsi fisicamente e psicologicamente. Dopo otto mesi è riuscito a trovare un contratto a tempo indeterminato e ora vive autonomamente». Il percorso, certo, è fatto di piccoli passi, che a volte possono sembrare banali. «C’è stato chi ci ha rivelato che i primi giorni faticava a dormire in un letto vero. O un’altra persona, a cui avevamo chiesto di fotografare dei momenti per lui simbolici della differenza tra la vita in casa e quella in strada, che ha fotografato il water». Marta Zanella

NAPOLI

sia che diluvi, faccia freddo o bruci il solleone, si può scegliere di far parte di Jesce Juorno, nuovo servizio di accoglienza diurna realizzato dalla cooperativa sociale La Locomotiva con il sostegno del Comune di Napoli. Non solo un riparo Attivato nelle prime settimane dell’anno, si pone l’obiettivo di offrire ai senza dimora non solo riparo ma giornate ricche di attività interessanti, alle quali ogni persona potrà partecipare orientato dall’équipe educativa che ne valuterà le attitudini, le risorse e le capacità dimenticate e sepolte sotto i rovesci della vita in strada. Gli operatori sociali sono formati per offrire un intervento basato sulla relazione e sulla proposta, partendo dall’adesione a un patto formativo individuale per ciascun

ospite. In questo modo ogni persona si rende protagonista di un percorso che la rende parte attiva del suo recupero facendola sentire al centro. Secondo le propensioni personali l’ospite può potenziare il lato artistico e creativo, riscoprendo la bellezza del sapere e del saper fare, attraverso il riuso di oggetti riciclati e materiali naturali; rinforzare le abilità informatiche; riscoprire le bellezze paesaggistiche e artistiche della città durante le visite; ascoltare musica o vedere film, leggere un libro durante i laboratori di socializzazione e tempo libero; usufruire dello sportello di segretariato sociale pensato per dare orientamento e consigli utili a risolvere conflitti familiari, gestire pratiche burocratiche, o affermare i diritti di cittadinanza. In calendario anche laboratori di pre-qualificazione professionale in

Gli operatori sociali sono formati per offrire un intervento basato sulla relazione e sulla proposta, partendo dall’adesione a un patto formativo individuale per ciascun ospite. Così ognuno si sente parte attiva

cui gli utenti, seguiranno programmi di formazione, di scrittura creativa e di giornalismo che puntano al reinserimento lavorativo. Un clima di condivisione Il clima di condivisione e di familiarità del servizio di accoglienza si consolida durante il momento del pranzo previsto quotidianamente durante il quale insieme si apparecchia, si partecipa cucinando, si serve a tavola. Due le sedi delle attività: l’istituto “Sant’Antonio La Palma” nel rione Sanità e la redazione di Scarp de’ tenis nel centro antico. Jesce Juorno fa parte del Sistema Integrato per i senza dimora progettato dalla Locomotiva che prevede l’accoglienza notturna presso l’istituto “La Palma”, un servizio di housing sociale a “Villa Jovis”, bene confiscato alla camorra e il progetto Scarp de’ tenis. febbraio 2016 Scarp de’ tenis

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COPERTINA

BOLOGNA

Una casa e la voglia di ricominciare, questa la ricetta di housing first Co.Bo Fare la lavatrice. Sembra semplice, ma per chi sta in strada da anni tornare a vivere in una casa vuol dire reimparare a fare mille cose, compreso usare gli elettrodomestici. «Questa fase è forse quella più complessa: riabituarsi a una casa. Su 43 persone che abbiamo inserito nei nostri 24 appartamenti con il progetto di housing first, 38 vivono in strada da più di tre anni», spiega Serena Panico dell’associazione Amici di Piazza Grande. Lo scorso anno Piazza Grande ha vinto un bando del comune di Bologna, “Housing first Co.Bo”, per dare casa a 64 persone in 16 mesi. Loro avevano già un progetto simile che in tre anni ha dato un tetto a 44 adulti e 24 famiglie. Il comune di Bologna è stato il primo in Italia, insieme a Rimini, a dare il via a un progetto di housing first promosso da un’istituzione. Da un mese in uno dei loro monolocali vive Andrej, cinquantenne di origine russa. «Per lui è stata dura entrare: voleva una casa vera, ma ne era anche spaventato perché viveva da 25 anni tra strada e dormitori – racconta Panico –. Bello è che anche il vicinato lo sta aiutando. C’è chi gli fa ripartire la caldaia quando si spegne e lui non sa come fare, lo hanno coinvolto anche nei turni di pulizia del palazzo». Per accedere a un appartamento non è necessario aver fatto un percorso particolare: «Chiediamo solo che rispettino le regole della civile convivenza e partecipino agli incontri settimanali con gli operatori. Nessuno è obbligato, ad esempio, a uscire da una dipendenza: la libertà di scelta della persona è fondamentale. Il nostro ruolo è che prendano consapevolezza dei loro comportamenti a rischio e decidano di fare dei passi. Certo per noi quando accettano di essere seguiti dai servizi e iniziare una terapia è una vittoria». Chi ha un lavoretto paga un piccolo contributo: «Sono felici di farlo. E molti confermano che avere una casa di garantisce quella spinta necessaria per farcela». Marta Zanella

In strada per agganciare chi non chiede aiuto di Cristina Salviati

Si chiama “Gruppo di condivisione” l’unità di strada nata per affiancare le persone più problematiche o quelle escluse dai servizi di base 30 Scarp de’ tenis febbraio 2016

L’housing first: da qui devono partire i servizi dedicati ai senza dimora. La casa è, infatti, il punto da cui partire per rendere autonome le persone

L’unità di strada della Caritas diocesana vicentina è nata un’estate di circa dieci anni fa; alcuni volontari del ricovero invernale di emergenza, dispiaciuti di perdere i contatti con chi aveva dormito per tanti mesi a Casa San Martino, decisero di andare a trovarli nei parchi e sotto i portici dove trovavano alloggio precario durante l’estate. Alla chiusura del ricovero invernale la maggior parte dei senza tetto parte in cerca di lavori stagionali, ma alcuni restano e sono proprio i più problematici. L’unità di strada si è data un nome che è anche simbolico del compito che si prefigge: “Gruppo di condivisione”, si chiama, a significare il desiderio di affiancare queste persone e tentare di fare un po’ di strada insieme. Rafforzando la relazione si spera di aiutare qualcuno a cambiare leggermente rotta, ad accettare un sep-

pur minimo progetto per la propria vita, ad affidarsi all’educatore Caritas o del Comune per cercare insieme una soluzione al proprio isolamento, alla propria esclusione da tutti i canali della società. Il gruppo di condivisione è divenuto fin da subito una vera e propria unità di strada, collegata anche al servizio della Croce Rossa, a quello del Comune e ai volontari dell’associazione Papa Giovanni XXIII, l’attività ora prosegue anche nei mesi invernali. Un servizio di ascolto Quello Caritas rimane però un servizio che privilegia il contatto e la condivisione; non si occupa di distribuire viveri o vestiario, solo coperte in caso di necessità, ma si propone di “agganciare” chi tende a voler restare a vivere in strada, riducendo al minimo i rapporti con i servizi e cullandosi nell’illusione di vivere in questo modo un’indipendenza in realtà solo apparente.


GENOVA

Servizio di strada se il panino diventa un “ponte”

VICENZA

Dormire in strada è molto oneroso, per la salute e la psiche innanzitutto, ma anche per i legami che sei obbligato a rispettare con chi fornisce i servizi. Quello dell’unità di strada è poi un servizio spesso frustrante, per l’impossibilità di fornire la risposta adeguata a chi si trova in situazione di bisogno: incontri persone in disagio mentale che, essendo prive di permesso di soggiorno, non hanno diritto a cure, oppure che nessun servizio specifico si preoccupa di conoscere e monitorare. Ci sono ragazzi appena maggiorenni che non possono accedere ai progetti adatti alla loro età, oppure coppie per cui accettare aiuto significherebbe rinunciare alla propria intimità. Il “Gruppo di condivisione” vicentino si è perciò dato anche il compito di segnalare queste lacune dei servizi facendosi carico di sollecitare interventi e aiuti laddove ce ne sia bisogno.

SICILIA

Housing First Sicilia: «La scommessa? Dare casa alle famiglie in difficoltà» Quello della casa, in Sicilia, è un problema di famiglia. Ed è proprio alle famiglie senza casa, a rischio sfratto e a quelle che vivono in contesti malsani e non adeguati, che le Caritas di 13 diocesi dell’isola hanno scelto di rivolgersi con il loro progetto di housing first. «Abbiamo dato casa finora a 145 persone, il 70% di loro appartengono a nuclei familiari. La nostra è stata una scommessa: lavorare con le famiglie invece che coi singoli per certi versi è più complesso da gestire – spiega Domenico Leggio, direttore della Caritas di Ragusa –. Ma sta funzionando, tanto che altre città con maggiore esperienza, come Bologna, sono rimaste sorprese dai nostri risultati». Più complesso perché si tratta di lavorare in rete con tutti i servizi, significa collaborare con altre realtà per formare gli adulti e aiutarli a rientrare nel mondo del lavoro. Ma significa anche stringere alleanze con le scuole: quando i bambini vivono in alloggi malsani, aumentano le assenze da scuola, gli accessi agli ospedali e ai pediatri. È bastato dare alla famiglia una abitazione adeguata perché in molti casi questi problemi scomparissero. Come per Francesco e Anna (i nomi sono di fantasia), due bambini di 6 e 4 anni che vivevano in un garage con i genitori, poco più che ventenni e troppo precari per affittare un appartamento. È stato un carabiniere a parlare loro del progetto Housing First Sicilia e a segnalarli a Caritas. «La famiglia, felice di vedere finalmente una luce, si è spostata nella casa che abbiamo trovato per loro con grande emozione, soprattutto dei bambini. Da subito sono stati autonomi nel pagarsi le bollette e tra poco il padre, che è un bravissimo muratore e che in questi mesi ha lavorato duro nei nostri progetti, sarà assunto in una delle nostre cooperative». (mz)

Il servizio di strada è una rete di volontari provenienti da tutta Genova che si occupa di portare panini, bevande e pasti caldi a persone in differenti situazioni di disagio. Il servizio è attivo 365 giorni all’anno e si svolge nelle stazioni e in vari punti della città. Per coglierne il senso dobbiamo partire dall’elemento principale del servizio: il panino. Il panino di per sé è poca cosa. Il pane è composto da pochi e semplici ingredienti. Il contenuto, invece, può essere vario. Può consistere in frittate preparate con amore, oppure sottilette e prodotti in scatola, gettati lì di fretta. La scelta sta a chi prepara. Usciamo in strada per incontrare la gente, per portare non solo ciò che la comunità prepara per loro, ma anche i “nostri” panini. Quando le giornate risultano lunghe e frustranti, tendo a portare panini elaborati, con preparazioni complesse, ma con un sapore che risulta artificiale, incolore che spesso non sazia. Quando le giornate sono positive invece porto panini semplici, come quelli che si consumano ai chioschi delle vecchie stazioni. Il panino rivela il suo vero sapore, diventando un ponte, un mezzo per ripensare e condividere la giornata trascorsa, per parlare male dei politici, per discutere del tempo, per farlo con visi conosciuti, o per provare imbarazzo ed entusiasmo conoscendone nuovi. Matteo Anselmo

febbraio 2016 Scarp de’ tenis

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SPECIALE

Fiori e bandiere francesi fuori dal Bataclan, uno dei luoghi degli attacchi terroristici che venerdĂŹ 13 novembre hanno messo in ginocchio Parigi provocando 129 morti e 192 feriti

Prove di

L’Italia, nonostante i ritardi e le pecche delle Istituzioni, continua da Paesi ben lontani dalla nostra cultura. A differenza di altre parti molti i ponti gettati verso chi arriva da luoghi lontani. Uno stile che 32 Scarp de’ tenis febbraio 2016


integrazione

ad essere un Paese accogliente e inclusivo per chi arriva anche d’Europa in Italia grazie al lavoro dell’associazionismo sono ha permesso di evitare il radicalismo religioso. Per ora. febbraio 2016 Scarp de’ tenis

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SPECIALE

di Daniela Palumbo

«Non è sufficiente nascere in un Paese per sentirsi parte di esso». Ha ragione Brahim, 26 anni, che è arrivato in Italia a 10 anni, ed è musulmano praticante. Allo stesso modo non è sufficiente essere musulmani per essere terroristi. Chi sono e quanti sono i foreign fighter italiani? Queste sono le domande che leggiamo sui giornali, sentiamo alla televisione e da politici in cerca di voti. Ma siamo sicuri che siano le domande giuste? Non dovremmo forse cominciare a chiederci chi sono i giovani musulmani che risiedono nel nostro Paese, come vivono, che speranze coltivano e, perché no?, se sono felici? L’Italia è ancora un Paese dove

34 Scarp de’ tenis febbraio 2016

i ragazzi stranieri, nati qui, non hanno diritto alla cittadinanza. Una negazione di diritti che non ci fa onore. Eppure, le voci che abbiamo ascoltato raccontano l’integrazione dei giovani musulmani, nel nostro Paese, evidenziando una realtà ricca di sfaccettature, anche se con luci e ombre. Comunque, nettamente diversa rispetto al format mediatico dei foreign fighter. Salvati dal volontariato «Ci sono molte cose positive – racconta Paolo Branca, professore associato di Lingua e Letteratura Araba all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e responsabile del dialogo con i musulmani nella Diocesi di Milano – nonostante le istituzioni non abbiano nessun progetto per gestire il fenomeno. Associazioni laiche e cattoliche, scuole e ora-

tori, lavorano in silenzio e non fanno notizia. Fin dalle elementari le maestre creano legami e mediano umori laddove non esiste la figura del mediatore culturale. Il 25% dei ragazzi che frequentano i 100 oratori milanesi sono musulmani. Sono le dimensioni locali, le città con i sindaci intelligenti, a costruire opportunità di relazione; sono le associazioni di quartiere che creano sinergie. È il volontariato degli illuminati che ci salva. Ma se le istituzioni continueranno a non avere un progetto lungimirante per i quartieri a forte immigrazione, l’esplosione dei ghetti è dietro l’angolo». Qual è la differenza fra i “nostri” giovani musulmani e quelli del nord Europa? In generale i Paesi europei hanno forti paradigmi di appartenenza:


MILANO

Fondazione Oasis in prima fila: «Creare ponti, per garantire un futuro» Si chiama “Conoscere il Meticciato, governare il cambiamento”: è un progetto della Fondazione Oasis avviato nel settembre 2014 e finanziato dalla Fondazione Cariplo. Oasis (www.oasiscenter.eu) nasce a Venezia nel 2004, da un'idea del cardinale Angelo Scola, con l'intento di promuovere la reciproca conoscenza e l’incontro tra il mondo occidentale e quello musulmano. Il progetto è articolato in sei tematiche (fondamentalismo, secolarizzazione, i media, libertà religiosa, dialogo interreligioso e l'idea di Europa), indagate da gruppi di giovani ricercatori. Per ogni tematica sarà realizzato un articolo/eBook con idee e contenuti utili a leggere i processi e le problematiche che l'interazione con l'Islam produce. Viviana Premazzi collabora con Oasis e con Fieri (Forum internazionale ed europeo di ricerche sull'immigrazione) e si occupa del dialogo fra Islam e mondo occidentale.

Il 25% dei ragazzi che frequentano i 100 oratori milanesi sono musulmani. Senza il lavoro dei tanti volontari sarebbe impossibile creare legami. Qui sopra l’Albero della Macedonia, simbolo di pace e convivenza

ideologici, come Francia, o etnici, come Germania e Inghilterra: se non sei tedesco, se non sei britannico, resti sempre e comunque un ospite. In Italia è diverso. Spesso basta mangiare la pasta o la pizza e tifare per una certa squadra di calcio per sentirsi integrati. In Italia di situazioni particolarmente critiche non ce ne sono state. Diverso è in Francia e in Belgio. Paesi dove, paradossalmente, si punta molto di più sull’integrazione... Questa è una falla del loro sistema di integrazione “forzata”: devi diventare a tutti i costi francese ma poi se ti chiami Mohamed o hai la pelle scura non troverai lavoro. Ti senti completamente assimilato ma poi scopri che, chi ti ha voluto assimilare, in realtà non ti ama. Oppure come il sistema britannico

«Le seconde generazioni che vivono in Italia – spiega Viviana – funzionano da ponte per i loro genitori. Di solito parlano meglio l'italiano, sbrigano questioni amministrative, si informano su internet e sono in grado di leggere con uno sguardo critico le notizie che arrivano dai Paesi di origine».

In generale i Paesi europei hanno forti paradigmi di appartenenza: ideologici, come Francia, o etnici, come Germania e Inghilterra: se non sei tedesco, e non sei britannico, resti sempre e comunque un ospite. In Italia no. Spesso basta mangiare la pasta o la pizza e tifare per una certa squadra di calcio per sentirsi integrati

E con i ragazzi italiani, qual è il rapporto? Fino agli anni del liceo legano molto con i coetanei e diventano amici, le differenze ci sono ma vengono superate. In seguito, spesso all'università, si è da soli, e gli amici italiani fanno domande sulla loro identità musulmana. E i ragazzi cominciano a chiedersi: chi sono? Molti mediano: faccio il Ramadan ma non prego cinque volte al giorno. Tanti anche i casi di ragazze che cominciano a portare il velo anche se la madre non l'ha mai portato. Ci sono poi i casi di assimilazione e il rinnegamento dei valori musulmani, ma sono molti meno. In tanti trovano un posto nel mondo entrando nelle associazioni musulmane. Quali sono i pro e i contro dell'associazionismo musulmano? Le associazioni locali sono più “libere” dalle influenze dei padri. Diverse sono quelle nazionali, in cui i membri sono adulti di prima generazione. Il rischio è sempre l'esclusione di visioni diverse al proprio interno. In generale, per i giovani nel momento in cui stai cercando la tua identità il percorso associativo non ti lascia solo, ti sostiene. Però dall’altra rischia di trasformarsi in un ghetto: solo qui mi capiscono. È un meccanismo escludente e il rischio è che cerchino di riproporre modi di vita e pratiche proprie dei contesti di origine. La sfida è rappresentata dalle relazioni che si sviluppano con la generazione dei genitori e dal modo in cui i giovani interagiscono con le esigenze della fedeltà e il conformismo. I pro: le associazioni nascono per porsi come interlocutori con le istituzioni anche se non gli si riconosce la cittadinanza. Cercano di collaborare con i comuni perché si sentono cittadini a pieno titolo. Il circolo dei Lettori a Torino, per esempio, ha uno spazio gestito dai giovani musulmani: Equilibri d'Oriente. Presentano alla cittadinanza libri di autori arabi che sono sconosciuti in Italia. Daniela Palumbo

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SPECIALE che invece riproduce comunità: se vai a Birmingham è come andare in Pakistan. Enormi ghetti dove il messaggio è: state lì, fate quello che vi pare, purché paghiate le tasse. Ma questa è follia, non integrazione. Noi in Italia abbiamo, inizialmente, meno problemi degli altri, ma subendo tutto passivamente, senza gestire il fenomeno, si va verso una deriva suicida. Cosa è possibile fare per l’integrazione? Preferisco la parola interazione. Si può lavorare insieme, si possono condividere spazi istituzionali e anche dei valori: molti sono comuni. Ognuno lo farà a partire dal proprio vissuto, dalle sue radici. Il che va benissimo, ma fino a un certo punto: la mutilazione genitale femminile non è una cosa che si possa accettare, così come la sofferenza delle figlie alle quali si impedisce di continuare la scuola e sono rimandate nel Paese d’origine, promesse giovanissime a uno sconosciuto. Ci sono anche casi di suicidio. Ma i problemi derivano tutti dalla religione? Il problema non è religioso, ma antropologico. Gli stessi comportamenti li ritroviamo anche con i cristiani arabi, i copti: sono numerosi i casi di maltrattamento a mogli e figlie. Sono persone che vengono da società tradizionali e non accettano alcuni principi che noi diamo per scontati: come, ad esempio, che la donna è uguale all’uomo. Chi si trasferisce, soprattutto dalle campagne e dai paesini, nelle città moderne e post moderne, troverà un sacco di problemi legati soprattutto alle figlie perché queste non vogliono più accettare i matrimoni combinati, vogliono uscire con gli amici e continuare a studiare. Però accanto ai casi drammatici c’è una rivoluzione silenziosa dei più giovani che si oppongono alla legge dei padri.

Cristiani e musulmani insieme Per la vita di Daniela Palumbo

L’Albero della Macedonia è una comunità dove famiglie di diversa religione vivono sotto lo stesso tetto 36 Scarp de’ tenis febbraio 2016

L’Albero della Macedonia è una comunità familiare interetnica nata a Monticelli Pavese, in provincia di Pavia, formata da famiglie con storia, cultura religione diverse che hanno deciso di vivere insieme. Ma non solo. Insieme hanno deciso di vivere anche l’esperienza di affido a favore di ragazzi in difficoltà. In questo momento la comunità è costituita da due famiglie, una italiana e cattolica, l’altra marocchina e musulmana. Beppe Casolo, ci ha raccontato perché ha scelto di iniziare, insieme alla moglie Margherita, questa esperienza comunitaria e come la si vive “dal di dentro”. «Figlio di milanesi da generazioni – racconta Beppe Casolo – ho scelto dopo venti anni di lavoro


1.600.000 1.500.000 I musulmani in Italia secondo il Dossier Statistico sull’immigrazione di Idos

I musulmani in Italia secondo i dati raccolti dal Pew Forum di Washington

LA STORIA

Anwal, italiana e pakistana: «Bisogna salvarsi dal buco nero»

Foto di gruppo per i più giovani membri della comunità familiare L’Albero della Macedonia in cui vivono cristiani e musulmani insieme

«Più italiana o più pakistana? Non saprei, quando mescoli l’acqua al sale poi non è più possibile scinderli, vale lo stesso per me». Lei si chiama Anwal, ha 21 anni, è al terzo anno di medicina all’Università di Varese, nata in Italia, figlia di genitori pakistani, papà muratore, mamma casalinga. «Sono sia italiana che pakistana – dice – è pakistana la mia pelle, i miei capelli, il mio viso, la mia famiglia, il modo in cui mi vesto, il velo. È italiana la mia cultura, la mia lingua, i miei amici, l’università, sono italiana io». Indaghiamo con Anwal su che cosa significa essere giovani musulmani oggi, in Italia, cercando di capire perché, a Parigi, ragazzi di solo 26 anni sono diventati macchine di sangue in nome di un mal interpretato Allah. «Non avevano nulla da perdere – ragiona Anwal - la loro era insoddisfazione, probabilmente non si sentivano inclusi nella comunità, rifiutati e senza amici, e magari senza una famiglia. E se in un momento così delicato si incontra qualcuno che comincia

a promettere cose, fa il lavaggio del cervello, e il giovane malcapitato ha smesso da un pezzo di avere sogni e di credere nel futuro, allora diventa un delinquente. Oppure un terrorista». Il punto quindi non è la religione, ma il buco nero che si mangia i sogni da dentro l’anima. «Conosco molti ragazzi, di cui anche italiani, che non hanno aspirazioni, che vanno avanti senza un progetto di vita – continua –: sembrano amebe, ed è questo ad essere pericoloso. Quello che tiene in vita l’essere umano sono le passioni: lo sport, gli amici, lo studio. Se il futuro smette di essere prerogativa dei giovani è finita». In tutto questo, quanto è importante il contesto in cui si vive? «L’integrazione in Italia è iniziata con la mia generazione. È ora il momento in cui possiamo costruire qualcosa che ci porti un domani ad essere presenti in tutti gli aspetti della vita, tanto quanto i ragazzi italiani». Stefania Culurgioni

IL PROGETTO

dipendente di uscire da Milano e trasferirmi in un paesino di 700 anime ai confini della provincia di Pavia con Margherita e i nostri 3 figli per intraprendere un progetto di condivisione e di accoglienza tra famiglie». Attualmente le famiglie sono due: una italiana e cristiana e l’altra di origine marocchina e fede musulmana, riunite in una associazione che hanno chiamato “L’Albero della Macedonia onlus”. Incontro sui valori «Ci siamo incontrati sei anni fa – continua Beppe –. All’epoca Francesca aveva 24 anni, Pietro 11, Marta 5, e hanno conosciuto Ismail 10, Amina 3, ed era in arrivo Nour. Abbiamo imparato a conoscerci, a convivere e a condividere. Fino a decidere di aprirci all’accoglienza di quattro minori italo-

tunisini, in affidamento dai servizi sociali. Sono fratelli tra loro, due entrati a far parte della mia famiglia e due accolti da quella di Mustapha e Fatima». Le due famiglie hanno costruito così un modello educativo condiviso, rivolto a tutti i dieci ragazzi. Come sono state superate le differenze lo racconta ancora Beppe. «L’incontro è stato sui valori – spiega ancora Beppe –: l’educazione dei figli, il rispetto reciproco, la conoscenza delle tradizioni. La scoperta delle similitudini nella diversità è stata la cosa più bella. Capire le differenze potendole vivere insieme, ci ha consentito di accettarle intimamente. Pur mantenendo la sovranità della famiglia, abbiamo cercato di costruire una situazione nella quale i quattro genitori sono un riferimento autorevole per tutti i dieci figli che so-

Pur mantenendo le singole famiglie, abbiamo cercato di costruire una situazione nella quale i quattro genitori sono un riferimento autorevole per tutti i dieci figli, “naturali” e in affido

no diventati i testimoni più autentici di questa vita vissuta assieme, di questa contaminazione, collaborazione ed anche della capacità, spesso faticosa, di accogliere i nuovi fratelli entrati a far parte delle due famiglie, portatori di tante difficoltà, privazioni, bisogni. A loro pare ovvio e scontato che persone come Fatima e Mustapha possano arrivare dal Marocco e aiutare le istituzioni italiane accogliendo dei minori in difficoltà. Non hanno difficoltà a capire che ci sono molti più punti in comune tra una persona che vive i valori cristiani, e una che segue i principi islamici, piuttosto che con gli individui che centrano la propria vita sul benessere individuale». Info alberodellamacedonia@gmail.com www.alberodellamacedonia.org febbraio 2016 Scarp de’ tenis

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I DATI

Quanti sono i musulmani in Italia? Nessuno lo sa Ma quanti sono i musulmani in Italia? Difficile dirlo con certezza perché, essendo l'appartenenza religiosa un dato sensibile, non viene rilevato dalle analisi Istat. Diversi sono gli istituti di ricerca che hanno provato a dare delle cifre ma variano tutte in modo significativo. Qualche esempio: il Cesnur (Centro Studi sulle Nuove Religioni) nel 2012 parlava di 115 mila musulmani italiani, tra immigrati e convertiti, l'Ismu (Iniziative e Studi sulla Multietnicità) li stimava in 258 mila. Più alti sono invece i numeri forniti dal Pew Forum on Religion and Public Life (Centro di ricerca, con sede a Washington, che dal 2001 si occupa di studiare e comprendere i legami tra religione e istituzioni pubbliche. Il Pew Forum in particolare conduce sondaggi, analisi demografiche e ricerche su importanti aspetti della religione e della vita pubblica negli Stati Uniti e in tutto il mondo http://pewforum.org/). Nel 2010, secondo l’istituto americano, i musulmani in Italia erano già 1 milione e 583 mila. Ed è questo dato che si avvicina a quello dichiarato dal presidente dell’Ucoii (Unione delle comunità islamiche italiane): ovvero 1 milione e 700 mila. Ma anche a quello stimato nel Dossier Immigrazione 2015 curato da Idos (Dossier statistico Immigrazione): più di 1 milione e 600 mila. Tra i musulmani, oltre agli immigrati di prima generazione, c'è anche una consistente presenza di “musulmani di seconda generazione”, i giovani di fede musulmana e di origine straniera, ma nati in Italia.

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La milanese con il velo: «C’è ancora molto da fare» di Stefania Culurgioni

Esraa, figlia di genitori egiziani, è una delle tante italiane di fede musulmana che indossano il velo: «Nulla giustifica atti terroristici come quelli di Parigi»

Figlia di genitori egiziani, Esraa Abou El Naga ha 21 anni, studia scienze internazionali, è italiana, musulmana, porta il velo. Esraa, i terroristi che hanno colpito Parigi avevano la tua età: qual è la differenza tra loro e te? Io mi sento sia italiana che musulmana, loro no: erano fuori da tutto. Probabilmente si sono anche sentiti ghettizzati, di certo hanno trovato qualcuno che, con le sue promesse, li ha fatti sentire parte di qualcosa. È stato detto che erano musulmani estremisti... Musulmani? Quello che hanno fatto non è ciò che l’Islam detta. Estremisti? L’estremista nell’immaginario comune sarebbe uno che non mangia maiale, non beve, non fa sesso prima del matrimonio. Sono più estremista io di loro.


SPECIALE

LA STORIA

Brahim: «Nascere in un Paese non basta a farti sentirsi integrato»

Esraa Abou El Naga, 21 anni, italiana con il velo davanti al Duomo di Milano. A destra il giornalista Brahim Maarad, 26 anni, a Parigi.

LA STORIA

Perché lo hanno fatto? Per me la religione non c’entra niente. Semmai l’hanno usata come pretesto per far esplodere la loro rabbia per lo straniamento che sentivano verso il loro Paese. Ci sono in Italia luoghi in cui un ventenne può non sentirsi integrato ed essere più permeabile al terrorismo? Luoghi no, persone sì. Di ghetti in Italia non ce ne sono. Ma sulle persone... Certamente chi diventa terrorista non te lo viene a dire, non frequenta le moschee, e anche se le frequentasse non direbbe certo a qualcuno che vuole organizzare un attentato. In Italia potrebbe succedere la stessa cosa? Non credo. A me questo sembra un Paese integrato. Poi certo, ci sono degli aspetti nella vita di tutti i gioni ancora difficili.

Per esempio? Quando volevo fare volantinaggio per mantenermi all’università mi hanno detto di no perché ho il velo e le persone per strada si spaventano. E so benissimo che se dovessi cercare lavoro come commessa mi farebbero problemi. Gli stessi arabi che hanno negozi spesso scelgono donne senza velo, sennò magari il cliente italiano non entra a comprare. Poi certo, più studi, più competenze hai, e meno il cognome conta. Una mia amica ha avuto difficoltà a trovare casa per il cognome arabo, anche se sua mamma è italiana e lei pure. Come avere una moschea comunale? A Milano ci sono 150 mila musulmani. È assurdo che si debba andare a pregare negli scantinati. È un passo in meno verso l’integrazione. Ma attenzione: nulla di tutto questo giustifica atti di terrorismo come quelli di Parigi. Nulla.

«Poteva esserci il mio viso in quelle foto segnaletiche. I tratti somatici di Salah Abdeslam, ricercato per gli attentati a Parigi, sono simili ai miei. Abbiamo entrambi 26 anni». Comincia così l’articolo che Brahim Maarad, giovane giornalista di Rimini, marocchino, ha scritto per l’Espresso subito dopo gli attentati di Parigi. Il suo intervento ha centrato nel segno. Forse è stata la prima volta, mediaticamente, che qualcuno in Italia ha alzato la mano per dire una cosa semplice: «Io sono musulmano e quel venerdì sera, al Bataclan, ci sarei potuto essere anche io. Ma come vittima». Perché questa è la verità: non è sufficiente essere musulmani per diventare terroristi. Dentro ci sono mille altri fattori, sociali e psicologici. E tanto, moltissimo, fa anche l’integrazione. Ma in Italia, a che punto siamo? «Sono arrivato in Italia quando avevo dieci anni, papà muratore, mamma casalinga, nessuno dei due parlava italiano – racconta Brahim – e anche io non sapevo una parola. I miei compagni delle elementari mi hanno aiutato tantissimo. Nel 2000 mi sono iscritto ad un istituto tecnico industriale ma la mia professoressa di lettere mi ha fatto partecipare a concorsi di scrittura e nel 2009 ho iniziato a collaborare con il Corriere di Romagna, a Rimini. La mattina andavo a scuola, il pomeriggio e la sera in redazione. A 22 anni sono stato assunto, nel 2014 sono diventato caposervizio». È un esempio bellissimo di integrazione riuscita. Tanto più che Brahim è musulmano praticante, va alla moschea, fa il Ramadan, nel 2013 ha fatto il suo primo pellegrinaggio alla Mecca in Arabia Saudita. «Anche il mio era Jihad – dice - perché nell’islam, Jihad è ogni sforzo sostenuto per Allah». E quindi? Dove sta lo scarto rispetto agli attentatori di Parigi? «La verità è che non basta nascere in un Paese per sentirsi parte di esso. In Francia sono state date per scontate cose che non lo sono affatto. Quelle terze generazioni sono cresciute in quartieri che sono fuori dal controllo dello Stato, ghetti di stranieri dove regna il disagio. Chi proviene da quelle zone è escluso dal mondo del lavoro, la rivolta delle banlieue del 2005 diceva quello. Qualcuno ne ha approfittato per trasformare il disagio in odio contro il sistema, col pretesto della religione». E in Italia? «Il ritardo che abbiamo forse può diventare un vantaggio affinché non ripetiamo quello che è successo lì – ragiona Brahim – ma un ruolo fondamentale sull’integrazione ce l’avrà la politica». [SC] febbraio 2016 Scarp de’ tenis

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Viaggio nella “fabbrica di jihadisti” di Paolo Riva

Da Molenbeek sono partiti alcuni attentatori che hanno colpito Parigi. E qui lavora da tempo il centro anti radicalizzazione. «Giovani fragili e senza futuro: su questo puntano i reclutatori dello Stato Islamico. La religione? C’entra poco» 40 Scarp de’ tenis febbraio 2016

Molenbeek Saint Jean è diventata celebre, suo malgrado. Conosciuta nei secoli scorsi per le sue industrie, che creavano migliaia di posti di lavoro e attiravano immigrati, è ora nota per il radicalismo islamico e il terrorismo internazionale. In passato era chiamata la piccola Manchester mentre oggi, per alcuni, è “una fabbrica di jihadisti”. A definirla così, dopo gli attacchi di Parigi del novembre scorso, è stato il quotidiano francese Libération, quando si è scoperto che alcuni degli attentatori erano partiti da questo comune belga. Non si trattava di una prima volta. Dall’inizio degli anni duemila, Molenbeek è stata collegata in vari modi a diversi episodi di terrorismo e, dal 2011, numerosi suoi residenti sono partiti per la Siria. Si sono radicalizzati e sono andati ad arruolarsi nelle file del cosiddetto Stato Islamico, lasciandosi alle spalle un comune di 95 mila persone, situato a meno di due chilometri dal centro storico di Bruxelles, segnato da povertà e disoccu-


REPORTAGE lavoro, è la condizione dei giovani di Molenbeek: «Nessun futuro, nessuna autostima e nessuna stima negli altri, nessun riconoscimento di sé». Ed è proprio in un contesto di questo tipo che sono più facili da avvertire le sirene della radicalizzazione. «La religione –prosegue Vanderhaeghen – è un elemento che arriva in un secondo momento. Quello su cui davvero fanno leva i reclutatori è l’identità. Propongono a dei ragazzi che si sentono inutili un riconoscimento e uno scopo: la jihad».

A sinistra una delle vie di accesso al comune di Molenbeek 95 mila abitanti, alle porte di Bruxelles. Qui sopra fedeli in preghiera

Molenbeek ha una popolazione mediamente molto giovane e una concentrazione di diversi problemi sociali: è un ambiente che favorisce il lavoro dei reclutatori dei gruppi estremisti islamici, specialmente quando si rivolgono a delle persone con fragilità

pazione, storicamente abitato da una folta comunità di immigrati arabi e musulmani provenienti soprattutto dal Marocco, ormai arrivati alla terza e quarta generazione nata in Belgio. Non fabbrichiamo terroristi «Molenbeek è un luogo sicuramente non facile, ma interessante, da scoprire. Da un lato, c’è un tessuto associativo fenomenale, ampio e di qualità, dall’altro, ci sono tutti i grandi problemi internazionali con le loro ricadute concrete», spiega Annalisa Gadaleta, barese di origine, che dal 1998 abita qui e dal 2012 è uno dei nove assessori del Comune. Non “una fabbrica di jihadisti”, quindi, ma una zona urbana con risorse e criticità, tra cui quella della radicalizzazione che è oggi una delle più forti. Olivier Vanderhaeghen, come funzionario incaricato della prevenzione, se ne occupa ogni giorno, ma piuttosto che commentare i titoli come quello di Libération preferisce, con tono pacato, affrontare la questione. «Molenbeek ha una popolazione mediamente molto giovane e una concentrazione di diversi problemi sociali: è un ambiente che favorisce il lavoro dei reclutatori dei gruppi estremisti islamici, specialmente quando si rivolgono a delle persone fragili».

Arrivato qui nel 2014, Vanderhaeghen sapeva di aver scelto uno delle zone di Bruxelles “con la peggior reputazione”. Quello che lo colpisce di

più, però, dopo due anni di intenso

Le religione arriva dopo Vanderhaeghen spiega che il processo di radicalizzazione ha tre snodi principali. «Per prima cosa, si rompono i legami con gli amici, con la scuola, con lo sport e con tutte le altre reti di relazione. Poi ci si ritira in casa, abbandonando lo spazio pubblico. Infine, c’è la rottura con la famiglia. I ragazzi radicalizzati si rinchiudono nelle loro stanze, stanno ore di fronte al pc leggendo su internet testi di fanatismo religioso e accusano padri e madri di non essere dei buoni genitori e, se lo sono, di non essere dei buoni musulmani. Dicono che il vero Islam è quello che hanno conosciuto e non quello che praticano i loro parenti».

È a questo punto che, solitamente, i genitori si rivolgono ai servizi comunali coordinati da Vanderhaeghen. A presentarsi sono soprattutto le madri. «Hanno paura, pensano

di aver sbagliato e chiedono soluzioni. Da parte nostra cerchiamo di evitare ogni stigmatizzazione e li incoraggiamo a mantenere vivo il rapporto con i figli. È fondamentale non parlare di religione ma cercare di puntare su affetti e sentimenti, per evitare rotture e partenze». In alcuni casi, il lavoro dei servizi antiradicalizzazione di Molenbeek ha consentito di sventare i viaggi pianificati alla volta della Siria. L’aver impedito una partenza non significa, però, aver concluso il lavoro. Anzi. «Se un ragazzo resta non significa che non sia più radicalizzato. Al contrario, tutti i fattori che l’avevano portato a prendere in considerazione l’ipotesi di unirsi al cosiddetto Stato Islamico rimangono e quindi dobbiamo continuare a seguirlo».

Per questo il comune di Molenbeek ha avviato dei progetti di formazione e inserimento professionale, ma soprattutto lavora con i suoi operatori sociali sull’identità individuale e su quella collettiva.

«Il fenomeno della radicalizzazione – conclude Vanderhaeghen – è solo agli inizi. Per risolverlo dobbiamo convincerci che non si tratta di una questione esterna, legata alla Siria o alla situazione internazionale. È un problema nostro: dobbiamo innanzitutto capire come la nostra società ha creato le condizioni del perché i ragazzi sono attratti dalla radicalizzazione».

LA SCHEDA

Belgio, Paese dei foreign fighter Bruxelles chiusa e blindata per giorni Il Belgio è il paese europeo con il più alto numero di foreign fighter per abitante: si stima che siano 440 i combattenti belgi partiti per schierarsi al fianco del cosiddetto Stato Islamico in Siria e in Iraq. Dopo gli attentati del 13 novembre a Parigi, diversi raid delle forze dell’ordine belga hanno cercato complici e terroristi a Bruxelles e in altre città del Paese effettuando alcuni arresti. Inoltre, dal 21 al 26 novembre, per timore di nuovi attentati, la capitale si è ”bloccata” per decisione del governo, che ha alzato il livello di allerta al massimo livello con soldati e mezzi militari a presidiare le strade. febbraio 2016 Scarp de’ tenis

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Campione di ballo In carrozzina di Alberto Rizzardi

Marco Galli è un tipo “ganzo”: pur essendo in carrozzina dalla nascita ha sempre fatto quello che gli piace: prima il cantante, ora il ballerino. E, visti i successi – è campione italiano –, con il crowfunding ora ha una vera carrozzina da ballo 42 Scarp de’ tenis febbraio 2016

Si potrebbe dire “gettare il cuore oltre l’ostacolo”, se l’espressione non fosse inflazionata. E poi qui di ostacoli proprio non ce ne sono. Perché per Marco la disabilità non è un problema, ma un’opportunità. Già, ma chi è Marco? Trentenne di Signa, alle porte di Firenze, in carrozzina dalla nascita per una sofferenza ipossica neonatale, Marco Galli è un tipo ganzo: un toscanaccio dalla risata spontanea e dalla naturale schiettezza che creano subito empatia. È cantante e ballerino: e se la cava piuttosto bene, visto che è campione italiano in carica di danze latine – Unica W2 Combi (specialità tre balli) in coppia con Martina Tassini. La passione per la musica e il ballo nascono durante l’adolescenza e ad oggi sono tutt’altro che sopite: «Ho iniziato come cantante e solo in seguito sono diventato ballerino – racconta Marco – e di cose da dire ce ne sarebbero parecchie. Il canto? Prima l’ho studiato, poi ho lavorato molto in studio e, infine, una decina d’anni fa,


LA STORIA Poi l’approdo a una vera scuola di ballo, lo Spaziodanza di Sesto Fiorentino, dove Marco ora si allena: «In fondo, a me quello che interessava fare era ballare per stare bene con me stesso e suscitare qualche emozione in chi guarda. Sono stati anni bellissimi e formativi durante i quali sono migliorato, sia dal punto di vista tecnico che fisico-mentale, partecipando a varie competizioni». Lo scorso aprile l’incontro con Martina, i primi balli insieme e la decisione di iscriversi ai campionati italiani, poi vinti, con il relativo passaggio in classe A, che apre le porte delle gare internazionali. A sinistra Marco e Martina durante una gara. Qui sopra i due atleti-ballerini con il diploma di campioni italiani di categoria

La danza è arte: è uno spettacolo che offro a me stesso, alla ballerina che mi accompagna e a chi ci guarda. Non vado a ballare o a cantare se so di non essere pronto: voglio che la gente mi applauda perché sono bravo, non perché sono in carrozzina. Si deve smettere di pensare alla disabilità come diversità: non è così

sono arrivati anche i live. Tutto è partito grazie all’amico fraterno e musicista Alberto Billone, con il quale ho scritto anche la canzone “Non è più un problema”, una ballata che racconta in musica la mia voglia di mettermi in gioco». Danza, passione profonda In parallelo si è sviluppata l’altra grande passione di Marco, quella per la danza. E la Toscana ha un ruolo molto importante nel panorama italiano dello sport in carrozzina, grazie all’associazione Wheelchair Sport Firenze, tra i pionieri in questo senso nel nostro Paese. È stato proprio qui che è iniziata l’avventura nella danza di Marco: «Ho cominciato a ballare latino americano nel 2004, sfruttando un’opportunità offertami dall’associazione dove, fino a quel momento, praticavo basket. All’inizio era quasi uno scherzo, ma, dopo aver conosciuto Giada Ippolito, la ballerina con cui ho affrontato i miei primi campionati italiani nel 2008 e che mi segue ancora oggi, mi sono reso conto che la faccenda si stava facendo più seria. Con il ballo riuscivo a esprimere emozioni come in nessun altra attività. E allora ho deciso di continuare». Certo, non senza difficoltà: «Ci

sono stati cambi di società e di ballerine, dovuti un po’ alla sfortuna e un po’ alla mia testardaggine. La mia idea di ballo spesso si distaccava, infatti, dal modo di concepire le cose delle società di cui mi trovavo a far parte».

Una carrozzina da ballo Tutto questo ballando con una normale carrozzina da passeggio che, per quanto leggera, non è paragonabile a una concepita per la pratica sportiva: «È un po’ come correre la maratona coi tacchi» sintetizza Marco. Da qui la decisione di lanciare a inizio ottobre una campagna di crowdfunding sulla piattaforma GoFundMeper reperire i 1.700 euro necessari per l’acquisto di una carrozzina da ballo. Missione compiuta: i soldi sono arrivati grazie a una cinquantina di donazioni. C’è chi ha dato 5 euro, chi 10, chi 20, chi 250. A trasformare il sogno in realtà ha contribuito anche la Fondazione Niccolò Galli, onlus creata dall’ex portiere del Milan Giovanni Galli per ricordare il figlio morto nel 2001 a 17 anni in un incidente.

A fine dicembre la carrozzina è stata consegnata e adesso per Marco si apre una nuova fase: «Da un lato provo un’immensa gioia per aver raggiunto il traguardo; dall’altro c’è una grande responsabilità. Ora la palla passa a me e Martina: ci sarà da lavorare tantissimo e sudare altrettanto, ma la consapevolezza di avere tante persone vicino a noi ci darà quella forza necessaria per affrontare le sfide che si presenteranno e ripagare la fiducia di molti». E già si guarda al futuro: i campionati regionali con Martina e, nel mezzo, gli allenamenti con un’altra atleta disabile, Laura Del Sere, per una coreografia a due in carrozzina. Ma cosa significa per Marco ballare? «È arte: è uno spettacolo

che offro a me stesso, alla ballerina che mi accompagna e a chi ci guarda. Io non vado a ballare o a cantare se so di non essere pronto: voglio che la gente mi applauda perché sono bravo, non perché sono in carrozzina. Questo per me è fondamentale: si deve smettere di pensare alla disabilità come diversità, non è così. Io non mi sono mai rassegnato a un’esistenza piatta, ma ho sempre cercato di vivere divertendomi, senza piangermi addosso, ma andandomi a scoprire, sfidandomi ogni giorno e spostando i limiti sempre qualche centimetro più in là». Sì, proprio ganzo questo Marco Galli…

LA SCHEDA

Fondi raccolti in pochissimo tempo: «I giovani hanno grande sensibilità» C’è voluto poco per raccogliere i fondi per acquistare la nuova carrozzina. «Sono contento - spiega Marco – perché è lo specchio di come ti poni verso le persone. Se sei chiuso in te stesso e pretendi di avere qualcosa solo perché hai un handicap, non otterrai mai niente; se, invece, hai la voglia e la forza di condividere in modo trasparente quel che ti succede, tutto cambia. In giro c’è tanta curiosità e voglia di conoscere, soprattutto tra i più giovani, che – a dispetto di quel che molti pensano – hanno una grande sensibilità». www.gofundme.com febbraio 2016 Scarp de’ tenis

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IL PROGETTO

Un unico “Gesto” per tutti

Realizzare un nuovo linguaggio non verbale e universale fatto di gesti e segni. Questo è l’obiettivo del progetto “Gesto” (www.unigesto.org), partito poco tempo fa e promosso dall’ethical advisor Pietro Greppi. Questo linguaggio, spiega Greppi, deve essere «strumento di unione di un mondo fatto di persone che, oggettivamente, hanno bisogno di comprendersi».

di Sandra Tognarini

Si chiama “Gesto” il progetto lanciato da Pietro Greppi, ethical advisor, per realizzare un nuovo linguaggio non verbale e universale. L’obiettivo è quello di offrire uno strumento di comunicazione che sia accessibile a tutti 44 Scarp de’ tenis febbraio 2016

Come fare per realizzarlo? Innazitutto è necessario trovare le risorse, per metterlo poi a disposizione di tutti gratuitamente. È previsto che il progetto sia finanziato esclusivamente da raccolta diretta di donazioni provenienti da privati, aziende e attraverso piattaforme di crowdfunding. Perché c’è bisogno di un nuovo linguaggio?


LA STORIA

Si chiama “Gesto” il progetto lanciato per creare un linguaggio che possa essere compreso in tutto il mondo. Sotto Pietro Greppi

Farsi capire da chiunque risulta necessario, indispensabile e bello. Da qui è nata l’idea di “Gesto”. Usando un nuovo codice che sia basato su gesti e segni si può raggiungere l’obiettivo di trovare un linguaggio comune non parlato

Sono molti i fattori causa dell’incomunicabilità tra le persone, ma il principale ostacolo alla comprensione reciproca risulta essere quello che costringe ad articolare suoni diversi da Paese a Paese. Un giorno osservavo due bambini che usavano un loro istintivo linguaggio fatto di segni e gesti. Bimbi che pur non avendo ancora capacità verbali codificate stavano capendosi usando appunto gestualità che, chissà come, gli venivano spontanee. La folgorazione arrivò però quando le rispettive madri li ripresero con loro: una parlava inglese, l’altra una lingua dal suono orientale. Quei bambini dunque si capivano senza avere ancora un linguaggio verbale e nonostante vivessero in ambiti familiari i cui stimoli verbali erano diversi. Esistono dunque segni e gesti che possono essere usati e capiti da chi non conosciamo, anche istintivamente. I due bambini ne erano la prova. Un nuovo linguaggio di questo tipo può essere di aiuto per le persone diversamente abili? Esistono vari linguaggi di segni usati prevalentemente da persone non udenti. Linguaggi che non sono però “uno per tutti” e comunque non pensati secondo i principi della reciprocità. Tanti linguaggi esistenti quindi, senza contare i dialetti. Farsi capire da chiunque risulta necessario, indispensabile e bello. E da questo stimolo presi ispirazione per elaborare un pensiero da cui è generata l’idea di “Gesto”. Usando un nuovo codice che sia fondamentalmente basato su gesti e segni si può raggiungere l’obiettivo di trovare un linguaggio comune non parlato. Porta avanti il progetto da solo? No, ho coinvolto persone di diverse nazionalità, competenti in varie discipline. Considerata la complessità, il lavoro è prevedibile che possa durare alcuni anni. Gesto va realizzato considerando che l’opportunità di utilizzo e la sua diffusione capillare, quando sarà pronto, verrà stabilita nel prossimo futuro libe-

ramente e principalmente dalle persone. Solo in seguito da Istituti, Stati o Enti. Il nuovo linguaggio sarà molto facile da diffondere perché messo a disposizione gratuitamente, insieme ai relativi tutorial che realizzeremo. Chiunque sarà un potenziale fruitore, anche se per una diffusione più stabile e determinante i destinatari primari saranno i bambini che Gesto intende coinvolgere tramite le scuole. Quali sono le basi sulle quali far crescere Gesto? Saranno integrati diversi elementi: i linguaggi già esistenti, la figura umana, gli ideogrammi. Il fine e l’idea operativa di fondo (già tutelata da deposito) è di arrivare a definire un codice standard basato sulla considerazione della figura umana come capace di diventare una matrice per ideogrammi in movimento. Ciò consentirà la trascrizione del linguaggio anche in forma grafica e quindi tattile. Passaggi necessari per includere nell’universo delle persone raggiunte anche quelle non vedenti. Per imparare e inse-

gnare il linguaggio, sarà necessario realizzare un manuale con un linguaggio scritto, grafico, tattile e/o verbale nelle lingue principali. Ma si sta pensando anche ad un modello di istruzioni totalmente costituito da immagini (statiche o in movimento) al fine di riuscire a rendere superflua la traduzione classica. Di fatto un progetto nel progetto. In che modo mettere alla prova l’efficacia di Gesto prima della sua diffusione? Il nuovo linguaggio affronterà una serie di test di applicazione su gruppi di persone di varie età e cultura. Trattandosi di uno strumento di comunicazione basato su gesti codificati, si prevede che fra i luoghi deputati alla sua diffusione i teatri possano svolgere una funzione importante insieme alle scuole primarie. La gestualità è infatti una caratteristica istintiva soprattutto in giovane età durante la quale l’apprendimento è anche più facile perché la gestualità viene vissuta con naturalezza e divertimento.

LA SCHEDA

Greppi, da sempre in prima fila per far combaciare etica e impresa Pietro Greppi è un ethical advisor che opera come consulente per orientare in senso etico la comunicazione delle imprese e costruire la loro reputazione positiva a partire dalla comunicazione e dalla consapevolezza del ruolo sociale che ogni impresa ha sul territorio in cui opera. È stato per quindici anni nel consiglio direttivo dell'Associazione Italiana dei Pubblicitari, per otto anni nel consiglio direttivo della fondazione Pubblicità Progresso e per quattro anni nel comitato di studio dello Iap (Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria). Ma c’è contraddizione tra etica e crescita di impresa? «La formazione di una responsabilità personale, prima che d’impresa, è uno degli obiettivi del mio operato - risponde Pietro Greppi -. L’etica è un orientamento e un modo di agire che molti pensano sia un freno alla crescita. Invece è un acceleratore. Per introdurre questo tema, ho ideato un check-up per la comunicazione delle imprese che ha preso il nome di Adjust ed è consultabile su www.ad-just.it». febbraio 2016 Scarp de’ tenis

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MILANO

Roberto Fiermonte alla guida del “suo” tram, il numero 33, che da Lambrate arriva fino in zona Melchiorre Gioia.

Cercasi broccoletti Lo chef manovra il tram 33 di Simona Brambilla

info

Il libro Cercasi broccoletti sulla Linea 33. Le storie (e le ricette) di un tranviere pugliese a Milano di Roberto Fiermonte www.trentaeditore.it

Fermata piazza Leonardo da Vinci – Politecnico. Fermata porta Venezia – viale Tunisia. Fermata Repubblica. Fermata stazione Centrale. Capolinea viale Lunigiana. Queste per molti milanesi sono le fermate dello storico tram numero 33 che da Lambrate arriva fino in zona Melchiorre Gioia. Per Roberto Fiermonte sono anche i titoli dei capitoli del suo libro di cucina: Cercasi broccoletti sulla Linea 33. Le storie (e le ricette) di un tranviere pugliese a Milano. Come scrive l’autore “tram tram facendo”, grazie alle chiacchiere con i passeggeri del tram che guidava ogni giorno, il numero 33 appunto, è nato questo volume originale in cui, attraverso 33 ricette, viene raccontata la storia di Roberto e l’incontro della tradizione enogastronomica pugliese con quella milanese. Ad ogni fermata infatti è abbinato l’ingrediente base delle ricette contenute nei capitoli: risotti, spaghetti, trenette, penne.

Roberto Fiermonte nasce a Stornara, in provincia di Foggia nel 1961. A metà degli anni

’80 si traferisce nel capoluogo meneghino. «Venni a trovare un amico che mi presentò a un mio paesano che faceva il fruttivendolo ambulante. Per un po’ lo aiutai poi mi dissero che l’Atm cercava personale e mandai la richiesta di assunzione», racconta Roberto.

Così Roberto iniziò a fare il manovratore dei tram. «Non

dimenticherò mai il primo anno di lavoro: è stato molto faticoso, adattarmi a questo tipo di attività in una grande città come Milano – continua –. Poco alla volta, però, iniziai ad apprezzare il lavoro, la vita cittadina, le persone e anche la cucina meneghina, nonostante avessi nostalgia dei piatti pugliesi e della mia terra natale». E proprio sul tram hanno preso forma le ricette della Linea 33, grazie alle voci dei passeggeri che hanno raccontato a Roberto i piatti preferiti e i loro segreti in cucina. «La storia che mi è rimasta più impressa è quella di una signora che mi diede la ricetta del brodo di verdure con coscia di pollo – prosegue Roberto –, consigliandomi di farla più volte a settimana perché era un piatto salutare. Questa signora mi aveva talmente preso in simpatia che molto spesso veniva a trovarmi apposta sul mio tram, portandomi delle caramelle e dei dolcetti, e raccontandomi un po’ della sua giornata. La nostra era “un’amicizia passeggera”». Cercasi broccoletti è un libro che parla di cibo, di incontri , di integrazione e di amicizie nate grazie alla condivisione del cibo. Emblema di ciò è la ricetta della minestra di riso che Roberto ha realizzato su consiglio di una signora piacentina, oppure quella degli spaghetti alle zucchine che gli venne insegnata da una sciura milanese doc.

SCHEDA

Un libro nato quasi per gioco L’idea di Roberto di scrivere il libro è nata due anni fa grazie ai continui suggerimenti dei suoi nipoti e dal fatto che le sue ricette venivano premiate dal pubblico di un portale enogastronomico, a cui le inviava saltuariamente. Il libro è composto da 33 ricette semplici ed inedite, al pari della linea che conduceva più di frequente, alternate da vignette umoristiche inerenti l'alimentazione e da spunti pugliesi legati alle stesse ricette. Il libro contiene inoltre il contributo di Giuseppe Rai, Executive chef del ristorante all’UNA Hotel Tocq di Milano, un altro pugliese doc che, come Roberto, vive e lavora nella città meneghina. febbraio 2016 Scarp de’ tenis

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Un laboratorio per imparare a cambiare vita di Vito Sciacca

Si chiama “Spazio Laboratorio” il progetto di falegnameria lanciato da Caritas Torino in cui persone senza dimora, oltre a imparare un lavoro e guadagnare qualche soldo, possono sviluppare la propria creatività e la propria arte 48 Scarp de’ tenis febbraio 2016

Attivo dallo scorso 2 dicembre, “Spazio Laboratorio” è un progetto di Caritas Torino che va ad affiancarsi al centro diurno “la Sosta” e ne costituisce una sorta di complemento. Si tratta di un laboratorio di falegnameria con annesso spazio espositivo situato a Torino in via S. Massimo 31/C. In esso vengono svolti corsi di lavorazione del legno e restauro, ma con modalità che lo differenziano da altre attività simili: il progetto, che attualmente coinvolge tre persone senza dimora e un professionista incaricato della formazione tecnica, ha la durata di 5 mesi nel corso dei quali i partecipanti percepiranno un compenso economico erogato per lavoro accessorio, ma prevede oltre alla parte didattica un ulteriore monte ore destinato allo sviluppo ed alla realizzazione di progetti personali degli utenti. In futuro è contemplata la possibilità di commercializzare i manufatti realizzati dai partecipanti, che fruiranno dei proventi delle vendite. Il vicedirettore della Caritas Diocesana, Carlo Nachtmann, che è stato uno degli ideatori del pro-


TORINO del Comune, che ha contribuito al suo finanziamento; è inoltre prevista una compartecipazione da parte di Caritas italiana per l’anno 2016.

A sinistra il banco di lavoro dello “Spazio Laboratorio” dedicato ai senza dimora. Qui dopra alcuni dei manufatti realizzati

Quando mi è stato proposto di occuparmi di persone senza dimora – racconta Paolo Frantone, responsabile dell’attività formativa – ho provato un attimo di perplessità, più che altro sul modo in cui avrei dovuto rapportarmi con loro, ma devo dire che l’intesa è stata ottima fin dal primo momento

getto e si è impegnato nella sua realizzazione, racconta le origini. Uno spazio dedicato «Dopo circa 6 mesi dall’apertura del centro diurno – spiega – era emerso da parte di alcuni frequentatori il desiderio di realizzare qualcosa con le proprie mani, per passare il tempo in maniera produttiva. Va detto che tra loro vi erano persone impoveritesi di recente che avevano un passato di lavoro e di conoscenze acquisite. In accordo con i volontari de “la Sosta” venne realizzato al suo interno un piccolo spazio destinato allo svolgimento di queste attività; purtroppo ben presto apparve chiaro che si trattava di una scelta inadeguata, carente sia dal punto di vista logistico che della sicurezza. Vista la situazione, in accordo con i volontari, è stato coinvolto anche l’assessore alle politiche sociali della città, che ha assicurato la disponibilità del suo ufficio». «Il passo successivo –

prosegue il vicedirettore di Caritas Torino–, fu rivolgersi all’agenzia territoriale per la casa (Atc) che mise a disposizione i locali di via S. Massimo. In attesa della ristrutturazione, durata circa un anno, abbiamo affinato il progetto, tenendo ben presente il fine ultimo, che non sta tanto nella produzione di beni materiali quanto nel creare uno spazio di disponibilità in cui le persone possano ritrovare la propria dignità ed esprimersi creando qualcosa». Nell’ambito del piano “freddo 2015” il progetto ha ricevuto una favorevole accoglienza da parte

Una fucina di idee Per Paolo Frantone, che si occupa dell’attività formativa, quest’esperienza è stata una sorpresa: «In passato mi sono occupato di formare maestranze in un’azienda nautica, successivamente ho insegnato falegnameria presso la scuola professionale San Carlo. Quan-

do mi è stato proposto di occuparmi di persone senza dimora ho provato un attimo di perplessità, più che altro sul modo in cui avrei dovuto rapportarmi con loro, ma devo dire che l’intesa è stata ottima fin dal primo momento». Dopo la realizzazione di alcuni arredi natalizi, per il futuro all’interno del laboratorio si pensa di realizzare piccoli arredi e giocattoli scientifici, ma è una situazione in costante mutamento, in cui qualunque idea può prendere forma.

GENOVA

La Porta Santa al monastero che ospita i senza dimora Dalla tarda serata di sabato 12 marzo alle stesse ore di domenica 13 marzo la cappella del Monastero dei Santi Giacomo e Filippo, sede della Fondazione Auxilium di Genova, sarà chiesa giubilare e il suo ingresso Porta Santa. Dal 1983 il Monastero dedica la maggior parte dei suoi spazi alle persone senza dimora: al suo interno un centro di ascolto, una struttura di accoglienza diurna e due strutture notturne, una mensa, docce e altri servizi. In media vi passano 850 persone all’anno, sono impegnati una decina di operatori professionali e circa 80 volontari. Ecco perché la notizia è significativa: come già Papa Francesco per l’ostello e la mensa di Caritas Roma alla stazione Termini, la scelta dell’arcivescovo di Genova, Angelo Bagnasco, sottolinea il rapporto necessario tra esperienza spirituale e carità, tra misericordia ricevuta da Dio e misericordia donata nel servizio agli altri. E infatti la data scelta è quella che la Diocesi indica tradizionalmente come “Domenica della solidarietà”. Per la Fondazione Auxilium e la Caritas Diocesana, che la patrocina, è un’ulteriore occasione per ribadire il ruolo di servizio del Monastero a tutta la Diocesi, luogo in cui vivere in modo particolare la relazione con le persone gravemente emarginate e dal quale portare via esperienze e prassi per farle proprie nelle singole comunità parrocchiali. Fin dall’origine infatti il Monastero ha cercato di proporsi non come struttura chiusa in cui raccogliere le persone senza dimora ma al contrario come segno per il territorio, ambiente vitale, aperto e trasparente, per indicare la necessità di un incontro autentico che va ben oltre l’elemosina. Non è un caso che il servizio del Monastero forse più noto ed apprezzato in città, l’accoglienza diurna tradizionalmente chiamata “La Casetta”, sia ospitato in un locale dalle ampie e luminose vetrate, che si affaccia sugli antichi orti del complesso, in mezzo al quartiere di San Fruttuoso. Una scelta compiuta con la ristrutturazione del 2004 perché l’esistenza di chi sta ai margini non fosse tolta alla vista né trascurata, ma portata alla luce nella sua piena dignità. febbraio 2016 Scarp de’ tenis

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VICENZA

Fare cultura insieme ai senza dimora di Cristina Salviati

L’idea è quella di offrire a chi è costretto a farsi ospitare nelle strutture di accoglienza la possibilità di frequentare luoghi diversi, esterni per ritrovare la voglia di reinserirsi in società attraverso l’arte, la bellezza o la convivialità 50 Scarp de’ tenis febbraio 2016

“Fare cultura con le persone senza casa”, si chiama così un progetto della Caritas diocesana vicentina dedicato alle persone ospiti del ricovero notturno e degli appartamenti gestiti dallo sportello di accoglienza per gli homeless. Un’attività pensata da alcuni volontari che fanno servizio alla mensa di Casa Santa Lucia, al ricovero Casa San Martino o al centro diurno San Faustino e reso possibile grazie alla collaborazione della redazione vicentina di Scarp de’ tenis che in questi anni ha sperimentato diverse iniziative ludico-ricreative, creando in città una rete di enti e organizzazioni sensibili alla tematica di chi non ha più una casa: venditori, collaboratori e volontari di Scarpimpegnati nello stesso progetto. L’idea era quella di offrire a chi è costretto a farsi ospitare quotidianamente nelle strutture, la possibilità di frequentare luoghi diversi, esterni, per ritrovare la voglia di reinserirsi in società attraverso l’arte, la bellezza o la convivialità.


solo i venditori di Scarp a usufruire di biglietti e ingressi gratuiti oggi il progetto si è allargato: un gruppo di una deci-

Un momento del festival biblico in cui i senza dimora sono stati coinvolti. A fianco una delle cene sospese a “La colombara di Lupia”

info Il progetto I volontari, di solito in coppia, si accordano con alcuni ospiti della Caritas per andare al cinema o a teatro: possono invitare direttamente due homeless oppure farsi aiutare dall'operatore dello sportello a individuare chi è interessato. Il luogo di incontro di solito è Casa San Martino e da lì si parte per raggiungere il luogo della serata. Sia il cinema che i due teatri mettono a disposizione due biglietti gratuiti, quindi i volontari devono solo pagare la propria parte. Per informazioni redazione vicentina di Scarp de’ tenis (scarp@caritas.vicenza.it) o commissione Giovani della Caritas (giovani@caritas.vicenza.it)

«Siamo partiti – ricorda Rosella Lucato, del San Faustino – con la Festa d’Estate, un’idea nata per interrompere la monotonia dei giorni di caldo e della città vuota con una serata in amicizia e compagnia». Il luogo individuato era l’ideale, sotto le piante di un’antica abbazia cittadina, la chiesetta francescana di San Giorgio. La presenza di un campo da calcetto ha suggerito anche l’idea del torneo. Al primo appuntamento un cantautore vicentino molto conosciuto, Luca Bassanese, si è offerto di allietare la serata mettendo in musica e narrando alcune storie ricavate proprio dal nostro giornale. Musica e cibo, calcio e risate, bevande analcoliche e disegni smaltati. La prima festa conteneva già un po’ tutti gli ingredienti che si voleva mettere insieme per godere delle proposte cittadine insieme alle persone senza una casa. Il bello della relazione Poi sono arrivate le marce non competitive e le passeggiate offerte in occasioni di sagre e feste pubbliche. Camminare fianco a fianco è stato molto divertente e stimolante: «Che bello camminare solo per il gusto di farlo», ci disse quella volta Ibrahim sui colli di Lumignano, proprio lui che aveva attraversato a piedi il deserto del Niger. Questa sua riflessione ci spinse a iscriverlo a un breve corso di arrampicata che lo rese orgoglioso di se stesso, e gli consentì di conoscere altri giovani come lui. «L’isolamento e la centratura su di sé – spiega Rosella Lucato – entrambi forzati, esclude queste persone dalle relazioni con la “normalità”, che spesso non si accorge o non desidera accorgersi di loro, perché rappresentano la parte in ombra di ognuno di noi. L’obiettivo allora sarà quello che permette di riavere la percezione dell’altro: non

più deficitario o patologico, ma fonte di interesse e simpatia. Queste sono persone che hanno avuto e hanno una vita interessante proprio a partire dalle difficoltà, dal dolore e dalla mancanza. L’occasione data da queste uscite insieme consente lo scambio dei racconti della vita dell’uno e dell’altro, e dà la possibilità di rompere l’isolamento che poi, se ci pensiamo bene, è o rischia di essere reciproco».

A poco a poco sono nati i contatti con cinema e teatri cittadini. E se all’inizio erano

na di volontari si alterna per accompagnare gli ospiti della Caritas al cinema Primavera e a quello dell’Araceli d’inverno e al Cinema Sotto le stelle, d’estate. Anche il teatro Astra diretto dalla compagnia “La Piccionaia – I Carrara, teatro stabile di innovazione”, in questi anni ha collaborato arrivando perfino a proporre ai propri spettatori una raccolta di coperte a favore di chi dorme per strada. Una pratica che è stata raccolta anche dalla Fita del Veneto, l’organizzazione di teatro amatoriale che ospita il progetto Caritas durante la rassegna provinciale “Buona la prima”, ma anche dal conosciuto e seguito concorso “La Maschera d’oro”.

BUONE PRATICHE

Pizze sospese per sentirsi normali, Il “segreto” de La Colombara di Lupia Lo scorso anno al progetto si è aggiunta La Colombara di Lupia, una romantica osteria, come loro stessi amano definirsi, spersa nella campagna vicentina. Un luogo ameno e caratteristico, molto amato dai vicentini. Andando alla Colombara abbiamo, per esempio, conosciuto meglio Andrew, un giovane ghanese che da un paio d'anni era ospite negli appartamenti della Caritas. Una sera in pizzeria ci ha raccontato della famiglia, del suo bambino che in un anno e mezzo ha visto una sola volta, e il suo sogno: tornare in patria e avviare un import di abiti europei. La moglie aveva già i locali, visto che fa la parrucchiera, si trattava di organizzare le forniture e arredare gli spazi in maniera consona. A poco a poco, anche con l'aiuto di Caritas, il giovane si è organizzato e qualche mese fa ha potuto tornare a casa dalla sua famiglia. Andare in pizzeria con questo giovane ci ha consentito di conoscerlo e di incoraggiarlo, di fargli sentire che non era l'unico a credere nel suo progetto, e questo è stato possibile grazie al sistema delle pizze “sospese”, messo in atto dalla Colombara. «In un anno – racconta Giuseppe Marcon, uno dei proprietari – abbiamo raccolto 229 pizze sospese per un totale di 1.145 euro. Quasi tutte le pizze sono state consumate qui alla Colombara, una piccola parte, circa 400 euro invece li abbiamo devoluti alla stessa Caritas, per organizzare “pizzate” in locali vicentini raggiungibili a piedi». Quattro volontari Caritas e quattro ospiti del ricovero notturno Casa San Martino una volta al mese vengono a mangiare una pizza insieme per conoscersi meglio e passare una serata diversa, lontano dai servizi dedicati alle persone senza dimora, in un luogo neutro. febbraio 2016 Scarp de’ tenis

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VENEZIA

La chiesa di san Simeon profeta in cui due parrocchiani sono diventati “venditori per un giorno”

Venditori per un giorno per solidarietà di Michele Trabucco

La terza domenica di Avvento il gruppo liturgico della parrocchia di San Simeon profeta di Venezia, che si incontra abitualmente il venerdì mattina, ha proposto un gesto concreto tramite l’esperienza e le persone che vendono Scarp de’ tenis. Soffermandosi sui testi della Messa e sul tema da approfondire, ha voluto rendere l’offertorio, nel tempo d’Avvento, il momento in cui si esprimevano e quindi si portavano all’altare con un segno simbolico, anche gli impegni da prendere per un cambiamento significativo dei nostri atteggiamenti. Grazie alla disponibilità di due parrocchiani che si sono prestati a diventare “venditori” per un giorno, per aiutare l’amico Francesco, la messa e soprattutto il sagrato nel

Ridare dignità a chi ha perso il lavoro offrendo occasioni di impiego: questo il piccolo grande progetto dell’Alveare 52 Scarp de’ tenis febbraio 2016

dopo messa si è tinto del rosso di Scarp de’ tenis. Don Renzo poi durante la processione offertoriale ha sottolineato il momento dicendo: «Con il pane e il vino, doni che lo Spirito trasfigurerà per noi, portiamo all’altare due pettorine che solitamente indossano gli incaricati che ci propongono l’acquisto della

rivista Scarp de’ tenis. Giovanni nel Vangelo ci ha indicato una conversione non a parole, ma coerentemente concreta: donare generosamente. Al termine della messa ci impegniamo a compiere un piccolo dono Natalizio a questi nostri fratelli comperando la loro rivista mensile». Due “colleghi” speciali Francesco è stato entusiasta di avere due “colleghi” seppur inesperti per un giorno e la parrocchia ha visto che Scarp non è solo un giornale da acquistare per fare del bene, ma può diventare anche uno strumento pastorale. Grazie quindi a don Renzo e al gruppo liturgico. La parrocchia di S. Simeon profeta si trova nel centro storico di Venezia, un’antica chiesa con una vivace comunità parrocchiale. Fin da subito il parroco ha dato la sua disponibilità ad accogliere i venditori di Scarpcome segno e partecipazione. Così, mese dopo mese, la comunità ha cominciato a conoscere i venditori, i contenuti di Scarp e il progetto che lo sostiene, diventando un appuntamento fisso e di grande risposta per i nostri collaboratori-venditori. Un grazie a tutti coloro che rendono concreto e significativo, sia umanamente che economicamente, questo importante appuntamento mensile.

GIUBILEO

Aperte le Porte Sante in carcere Aperta la terza Porta Santa a Venezia nella cappella del carcere femminile della Giudecca in occasione del Giubileo straordinario della Misericordia indetto dal Papa. Il patriarca Francesco Moraglia è stato in visita alle detenute della casa circondariale, alle quali ha dedicato un incontro preceduto da una Santa Messa: l'evento è seguito a due momenti analoghi, uno tenutosi nella basilica di San Marco e l'altro nel carcere maschile di Santa Maria Maggiore. L'apertura delle Porte Sante risponde alla concessione e all'invito del Papa, che ricorda come la porta sia metafora del percorso dei credenti dal peccato alla grazia. Non per niente tra i luoghi scelti ci sono quelli più difficili e spesso oggetto di pregiudizi, tra cui le strutture dove sono rinchiusi coloro che hanno avuto guai con la legge. Quindi le persone per cui il percorso spirituale è più complicato.


aforismi

POESIE

di Emanuele Merafina

Milano Non ho mai pensato di cambiare colore al cielo di Milano, non ho mai pensato di essere bello come Maurizio Costanzo, non ho mai pensato di essere un grande attore; adesso sto pensando che la portinaia mi vuole bene ma nessuno ci crede.

Eppur si muove La cosa più bella della vita è potersi muovere liberi: camminare, correre, nuotare, sciare, arrampicarsi… ed è anche una fortuna perché significa essere sani. Nell’universo tutto si muove e gli animali che vivono liberi hanno un corpo elastico e scattante, più bello di quello dell’uomo che spesso è statico, infagottato nel suo guscio, gonfio, imprigionato nel proprio ego. Molti forse non sono stati abituati al movimento fin da bambini, o sono repressi o malati o semplicemente pigri. Muoversi è fondamentale per ragionare in modo sano, per sentirsi bene e per amare meglio: è una vera cura. Stare fermi, il più delle volte, significa impazzire. Silvia Giavarotti

Sogni, solo sogni

Pace 2016? Candore di emozioni nel silenzio di neve… Brividi agrodolci di ricordi. La prima notte dell’anno ci avvolge in un abbraccio di promesse, ci sorprende di “incontri” inaspettati, cessati i fuochi fatui della festa, i riti scaramantici a fugare il trascorso, eccolo, il nuovo giovane incognita dalle molte variabili. La speranza longeva lo conduce per strade martoriate, tra pareti insicure, sopra travi sconnesse di amori e umori, amari di sconfitte. Quando musa irrequieta riparerai le crepe? Rivelerai le forme mai concesse posando il capo, stanca, sul destino del mondo? Aida Odoardi

Pan di vita Lisca di Aura spiga qui conservi nella tua preghiera di quel frutto che a noi riservi. Imperfetti infermi bisognosi noi, di acqua di sorgente, del tuo pan di vita, per nostra Alma più che nostro corpo e mente. Di Santo Spirito al nostro Amor nascente nella libertà dell’Esser un po’ più di niente o un Astro traverso l’orizzonte….

Le stelle riempiono questo cielo immenso e blu come il tuo amore riempie il mio cuore, la luna ci spia, la luce brilla su di noi riflettendo le nostre ombre in un letto pieno di carezze e di baci, ci cerchiamo, ci vogliamo, ci perdiamo in tanti piccoli sospiri dolci e profondi che vanno svanendo con la prima luce del giorno. Mino Beltrami L’idea di undevo giovane volontario Ma perché, perché per vederti sognarti? “Non lasciarmi mai”. di Milano: della Ronda della carità Gaetano Toni Grieco

una App contro lo spreco alimentare febbraio 2016 Scarp de’ tenis

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Mosaika l’orchestra dai mille colori di Elisa Rossignoli

Nata nel 2015 dalla volontà di Gaetano Greco, Mosaika, che raccoglie musicisti, cantanti e danzatori provenienti da tutto il mondo – mette in scena musica della tradizione locale rivisitata attraverso le sensibilità dei musicisti 54 Scarp de’ tenis febbraio 2016

Dicono che il Monte Baldo, la catena di monti che accompagna la sponda orientale del Lago di Garda, potrebbe essere stata in origine un vulcano. Sta di fatto però che un’idea vulcanica ed esplosiva è nata proprio alle sue pendici. Un’idea fantasiosa e varia quanto i suoi paesaggi. Correva l’anno 2007. Un sognatore covava un sogno. Di quelli che però, se il terreno non è fertile, decidi di aspettare anche a crederci, e li conservi in un angolino del cuore in attesa di tempi migliori. E così arriviamo al 2013. Stavolta la situazione giusta c’è. E qualcuno disposto a sognare insieme pure. Dicono che un sogno sognato da solo rimane tale, ma se sognato in due è la realtà che comincia. E accade proprio così. Dall’associazione culturale Baldofestival, dall’allora responsabile dell’ufficio stranieri dell’Ulss 22, dal Cestim (Centro studi sull’immigrazione) e dalla Rete Tante Tinte del comune di Verona, nasce un progetto: un’orchestra


VERONA

Qui sopra l’orchestra Mosaika in scena. L’orchestra è composta da tre sezioni: chi suona, chi canta e chi danza.

Integrazione significa assumere ciascuno qualcosa dall’altro. C’è una ricchezza immensa che si esprime ogni volta che lavoriamo su un pezzo che, prima di fluire nella nuova melodia, viene interpretato, reimpastato e fatto proprio da artisti provenienti da tradizioni musicali diversissime

multiculturale. L’anno successivo viene dedicato alla ricerca dei protagonisti di questo progetto, che si immagina variegatoa come la nostra società, come un mosaico. Un mosaico di suoni A metà 2014 Mosaika, l’orchestra multiculturale del Baldo-Garda è pronta ad esibirsi nel suo primo concerto, cui ne sono seguiti molti altri anche fuori provincia. Perchè proprio un’orchestra multiculturale? Lo abbiamo chiesto a Gaetano Greco, uno dei due “sognatori” iniziali di Mosaika. «Per due motivi – racconta Greco –: promuovere l’integrazione e dare nuova vita alla scena culturale dell’area del Baldo. Integrazione significa assumere ciascuno qualcosa dall’altro. C’è una ricchezza immensa cui attingere, ogni volta che lavoriamo su un pezzo e prima di fluire nella nuova melodia viene interpretato, studiato, reimpastato e fatto proprio da artisti provenienti da tradizioni musicali diversissime. Alla fine il pezzo diventa nostro, grazie al contributo di ciascuno. Importante è anche rivitalizzare il mondo culturale dell’area del Baldo-Garda, molto concentrata sulle tradizioni locali ma abitata da persone provenienti da mondi vicini e lontani portatori di culture diverse. Portare musica nuova, sia perché mai sentita qui sia perché rinnovata e reinterpretata porta energia nuova e vita anche all’ambiente sociale e culturale circostante». L’orchestra è diretta dai mae-

stri Marco Pasetto e Tommaso Castiglioni, ed è formata da una trentina di musicisti provenienti da tutto il mondo. «Mosaika – continua Greco – è composta da tre sezioni: musicisti, cantanti e ballerini. Al momento abbiamo soltanto una danzatrice di danza del ventre, che al contrario di ciò che ci si può aspettare è veronese, ma stiamo cercando di ampliare la sezione con altri generi.Ci piacerebbe collaborare con altre esperienze musicali, sia di tradizioni lontane sia di artisti locali, siamo sempre alla ricerca di nuove proposte. È uno scambio costante». Arricchimento continuo Ernesto Namque da Silva viene dalla Guinea Bissau, si trova in italia da 12 anni ed è percussionista ed insegnante di danza afro. Nell’orchestra Mosaika suona le percussioni e la batteria.

«Suonare in Mosaika – racconta – è un arricchimento continuo. Quando ci viene presentato un pezzo nuovo dobbiamo “entrarci dentro”, ciascuno a modo suo, e accordarci, anche seguendo uno le modalità dell’altro facendole proprie. Per me è bellissimo: imparare pezzi diversi da quelli che conosco, suonare con persone che vengono da paesi diversi e stili diversi mi spinge a continuare a studiare, ad allargare sempre di più le mie conoscenze». Samar, viene dall’Algeria ma è in Italia da 20 anni e per Mosaika canta e suona le percussioni arabe: «Ero già abituata a suonare con gruppi di provenienze diverse – dice – ma è un’esperienza sempre bella e nuova. Nell’orchestra siamo tanti ed è un percorso impegnativo ma è davvero entusiasmante suonare insieme cose che sono per tutti un po’ diverse e nuove: mi piace davvero tanto».

LA SCHEDA

Musicisti da tutti il mondo per dare voce alla cultura locale Ecco l’elenco completo dei componenti di Mosaika, l’orchestra multiculturale del Monte Baldo Direttori: Marco Pasetto (Italia) e Tommaso Castiglioni (Italia). Musicisti: Massimo Pardo - Pianoforte (Italia), Alexandra Cimpeanu- Pianoforte, (Romania), Carlos Cuesta - Basso (Cuba) Claudio Moro - Chitarra (Italia), Claudio Biffo Bassi - Chitarra (Italia), Chiara Vantini - Chitarra (Italia), Hamza Sellami - Liuto arabo (Algeria), Renzo Segala - Fiati (Italia), Claudio Bizzo- Sax tenore (Italia), Marco Sorio - Tromba e Flicorno (Italia), Anna Bergamini - Ottavino e Flauto (Italia), Mara Perlato - Flauto Traverso (Italia), Anna Pasetto - Violino (Italia), Irene Benciolini - Violino (Italia), Samar Oukazi - percussioni (Algeria), Ernesto Nanque Da Silva - Percussioni (Guinea Bissau), Antonio Di Lorenzo - Percussioni Italia), Francesco Trespidi - Percussioni Italia), Raul Alzate Perez - Percussioni Italia), Igmar Leovi - Percussioni (Panama). Voci: Daria Morgon - coro (Italia), Mariarosa Marchi - coro (Italia), Teresa De Longhi- coro (Italia), Ramona Cimpeanu - coro (Romania), Gaia Fior - coro (Italia), Chiara Merci - coro (Italia), Samar Oukazi - coro (Algeria) Raul Alzate Perez - compositorevoce (Colombia), Rimon Van Mousa - coro (Palestina), Maribel Nunez - coro (Perù), Pablino Ferreira - coro (Paraguay). Danza: Gaia Fior (Italia).

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Radici Viaggio nei Paesi degli immigrati di Angela De Rubeis

Dal 2011 il giornalista Rai Davide Demichelis, è in onda con Radici, un viaggio al contrario, in cui gli stranieri che vivono in Italia accompagnano il giornalista nel loro Paese d’origine. Ora questo progetto si evolve ed entra anche nelle scuole 56 Scarp de’ tenis febbraio 2016

Cosa sappiamo dell’immigrazione in Italia? Che immagine abbiamo delle persone che condividono i nostri spazi e il nostro tempo? Che idea abbiamo dei nostri vicini e dei bimbi che condividono il banco con i nostri figli? Oltre l’immagine dei barconi disperati, oltre ogni pregiudizio, oltre ogni paura o cattiva abitudine “soffriamo” l’ignoranza diffusa, il non conoscere le realtà dei Paesi dove hanno vissuto questi nuovi concittadini. «È per questo motivo che da cinque edizioni portiamo Radici nelle case degli italiani». A parlare è Davide Demichelis, autore e giornalista Rai che dal 2011 è in onda su Rai Tre con un ciclo di documentari dal titolo Radici, appunto. Si tratta di un viaggio al contrario, con gli stranieri che vivono da anni in Italia che accompagnano il giornalista nel loro Paese d’origine. Oggi Radici, diventa Radiciascuola, un progetto per far conoscere queste realtà agli studenti italiani. Il viaggio di Demichelis, sarà nei prossimi mesi, un viaggio tra i ra-


RIMINI

Il giornalista Rai Davide Demichelis durante i viaggi di “ritorno” insieme agli immigrati che vivono e lavorano in Italia

Prima di tutto, ancor più che immagini, foto e storie abbiamo delle persone. Persone in carne ed ossa che ha senso che i ragazzi incontrino. Andare nelle scuole vuol dire far conoscere in prima persona ai ragazzi questo tipo di immigrazione

gazzi per far conoscere loro un’altra faccia dell’immigrazione, fatta di persone dalle vite normali.

viaggio rispondono prima di tutto a queste domande, che sono le stesse che magari si fa il pubblico a casa.

Come nasce Radiciascuola? Il progetto di Radicinelle scuole nasce perché abbiamo conosciuto un sacco di persone, girato un sacco di Paesi, e abbiamo parecchio materiale: immagini e foto che vale la pena mostrare anche al di fuori dal contesto televisivo. Soprattutto ha senso usarlo con i ragazzi. Ma prima di tutto, ancor più che immagini, foto e storie abbiamo delle persone. Persone in carne ed ossa che i ragazzi possono e devono incontrare. Andare nelle scuole vuol dire far conoscere l’immigrazione che noi raccontiamo con Radici, cioè l’immigrazione regolare, diversa da quella che ci viene proposta ogni giorno dai telegiornali.

Quanti e quali viaggi avete realizzato sino a questo momento? Abbiamo fatto 15 viaggi, in altrettanti Paesi che vanno dalla Bolivia, al Burkina Faso, passando per Albania, Cina e Senegal.

Radiciascuola parte dal programma televisivo, puoi raccontarci qualcosa di questa esperienza? Radici è un viaggio che facciamo alla scoperta di un Paese, ma soprattutto alla scoperta delle radici di persone che sono i nostri vicini di casa. In Italia abbiamo più di cinque milioni di immigrati regolari che vivono – chi da 30 o 40 anni; o chi da solo pochi anni –nel nostro Paese. Molti di questi sono a tutti gli effetti dei cittadini italiani; l’idea è conoscerli andando a fare un viaggio insieme a loro, nel Paese d’origine. Un viaggio in cui loro ci conducono e ci portano a conoscere, appunto, le loro radici. Non poteva essere un semplice documentario, perché questa scelta? Perché quelle che ci accompagnano sono persone che vivono qui e possono raccontare il loro Paese in prima persona perché parlano la nostra lingua; perché si sono sentiti fare cento volte domande del tipo: “Ma nel tuo Paese come vivete?”. Nel

Come risponde il pubblico? È capitato tante volte che le persone mi abbiano inviato dei feedback per dirmi che dopo aver visto una puntata hanno capito meglio il Paese in questione. Mi è capitato leggendo i commenti sui social, ma soprattutto, negli incontri con il pubblico. Perché noi stiamo già girando l’Italia da tempo per presentare le puntate, ancor prima che si sviluppasse questo progetto. Pensi stia nascendo una nuova coscienza? Negli incontri questa nuova coscienza, se così possiamo definirla, è ancora più palese. L’obiettivo è quello di raccontare la normalità e il fatto che c’è una normalità di vita in questi Paesi così come nel nostro. Racconti una normalità… Sì, una bella normalità che, ovvia-

mente, non riesce a trovare spazi adeguati sui mass media. Quello che emerge da queste puntate è che le famiglie, la realtà, le radici di queste persone non sono poi così diverse dalle nostre. Torniamo a Radiciascuola, come saranno strutturati gli incontri nelle scuole? Prenderanno spunto dai viaggi fatti. Mostreremo puntate diverse insieme ai protagonisti di quella puntata, spostandoci in diverse città italiane. Sicuramente nelle città dove vivono gli immigrati che ci hanno portato a conoscere il loro Paese. Siamo andati in Albania con Sonila che vive a Bergamo, ebbene Sonila sarà ipresente nelle scuole in cui sarà proiettata la sua puntata. Ci sono altri strumenti a disposizione dei ragazzi? C’è una preparazione all’incontro, che è fatta attraverso un sito web, e una mostra che verrà portata nelle scuole. Ma ci sarà anche un dopo. Nel senso che i ragazzi verranno invitati a fare dei commenti scritti, a fare dei video, dei filmati della giornata in cui Radici sarà nella loro scuola, che verranno postati sui social e sul sito di radiciascuola.it. In effetti capire non è semplice, bastassero delle Radici.

LA SCHEDA

Radiciascuola, l’immigrazione a scuola Radici – serie di reportage firmati da Davide Demichelis in onda su Rai3, in cui i protagonisti delle storie, immigrati che vivono in Italia, fanno ritorno nei loro Paesi di origine in compagnia di Davide Demichelis – diventa Radiciascuola, un progetto per far conoscere queste realtà agli studenti italiani. Il viaggio di Demichelis,nei prossimi mesi, sarà un viaggio tra i ragazzi per far conoscere loro un’altra faccia dell’immigrazione, fatta dai volti di persone dalle vite normali. www.radici.rai.it

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Nelle foto due momenti della marcia contro tutte le camorre organizzata a Napoli

NAPOLI della camorra. Per dare loro occasioni diverse servono scuole aperte tutto il giorno e investimenti strutturali per creare sviluppo e lavoro».

Un popolo in cammino Contro le camorre di Laura Guerra

info Partita da piazza Dante “Un popolo in cammino”, manifestazione promossa dai parroci di Napoli ha raccolto rappresentanti di tutte le religioni, autorità cittadine, associazioni e partiti. In corteo anche Gennaro Catena, il giovane ferito in un agguato di camorra, la mamma di Ciro Esposito, tifoso ucciso durante la finale di Coppa Italia nel 2014, il padre di Genny Cesarano, freddato da un proiettile vagante in piazza Sanità a settembre e il padre di Luigi Galletta, vittima innocente della faida di Forcella.

Migliaia di persone partite dalle periferie della città e dai quartieri cittadini che pur essendo centrali sono periferici per disagio sociale, assenza delle istituzioni, presenza della camorra, hanno animato la marcia “Un popolo in cammino – per la giustizia sociale contro le camorre”. Sono arrivate dalle zone di Scampìa, Ponticelli, Soccavo e Miano, territori del Comune partenopeo, percepiti come decentrati rispetto alla Napoli del golfo e del Vesuvio, ma si sono organizzati anche da Forcella e dalla Sanità rioni del cuore di Napoli. Alla mobilitazione lanciata da un gruppo di parroci ispirati dal versetto dell’ Esodo “Ho osservato la miseria del mio popolo ho udito il suo grido e sono sceso per liberarlo”; declinandolo nel tempo della sofferenza contemporanea, hanno partecipato comunità parrocchiali e religiose, sigle sindacali, associazioni, movimenti, reti informali e singoli cittadini. Hanno attraversato la città da

Piazza Dante a Piazza del Plebiscito sede della Prefettura, dove una delegazione ha consegnato al prefetto, Gerarda Pantalone, una lettera di richieste. «Al Governo – spiega uno dei promotori, don Antonio Loffredo, parroco impegnato al Rione Sanità – chiediamo un intervento sociale concreto che cambi la giornata di tanti ragazzi attirati dalla zona grigia della malavita. Se frequentano la scuola li togliamo dalle tentazioni

La scuola salva i ragazzi Don Angelo Berselli, parroco a San Giorgio Maggiore a Forcella, sottolinea: «Soltanto tenendo questi ragazzi a scuola possiamo evitare che siano preda del sistema criminale, in più bisogna agire con equilibrio rispetto al controllo militare del territorio, garantendo l’azione di vigili in strada, telecamere in funzione e presidi di polizia; questi interventi sarebbero il segno tangibile della presenza concreta dello Stato». La marcia ha avuto anche un tratto ecumenico: accanto a padre Alex Zanotelli, missionario impegnato nel rione Sanità, a don Francesco Minervino parroco di Maria Santissima Assunta in Cielo a Miano e decano di Scampìa, a don Enzo Liardo parroco di San Giovanni Battista e decano a Ponticelli, c’erano anche l’Imam Adullah Cozzolino e il pastore valdese Franco Mayer. Al corteo hanno partecipato la mamma di Ciro Esposito, il tifoso napoletano ucciso durante la finale di Coppa Italia 2014; il padre di Genny Cesarano, freddato da un proiettile vagante in piazza Sanità a settembre, il padre di Luigi Galletta, vittima innocente della faida di Forcella . Tutti hanno voluto esserci per testimoniare la memoria dei tanti morti per mano della violenza, ma anche per marciare sul cammino della speranza.

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SUD

Carcere, messi alla prova per “riparare” di Stefania Marino

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L’istituto della “messa alla prova” permette di svolgere lavori esterni al carcere a persone punite con la sola pena pecuniaria o con pena detentiva non superiore ai 4 anni di reclusione

Non più carcere ma messa alla prova per l’espletamento di una prestazione di pubblica utilità. È la svolta che negli ultimi mesi si sta avendo in Italia in seguito al Decreto Ministeriale n. 88 dell’8 Giugno 2015. Molti tribunali stanno stipulando convenzioni con enti o associazioni del terzo settore. Ma che cos’è il lavoro di pubblica utilità? È una prestazione non retribuita in favore della collettività di


REUTERS/Paul Hackett REUTERS/Christian Charisius

principio della “restituzione”alla collettività. Un percorso alternativo per alleggerire il carcere, un percorso efficiente, economico e dall’alto contenuto civile e sociale. Il Ministro della Giustizia Andrea Orlando ha firmato il regolamento ministeriale –di attuazione della legge 67/2014 che prevede il ricorso al lavoro di pubblica utilità il 9 giugno scorso.

durata non inferiore a dieci giorni che un imputato può svolgere in enti pubblici (Comuni o Provincie) ma anche in enti o organizzazioni di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. Una vera e propria rivoluzione che evita il transito in carcere e il conseguente sovraffollamento. Lo scorso novembre l’associazione “Il Sentiero”, con sede a Teggiano nel Vallo di Diano, nell’ultimo lembo della provincia di Salerno, ha firmato una convenzione della durata di 5 anni “per lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità” con il Tribunale di Lagonegro nel potentino, tribunale di riferimento dopo la soppressione del Tribunale di Sala Consilina. Una convenzione che prevede su richiesta dell’imputato la sospensione del procedimento e la messa alla prova. Un istituto di grande flessibilità che tiene conto anche delle professionalità e competenze dell’imputato, nonchè delle sue esigenze di lavoro, di studio e della condizione di salute. Ecco come funziona Nel momento in cui un imputato chiede di usufruire della messa alla prova, viene affidato all’ufficio di esecuzione penale esterna (Uepe) a cui viene chiesto un programma di trattamento dove viene indicato tutto il percorso che l’imputato dovrà svolgere.

È il giudice che decide con

i dati Secondo il Ministero della Giustizia (dati aggiornati a 31 dicembre 2015), la “messa alla prova” ha riguardato 6.557 persone mentre i casi “lavori di pubblica utilità per violazione del codice della strada” sono stati 5.589. Tra le misure alternative, l’affidamento in prova al servizio sociale ha toccato quota 12.096, mentre 698 persone hanno usufruito della semilibertà, 9.491 della detenzione domiciliare, 5.954 dei lavori di pubblica utilità, 3.675 della libertà vigilata, 192 della libertà controllata e 7 della semidetenzione per un totale di 32.113 persone. Per quanto riguarda l’affidamento in prova al servizio sociale, dei 12.096, 6.165 sono condannati dallo stato di libertà, 2.561 sono condannati dallo stato di detenzione (arresti domiciliari e detenzione domiciliare). I detenuti presenti nei 195 istituti penitenziari sono 52.164 di cui 2.107 donne e 17.340 stranieri. I detenuti in semilibertà sono 735.

un’ordinanza se ci sono le condizioni per sospendere un procedimento. La legge dice che possono accedere a questa misura solo quegli imputati puniti con la sola pena pecuniaria o con la pena detentiva non superiore a 4 anni. La messa alla prova può essere svolta solo presso gli enti convenzionati. La convenzione firmata da “Il Sentiero” prevede 14 sedi dislocate sul territorio del Vallo di Diano, nel Cilento e nel Golfo di Policastro, dove 5 soggetti possono svolgere appunto l’attività non retribuita. Sono indicati centri di accoglienza straordinaria per migranti a Sicignano degli Alburni, Sanza, Morigerati, comunità alloggio per minori stranieri non accompagnati, a Montesano sulla Marcellana strutture per richiedenti asilo e rifugiati a Pontecagnano, Eboli, Padula, Polla, Roscigno, Santa Marina. Tra le sedi indicate anche La Bottega dell’Orefice, centro diurno residenziale per persone con disagio psichico a Padula. Spetta all’Uepe monitorare l’andamento del programma. Terminato il periodo si ritorna in udienza e se l’imputato ha rispettato tutte le prescrizioni il reato viene dichiarato estinto. Una misura di prossimità quella della messa alla prova che contiene al suo interno la cosiddetta funzione riparativa. L’imputato dopo aver commesso un reato si fa carico del

Mansioni ben definite Nel decreto sono esplicitate le mansioni previste: attività sociali e sociosanitarie a favore di tossicodipendenti, malati, anziani, minori, stranieri. Attività di protezione civile e soccorso alla popolazione in caso di calamità naturali, tutela del patrimonio ambientale che può significare prevenzione incendi, ma anche tutela della flora e della fauna, soprattutto nelle aree protette, e salvaguardia del patrimonio boschivo. Previste anche attività a favore del patrimonio culturale come la custodia di biblioteche, musei, gallerie o la manutenzione di immobili pubblici come giardini, ville, parchi. Nessun onere a carico del Ministero della Giustizia perché la copertura assicurativa contro gli infortuni e le malattie professionali è a carico proprio degli enti che firmano le convenzioni.

Nel 2015 nel Vallo di Diano 55 persone hanno usufruito del procedimento di messa alla prova. Un’attenzione posta sul tema dalla Caritas diocesana di Teggiano-Policastro che ha dato diverse disponibilità ai lavori di pubblica utilità porgendo altrettanta attenzione al mondo del carcere svolgendo attività di volontariato nella Casa circondariale di Sala Consilina. Il carcere ha chiuso i battenti a novembre scorso. Rimane apertoquello di Teggiano, nella frazione San Marco, una casa di accoglienza che da oltre dieci anni ospita detenuti, soprattutto stranieri e senza un tetto, che possano beneficiare delle misure alternative. febbraio 2016 Scarp de’ tenis

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aforismi

POESIE

di Emanuele Merafina

Oroscopo La bionda Fata sollevò le mani sopra la culla, in atto di preghiera, e la sua voce risuonò potente nel radioso mattin di Primavera. “Fate sorelle ed Elfi sovraumani, scendete attorno a questa nuova vita dalle arcane dimore in cui vivete nei vostri regni magici e lontani! Donate amabilità, forza e saggezza, la nobiltà dell’animo e del cuore… Io ho donato un destino di bellezza. E donate la grazia tenera e dolce della sua mamma… “Donate l’Amore!” Disse, e in ciel dileguò la bionda Fata! Mary

Salice piangente Fiocchi di bruni capelli salice piangente le tue gocce di nebbia respiro e sospiro di un’età come l’oro e l’argento che rifugge e ritorna come brezza e carezza di un indomito vento. (Un Angelo e un Sogno per ogni persona sofferente, silente)

Ci vuole Ci vuole… Ci vuole tanto coraggio per vivere. Giorno dopo giorno sentiamo la fatica e il peso dell’esistenza. Pensare che non ci hanno neppure interpellato prima di metterci al mondo! Ci vuole coraggio per cambiare nel fisico e nella mente, per migliorarci e non marcire in una situazione di comodo che poi è letale, in quanto la vita è una lotta e non bisogna arrendersi. Ci vuole coraggio per capire che siamo veramente soli soprattutto nei momenti più difficili e che siamo nati anche per soffrire. Ci vuole coraggio per capire che la ricchezza, la vita comoda e perfino l’amore spesso solo chimere: ricordati sempre che devi morire… Ma chi ha coraggio sa morire in piedi e anche fare gol nella porta del cielo.

Disastro Il vero disastro della gente è l’indifferenza

Siediti Siediti ai bordi del deserto, il tuo cuore ti parlerà. Siediti ai bordi del mare, il sussurrio delle onde ti rincuorerà. Siediti ai bordi di un ruscello, l’usignolo col suo dolce canto ti farà sorridere. Siediti ai bordi della notte, solo Dio ti sarà vicino e improvvisamente ti sembrerà di vedere la luce. Mirella

Silvia Giavarotti

Mino Beltrami

Ricordando Diesel Un cane vive per te ma quale persona muore per te? Diesel è soltanto uno dei cani che hanno creduto nella nostra evoluzione e non nella nostra distruzione. Non spiegare ad un cane l’inutile emulazione L’idea di un giovane volontario di invasate persone in nome di una religione. della Ronda della carità Milano:benedizione. Diamogli senza condizione tuttadi la possibile Ferdinando Garaffa una App contro lo spreco alimentare

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VOCI DALL’AFRICA

Philani, il libraio di Johannesburg Regala libri a chi ne ha bisogno

di Davide Maggiore

“No hawkers”, niente ambulanti. Philani Dladla deve aver letto e sentito molte volte quelle parole quando viveva per le strade di Johannesburg (in Sudafrica). A portarcelo, a poco più di vent’anni, era stata la dipendenza dalla droga, che gli era costata il lavoro da infermiere e la sua stessa identità, trasformandolo in una delle figure che molti automobilisti, negozianti e passanti tentano di allontanare, con un misto di disprezzo, indifferenza e fastidio. Frutta e verdura, vestiti, cibo pronto, cd contraffatti, a volte persino sermoni improvvisati a volume altissimo: la merce degli hawkers è sempre stata tra le più varie, ma Philani non poteva fare lo stesso a meno di spiccare tra tutti. Lui era “quello dei libri”.

scheda Davide Maggiore, nato nel 1983, una laurea in filosofia già vecchia di anni. È stato viaggiatore prima di diventare giornalista e ha incontrato l’Africa grazie a chi da lì è arrivato in Italia: ne ha fatto un lavoro senza perdere la passione. Nel cuore gli è rimasta soprattutto la Tanzania, negli occhi e nella testa il Sudafrica.

“Quello dei libri” La passione per la lettura l’ex infermiere l’aveva sviluppata grazie a un amico di famiglia, quando ancora abitava a Port Shepstone, sull’Oceano Indiano, nella provincia di KwaZulu-Natal. E quando gli erano rimasti solo i libri portati da casa, aveva deciso di venderli, improvvisando recensioni per fermare i potenziali clienti sul marciapiede dove esponeva il baule con la sua mercanzia. Col ricavato – al massimo l’equivalente di pochi euro per copia – oltre che cibo, comprava altri volumi «per evitare di spendere soldi per la droga», avrebbe raccontato poi. Quella che per lui era una semplice strategia di sopravvivenza, però, attirava molte attenzioni sul “libraio senza casa”.

Dopo aver letto per anni i libri altrui, Philani Dladla ora è autore di un’autobiografia, The Pavement Bookworm (letteralmente: il topo di biblioteca del marciapiede) e ha lanciato in rete un progetto con lo stesso nome. L’obiettivo è sostenere “il club dei lettori di libri”, come ha chiamato un’iniziativa destinata a un gruppo di bambini e giovani delle classi povere di Johannesburg

Philani Dladla in strada con alcuni dei libri che ha recensito

L’invidia di chi – meno fortunato di lui come commerciante di strada – tentava a volte di portargli via il denaro con la forza, ma anche l’interesse del regista Tebogo Malope, che nel 2013 decise di raccontarne la storia in un’intervista video condivisa su Youtube. Così in poco tempo, così, Philani si trovò a dover trattare con clienti imprevisti: i mass media, arrivati anche da molto lontano. La sua figura, infatti è diventata persino protagonista di un reportage di CCTV Africa, canale tematico della televisione di Stato cinese.

La salute, la notorietà, poi finalmente una nuova casa: la vita del libraio hawker è cambiata per gradi, fino alla trasformazione definitiva. Dopo aver letto per anni i libri altrui, Philani Dladla ora è autore di un’autobiografia, The Pavement Bookworm (letteralmente: il topo di biblioteca del marciapiede) e ha lanciato in rete un progetto con lo stesso nome. Scrivere per solidarietà L’obiettivo è sostenere “il club dei lettori di libri”, come l’ex infermiere ha chiamato un’iniziativa destinata a un gruppo di bambini e giovani delle classi povere di Johannesburg. A ognuno Philani ha cominciato col regalare un libro – come già faceva a volte da homeless– a patto che ne discutesse in un altro incontro del gruppo. Per quella che considera la sua famiglia allargata (i partecipanti sono oggi oltre 250), l’ex ambulante ha un sogno, raccontato in un’intervista concessa all’inizio di quest’anno. E, naturalmente, è un desiderio fatto di pagine: «Andare in libreria e trovare un libro scritto da uno di loro. Allora potrò davvero dirmi che ho fatto un buon lavoro…». febbraio 2016 Scarp de’ tenis

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VENTUNO

Famiglie e crisi da debiti la legge c’è ma non basta Dal 2012 una norma consente di comporre con procedure innovative, senza ricorrere al pignoramento dei beni, le crisi da indebitamento dei soggetti “non fallibili”, tra cui molte famiglie. Ma gli organismi di composizione stentano a essere attivati di Andrea Barolini

La crisi economica si protrae ormai dal 2008. Da quasi un decennio, recessione e difficoltà hanno aggredito le economie delle famiglie del mondo intero. In Italia, tra le numerose conseguenze di tale periodo di buio prolungato, c’è anche l’inasprimento del problema del sovraindebitamento, recrudescenza legata anche al fenomeno della ludopatia.

Una soluzione, però, esiste. Nulla di miracoloso. Ma di “rivoluzionario”, sì. È noto

scheda

Ventuno come il secolo nel quale viviamo, come l’agenda per il buon vivere, come l’articolo della Costituzione sulla libertà di espressione. Ventuno è la nostra idea di economia. Con qualche proposta per agire contro l’ingiustizia e l’esclusione sociale nelle scelte di ogni giorno.

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infatti che la paura principale di chi si ritrova a fare i conti con una montagna di debiti è quella di vedersi pignorare i beni, magari la casa nella quale si vive con la propria famiglia. Proprio per ridurre al minimo tali soluzioni “estreme”, quattro anni fa fu approvata una legge, la numero 3 del 2012. Una buona legge, una

volta tanto: essa introduceva una nuova forma di concordato, finalizzata a comporre quelle che vengono definite “crisi di liquidità” di quei debitori ai quali non si possono

LA SCHEDA

Acireale è il primo comune a diventare organismo di composizione È quello di Acireale il primo comune italiano ad aver deciso di costituire un proprio organismo di composizione per le crisi da sovraindebitamento. La presentazione della struttura, battezzata “La tutela degli onesti”, è avvenuta il 23 novembre 2015, ovvero pochi giorni dopo l’iscrizione nell’elenco ufficiale tenuto dal ministero della Giustizia. «Il nostro - ha spiegato il comune siciliano in un comunicato - è il primo municipio a dotarsi di un organismo riconosciuto dallo Stato. In questo modo potremo diventare un tramite tra le famiglie, gli imprenditori, i commercianti, i cittadini in difficoltà e il Tribunale di Catania» (ovvero quello competente per territorio, ndr). A far parte dell’organismo sono 16 professionisti - “gestori della crisi” - che avranno l’incarico di aiutare i cittadini a delineare (e soprattutto mettere in pratica) dei piani di ristrutturazione delle loro esposizioni debitorie. Spetterà poi allo stesso organismo di composizione, per conto delle famiglie e dei professionisti in stato di sovraindebitamento, la presentazione di tale programma di uscita dal tunnel al tribunale di Catania, che a sua volta ha il compito di approvarlo ufficialmente. «La nostra struttura - prosegue il municipio di Acireale - ha già creato una rete di comuni aderenti. In questo modo, anche i cittadini di Aci Bonaccorsi, Aci S. Antonio, Biancavilla, Bronte, Calatabiano, Maletto, Mascali, Misterbianco, Paternò, Pedara, San Giovanni La Punta, San Pietro Clarenza, Santa Maria di Licodia, Santa Venerina e Valverde potranno avvalersi dei servizi di pre-istruttoria delle richieste». L’annuncio è arrivato a pochi mesi dalla sottoscrizione, da parte del comune, di una convenzione con l’associazione “I diritti del debitore”, che si è fatta portavoce della legge 3 del 27/01/2012, secondo il cui dettato ogni cittadino, anche se gravato da debiti e interessi, ha diritto a continuare a mantenere un tenore di vita dignitoso.


il legale - il ministero della Giustizia ha pubblicato l’elenco di tali organismi. Ne risultano riconosciu-

applicare le norme “tradizionali”, ovvero le normali procedure di fallimento. Ciò perché, appunto, si tratta di persone che, tecnicamente, non possono fallire perché non rientrano nell’ambito di applicazione della legge che riguarda le imprese medio-grandi: parliamo di piccoli imprenditori (che non raggiungono i minimi previsti dalla normativa), di famiglie, di professionisti, di singoli cittadini. «Per loro – spiega l’avvocato Massimo Melpignano, che da anni si dedica alla questione – la norma prevedeva un regolamento di attuazione che è stato completato nel settembre del 2014 ma che è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale solo nel gennaio 2015». Il ritardo accumulato è stato dunque enorme. Tuttavia, da quella data si sarebbe potuti partire con l’individuazione degli organismi di composizione, ovvero quelle strutture che secondo la legge devono assistere le persone in difficoltà, accompagnandole – grazie al supporto di esperti del settore –nell’uscita dal tunnel. «Ma solo qualche settimana fa - prosegue

ti, ad oggi, solamente 16 per tutto il territorio nazionale.

La legge 3 del 2012 introduceva un aiuto concreto per le famiglie e i piccoli imprenditori gravati dal peso debitorio. Ma si fatica ancora ad applicarla

È evidente in questo modo la legge di fatto non è applicabile». «Sicuramente – spiega Roberto De Rossi, referente dell’organismo di composizione della crisi da sovraindebitabento dell’Ordine dei Commercialisti di Roma (il primo in Italia a essere stato registrato e a diventare operativo) – il numero delle strutture ad oggi attivate non è sufficiente a coprire le esigenze che l’attuale situazione di crisi economica del Paese richiede. Occorre infatti considerare i tempi tecnici per il procedimento di iscrizione degli organismi e dei gestori, inclusa la necessaria verifica da parte del ministero della Giustizia prima dell’iscrizione nel registro e della conseguente pubblicazione». Ed è un vero peccato, perché la

nuova legge prevede un superamento pressoché totale del vecchio sistema di rientro in caso di debiti partico-

larmente elevati: «Se il giudice riconosce la buona fede della persona sovraindebitata –sottolinea Melpignano – si può evitare di limitarsi alla semplice vendita dei beni al fine del rientro dell’esposizione. Al contrario si offre ai cittadini una via alternativa. Che prevede la riorganizzazione del bilancio familiare, l’ottimizzazione delle entrate e delle uscite. In una parola, l’educazione finanziaria». È in questi termini che lavora l’Ordine dei Commercialisti di Roma: «Il nostro organismo di composizione – prosegue De Rossi – è stato istituito il 25 maggio 2015 ed iscritto nel registro ministeriale l’8 settembre dello stesso anno. Attualmente, le situazioni in corso di lavorazione sono una decina. Relativamente poche, ma nel breve periodo di attività abbiamo registrato un importante volume di richieste di informazioni, a dimostrazione dell’alto interesse per questo nuovo strumento messo a disposizione. A domandare il nostro intervento sono principalmente consumatori in difficoltà, con mutui e finanziamenfebbraio 2016 Scarp de’ tenis

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VENTUNO

Va detto che, in attesa che il numero di organismi di composizione divenga ragionevole, si può procedere con l’adozione del cosiddetto regime transitorio, previsto dalla stessa 3/2012. Ovvero

La norma prevede anche un regime transitorio, ovvero la richiesta di nomina da parte di un giudice, di un professionista esperto che faccia le veci degli osservatori non ancora attivati

si può chiedere la nomina, da parte di un giudice, di un professionista esperto, che faccia in qualche modo le veci delle strutture inesistenti: «Ma le situazioni di ciascun sovraindebitato – sottolinea Melpignano – sono molto diverse tra loro. Per questo un avvocato o un commercialista possono non bastare». Insomma, finché alla norma non verrà dato pieno compimento, non si potrà sfruttarne le potenzialità, che secondo il legale «sarebbero gigantesche sul piano sociale. Non solo per i sovraindebitati ma anche per le nuove generazioni di

Un milione e mezzo le famiglie indebitate di Donata Monti presidente associazione Pro.seguo (Progetti contro l’esclusione da sovraindebitamento)

avvocati, notai, commercialisti, che potrebbero trovare uno sbocco professionale, valorizzare la loro attività. E guadagnare facendo del bene al prossimo». Il problema, ad oggi, coinvolge però anche gli stessi consumatori. Non sempre, infatti, i potenziali fruitori delle novità introdotte nel 2012 sanno dell’esistenza di tale possibilità: «L’applicazione stenta a decollare – osserva De Rossi – non soltanto perché l’utilizzo pratico dello strumento è piuttosto complesso, ma perché la normativa è ancora poco nota sia agli utenti che ai professionisti. Possiamo dire che la legge è valida, ma per una più agile funzionalità dello strumento la direzione da seguire dovrebbe essere quella di una semplificazione da parte del legislatore, al fine di rendere la procedura più snella ed efficace».

Buon ultimo in Europa, il nostro paese, dunque, si è dotato da quattro anni di una legge per risolvere le crisi da sovraindebitamento riguardanti famiglie e soggetti non fallibili. In base a quanto asserito dalla legge, è sufficientemente chiaro che si può ritenere sovraindebitata una famiglia che si trova dinnanzi all’impossibilità oggettiva di far fronte agli impegni a breve termine contratti per soddisfare le proprie necessità. È il caso, insomma, di famiglie per cui la “coperta” diventa troppo corta: nonostante la buona volontà di onorare i propri debiti, qualche

L’associazione Pro.seguo, che monitora il fenomeno, documenta come l’indebitamento continui a pesare sui bilanci familiari 66 Scarp de’ tenis febbraio 2016

Romano Siciliani

ti erogati da banche e finanziarie».

Sono circa un milione e mezzo le famiglie italiane che soffrono a causa dell’indebitamento. Un milione in più, nel 2014, rispetto al 2000

creditore resta sempre fuori.

Spesso si pensa a queste persone come a coloro che hanno fatto il “passo più lungo della gamba”, o che hanno voluto vivere al di sopra delle proprie possibilità. Certamente, numerosi sono i casi in cui il sovraindebitamento è generato da un cattivo o superficiale controllo nella gestione familiare dei redditi, un’elevata propensione al consumo, una mancata costituzione di risparmi, investimenti imprudenti, e altri fattori che richiederebbero un controllo e un’efficace pianificazione, che molte famiglie non riescono a fare da sole. In molti casi, però, la situazione critica è dovuta a fattori totalmente estranei al controllo della famiglia: perdita di un posto di lavoro, decessi, malattie gravi o prolungate del percettore di reddito, separazioni e di-


IL PUNTO

vorzi, prestazioni di garanzie, versamento di alimenti, altro... Per uscire da queste situazioni difficili, è dunque richiesto uno strumento legislativo che riporti a una normalità di vita i soggetti sovraindebitati e consenta di non ritornare alla fase critica. La legge esistente risponde solo in parte a queste esigenze. Consente di mettere di fronte a un tavolo creditori e debitore per negoziare una praticabile via d’uscita, pianificata e controllata; ma non tiene presente nel suo intervento la parte educativa, di revisione e ricostruzione del bilancio familiare. Non prevede neppure un osservatorio, che legga quantitativamente il problema e ne analizzi le cause, così da suggerire al governo di turno interventi mirati. Inoltre non è finanziata, quindi l’onere della procedura di composizione della crisi grava sulla persona e sulla famiglia sovrainde-

Le difficoltà nel generare reddito avevano spinto le famiglie italiane, anche nel periodo pre-crisi, a utilizzare il debito come “ammortizzatore sociale”. Con lo scoppio della crisi, tutti i nodi sono venuti al pettine

bitata. Strumentazione normativa e atti amministrativi, in definitiva, non bastano per cambiare rotta, senza l’intervento di un’opinione pubblica capace di cogliere potenzialità e vantaggi della norma.

L’associazione Pro.seguo (Progetti contro l’esclusione da sovraindebitamento) da quattro anni cerca di monitorare il problema. In un workshop svoltosi presso l’assessorato alle politiche sociali della regione Lazio in ottobre, ha documentato come il sovraindebitamento continui a pesare sulle famiglie italiane: secondo la ri-

cerca, sono circa 1,4 milioni quelle sovraindebitate (5,7% del totale); un milione in più, dal 2000 al 2014. Le

tore sociale”. Con lo scoppio della crisi tutti i nodi sono venuti al pettine. A essere coinvolti sono soprattutto i nuclei familiari con a capo un giovane, appartenente al ceto medio, lavoratore dipendente e residente nel nord Italia. Nonostante i piccoli segnali di ripresa che l’economia italiana presenta da qualche mese, le famiglie sovraindebitate continuano a non dormire sonni tranquilli. Avere uno strumento utile per evitare il peggioramento della situazione e la caduta in povertà, e non poterlo utilizzare per evidenti ostacoli tecnici e giuridici, è per loro una beffa, e per la collettività una risorsa sprecata.

difficoltà nel generare reddito aveva infatti spinto le famiglie, anche nel periodo pre-crisi, a utilizzare il debito come “ammortizzafebbraio 2016 Scarp de’ tenis

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CALEIDOSCOPIO Noemi e Kinder in posa durante una pausa dello spettacolo. La ragazza con l’ukulele non passa inosservata nelle piazze di Milano

Nòe, la ragazza con l’ukulele Noemi, in arte Nòe è arrivata a Milano 5 mesi fa e si è registrata al sito del comune di Milano per gli artisti di strada. Nòe accompagna la sua notevole voce con l’ukulele che ha imparato a suonare da autodidatta. «Ho iniziato a suonare a 10 anni –racconta –. Dopo il liceo ho iniziato a studiare canto, perfezionandolo in diverse scuole italiane». La sua passione per la musica l’accompagna anche all’università, con la laurea al Dams di Palermo. Sempre in Sicilia, partecipa ad un concorso canoro “Musica controcorrente” aggiudicandosi il primo premio. «In strada puoi fare tutta la musica che vuoi – dice entusiasta – le canzoni che propongo sono cover dei cantautori pop italiani e stranieri. Suonando in strada ho sperimentato la solidarietà: molti colleghi musicisti mi hanno aiutata dandomi delle dritte importanti». Durante le sue esibizioni è sempre accompagnata da Kinder, il suo cane labrador che la segue ovunque, anche solo con lo sguardo. Nòe sta anche preparando il suo primo album, Antonio Vanzillotta in cui canta e suona la sua musica. Info www.noemusic.it Facebook canizzaronoemi febbraio 2016 Scarp de’ tenis

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NAPOLI

PAROLE

San Gennaro: l’arte è soprattutto cambiamento

Il grande murales dedicato a San Gennaro realizzato dal writer Jorit Agoch nel quartiere di Forcella

I colori di Agoch, una speranza per Forcella Chi è Jorit Agoch? Di lui si sa poco e non si hanno immagini, come se avesse deciso di restare avvolto nel mistero; artista che non si mette in luce e proprio per questo diventa personaggio. Di certo è napoletano di padre e olandese di madre; di certo ha avuto un dono dalla madre benefica di nostro Signore: disegna da Dio. Inizia ragazzino a graffitare qualche muro, decide poi di frequentare l’Accademia di Belle Arti, con ottimi risultati e il massimo dei voti; e poi ancora se ne va in Africa, dove nei pressi di Dar es Salaam(l’ex capitale della Tanzania) impara altre antiche tecniche pittoriche, riesce a caratterizzare le sue opere e si conferma sempre più appartenente alla Human Tribe, una universale ultrademocratica tribù alla quale tutti apparteniamo o almeno dovremmo. Alla fine della scorsa estate il Comune di Napoli gli ha patrocinato alcune opere di grandi dimensioni, da facciata intera di palazzo per intenderci, e così all’ingresso della popolarissima Forcella è spuntato un bellissimo San Gennaro – che altri non è se non un amico carrozziere del nostro writer – con una maschera da lavoro a mo’ di mitra (il copricapo del vescovo). Un trucco e un effetto bellissimi, un palco scelto apposta per una rappresentazione forte, San Gennaro a Forcella è di casa ed è sicuramente nominato più volte al giorno e poi il suo Duomo è proprio un po’ più su. Le due ampolline di sangue nel murale confermano in tutto e per tutto la simbologia e l’appartenenza alla città di questo rione in cui mitra è una parola declinata sia al maschile che al femminile. E allora sarebbe bello se questa grande raffigurazione del Santo di Napoli potesse dare vita a un’iniziativa pubblica che riuscisse a far capire ai nostri scugnizzi che i turisti fanno bene, portano soldi, cash. E che uno scippo in meno vuol dire un turista in più. Sarebbe un vero miracolo se questo potesse accadere e Jorit diventasse non solo un vero artista ma un grande comunicatore sociale. Non ci speriamo naturalmente, giacché, nonostante l’attuale bassa marea spes semper est ultima dea. Bruno Limone 70 Scarp de’ tenis febbraio 2016

PAROLE

Un artista che tocca il cuore Usa lo spray, anche se in alcuni punti ha usato il pennello, mentre lavorava indossava la felpa con il cappuccio, non si fa riprendere né fotografare, non si fa intervistare: i suoi graffiti parlano per lui. Quando ho visto il suo lavoro mi sono chiesta se San Gennaro fosse così bello. Ha occhi grandi e neri le pupille sembrano vere, sembra che quegli occhi ti vogliano parlare. Labbra carnose, capelli neri folti, cappello pastorale, che a ben guardare è una visiera da carrozziere. Jorit me lo immagino un giovane stravagante, esile, agile, pieno di fantasia, una mente libera e sognatrice. Maria Esposito

Street art a Napoli, l’ennesimo capolavoro di Jorit Agoch è il busto di San Gennaro nel rione Forcella, la strada infatti vista dall’alto è una biforcazione a forma di forcella che da via Duomo entra nella Vicaria Vecchia, dove spesso la cronaca nera la fa da padrone. Qui un po’ d’arte serve non solo per riqualificare la zona ma è un messaggio al quartiere. Un quartiere che non è solo camorra e delinquenza, ma dove si possono visitare un sacco di cose belle come l’opera di Agoch che attira tanti turisti. Il murale quando lo vedi è alto 15 metri, gli occhi di Gennaro sono rivolti un po’ all’insù come a chiedere un'altra grazia per il popolo napoletano ma questa volta non per fermare la lava del Vesuvio ma un cambiamento per un nuova epoca. Domenico Capuozzo

Graffi sul viso, per l’artista sono simbolo di libertà Le sue opere sono, soprattutto, opere sociali. Questo artista ha creato anche il volto di una bambina rom in ricordo dell’incendio del campo rom a Ponticelli. Un’opera di integrazione sociale, ha poi rappresentato molti volti dello spettacolo e della musica, soprattutto quelli del rap, per farsi riconoscere nei suoi graffi lascia sul volto delle persone due segni che sembrano graffi e quella è la sua firma. Marianna Palma


CASADELLACARITÀ

Tre famiglie rom ospitate alla Casa della Carità sono riuscite finalmente ad avere una casa

La cucina arancione della famiglia di Darius di Paolo Riva foto di Matteo Cogliati

info Fondazione Casa della Carità Via Francesco Brambilla, 10 Milano Centralino 02.25.935.201 - 337 Fax 02.25.935.235 Il centro d’ascolto è aperto dal lunedì al venerdì, dalle 9.30 alle 12.30.

«Le espressioni di gioia mista a stupore che si sono dipinte sui loro volti quando hanno visto i mobili usati per le loro nuove case mi sono rimaste impresse». Quando le si chiede quale è stato il momento che più l’ha colpita dell’accoglienza alla Casa della Carità di tre famiglie rom che da poco hanno lasciato la struttura di via Brambilla, Elisabetta Rossi risponde così, citando una cucina arancione. «Quella è piaciuta in modo particolare, ma mogli e mariti erano entusiasti di tutti i mobili che siamo riusciti a recuperare di se-

conda mano. Erano molto orgogliosi di avere finalmente un’abitazione tutta loro e un arredamento di qualità». Una casa tutta nuova Molti pensano che i rom non vogliano abitare in case “normali”. Le famiglie di Costantin, Ovidiu e Darius invece sono molto contente dei loro nuovi appartamenti, presi in affitto in tre paesi di campagna, a una cinquantina di chilometri da Milano. «Hanno scelto quella zona perché è lì che i tre padri hanno un lavoro come magazzinieri: hanno trovato un’occupazione grazie a delle borse lavoro poi trasformatesi in contratti a tempo

Molti pensano che i rom non vogliano abitare in case “normali”. Le famiglie di Costantin, Ovidiu e Darius invece sono molto contente dei loro nuovi appartamenti

determinato e, infine, indeterminato», spiega Elisabetta che ha seguito tutto il percorso come educatrice. «I tre nuclei – continua – sono arrivati alla Casa nell’agosto del 2014 dal Ces (cento di emergenza sociale) di via Lombroso: erano giunti dalla Romania a Milano diversi anni prima e si erano sistemati in un campo irregolare, poi sgomberato. Con loro, abbiamo fatto un lavoro incentrato sul risparmio e sulla ricerca di un’abitazione, tutto basato su una relazione di fiducia». Di concerto, si è trattato di chiamare le agenzie immobiliari, di andare a vedere gli appartamenti disponibili, di pensare all’inserimento dei figli nelle nuove scuole. Tanto lavoro da fare «In molti casi, quando le donne chiamavano per cercare casa non ce n’era nessuna a disposizione. Quando telefonavo io alla stessa agenzia, invece, tutto cambiava – confessa Elisabetta –. C’è ancora molta diffidenza nei confronti dei cittadini stranieri. Le famiglie però si sono davvero impegnate e hanno avuto consigli e aiuto anche dai colleghi dei mariti, oltre che da me e dai colleghi Marco e Donatella. Quello dell’uscita da un luogo “protetto” è un passaggio cruciale e delicato: se non si fanno passi cauti e misurati, c’è il rischio che tutto il gran lavoro dei mesi precedenti vada sprecato».

Infine, nel periodo delle feste, è arrivato il momento dei saluti e dei traslochi. «Inizialmente, quando si parlava di dimissioni le famiglie mi dicevano: “Ma ci volete mandare via?!?”. Staccarsi da un luogo come la Casa della Carità è sempre difficile per chi ha ancora delle fragilità, ma le abbiamo rassicurate, abbiamo spiegato loro che ci saremmo stati anche in futuro e le abbiamo fatte riflettere sui vantaggi dell’autonomia e dell’indipendenza. Sono partite contente». febbraio 2016 Scarp de’ tenis

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CALEIDOSCOPIO

Ero, sono, sarò Per la gente sono quel che ero. Per me sarò. Io cambierò, non sarò perdente a vita. Riscatterò l’amore. Avrò la luna come amica, il sole come complice nel lottare, le stelle come armi da lanciare. Riderò in faccia a chi mi farà del male. E con l’aiuto di DIO farò del mio dolore, gioia ed esperienza. Riuscirò a planare su pianeti nuovi, per piantare fiori. Non mi fermerò, questa volta davanti a voi. Non avrete l’occasione di bloccarmi, per non farmi andare avanti. Ingiusti del mondo, io non sono morto, le mie ferite si saneranno. E nei vostri occhi io saprò guardare, e dentro i vostri cuori il mio rancore sarà sale. Sarò l’angelo dalla spada pesante. Per voi, sono quel che ero. Per me sarò. Fabio Schioppa

Colori Sole giallo, riscalda il mio cuore che, a volte, diventa freddo per mal d’amore che mette il grigio nel mio cuore. Il mare verde, con le onde che mi avvolgono, penso al giardino di casa mia. Il cielo azzurrino il mare blu, penso all’estate che deve arrivare adesso che è passato Natale. Monica Esposito

Artisti senza dimora in mostra, la sfida del centro Artificio di Como di Salvatore Couchoud

I dipinti, i disegni e le composizioni di altro tipo, dall’intaglio del legno ai collage, eseguiti nel semestre artistico del centro diurno nell’ambito del laboratorio sperimentale curato dall’architetto Doriam Battaglia, sono finiti in mostra nei locali del chiostrino di Sant’Eufemia, sede del centro culturale Artificio. Con la partecipazione di un vasto pubblico che ha dimostrato di apprezzare, e non poco, le opere esposte. «L’idea di affiancare il centro diurno per avviare un progetto di “riunificazione” solidale tra la parte normale e quella marginale della città ha non solo procurato esiti più che soddisfacenti sotto il profilo della sperimentazione artistica – spiega l’architetto Doriam Battaglia – ma ha rappresentato un arricchimento dal punto di vista dei rapporti interpersonali, proprio a cominciare dal sottoscritto, perché con queste persone si entra in sintonia diretta, senza l’interposizione di schermi o filtri usati nel-

Dio o chi? Dio o chi intercede per lui non ha qualche rimedio affinché non ci sia più odio in codesto universo che si è molto (dis)perso e non si trova nessun verso o rima a farlo ritornar come (era?) prima? Lodatemi, inveite, o criticatemi quanto vi par vi ho creato a mia immagine e assomiglianza dato il libero arbitrio. Sicché se la gente non vale nulla non ne ha mai abbastanza ed è fasulla che ci posso far? Se vuoi ti cedo il mio posto, non ha nessun costo e vediam se sei più buono di me. Giovanni Ricciardi

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le comunicazioni “ordinarie”. Con, in più, la piacevole sorpresa che questi soggetti non intendono apparire più di quello che sono, contrariamente a quanto avviene nelle relazioni che si coltivano nella vita di tutti i giorni. Una lezione per tutti noi, e insieme l’occasione per trasferire su tela il cuore vivo e pulsante degli homeless, lasciando loro la libertà di cui avevano bisogno senza cercare di modificare le idee e le aspirazioni di cui si sono resi portatori». Tra le opere in mostra, hanno riscosso un elevato indice di gradimento le tele di Gebregzubhur Kybron, di Samuel Keita e di Emanuele Mazzetto, ma molto belle sono apparse anche le opere del senza dimora ecuadoregno Jorge Valencia, meglio noto in città come “Clandestino”, nomignolo che si è autoimposto per rimarcare polemicamente il carattere innaturale e “inumano” della propria condizione di extracomunitario emarginato. «I risultati sono ancor più degni di rilievo se si pensa che alcuni dei senza dimora non avevano mai impugnato in precedenza matite o pennelli – conclude Doriam Battaglia – e in qualche caso è stato difficile capire dove cominci l’arte e finisca la strada o viceversa».

Tempesta La città si fa buia, il mare schiaffeggia la scogliera la pioggia sulla riviera sa di sale il mare vuole raggiungere l’asfalto. La nave fischia, avverte l’altra che salpa, va nei mari lontani dove i gabbiani non mangiano spazzatura. Là, lontano, dove la gente crede ancora che l’anima sorride. Domenico Capuozzo


SCIENZE

L’uso indiscriminato di antibiotici sta facendo aumentare il numero di batteri resistenti ai normali farmaci

Usiamo troppi antibiotici a rischio di super batteri di Federico Baglioni

scheda Federico Baglioni Biotecnologo, divulgatore e animatore scientifico, scrive sia su testate di settore (Le Scienze, Oggi Scienza), che su quelle generaliste (Today, Wired, Il Fatto Quotidiano). Ha fatto parte del programma RAI Nautilus ed è coordinatore nazionale del movimento culturale “Italia Unita Per La Scienza”, con il quale organizza eventi contro la disinformazione scientifica.

Quasi tutti li abbiamo a casa, ma raramente sappiamo come funzionano davvero. Stiamo parlando degli antibiotici, farmaci che hanno rivoluzionato (e migliorato) la nostra salute, ma che se usati male rischiano di diventare del tutto inutili. Da un’analisi condotta dell’Oms (l’Organizzazione mondiale della sanità, agenzia speciale dell’Onu), infatti, è emerso che quasi 7 persone su 10 usano gli antibiotici in maniera non corretta o quando non andrebbero usati. Vediamo quali sono gli errori da evitare. L’errore più comune che viene commesso è legato alla convinzione che una volta che si sta “bene”, si possa tranquillamente sospendere l’assunzione dell’antibiotico. Potrebbe sembrare sensato non esagerare con i farmaci, eppure

questa condotta è molto pericolosa: anche se non ce ne accorgiamo, infatti, l’infezione potrebbe non essere guarita del tutto. In questo caso i batteri che sono sopravvissuti alla “guerra” tendono a “organizzarsi” e diventare sempre più resistenti agli antibiotici. In altre parole l’antibiotico rischia di diventare sempre meno efficace.

Questo è il grave fenomeno della “resistenza degli antibiotici”, che si sta diffondendo sempre di più almeno nei Paesi occidentali:

resistere all’azione degli antibiotici stessi, senza venire più uccisi. Resistenza agli antibiotici Giusto, parliamo di batteri. Gli antibiotici servono per contrastare i batteri, mentre non vanno presi per infiammazioni alla gola o l’influenza, che sono causati da virus. E comunque gli antibiotici vanno assunti solo quando servono veramente, con prescrizione medica, senza tentativi di automedicazione. Si rischia di non guarire e compromettere le nostre difese (e i nostri antibiotici). In Italia la presenza percentuale di batteri resistenti agli antibiotici continua ad aumentare ponendo il nostro Paese ai primi posti nell’Unione Europea per questo poco invidiabile fenomeno: in occasione del World antibiotic Awareness Week, un’iniziativa globale per migliorare la comprensione del problema e cambiare il modo in cui vengono utilizzati gli antibiotici, sono stati diffusi i dati per il 2015 dall’European Center for Diseases Control (Ecdc) che pone l’Italia nella parti alte di questa speciale classifica. In altre parole bisogna sempre ricordare che gli antibiotici vanno assunti su prescrizione del medico, solo per infezioni batteriche e fino al termine della prescrizione, anche se ci sentiamo meglio. Un comportamento fondamentale se vogliamo che anche in futuro gli antibiotici possano funzionare e guarirci.

gli antibiotici diventano sempre meno efficaci, ma non per una “strana” reazione del nostro corpo (come in molti credono) o perché “non funzionano più” o perchè Big Pharma vuole farcene comprare di nuovi e più costosi, bensì perché un utilizzo scorretto, come quello citato sopra, permette ai batteri di febbraio 2016 Scarp de’ tenis

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Le persone in stato di difficoltà a cui Scarp de’ tenis ha dato lavoro nel 2014 (venditori-disegnatori-collaboratori). In 20 anni di storia ha aiutato oltre 800 persone a ritrovare la propria dignità

IL VENDITORE DEL MESE

Vincenzo con il penultimo numero di Scarp. Grazie alle vendite può pagare le spese di affitto e vivere una vita più che dignitosa

Vincenzo In strada per amore: «Scarp mi ha ridato la dignità» di Ettore Sutti

info Sono 115 le parrocchie della città di Milano e oltre 400 nella diocesi ambrosiana raggiunte ad oggi da Scarp. La rivista vende circa 6 mila copie al mese, toccando 50 parrocchie ad uscita. I venditori impegnati sono attualmente 46.

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MILANO

Vincenzo ha quarant’anni, il sorriso gentile e un vezzoso paio di occhiali dalla montatura bianca. Quando ti parla tiene lo sguardo un po’ basso, come se non volesse disturbare con la sua presenza. Vincenzo è originario di Andria, in Puglia, ma dieci anni fa si è trasferito a Milano per cercare un lavoro. E, visto che la voglia di fare non gli manca, il lavoro lo ha trovato subito. «Ho trovato posto in una cooperativa di lavoro – racconta Vincenzo –. Facevo il mulettista in una ditta a Rogoredo. Il lavoro mi piaceva e non guadagnavo male. Mi sono trovato un appartamento e vivevo la mia vita tranquilla. Ma poi mi sono innamorato». Eh sì, perché Vincenzo conosce una ragazza ucraina, «persona seria –dice –fa l’infermiera» e si fidanza. Per i primi anni tutto bene poi le diversità di cultura iniziano a farsi sentire. «Avevamo una mentalità troppo diversa –racconta –e, alla fine, le cose che ci dividevano erano più di quelle che ci facevano stare insieme». La storia finisce e Vincenzo

cade in depressione. «Èstato un periodo molto buio della mia vita – dice –non avevo la forza di alzarmi dal letto. Il mio capo mi ha offerto un posto di lavoro a Lodi, per cambiare aria, con tanto di appartamento. Ma stupidamente non ho accettato. Da lì è iniziato il declino». Senza lavoro Vincenzo non ha più i soldi per pagare l’affitto e viene sfrattato. Finisce in strada. «Ho trovato subito posto in dormitorio – dice – e ci sono rimasto per due mesi. Un giorno al Sam (Servizio di Caritas Ambrosiana) mi hanno proposto di provare a lavorare per Scarp de’ tenis. Intanto mi avevano assegnato una casa popolare ed ero alla ricerca di un lavoro per pagare le spese e l’affitto. A Scarp ho trovato un ambiente bellissimo: vado a vendere la rivista e, vista la mia esperienza in cooperative di facchinaggio, aiuto anche nei traslochi. Con quello che guadagno copro le spese di casa e vivo dignitosamente. Finalmente mi sento una persona come gli altri». Vicenzo ha un sogno: «Ad Andria ho dei fratelli. Mi piacerebbe tornare a vivere laggiù. Vicino alla famiglia. Ho anche uno zio a Los Angeles. Chissà se un giorno...».




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