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Dylan Dog è un personaggio creato da Tiziano Sclavi © 2016 Sergio Bonelli Editore Disegno di Gigi Cavenago - Spedizione in abbonamento postale 45% articolo 2, comma 20/B, legge 662/96, Milano

L’INTERVISTA

COLLOQUIO CON ANGELO SCOLA, ARCIVESCOVO DI MILANO

la le del i s n e Il m

strada

www.scarpdetenis.it aprile 2016 anno 21 numero 200

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ALL’INTERNO DUECENTO COPERTINE, LE GRANDI FIRME, IL RICORDO DI CHI C’ERA

L’INSERTO VITTIMA DELLA SVALUTAZIONE LA STORIA INEDITA DI DON CAMILLO A FUMETTI

e le facce da Scarp

DIECI VOLTI, DIECI STORIE: VENT’ANNI DI GIORNALISMO DI STRADA



EDITORIALE

Duecento volte Scarp Uno scrigno di belle storie

LA PROVOCAZIONE

Vent’anni sulla strada. Con il coraggio di raccontare il vero di Luciano Gualzetti direttore Caritas Ambrosiana presidente Cooperativa Oltre

di Stefano Lampertico [

@stefanolamp ]

L’editoriale del nostro primo numero non era firmato. So chi lo scrisse, perché c’ero già allora. Era il marzo del 1996. E la penna di quell’editoriale non firmato era di Paolo Lambruschi, che da qualche mese è tornato su queste pagine con la sua rubrica fissa (In)visibili. In quell’editoriale non firmato c’era scolpita a chiare lettera la linea editoriale di Scarp. «Ci piace pensare che la strada sia un luogo da abitare e non da abbandonare. Vogliamo che questo giornale sia un mezzo per conoscerla dalla parte di chi ci vive e ci cammina. Anche in scarpe da tennis».

Così, duecento numeri fa. E oggi, duecento numeri dopo, siamo ancora lì. Con le stesse scarpe da tennis. E semplicemente per raccontare storie. Perché questo è lo spirito di Scarp, simile, in molti casi identico, allo spirito dei giornali di strada sparsi in tutto il mondo. Sono passati vent’anni. Sono passate tante persone. Nella memoria tante “facce da Scarp”. Abbiamo voluto riservare uno spazio ampio di questo numero spe-

ciale del giornale a un servizio particolare. Che parte proprio dai volti per raccontare esperienze che ci piacciono. Che sono nostre. Che sono – per usare un termine forte – profetiche. E la faccia da Scarp in copertina non poteva che essere quella di Dylan Dog, il personaggio dei fumetti molto popolare, che ci accompagna sempre (grazie agli amici di Sergio Bonelli Editore) in questi numeri per noi speciali.

La strada come luogo da abitare e non da abbandonare. Un giornale come mezzo Questo numero è davve- per conoscerla ro uno scrigno di belle sto- dalla parte rie. E di belle parole, come quelle di chi vive che ci ha detto il Cardinale Scola nell’intervista esclusiva che pub- e ci cammina

blichiamo. Come la storia inedita di don Camillo a fumetti che trovate nell’inserto centrale del giornale (grazie in questo caso agli amici di ReNoir editori della collana di don Camillo a fumetti). Come il racconto di Nando Vitali, l’ultimo della nostra serie sui dieci comandamenti. Un grazie speciale, in questa occasione particolare, lo dobbiamo soprattuto alla Caritas, che sostiene da vent’anni il progetto sociale e editoriale di Scarp. Con questo numero ci saluta don Roberto Davanzo, che ha da poco lasciato la direzione di Caritas Ambrosiana. Il suo saluto in fondo al giornale. A lui il nostro grazie, di cuore!

contatti Per commenti, idee, opinioni e proposte: mail scarp@coopoltre.it facebook scarp de tenis twitter @scarpdetenis instagram scarpdetenis www.scarpdetenis.it

Vent’anni sulla strada, al fianco degli gli ultimi della fila. Un traguardo importante che segna un’esperienza forte, radicata, carica di grande significato. In una stagione, come quella che stiamo vivendo, segnata da crisi profonde e da migrazioni epocali, proporre ogni mese Scarp de’ tenis ai nostri lettori significa avere coraggio. Il coraggio che spesso manca ai media tradizionali, il coraggio di raccontare storie di umanità e di dignità che ci colpiscono spesso come un pugno nello stomaco. Sono le storie e le facce di Scarp. Le storie che raccontano un mondo che ha scelto di correre alla velocità della luce, e che ha lasciato indietro chi quel ritmo non riusciva e non poteva tenerlo. Sono le storie di chi ce l’ha fatta, quelle che ci piace raccontare. Storie di dignità, ricche di espressioni vere. E sono anche le storie, purtroppo e sempre più spesso, di chi nel tempo si è perduto. Spesso in maniera incolpevole. Duecento numeri raccontano anche del coraggio - e Caritas in questo ha giocato un ruolo di primo piano di creare occasioni di reddito e lavoro per quelle persone che, ai margini, dal sistema del reddito sono state espulse. È questo il grande valore di Scarp de’ tenis. Il valore di saper coniugare un’informazione di qualità, alternativa e scomoda, con la creazione di opportunità reali di lavoro. Questa è la via maestra da seguire. Una via segnata dalle storie dei nostri venditori, dalle storie di chi il giornale lo fa e soprattutto dai lettori che ogni mese scelgono Scarp. C’è ancora tanto da fare. Sempre meglio. Certo, sottovoce, ci piace poter dire che, grazie a Scarp de’ tenis, qualcuno, la strada, l’ha lasciata davvero. E per sempre. aprile 2016 Scarp de’ tenis

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SOMMARIO

Il Dylan Dog di Gigi Cavenago è la faccia da Scarp del numero duecento La duecentesima volta di Scarp non poteva che essere speciale. Un numero ricco, diverso dagli altri e - come vuole la tradizione - con Dylan Dog in copertina. Come sul numero 2, sul numero 100 e sul 150. E per questa edizione speciale non poteva non esserci una firma spe-

ciale: quella di Gigi Cavenago, vincitore nel 2014 del premio Gran Guinigi a Lucca Comics, come miglior disegnatore. L’Oscar del fumetto, per intendersi. Grazie infinite allora agli amici di Sergio Bonelli Editore, nostri amici da tanto tempo e sempre molto disponibili con il giornale. Scarp e i fumetti. Non solo Dylan Dog, per questo numero duecento. All’interno del giornale trovate anche un’altra anteprima mondiale. L’episodio inedito di Don Camillo a fumetti dal titolo Vittima della svalutazione. Per Scarp de’ tenis

in una veste speciale, tutto a colori. Una chicca insomma per gli appassionati delle storie di Don Camillo e per gli amanti del fumetto. Anche in questo caso dobbiamo dire grazie. Alla casa editrice ReNoir, che pubblica la serie Don Camillo a fumetti, a Davide Barzi che ha sceneggiato la storia, ad Alberto Locatelli che l’ha disegnata e colorata. Insomma, un numero speciale da collezione. Ricco di contenuti, ricco di storie. Come nella tradizione di Scarp.

Dylan Dog è un personaggio creato da Tiziano Sclavi © 2016 Sergio Bonelli Editore - Disegno di Gigi Cavenago

Chissà perché, che io m’ero illusa che mi volesse parlare d’amor! mi mandò insieme i miei bei capelli. Mi disse: “...un bacio; un

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rubriche

servizi

PAG.6 LA FOTO di Roberto Monevi PAG.11 (IN)VISIBILI di Paolo Lambruschi PAG.13 IL TAGLIO di Piero Colaprico PAG.15 PIANI BASSI di Paolo Brivio PAG.16 LE STORIE DI MURA di Gianni Mura PAG.19 PENNE PER SCARP di Nando Vitali PAG.24 LE DRITTE di Yamada PAG.25 VISIONI di Sandro Paté PAG.66 IL SALUTO di don Roberto Davanzo PAG.66 INTERVENTO di don Francesco Soddu

PAG.8 ESCLUSIVA Il Cardinale Scola: «Ora si vari un piano Marshall per i migranti» PAG.26 COPERTINA Facce da Scarp PAG.28 FACCE/1 Frère Jean Pierre Eredità vivente degli uomini di Dio di Tibhirine PAG.30 FACCE/2 Antonio e Scarp «La mia vita per il giornale e i suoi venditori» PAG.32 FACCE/3 Heiner Oberrauch «Il lavoro? Un circolo virtuoso di responsabilità» PAG.34 INSERTO Don Camillo a fumetti PAG.36 FACCE/4 Giovanni Tizian «Sotto scorta per troppo amore della verità» PAG.38 FACCE/5 Don Maurizio Patriciello «Qui moriamo per colpe non nostre» PAG.40 FACCE/6 Riad Da rifugiato a operatore sociale: «Bello aiutare» PAG.42 FACCE/7 Fight the stroke Mario, nato con l’ictus, ora sa camminare PAG.44 FACCE/8 Giana «Milano è casa mia. Non ho più paura» PAG.46 FACCE/9 Tukiki Federica e Camilla, mister in gonnella PAG.48 FACCE/10 Pao Dalla strada alla galleria con un approccio fresco PAG.56 VENTUNO Addio al Pil. Nuovi indicatori per misurare la ricchezza PAG.61 CALEIDOSCOPIO Incontri, laboratori, autobiografie PAG.64 LE REDAZIONI Sguardo sull’Italia in scarpe da tennis

Scarp de’ tenis Redazione di strada e giornalistica via degli Olivetani 3, 20123 Milano tel. 02.67.47.90.17 fax 02.67.38.91.12 scarp@coopoltre.it

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Scarp de’ tenis aprile 2016

Direttore responsabile Stefano Lampertico Redazione Ettore Sutti, Francesco Chiavarini, Paolo Brivio

Segretaria di redazione Sabrina Montanarella Responsabile commerciale Max Montecorboli

Redazione di strada Roberto Guaglianone, Antonio Mininni, Lorenzo De Angelis, Alessandro Pezzoni

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Foto S. Merlini, Insp, R. Siciliani, A. Ruggeri, M.Montecorboli, B. Rotival, T. Brunner Disegni S.Gerasi, G.Florio, L. Usai, L.Mazzetti, G.Pezzato, F. Rosa, G. Zecca


da

lla stra sile de

Il men

aforisma di Merafina Tutto Tutto quello che fanno gli uomini una donna lo può fare meglio Il tweet di Aurelio [Il bonazza

@aure1970 ]

Il medico di base che cura gratis i clandestini: «Me lo impone la mia coscienza» (Il Secolo XIX)

Cos’è

e persone speciali non sono quelle che fanno un lavoro prestigioso. Sono quelle che fanno bene il mestiere di Essere Umano.

r! Va via la luna, van via le stelle; n bacio solo, perché domani mi tocca partir!” Chissà se è vero - tributo a Enzo Jannacci

Scarp de’ tenis è un giornale di strada noprofit nato da un’idea di Pietro Greppi e da un paio di scarpe. È un’impresa sociale che dà voce e opportunità di reinserimento a persone senza dimora o emarginate. È un’occasione di lavoro e un progetto di comunicazione.

Dove vanno i vostri 3,50 euro Vendere il giornale significa lavorare, non fare accattonaggio. Il venditore trattiene una quota sul prezzo di copertina. Contributi e ritenute fiscali li prende in carico l’editore. Quanto resta è destinato a progetti di solidarietà.

Per contattarci

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fonte - elaborazone Scarp - dati Ubs su salari e costo della vita

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16 Progetto grafico Francesco Camagna Sito web Roberto Monevi Editore Oltre Soc. Coop. via S. Bernardino 4, 20122 Milano Presidente Luciano Gualzetti

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LA LISTA Minuti di lavoro per comprare un Kg di pane 1 2 3 7 8 10 19 30 34 41 45 62 66 70 72

Ginevra /Svizzera Manama /Bahrein Nicosia/Cipro Londra/Inghilterra Amsterdam/Olanda Berlino Roma/Italia New York/Stati Uniti Madrid/Spagna Tokyo/Giappone Milano/Italia Mumbai/India Nairobi/Kenya Buenos Aires/Argentina Manila/Filippine

Registrazione Tribunale di Milano n. 177 del 16 marzo 1996 Stampa Elcograf Spa Verona

5 minuti 5 minuti 5 minuti 6 minuti 7 minuti 9 minuti 10 minuti 12 minuti 13 minuti 14 minuti 16 minuti 27 minuti 44 minuti 57 minuti 83 minuti

Direzione e redazione centrale - Milano Cooperativa Oltre, via degli Olivetani 3 tel. 02.67479017 scarp@coopoltre.it Redazione Torino Casamangrovia, corso Novara 77, tel. 011.2475608 scarptorino@gmail.com Redazione Genova Fondazione Auxilium, via Bozzano 12 tel. 010.5299528/544 comunicazione@fondazioneauxilium.it Redazione Verona Il Samaritano, via dell’Artigianato 21 tel. 045.8250384 segreteria@ilsamaritanovr.it Redazione Vicenza Caritas Vicenza, Contrà Torretti 38 tel. 0444.304986 scarp@caritas.vicenza.it Redazione Venezia Caritas Venezia, Santa Croce 495/a tel. 041.5289888 info@caritasveneziana.it Redazione Rimini Settimanale Il Ponte, via Cairoli 69 tel 0541.780666 rimini@scarpdetenis.net Redazione Firenze Il Samaritano, via Baracca 150/e tel. 055.3438680 samaritano@caritasfirenze.it Redazione Napoli Cooperativa sociale La Locomotiva via Pietro Trinchera 7 scarp@lalocomotivaonlus.org Redazione Sud Caritas diocesana, Salita Corpo di Cristo, Teggiano (Sa) tel.0975 79578 info@caritasteggianopolicastro.it

Consentita la riproduzione di testi, foto e grafici citando la fonte e inviandoci copia. Questo numero è in vendita dal 3 aprile 2016 al 30 aprile 2016

www.insp.ngo aprile 2016 Scarp de’ tenis

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Scarp de’ tenis aprile 2016


LE COPERTINE

immagine: Roberto Monevi

scheda

La rielaborazione grafica di Roberto Monevi fissa in una pagina le duecento copertine di Scarp de’ tenis. Ci sono tutte. Nei diversi formati e con le testate che nel tempo sono andate modificandosi. Con un tratto distintivo. La scarpa da tennis, nelle diverse forme, ha sempre segnato le nostre cover

Quasi fosse un gioco. Riuscite a riconoscere la vostra copertina di Scarp preferita? Quella che più vi ha colpito? Riuscite a trovare la copertina del primo numero o quelle con Dylan Dog come protagonista? C’è tutta la nostra storia in questa rielaborazione grafica. Ci sono vent’anni di Scarp de’ tenis. Ci sono le prime storiche in bianco e nero del 1996, fino ad arrivare alle ultime rinnovate nella grafica. Un colpo d’occhio che genera ricordi e pensieri aprile 2016 Scarp de’ tenis

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Giornalisti e venditori di Scarp de’ tenis con il Cardinale Angelo Scola

Il Cardinale Scola: « Si vari presto un piano Marshall per l’immigrazione »

Sei grandi temi. Sei domande. Sei riflessioni profonde. L’intervista al Cardinale Scola, per Scarp, ha un significato particolare. Non solo perché il nostro giornale ha il suo cuore nella chiesa ambrosiana, ma soprattutto perché Milano, in questi anni che coincidono con l’episcopato di Angelo Scola, è stata messa a dura prova sul piano dell’accoglienza, sul piano del sostegno alle famiglie segnate dalla crisi, sul piano dell’integrazione. E le parole del Cardinale, su questi temi, non sono mai mancate.

di Stefano Lampertico

Intervista esclusiva di Scarp de’ tenis all’Arcivescovo di Milano. I ricordi da bambino, la riflessione su Milano città che accoglie, il richiamo alle parole di Papa Francesco 8

Scarp de’ tenis aprile 2016

La strada in cui sono cresciuto Cardinale Scola, le interviste di Scarp de’ tenis e dei giornali di strada di tutto il mondo, iniziano sempre


con questa domanda particolare. Cosa ricorda della strada e del quartiere in cui è cresciuto? Che immagini le vengono in mente pensando alle strade della sua infanzia? Malgrate, dove sono nato e cresciuto, è un paese. Certo, alle porte di una città, Lecco, che negli anni ’40-50 della mia infanzia era uno dei poli più significativi del mondo industriale italiano; ma posso dire che, soprattutto in quegli anni, Malgrate abbia mantenuto la genuina fisionomia di paese. Ci si conosceva tutti e il senso di appartenenza e di condivisione erano molto forti. Penso alle strade della mia infanzia come allo spazio della vita, del gioco, dell’incontro e dell’amicizia. In una parola della libertà. Da bambini, nella bella stagione, si viveva in strada dalla mattina alla sera, con un veloce rientro a casa per il pranzo. Di quegli anni non ho ricordo né di pericoli, né di particolari situazioni di emarginazione. C’erano certo, anche allora, alcuni mendicanti o persone senza fissa dimora, ma in qualche modo anche loro erano integrati nella vita del paese. Tra noi ragazzi e loro non c’era diffidenza o paura, ma una specie di reciproca simpatia. Milano città che accoglie Lo scorso anno Milano ha vissuto sulla propria pelle il significato dell’accoglienza, in due diverse e contrastanti sfaccettature. I milioni di visitatori di Expo da una parte, le migliaia di rifugiati e di migranti dall’altra. In entrambi i casi la Chiesa, ambrosiana in par-

Expo e l’arrivo dei migranti hanno messo alla prova la capacità di accoglienza e di integrazione che Milano ha da sempre nel proprio Dna. Una vocazione inscritta nel nome stesso della nostra città, che significa con molta probabilità “terra di mezzo” ticolare, ha giocato un ruolo da protagonista. Le due circostanze citate, quella eccezionale di Expo e quella che sta diventando sempre più strutturale dell’arrivo tra noi di migliaia di rifugiati e di migranti, hanno messo alla prova la capacità di accoglienza e di integrazione che Milano ha da sempre nel proprio Dna. Questa vocazione è inscritta nel nome stesso della nostra città, che significa con molta probabilità “terra di mezzo”. Fin dalle sue origini romane infatti Milano è stata terra di incontro tra popoli e culture diverse, chiamata a rimettere in discussione continuamente le proprie sicurezze, a reinventare creativamente il volto della convivenza sociale e del lavoro per far spazio ai nuovi arrivati. Riguardo ai rifugiati e ai migranti la sfida è aperta e perdura, ma mi pare che ci siano segnali positivi. Milano e tutto il Paese devono premere sulle istituzioni europee ed internazionali perché varino una sorta di “Piano Marshall” per l’immigrazione. L’integrazione complessa In questa nostra epoca di grandi migrazioni, che pa-

ESCLUSIVA

Il Cardinale Scola con la famiglia Hamdawi, profughi palestinesi fuggiti dall’Iraq

scheda Il Cardinale Angelo Scola, Arcivescovo di Milano, è nato a Malgrate, in provincia di Lecco, il 7 novembre 1941. È il minore di due figli (il fratello Pietro è morto nel 1983). Dottore in Filosofia e in Teologia. È stato ordinato sacerdote il 18 luglio 1970 nella diocesi di Teramo. Ha conseguito il dottorato in Teologia a Friburgo (Svizzera). Negli stessi anni e fino alla sua nomina episcopale è stato tra i responsabili di Comunione e Liberazione. Ha collaborato alla fondazione della Rivista Internazionale Communio. Eletto Vescovo di Grosseto il 20 luglio 1991, ha ricevuto l'ordinazione episcopale il 21 settembre 1991 dal cardinale Bernardin Gantin. Ha svolto il suo ministero pastorale a Grosseto dal settembre 1991 al settembre 1995. Il 5 gennaio 2002 è stato nominato Patriarca di Venezia. Viene creato Cardinale del Titolo dei SS. Apostoli da Giovanni Paolo II nel Concistoro del 21 ottobre 2003. Il 28 giugno 2011 viene nominato da Papa Benedetto XVI Arcivescovo Metropolita di Milano.

re aver colto impreparata anche l’Europa, qual è il significato vero dell’integrazione? E come invece respingere il sentimento di paura che pare affermarsi con forza? I cristiani di fronte al fenomeno non potranno mai rinunciare al compito del “Buon Samaritano” che accoglie, prende in carico e cura; ma il compito di favorire l’integrazione non può che essere condiviso da tutti, Chiesa, Stato, società civile, rispettando i diversi ruoli di ognuno. Fin dalle origini la comunità cristiana è stata una potente scuola di unità e di integrazione. «Non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è più uomo né donna» – scrive San Paolo – «ma tutti voi siete uno in Cristo Gesù». Non ci sarà però vera integrazione senza educazione dei giovani, senza che noi adulti ci assumiamo la responsabilità di pro-

aprile 2016 Scarp de’ tenis

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ESCLUSIVA porre loro un senso – cioè un significato e una direzione di cammino – per la vita, anche in questa situazione così complessa e frammentata, così carica di cambiamenti, di cui non si vede la fine. La paura, comprensibile in questo contesto, è però sempre una cattiva consigliera. La si può vincere – come ci ha detto il Card. Vingt-Trois, arcivescovo di Parigi, dopo i ripetuti attacchi che hanno messo in ginocchio la città – riprendendo con umiltà, ma anche con decisione, la domanda inevitabile: Crediamo o no che Dio è in mezzo a noi? Questo fa la differenza. I giornali di strada e il racconto della vita buona Scarp de’ tenis, da più di vent’anni e in duecento numeri, ha raccontato, anche in chiave autobiografica, centinaia di storie di dignità. Recentemente anche Lei ha proposto, ai credenti ma non solo, i Dialoghi di vita buona. Che senso e che valore ha oggi questo timbro di narrazione? Il senso di una salutare ed irrinunciabile pro-vocazione. L’altro, qualunque volto abbia, anche il più diverso o lontano da me, è sempre un bene. Mi è dato dal Padre a cui entrambi apparteniamo. Siamo un’unica famiglia umana. Ci possono dividere storia, lingua, cultura, religione, condizione sociale ma tutti accomunati dalla stessa umanità. Ci unisce il bene pratico, tanto prezioso quanto troppo spesso trascurato, dell’essere qui ed ora insieme. Per questo occorre narrarsi instancabilmente per cono-

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Siamo un’unica famiglia umana. Ci possono dividere storia, lingua, cultura, religione, condizione sociale ma siamo tutti accomunati dalla stessa umanità. Ci unisce il bene pratico, tanto prezioso quanto trascurato

creatività solidale della carità a partire dagli ultimi (la vostra ne è una bella testimonianza) che, grazie a Dio, nella nostra realtà ambrosiana non manca. Un esempio per tutti: il Fondo Famiglia lavoro, giunto ormai al suo nono anno di vita, entra ora nella sua Terza Fase che si concentrerà sulla ricerca di lavoro. Certo c’è ancora moltissimo da fare. Ogni soggetto deve fare la sua parte: non solo la comunità cristiana e i corpi intermedi, di cui la nostra società italiana è ancora molto ricca; ma anche le Istituzioni con leggi tese a superare l’iniquità attraverso una più giusta ripartizione del reddito. In particolare ci vuole più coraggio nel regolare il mondo della finanza. La Chiesa di Francesco In una recente intervista rilasciata ai giornali di strada e pubblicata anche da Scarp de’ tenis, Papa Francesco ha detto: “Un credente non può parlare della povertà o dei senzatetto e poi vivere da faraone”. È d’accordo? Come si raccoglie la sfida della sobrietà e dei nuovi stili di vita? Il forte richiamo di Papa Francesco alla coerenza tra la fede e la

scersi, anzitutto, per imparare gli uni dagli altri e costruire amicizia civica, nel rispetto reciproco, e nella libertà. I Dialoghi di vita buona vorrebbero aprire strade per aiutare e favorire questo. La crisi e le famiglie Con Scarp de’ tenis abbiamo creato in questi vent’anni occasioni di reddito e di riscatto per molte persone fragili, spesso escluse, ai margini, lasciate sole. Ma c’è luce in fondo al tunnel della crisi che ha colpito le nostre famiglie? Ci sono piccoli segnali positivi in questo senso, rafforzati dalla

Il Papa ci ricorda spesso che occorre guardare il centro dalla periferia. Lo sguardo periferico evidenzia i limiti del sistema economico dominante e lo costringe a ri-dimensionarsi

vita mi trova pienamente d’accordo. Come potrebbe essere altrimenti? Questo, ovviamente, al netto di ogni strumentalizzazione ideologica e senza ledere il dono inestimabile della libertà; per salvarlo Gesù è andato in croce. Il Papa ci ricorda spesso che occorre guardare il centro dalla periferia. Mi sembra un’indicazione molto preziosa. Il confronto sempre più ravvicinato con le periferie che vivono tra noi mi sembra la strada per raccogliere la sfida della sobrietà e dei nuovi stili di vita. Lo sguardo periferico evidenzia i gravi limiti del sistema economico dominante e lo “costringe” a ri-dimensionarsi. Ma il cambiamento – e la Quaresima è il tempo favorevole per la conversione – non nasce tanto da progetti fatti a tavolino, bensì dal lasciarsi mettere in discussione dalla presenza dell’altro e dal fargli spazio. Si cambia anzitutto se io cambio e cambio fin da ora.


(IN)VISIBILI

Vent’anni di battaglie per i diritti degli ultimi

di Paolo Lambruschi

Vent’anni di battaglie da non dimenticare. Ne ha combattute tante questo giornale, sempre dalla parte degli ultimi, degli invisibili, del popolo della strada. Chiamateli come volete, purché non li chiamiate barboni. Quando abbiamo iniziato il lungo cammino, sembrava scontato che chi stava sugli ultimi gradini della scala sociale venisse apostrofato dai giornalisti con un vocabolo che solo Enzo Jannacci ha usato in modo affettuoso. Ma quella era discriminazione belle e buona. Oggi qualche passo in più è stato fatto, almeno c’è una sensibilità più diffusa. Si nota anche nel comportamento dei politici. Due decenni

fa – le stagioni non erano ancora impazzite – ogni inverno arrivava “l’emergenza freddo” che mieteva vittime tra chi dormiva sotto il cielo. Come se fosse un’emergenza il freddo d’inverno, ribattevamo su Scarp. Forse l’emergenza era l’aumento delle persone che non avevano riparo. Allora la polemica si spostò sulla volontarietà della scelta di vivere sulla strada – come se perdere tutto, casa, famiglia e lavoro o magari avere una o

Oggi, anche grazie a Scarp, non si sente più parlare di quell’ipocrita “libera scelta” di rimanere in strada anche d’inverno per giustificare l’inerzia delle amministrazioni locali. Battaglia vinta anche sul piano della residenza anagrafica

scheda

Paolo Lambruschi è nato a Milano nel 1966. Lavora ad Avvenire, come capo degli interni, dopo essere stato per tanti anni inviato. Ha diretto Scarp de’ tenis e il mensile di finanza etica Valori. Nel 2011 ha vinto il prestigioso premio giornalistico “Premiolino” per le inchieste sul traffico di esseri umani nel Sinai.

più dipendenze (spesso a seguito delle perdite) – fosse una scelta di libertà. Per gli assessori e i sindaci degli anni ’90 (ma anche dei primi anni 2000) ampliare i luoghi di accoglienza invernale era inutile perché c’era sempre una quota di “irriducibili” che rifiutava di trasferirsi nei dormitori. Non riuscivamo a capire perché ci fossero solo nel nostro Paese, mentre in altri Stati come la Francia le soluzioni “a bassa soglia” erano più efficaci. Anche qui qualche passo avanti è stato fatto e chi resta in strada anche nelle notti in cui le nostre città diventano polari più correttamente ha problemi psichiatrici o burocratici (è un irregolare) che lo tengono lontano da un letto caldo ed è in genere assistito da volontari di unità di strada. E non si sente più parlare di quell’ipocrita “libera scelta” per giustificare l’inerzia delle amministrazioni locali.

Un altro risultato, messo in discussione negli anni dalle logiche securitarie, ma che fortunatamente ha resistito, è stata la concessione della residenza anagrafica. Che significa? Se un cit-

tadino italiano perde la casa per la legge italiana perde la possibilità di avere una residenza e quindi i documenti e la tessera sanitaria. Sparisce anche per la burocrazia, perde il diritto di riscuotere la pensione come di avere garantita l’assistenza medica. Fissando la residenza nel luogo dove ha i propri interessi (il centro diurno, la

mensa di carità) si può ottenere il documento d’identità. Vent’anni fa ci fu la prima sentenza favorevole, poi il diritto si estese a macchia di leopardo, in base alla sensibilità di funzionari e amministratori. Perché poi se uno prende la residenza diventa cittadino e lo devi pure aiutare. Oggi è pratica diffusa, grazie anche a chi ha contribuito a fare informazione su questo tema. Last but not least

è cambiato anche l’approccio del mondo dello spettacolo, della cultura e dell’arte verso il popolo della strada. Questo è una delle vittorie più belle di Scarp de’ tenis, che ha saputo costruire ponti con al-

tri mondi per rompere la barriera che crea emarginazione. Ricordo, oltre alle copertine con gli eroi del fumetto, interviste a grandi cantanti e, nel 1999, le scarpe da tennis in ceramica realizzate da artisti e designer famosi e poi vendute all’asta. E una meravigliosa, indimenticabile serata di poesia nella primavera del 2000 regalataci in un vecchio cortile milanese da Alda Merini grazie a uno dei nostri più grandi collaboratori morto anni fa, il mitico Bruno Brancher, il poeta della casbah milanese (leggete i suoi libri se riuscite a trovarli). La strada è lunga, ma dopo 20 anni Scarp ci cammina benissimo.

aprile 2016 Scarp de’ tenis

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IL TAGLIO

Sul giornalismo di strada aleggiano gli avvoltoi del copia&incolla «Dar da mangiare agli affamati, dare da bere agli assetati, vestire gli ignudi, accogliere i forestieri, assistere gli ammalati, visitare i carcerati, seppellire i morti». Nell’anno

di Piero Colaprico

Ai bisognosi di notizie serve qualcuno del giubileo della Misericordia, mi- che si alzi dalla sedia, sericordia per il nuovo giornalismo tolga gli occhi e pietà per il vecchio, almeno per dal pc e vada in giro quello che resiste. Gli affamati e assetati di notizie non hanno bisogno per guardare del «copia&incolla»: è facile, como- chi sono oggi i poveri, do, poco costoso, stai seduto, o anche i ricchi schiacci due tasti, che ci vuole? Tutti giornalisti. Tutti autori. Tutti blogger. E invece non è co-

sì, ai bisognosi di notizie serve qualcuno che si alzi dalla sedia e tolga gli occhi dal computer e vada in giro, per guardare chi sono oggi i poveri, o anche i ricchi. Certo, a volte, come si dice in gergo, ad andare in giro a curiosare senza scrupoli e senza reverenze e, talvolta, senza sapere e senza controllare bene, si può purtroppo schiacciare “una merda”: e cioè sbagliare. Eppure, chi sbaglia in buona fede è meglio di chi copia in malafede. O avete dubbi?

Gli ignudi, quanti sono…

scheda

Piero Colaprico (Putignano 1957), giornalista e scrittore, vive a Milano dal 1976. È inviato speciale di Repubblica, si occupa di giustizia e di cronaca nera. Ha scritto alcuni romanzi, tra cui Trilogia della città di M. (2004), vincitore del Premio Scerbanenco. Una penna tagliente. Come questa rubrica che cura per Scarp.

Precisiamo: non parliamo di bunga. Oggi la pelle, il sesso, la carne compaiono e dilagano ovunque in Italia, come se i siti, i giornali, i film porno avessero influenzato la tv di Stato e, molto di più, la tv commerciale. Noi

parliamo qui di ignudi talmente fragili che forse un giornalista non riesce nemmeno ad avvicinarsi. Gli ignudi hanno perso tutto, si mostrano per quello che sono, senza maschere: in un mondo ipocrita, sono insopportabili. Più uno è ignudo, più tu, con le tue maschere e i tuoi vestiti, rischi di essere ridicolo, come nella favola I vestiti dell’Imperatore.

Quanto ai forestieri, sono anni che non si fa che parlare di loro: ma come? Da destra ri-

suona la parola «invasione», da sinistra «emergenza», così anno dopo anno. Da decenni. Scusate, qualcuno ricorda quando è naufragata la prima nave nel Mediterraneo? Era il giugno del 2001 e un giornalista al largo di Portopalo di Capo Passero trovò, dopo anni di ricerche un cimitero subacqueo moderno. Decine di scheletri avvolti negli stracci, a 108 metri di profondità. Una nave era andata a picco alle tre del mattino del 26 dicembre del 1996, con 283 indiani, pakistani e cingalesi di etnia tamil: dunque, 1996, 2006, 2016, vent’anni di invasione ed emergenza. E quanti naufragi, quanti soprusi, muri, fili spinati, frontiere, campi abbiamo visto nel frattempo? Ma come li abbiamo visti? Da destra o da sinistra?

Gli ammalati parlano un po’ di più. E anche i carcerati. Meno male: non fanno più tanta paura le flebo, non si guardano i carcerati soltanto come dei disgraziati. Ma ammalati e carcerati stanno spesso dentro i loro confini, le corsie o i corridoi con le sbarre, i letti con il grafico della febbre o le brande

senza posate di metallo. Nei recinti. Certi morti, invece, non si seppelliscono più, o così sembra: prospera oggi un mercato del «morto per omicidio» che dilaga, specie se si tratta di giovani donne. Una troupe televisiva costa ventimila euro al giorno, a dir tanto, ma in un’ora di programma – in cui chi ha ucciso «deve» sembrare innocente – l’emittente può raccattare milioni di pubblicità. Imbrogliare sugli assassini è diventato un bell’affare, per chi ha i mezzi di produzione. La banalità del male sta in questa semplice matematica. Il giornalismo –

sia scritto, sia video, sia virtuale – vive dunque una stramba, sfuggente, sgrammaticata epoca. Per qualcuno

ogni notizia è di tutti: non resta nelle mani di chi s’è dannato per trovarla, il dannato è un fesso. Ogni informazione può passare subito nelle mani di altri, di chi, approfittando del «copia & incolla», la fa sua senza aver sudato, senza rispettare il lavoro di chi l’ha trovata, elaborata, verificata.

Uscire per andare in giro, tra gli ignudi e i carcerati, tra gli assetati e i malati, qualcuno lo fa ancora: specie se crede che la verità esiste, e ne ha le prove. Forse esisterà sempre questa ricerca per distinguere il grano dal loglio, ma ieri il giornalista sapeva che stava facendo la cosa giusta. Oggi il giornalista “normale” sente aleggiare sulla testa le ali degli avvoltoi del “copia&incolla”, dei creduloni, di quelli che su Internet odiano, amano, informano, disinformano, scherzano, piangono, credono, dubitano con tanta, troppa noncuranza. Che diffondano verità o menzogna, gl’importa? O a costoro basta copiare senza patemi d’animo? Misericordia per i blogger? Eh no, zero: dovrebbero guadagnarsela, soprattutto nell’anno del Giubileo. aprile 2016 Scarp de’ tenis

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PIANI BASSI

I nostri amici dormono dall’altra parte della strada

Dove sono Piero, Gianluigi, Marco, Michele e Antonio, di Paolo Brivio

l’autore Paolo Brivio, 49 anni, si è appassionato ai giornali ai tempi dell’università. E ha coniugato questa passione-professione con l’esplorazione dei “piani bassi” della nostra società. Direttore di Scarp dal 2005 al 2014, oggi fa il sindaco: pro tempore, perché rimane “giornalista sociale” in servizio permanente effettivo

/ il proprietario di due mani enormi e di un cuore fragile / il silenzioso che aveva flirtato con il terrorismo / il poeta di strada che scriveva canzoni / il venditore zoppo dal baffo irresistibile / il chiacchierone stralunato e gentile? Tutti, tutti, dormono, dall’altra parte della strada. Uno morì nell’abbandono più nero mentre ancora chiedeva di scrivere / uno prigioniero dei suoi demoni interiori / uno stroncato dal cuore essendo riuscito a non farsi stroncare dall’alcol / uno morì avendo (più o meno) ritrovato una figlia e mantenendo incrollabile il sorriso / uno si spense tra gli stenti per non smettere di inviare soldi a un ragazzo al di là dell’oceano. Tutti dormono, dormono, dormono, dall’altra parte della strada. Prospettiva non da poco Mi perdonerà, lo spirito di Edgar Lee Masters, per avergli rubato l’incipit. Ma dopo vent’anni di

cammino, anche noi, qui a Scarp, abbiamo la nostra Spoon River, il nostro piccolo camposanto da visitare, con un misto di malinconia e simpatia, ai margini della strada compiuta. Perché in effetti io lo pensavo da tempo – ma non avevo mai avuto il coraggio di dirlo a nessuno: la cosa migliore, comunque la più

umanamente giusta che abbiamo fatto, con questo singolare e prezioso giornale,

non è stato l’aver scandagliato, con la passione dei cronisti di strada, i fondali sempre più profondi dell’impoverimento e dell’esclusione sociale; non è stato l’aver raccolto storie di marginali che i media abitualmente scansano e il grande pubblico serenamente ignora; non è stato l’aver aperto spazi di scrittura e autorappresentazione a persone la cui voce era ormai tanto fioca, da non risultare più udibile neppure a loro stesse; non è stato infine l’aver

Piero morì nell’abbandono. Gianluigi prigioniero dei suoi demoni. Marco stroncato, non dall’alcol. Michele morì mantenendo incrollabile il sorriso. Antonio si spense tra gli stenti per inviare soldi a un ragazzo. Organizzare funerali la cosa migliore fatta in vent’anni

offerto uno strumento di lavoro, dunque di riscatto, guadagno e autostima, a individui che avevano bisogno di cementare almeno una certezza, nella propria esistenza, per trovare il coraggio di spazzar via le macerie di ripetuti fallimenti. La cosa migliore che abbiamo fatto, in due decenni, non è stato nulla di tutto questo: è stato

aver organizzato funerali.

Non lo dico per spirito di paradosso. E nemmeno perché gli antropologi ritengono che vi sia civiltà da quando gli uomini hanno cominciato a seppellire e onorare i propri defunti. Lo dico per intima convinzione, sostenuta da una triste constatazione: tutti muoio-

no soli, ma chi in vita ha conosciuto l’umiliazione della strada spesso finisce (nonostante tutti i tentativi di risalita)

per morire in una gelida solitudine.

Così è accaduto, in questi vent’anni, ad alcuni dei nostri amici scarpisti. Quando se ne sono andati, non c’era nessuno – né parente, né amico – a scortarli nell’ultimo passaggio. Allora abbiamo organizzato funerali. Erano stati anche loro uomini, con le loro qualità e i loro errori. Meritavano un saluto e una preghiera.

Meritavano di essere accompagnati dall’altra parte della strada. Dove dicono vi sia

il Titolare, sorprendentemente accogliente, di una Dimora eterna. Per chi in vita è stato senza dimora, non è prospettiva da poco. aprile 2016 Scarp de’ tenis

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Jesse Owens e Lutz Long Storia di un’amicizia profonda Il ragazzo bianco e il ragazzo nero si vedono per la prima volta la mattina del 4 agosto 1936. Stadio di Berlino, qualificazione per la finale del lungo. Tutt’e due hanno 23 anni.

di Gianni Mura

L’illustrazione in questa pagina è di Giulia Pezzato, allieva della Scuola del Fumetto e dell’Illustrazione di Milano, con la quale Scarp ha avviato una collaborazione

scheda

Gianni Mura è nato a Milano nel 1945. Giornalista e scrittore. Su Repubblica cura la rubrica Sette giorni di cattivi pensieri, nella quale – parlando di sport, s’intende – giudica il mondo intero. In questa rubrica racconta invece le storie di sport che, altrove, faticherebbero a trovare spazio.

16 Scarp de’ tenis aprile 2016

Il ragazzo nero, Jesse Owens, il giorno prima ha vinto la finale dei 100 metri, è già un idolo del pubblico. È la Germania di Hitler, ma non tutti allo stadio sono nazisti. È l’Olimpiade di Hitler. Molti Paesi hanno deciso di boicottarla. Barcellona organizza le controlimpiadi ma tutto salta con lo scoppio della guerra civile. Anche negli Usa un forte movimento popolare ha chiesto il boicottaggio, essendo già chiari i connotati antisemiti e razzisti della politica tedesca, ma Avery Brundage, presidente del comitato olimpico Usa e uomo di estrema destra, ha dato ampie assicurazioni: a Berlino non ci saranno discriminazioni. Però gli atleti neri sono solo 10. Owens era obbligatorio portarlo a Berlino perché in meno di due ore, nel ’35 ad Ann Arbour, aveva stabilito 4 record mondiali: 100 yarde, 220 yarde piane e a ostacoli, lungo (con 8.13). Il ragazzo nero sa

che il bianco è dato per favorito. Si chiama Carl Ludwig Long, fisico imponente (1.84 x 72 contro l’1.78 x 71 di Owens). È nato a Lipsia da famiglia agiata, ariano puro, capelli biondi e occhi azzurri. Studia Giurisprudenza. Owens è nato in Alabama da una famiglia di agricoltori, settimo di dieci figli. Suo nonno era uno schiavo. Lincoln aveva abolito la schiavitù nel 1865, ma un secolo sarebbe passato prima che gli afroamericani avessero

«Gli americani dovrebbero vergognarsi di mandare gli ausiliari negri a vincere medaglie al posto loro», dirà Goebbels, pensando a Jesse Owens

mondiale). Nel pomeriggio, finale-spettacolo. Owens è sempre primo, ma Long vicinissimo 7.84 contro 7.87 al quarto salto. Al quinto Long pareggia a 7.87, ma Owens sale a 7.94. Nullo l’ultimo salto di Long, 8.06 per Owens. Il primo a congratularsi è Long, appena Owens si rialza dalla sabbia. E parlando fitto vanno verso gli spogliatoi, passando davanti alla tribuna d’onore dove Hitler inghiotte rabbia. «Gli americani dovrebbero vergognarsi di mandare gli ausiliari negri a vincere medaglie al posto loro» dirà Goebbels.

Da quel pomeriggio del ’36 resiste una domanda: è vero che Hitler si rifiutò di stringere la mano a Owens? È vero che Hi-

uguali diritti: Civil Right Act 1964, Voting Right Act 1965. Long: il cognome sembra già un messaggio, un presagio, una sentenza. Si qualifica al primo tentativo. Ma già prima era andato a salutare il ragazzo nero, di pochi mesì più giovane: 27 aprile Long, detto Luz o Lutz, 12 settembre Owens. Frasi di circostanza, tra avversari che si rispettano. Però Owens fa due salti nulli, e Long torna da lui. «Sei troppo teso», gli dice, «rilassati, uno con i tuoi mezzi deve qualificarsi a occhi chiusi. E poi secondo me sbagli rincorsa, allungala di una trentina di centimetri, se vuoi metti una maglietta bianca vicino al punto di battuta». Owens segue i consigli del rivale e si qualifica, sia pure per pochi centimetri. C’entra l’emozione, ma anche il fatto che il salto è la specialità che Jesse sente meno sua (anche con l’8.13

tler, prima dell’inizio della manifestazione, aveva espresso la volontà di stringere la mano solo ad atleti tedeschi. Ma i responsabili del cerimoniale gli dissero che non era possibile: o tutti o nessuno. Nessuno, decise Hitler. Ma, stando a quanto scrisse Owens nell’autobiografia, un accenno di saluto, da parte di Hitler, ci fu. Secondo un testimone oculare, l’italiano Arturo Maffei che si piazzò quarto nel lungo, «fu una scena alla Ridolini. Hitler tese il braccio nel saluto nazista mentre Owens allungava la mano. Consapevole dell’equivoco, Hitler allungò a sua volta la mano ma intanto Owens aveva portato la sua alla fronte, nel saluto militare». Il giorno dopo Owens vinse i 200 metri e il 9 agosto la staffetta 4 x 100. Passeranno 48 anni prima che un ragazzo, anche lui dell’Alabama, Carl Lewis, vinca 4 medaglie d’oro nelle stesse specialità alle Olimpiadi di Los Angeles.


LE STORIE DI MURA

«Molti dei lavori che ho fatto li ho fatti malvolentieri. Ma erano tutti lavori onesti e dovevo pur mangiare», disse. Ebbe sempre al fianco la moglie Ruth, si erano sposati giovanissimi nel ’35, fino all’ultimo giorno: 31 marzo 1980. Owens morì di cancro ai polmoni, fin da adolescente fumava un pacchetto di sigarette al giorno.

Long e Owens continuarono a scriversi. Questa fu

La staffetta Owens aveva chiesto di non disputarla. «Ho già vinto abbastanza, fate correre gli altri». Nal quartetto-base c’erano solo bianchi: Draperer, Wykoff, Stoller e Glickmann. Gli ultimi due, ebrei, vennero depennati, su disposizione di Brundage, e le prime due frazioni della finale le corsero i neri Owens e Metcalfe.

gli Usa e non ho ricevuto neanche una telefonata». In

Tornato in patria, Owens dichiarò: «Non mi sono sentito offeso da Hitler, semmai dal mio Presidente: ho vinto 4 medaglie per

importanti riconoscimenti ufficiali glieli tributarono Gerald Ford nel 1976 e Jimmy Carter nel 1979. Nessun

effetti, Franklin Delano Roosevelt, temendo di perdere i voti degli elettori del Sud, non ebbe mai una parola per Owens, mentre gli olimpionici bianchi erano accolti alla Casa Bianca con tutti gli onori. Allo stesso modo si comportò Truman, il successore. I primi

contratto pubblicitario per Owens

nel ’36. Passò professionista, corse contro auto, moto, camion, levrieri, cavalli. Fece il bidello, il benzinaio, il disc-jockey, il conferenziere (ma sempre entrando negli alberghi dalla porta di servizio, e salendo sugli autobus da quella posteriore). Fece il preparatore atletico degli Harlem Globetrotters. Cercò di mediare nella vicenda dei velocisti coi guanti neri sul podio a Mexico ’68, presidente del Cio ancora per quattro anni sarebbe stato Avery Brundage. Gli atleti neri lo chiamarono zio Tom.

l’ultima lettera ricevuta da Owens nella primavera del 1943: «Caro amico Jesse, qui dove siamo sembra ci siano solo sabbia e sangue. Non ho paura per me, ma per mia moglie e il mio bambino che non ha mai realmente conosciuto suo padre. Il mio cuore mi dice che questa potrebbe essere l’ultima lettera che ti scrivo. Se così dovesse essere, ti chiedo questo: quando la guerra sarà finita vai in Germania a trovare mio figlio e raccontagli di suo padre. Parlagli di quando la guerra non ci separava, e digli che le cose tra gli uomini possono essere diverse, su questa terra. Tuo fratello Luz». Si era laureato, Long, e sposato. Il figlio, Kai, nacque nel ’42. Long fu richiamato alle armi come ufficiale della Luftwaffe. Ferito nella battaglia all’aeroporto di Biscari, morì 4 giorni dopo, il 14 luglio 1943. E in Germania Owens ci andò a parlare col figlio di Long. Ad Amburgo, nel 1951. E quando Kai si sposò l’invitato d’onore era Owens. Ai mondiali di atletica a Berlino, nel 2009, Kai Long e sua figlia Martine abbracciarono Marlene Dortch, la nipote di Owens.

A Owens è intitolato un viale, vicino allo stadio di Berlino. Long è sepolto nel cimitero di Motta Sant’Anastasia (Catania), fossa comune 2, piastra E. aprile 2016 Scarp de’ tenis

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Nando Vitali, non nominare il nome di Dio Invano

Sono io, sono Dio

di Nando Vitali

Avevo deciso di oltrepassare il confine e andare dall’altra parte. E chiedergli conto di persona di tutto quel male. n. 187 Non rubare Erri De Luca n. 188 Non desiderare la donna d’altri Maurizio Maggiani n. 189 Non desiderare la roba d’altri Eraldo Affinati n. 190 Non commettere atti impuri Antonella Cilento n. 191 Non dire falsa testimonianza Gianrico Carofiglio n. 192 Non avrai altro Dio all’infuori di me Domenico Starnone n. 193 Onora il padre e la madre Giorgio Fontana n. 194 Non uccidere Andrea Vitali n. 199 Ricordati di santificare le feste Francesco Mari n. 200 Non nominare il nome di Dio invano Nando Vitali

scheda

Nando Vitali (Napoli, 1953), Autore di racconti, saggi e romanzi. Tra questi ultimi L’uomo largo, Chiodi storti, I morti non serbano rancore, Bosseide. È tra i fondatori del laboratorio di scrittura e lettura L'isola delle voci. Collabora con Repubblica. È fondatore e direttore delle riviste letterarie Pragma e Achab.

Era stata una di quelle notti in cui il silenzio era di pietra, ma il rumore delle bombe e certe urla di donne e bambini mi arrivavano nitide. Affilate e taglienti, tali da farmi pensare che non ne potevo più. Sentivo che qualcuno mi aveva mentito. Non avrei dovuto fidarmi, sebbene al principio tutto aveva il senso di un’opera perfettamente realizzata. A ogni domanda, infatti, la risposta arrivava da sola. Ma ora quella voce interna sembrava una voce morta. Cos’era di preciso quel dolore qui giusto al centro dello sterno se non uno spuntone che si era staccato all’improvviso. Sì, dovevo oltrepassare il confine e andare di persona a chiedere conto di quei cadaveri, di quel nero che scorreva nei canali portando veleni e morte. Qualche volta mi ero affacciato a quelle domande, ma poi avevo pensato che il mondo lavora su se stesso, e sa dove attraccare. Inutile cercare un senso a ciò che è nato per essere perfetto. Anche i difetti sono cuciture mobili che avrebbero ricomposto l’insieme degli accordi con la sapienza di un abile musicista. Scavalcai il filo spinato. Sentii subito un dolore lancinante di carne che non avevo mai provato. Mi colse un tremolio e il sangue prese a sgorgare dai calzoni strappati. Con orrore quel colore si allagò alla stoffa mentre gli occhi perlustravano il buio. Nel fondo, simili a falene, vidi piccoli bagliori nel fitto della notte. Mi lasciai alle spalle una scia di rosso cupo. Il freddo del filo spinato continuava a bruciare nella carne nuova. Udii un latrato rabbioso di cani e voci che rimbalzavano nelle tenebre. Poi un cono di luce accecante penetrava l’oscurità e mi investiva. Il mio corpo era preso senza scampo. Infine vidi su di me occhi bianchi che mi fissavano

e un fucile spianato. E una traiettoria, come un graffio nel cielo. Un tracciante simile a una cometa. Alto là… intimò una voce roca e minacciosa. Ero giunto fin lì per chiedere ragione di quel dolore e ora sentivo l’odore acre del ferro e dello zolfo. E un calore che avvampava tutto intorno come un fuoco all’improvviso. Fermo o sparo, ripeté la voce.

Sono io, sono Dio, risposi quasi tremando, mentre con le mani arrancavo nella terra umida per difesa, quella terra che sapeva di metallo fuso e foglie, erba putrefatta. Sentii una risata sghemba e irridente, mentre una raffica mi decapitò. Avevo declinato invano le mie generalità. Adesso mi trascinavo spingendomi con le braccia, prosciugandomi dal petto, schiantato, inutilmente cercando la mia testa fra le tenebre, mentre un’ombra di morte calava su di me come nel più terribile degli incubi. aprile 2016 Scarp de’ tenis

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IN BREVE

europa Senza dimora, cittadinanza minore? di Enrico Panero La condizione dei senza dimora in Europa è un problema serio e, quel che è peggio, in aumento. Non solo per l’immigrazione da Paesi terzi e il recente arrivo in massa di profughi e rifugiati, ma anche a causa di un numero crescente di cittadini europei che scelgono di spostarsi all’interno dell’Unione Europea con l’obiettivo di raggiungere un livello di vita migliore, a volte senza successo. Negli ultimi anni, infatti, le conseguenze dovute all’allargamento dell’Ue e alla recessione economica, insieme ad una carente politica migratoria, hanno accresciuto instabilità e insicurezza nei Paesi europei e messo spesso in discussione le norme sulla libera circolazione, che sono aperte a interpretazioni e attuate in modi diversi a livello nazionale. Tutto ciò ha creato gravi difficoltà a una minoranza di cittadini comunitari che hanno deciso di spostarsi in un altro Stato membro rispetto a quello di origine, ma hanno incontrato problemi tali da trovarsi in povertà e senza dimora. Così, in varie città europee una percentuale significativa di persone senza fissa dimora è costituita da cittadini europei che, in alcuni casi, non hanno accesso ai servizi di base. La Federazione europea delle organizzazioni che lavorano con persone senza dimora (Feantsa) chiede quindi una strategia comune al fine di trovare soluzioni per evitare che i cittadini europei “mobili” diventino indigenti. Anche riconoscendo la condizione senza dimora come una conseguenza di condizioni di lavoro precarie e quindi collegandola alla strategia europea per l’occupazione. Info www.feantsa.org

20 Scarp de’ tenis aprile 2016

Maldestro e BambinisenzaSbarre ancora insieme Il prossimo progetto di BambinisenzaSbarre e il cantautore Maldestro sarà l’inaugurazione dello Spazio Giallo nel carcere di Secondigliano per il quale è attiva una raccolta fondi sulla piattaforma di crowdfunding Merididonare.it. Si può accedere fino al 15 aprile. Il cantautore, Premio De André e finalista Premio Tenco, è testimonial dell’associazione milanese

che si occupa dei diritti dei figli dei detenuti promuovendo la cura, la tutela e il mantenimento della relazione figlio-genitore durante la detenzione. BambinisenzaSbarre ha realizza-

to, in diverse carceri, isole apposite (gli Spazi Gialli sono in Lombardia, Emilia Romagna e Piemonte) dove bambino e genitore detenuto interagiscono in ambiente protetto.

Sono centomila i figli dei detenuti italiani ai quali si rivolgono i progetti di Bambinisenzasbarre; l’impegno dell’Associazione ha portato alla firma della Carta dei figli di genitori detenuti, la prima in Europa, che riconosce il diritto alla genitorialità. Info www.bambinisenzasbarre.org

street art La sottile ironia di Siki a Milano Fino al 30 settembre 2016, la sede di Banca Generali Private Banking, in piazza Sant’Alessandro 4 a Milano, ospita una mostra di tele realizzate da Farhan Siki, lo street artist indonesiano, tra i più apprezzati a livello internazionale. L’esposizione si chiama Trace. In mostra una rivisitazione di Siki delle icone più riconoscibili e famose della storia dell’arte occidentale, da l’Ultima Cena all’Uomo Vitruviano di Leonardo, da Adamo ed Eva di Michelangelo all’esperienze del Bauhaus: l'artista ha rielaborato le opere con sensibilità e tecnica contemporanea. Fin dai suoi esordi, Siki riflette sulla cultura pop del XXI secolo, raccogliendo loghi, marchi e simboli della cultura di massa e caricandole di significato. Trace sarà disponibile anche su BG Events, la App di Banca Generali per smartphone e tablet. Info tel. 02 885521

on

off

Chi avesse debiti nei confronti del Comune potrà usufruire del Baratto amministrativo. Ovvero, tempo e braccia per lavori utili alla collettività. Il Comune di Milano applicando il decreto Sblocca Italia ha accolto la possibilità di risolvere in questo modo i debiti di chi non può pagare in altro modo. La pratica del baratto sarà destinata a quei cittadini che hanno debiti per un valore minimo di 1.500 euro per tributi comunali, ma anche violazioni del codice della strada, o pagamenti per servizi resi dall’amministrazione, come la mensa dei bambini nelle scuole. Questa possibilità sarà però offerta solo ai cittadini con un reddito Isee non superiore a 21 mila euro e in debito per un motivo incolpevole, come per esempio la perdita del lavoro. Tra i lavori che i debitori potranno svolgere: pulizia e sgombero di cantine, tinteggiatura di locali e scale, verniciatura di recinzioni, manutenzione, scuole e molto altro.

Accade perché la sanità è in uno stato di grave sofferenza. Ad affermarlo è Salvatore Geraci, responsabile dell’area sanitaria della Caritas di Roma, dopo i due episodi che si sono verificati a San Pietro e in una stalla a Tor di Valle. Due donne senza dimora soccorse solo dopo aver partorito. Secondo Geraci esiste una difficoltà di accesso ai servizi per motivi legati alla riduzione del personale. Altro punto critico evidenziato è quello della “gestione dei casi complessi” e delle dimissioni precoci. Le strutture sanitarie tengono il minimo possibile le persone senza fare differenza se una persona ha una possibilità di alloggio e opportunità assistenziali. Fino a qualche anno fa la Caritas romana interveniva soprattutto su persone che avevano problemi acuti. Attualmente aumentano quelle con problemi di cronicità, così come le persone con difficoltà ad accedere continuativamente a delle cure. In sostanza, l’estrema fragilità sociale non è contemplata dalla sanità romana. Ma solo per quella romana?

Arriva a Milano il Baratto amministrativo

Marzo 2016 A Roma si partorisce in strada


[ pagine a cura di Daniela Palumbo ]

Audioteche dietro le sbarre per risvegliare emozioni

La città popolata dagli invisibili. Metropolitan Lullabies alla galleria Bel Vedere Metropolitan Lullabies è un progetto fotografico di Luca Rotondo che ha vinto la dodicesima edizione del Premio Amilcare G. Ponchielli 2015. Il giovanissimo fotografo milanese ha raccontato con grande potenza narrativa una città sfavillante, notturna e... deserta. Ma non del tutto. In ogni foto si scopre una umanità silenziosa che trova rifugio nella Milano delle gallerie e dei portici, fra marmi pregiati e negozi di brand famosi. Sono gli homeless, i senza dimora, quasi nascosti, quasi invisibili. Il lavoro di Luca Rotondo è visitabile alla Galleria Bel Vedere, via Santa Maria Valle 5, Milano. Fino al 23 aprile 2016. Info belvederefoto.it

Sharing economy modello di consumo intelligente Nasce dalla necessità di risparmiare la prima piattaforma per lo scambio e l'acquisto di vestiti usati per bambini da zero a 15 anni: Armadio Verde. Eleonora Dellera e David Erba sono i creatori del servizio online. Basta iscriversi al sito www.armadioverde.it, spedire gratuitamente i vestiti e prenotare online il ritiro della busta Armadio Verde, scegliendo il giorno e la fascia oraria. Ad ogni vestito usato dei bambini che viene spedito, è assegnato un valore in stelline attribuite in base alla marca, taglia e tipologia. Le stelline sono la moneta di scambio, con queste si possono a loro volta scegliere sul sito i vestiti usati o nuovi con cartellino. La consegna avviene in 24-48 ore. Il servizio costa 5 euro a vestito e ciò consente un risparmio dell’85-90% rispetto ai canali tradizionali di outlet e mercatini. Solo nel 2015 sono stati 50 mila i vestiti usati scambiati. I clienti: più di 1500 mamme e papà tra i 25 e i 45 anni. Oltre 100 mila visite al mese sul sito.

pillole homeless Da una brutta storia può nascere un fiore Non avrà più di 16 anni il ragazzo di colore che è stato fotografato a Baltimora mentre si china accanto a un senza dimora su una strada anonima della città. L’uomo sta dormendo? O se ne è andato, semplicemente. Ma il ragazzo, forse, neppure lo sa. Gli è bastato vederlo a terra, indifeso, solo, sconfitto. E si è fermato. Lo ha toccato, un gesto di prossimità che non siamo più abituati a vedere. O meglio, a fare. Un uomo lo ha fotografato e ha postato l’immagine su facebook. Un gesto che siamo ormai abituati a fare. Quella foto ha fatto il giro del mondo e in poche ore ha avuto 30 mila condivisioni. L’autore del post ha scritto che ha sentito il ragazzo pregare accanto all’uomo in terra.

CO2 è il progetto lanciato in 4 istituti di pena dall’ex chitarrista della Pfm, Franco Mussida. Non bisogna essere musicisti per collaborare ma solo avere sensibilità musicale, suggerendo brani di musica strumentale (no canzoni) e associandoli a uno degli stati d’animo che si trovano indicati nel sito. I brani scelti verranno inseriti in speciali audioteche poste all’interno delle carceri italiane e che aderiscono al progetto, i carcerati potranno ascoltare la musica suggerita confrontando le loro emozioni con quelle della persona che ha scelto per loro un brano. Una sorta di “dedica”, un ascolto empatico dell’altro, che avvicina due mondi. L’iniziativa è stata a lungo condivisa in rete attraverso facebook e fra i “suggeritori” ci sono musicisti e cantautori come Angelo Branduardi e Dolcenera, ma anche semplici amanti della musica. Sono quattro finora le audioteche realizzate nelle carceri di Monza, Opera, Rebibbia e Secondigliano. Info www.co2musicaincarcere.it

A Bologna il primo festival del cinema in carcere Cinevasioni è il primo festival del cinema in carcere. Dal 9 al 14 maggio, cinque giorni di proiezioni nella sala grande della casa circondariale Dozza di Bologna. Un festival in carcere, non un festival sul carcere: recita lo slogan. L’obiettivo è portare il linguaggio e la cultura cinematografica all’interno della realtà carceraria e aprire le sbarre ad autori e studiosi del cinema. Cinevasioni presenterà una decina di opere. Ad ogni proiezione potranno partecipare un centinaio di persone tra detenuti scelti a rotazione dalla direzione della casa circondariale e pubblico esterno. Info www.cinevasioni.it aprile 2016 Scarp de’ tenis

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Un album speciale per Ron. Il cantautore duetta, in 24 brani, con i più grandi artisti della musica italiana in un lavoro a sostegno della lotta contro la Sla

IN BREVE

La sessantaquattresima edizione del Trento Film Festival, il cinema della montagna, è in programma dal 28 aprile all’8 maggio. I film che hanno chiesto d’iscriversi alla kermesse cinematografica sono oltre 470. Al Cile, protagonista, saranno dedicati diversi eventi: mostre, film e documentari sulla Patagonia e la Terra del Fuoco, incontri letterari e spettacoli come quello del 3 maggio, all’Auditorium Santa Chiara, realizzato con la formula delle “interviste impossibili”. I protagonisti delle interviste saranno Charles Darwin e Padre Alberto Maria De Agostini. Quest’ultimo, padre salesiano e fratello del fondatore dell’Istituto geografico De Agostini, è ancora oggi una figura importante in Cile e al quale sono dedicate strade, scuole e impianti sportivi.

Un film sulla faticosa costruzione delle relazioni Il film di Rose Boche, Un’estate in Provenza, è un dialogo tra generazioni. Tre fratelli in vacanza forzata dal nonno burbero, “senza connessione”. E inoltre il più piccolo è sordomuto (lo è anche il piccolo attore nella vita). Un film sul dialogo e l’incontro: l’apparente, iniziale, impossibilità di un rapporto e poi la graduale, faticosa e sorprendente costruzione di una relazione. Tra chi non sa sentire né parlare, perché sordomuto, e chi a modo suo, non vuole né sentire né parlare: il nonno, Jean Reno. Eppure, l’improbabile accade. Il film uscirà nelle sale con proiezioni sottotitolate e audiodescritte. La sordità è il nodo intorno al quale si svolge la trama: quella che accomuna tutti in un incontro reso necessario dalla separazione dei genitori dei tre ragazzi.

22 Scarp de’ tenis aprile 2016

foto di Julian Hargreaves

Festival del cinema di Montagna, nuova edizione dedicata al Cile

CINQUE DOMANDE

La forza di dire sì L’impegno di Ron contro la Sla di Daniela Palumbo

È appena uscito, La forza di dire sì, un album speciale quello di Ron per due motivi: perché ci sono 24 dei suoi brani più noti cantati insieme, in duetto, con i più grandi artisti della musica italiana, nonché due brani inediti, Aquilone e Ascoltami, dello stesso cantautore. Ma è un album speciale anche perché è interamente dedicato all’Aisla (associazione ricerca italiana sclerosi laterale amiotrofica), di cui Ron è testimonial da dieci anni. Con lui hanno duettato in tanti: da Jovanotti a De Gregori, da Mengoni a Loredana Berté, da Pezzali a Biondi ad Ayane, Renga e molti altri. Tra i duetti contenuti nel disco, spiccano quelli con due indimenticabili artisti, Lucio Dalla sulle note di Chissà se lo sai, e con Pino Daniele in Non abbiam bisogno di parole. Ron, 10 anni dopo un album a sostegno di Aisla? Perché? Ho “conosciuto” la Sla perché il mio migliore amico, Mario Melazzini, ora presidente di Aisla, fu colpito dalla malattia. Dieci anni fa, dopo aver capito cosa volesse dire la parola Sla, Mario ed io pensammo che forse con la musica (un album con 14 artisti famosi che cantavano in duetto con me, da Baglioni, Dalla, Consoli, Carboni, Bersani, Raf, Elisa e tanti altri), avremmo potuto raccogliere fondi per la

ricerca. Il disco andò molto bene, così dopo 10 anni ho pensato che sarebbe stato bello poter riproporre quel progetto. Le persone continuano ad ammalarsi di Sla e bisogna darsi da fare per raccogliere fondi e fare ricerca per cominciare a sperare... è un impegno che voglio mantenere. Nell’album ci sono due brani inediti. Come nascono? Aquilone è una canzone scritta e cantata con un bravissimo gruppo che si chiama La Scelta. Evoca speranza attraverso il volo di un aquilone, metafora dell’uomo che solo con la forza d’animo, la fiducia, la fede potrebbe volare così in alto da sconfiggere tutta la nostra parte negativa che abbiamo dentro. Ascoltami è un brano che tratta del male che possiamo fare agli altri, a chi amiamo, anche con una parola, una frase. Il suo prossimo progetto artistico? La possibilità di lavorare a questo progetto mi ha dato modo di imparare e dare agli altri quello che è giusto, che si meritano. Non parlo solo dei miei amici artisti, che sono stati meravigliosi e hanno accettato con grande generosità di partecipare al mio progetto, ma anche delle persone che sono diventate protagoniste col proprio lavoro di musicisti, tecnici, ingegneri del suono, produttori, arrangiatori. Questo disco mi ha cambiato, mi ha arricchito, e mi ha ricordato quei dischi che si facevano negli anni 70-80, con libertà e passione. Credo di aver ritrovato quelle radici necessarie per poter piantare un albero nuovo. Vedremo!


IN BREVE

A Vicenza il reading della redazione e dei venditori di Scarp Un nuovo reading per la redazione vicentina. Appuntamento con Scarp-Ario il 16 aprile alle ore 21 al Vicenza Time Cafè in Contrà Mure Porta Nuova 28. A proporre la serata è la redazione vicentina del mensile Scarp de’ tenis, la stessa che da alcuni anni raccoglie le storie pubblicate sul giornale e le racconta sul palco.

Il filo conduttore del reading saranno proprio le scarpe: scarpine rosse ripescate in un cassonetto, scarponi per

affrontare la pioggia, scarpe usate, consunte, abbandonate o rubate che accompagnano i momenti più o meno difficili in cui si imbatte chi non ha più una casa dove tornare e vivere. Un modo per conoscere, e far conoscere, le storie di vite sommerse attraverso le voci e le parole di chi di solito non ha modo di essere ascoltato. In questo nuovo spettacolo, con

l’aiuto dei musicisti Bruno Montorio e Bobo Righi, la redazione intera si cimenta anche con il rap fatto in casa: Prova ad ascoltare, e con la canzone del maestro Enzo Jannacci, El purtava i scarp del tennis. Info crisalvia@gmail.com

L’ultimo viaggio di Antonio Saccogna colonna di Scarp Antonio Saccogna se n’è andato. L’abbiamo accompagnato insieme con i familiari, che abitano lontano, e con i suoi amici, i tanti venditori di Scarp al suo fianco nell’ultimo viaggio, nella chiesa di San Vittore a Milano, nelle esequie celebrate dall’ex direttore della Caritas Ambrosiana, don Roberto Davanzo. Antonio era con noi da più di quindici anni. Venditore storico e apprezzato. Con una storia di discese e di risalite alle spalle. Era con noi a Scarp dopo che aveva girato il mondo per lavoro, come tecnico specializzato. Antonio raggiunge Michele, Daniele, Vittorio, Willy e i tanti amici che a Scarp avevano trovato una nuova accogliente famiglia. E che la terra ti sia lieve, Antonio!

Como La kermesse per confrontare lo sguardo sul futuro Nasce Now il primo Festival dedicato al Futuro Sostenibile. A Villa Erba, sul lago di Como, il 6, 7 e 8 maggio 2016. Una manifestazione fatta di incontri, convegni, concerti, workshop e laboratori. Terra, Cibo, Economia, Sicurezza, Energia, Relazioni, Saperi, Luoghi. Sono queste le otto questioni incandescenti su cui si gioca il futuro. Duecento espositori che presentano storie virtuose, all'avanguardia; un festival per conoscere esperienze e soluzioni che domani potrebbero essere adottati da tutti, e per avvicinarsi a nuovi modelli di sviluppo. Il progetto nasce dalla volontà di far incontrare realtà e culture che hanno intrapreso scelte sostenibili: dalla grande azienda alle fondazioni e istituzioni, fino alle associazioni e ai piccoli produttori. Info ufficiostampa@nowfestival.it

LA STRISCIA

aprile 2016 Scarp de’ tenis

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LE DRITTE DI YAMADA

La signora in accappatoio e il pittore di miniature

Una stagione controversa Che cosa è stata Mani Pulite e qual è oggi la sua eredità civile? Dal 17 febbraio 1992, giorno dell’arresto di Mario Chiesa, fino alle accuse rivolte ancora oggi ai membri di quel pool che ha smascherato un sistema criminale e corrotto, Gherardo Colombo racconta gli anni drammatici e carichi di speranza che lo hanno visto tra i protagonisti della più importante inchiesta giudiziaria della storia d’Italia.

mesi fa, in Via Dante a Milano. Da quella volta, quando capi-

La poesia in due incontri: l’anziana signora vestita stoppare per un attimo il “logorio” della nostra sfuggente “vita di sgargianti moderna”. Basta aver voglia di mi- colori e l’artista schiare gli sguardi, e il ponte verso ungherese una frase che rompa gli indugi è che vende bello che fatto. Prendete qualche giorno fa. miniature dipinte Uscendo dal panettiere per in via Dante riprendere la mia bici, m’imbatto in un’anziana si- a Milano Le “facce da Scarp” con la loro iper-umanità scritta sopra non passano inosservate: riescono nel prestigio di

gnora che avevo notato poco prima in strada.

Il suo sguardo, contornato da una montatura verde, è allegro come i vestiti che indossa. Sono, nell’ordine: un cappello in lana d’angora arancione, un accappatoio azzurro (!)lungo fino ai polpacci, un golf rosa fucsia sulle spalle e dei pantaloni in velluto beige: un cromatismo ardito e fluorescente che – devo dirlo – irrompeva fatalmente nel seminato di chi incrociava. Così, mi è sgorgato di dirle che era un piacere vedere così tanti bei colori,e che le stavano proprio bene. Lei ci ha messo un attimo a ribattere che li indossa sempre e ormai non può più farne a meno. Aggiungendo subito dopo che aveva un marito in cielo e quattro figli maschi, che ogni tanto sentiva al telefono. Stia bene, ha detto salutandomi con un’estrema dolcezza color crema.

Ai colori sono sensibile, e la mia miopia li ha fusi in una scia quasi futurista un giorno che passavo a razzo

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to lì so chi cercare nella parte sinistra della via, guardando di faccia il Castello. Circa a metà, ripa-

rato dai vetusti muri di pietra delle case della via, c’è un uomo biondo, alto, con degli occhiali da vista, seduto dietro a un piccolo banchetto-scatolone.

Gherardo Colombo Lettera a un figlio su Mani Pulite Garzanti, euro 10

La luce cangiante dei giorni di pioggia sulle sue creazioni: dei magici piccoli sassi, dipinti con gli smalti per le unghie. Il colpo d’occhio su quei grafismi d’ingegno regala allegria a chi li guarda. I soggetti sono tanti e dai colori lucidi e bellissimi. Ci sono animali, faccine sorridenti, mani con cuori rosa, simboli della pace, smiles gialli, comete fiammeggianti, e financo stemmi di Milano trasfigurati in dichiarazioni d’amore all’angolo toponomastico che ha adottato questo pittore di miniature, che in una lingua tutta sua sembra suggerire – a chi si ferma guarda e lascia un’offerta – un sasso piuttosto che un altro. Con me fa così, ma non capisco nulla di quello che mi dice: mi sono fatta il film

Il cammino come educazione Luigi Nacci percorre la strada che porta a Santiago dall'Italia e diventa il viandante che cerca risposte alle domande dell'uomo. Una ricerca di sé e un cambiamento nei propri codici di condotta e delle priorità della vita che avvengono in attesa di arrivare alla mèta del cammino. Luigi Nacci Viandanza Laterza, euro 14

che quest’uomo sia ungherese e mi parli in quella lingua che è diversa da tutte le altre e l’unica che il “diavolo rispetti”. Un giorno si è messo

a mimarmi i legami tra via Dante e l’uomo di Leonardo: guardavo la sua bonomia in azione, tutt’uno con la sua empatia verso gli sconosciuti e il suo esprimersi dipingendo poeticamente cose piccole e tonde. Andate a scegliere da lui un prezioso sassolino che parli al vostro cuore: vi scroccherà sempre un sorriso, guardandolo.

Il Papa scrive ai bambini

[ a cura di Daniela Palumbo ]

testo e illustrazione di Yamada

Ryan, Natasha, Emil, Alessio, Yfan, tanti i bambini di tutto il mondo che, curiosi di Papa Francesco, gli hanno scritto, fatto domande, chiesto grazia, aiuto e consigli. Con la leggerezza e la serietà di un bambino. E il Papa ha risposto con la medesima leggerezza e ironia alle richieste dei bambini sul suo mandato e sulla felicità dell’uomo. Jorge Mario Bergoglio L’amore prima del mondo Bompiani, euro 12


Fuocoammare. Il titolo si riferisce a un fatto accaduto nel porto di Lampedusa durante i bombardamenti delle forze britanniche nella Seconda Guerra Mondiale

VISIONI

La costruzione di una costituzione ideale Un viaggio dentro e fuori il carcere seguendo due storie: quella dei detenuti musulmani della Dozza impegnati in un corso sulla Costituzione e quella di Samad, giovane marocchino ex detenuto dell’istituto penitenziario bolognese. Su queste fondamenta poggia Dustur (Costituzione, in arabo) il documentario di Marco Santarelli.

Fuocoammare Rosi sbanca Berlino

Vinto l’Orso d’Oro al Berlino Film Festival numero 66 con un grande trionfo di pubblico e di critica, arriva anche nelle sale italiane Fuocoammare, ultimo documentario di Gianfranco Rosi, pieno di squadre di salvataggio, scogliere e di gente d’altri tempi. Eravamo al Berlinale Palast durante la prima proiezione e abbiamo sentito chiaramente gli applausi dei presenti mentre il regista presentava gli attori del film: Pietro Bartolo, medico di Lampedusa, Giuseppe Fragapane, dj e autore del brano Fuocoammare, e il piccolo Samuele, ragazzo che va a zonzo per l’isola inseguito dalla macchina da presa. Era solo il secondo giorno di proiezioni, ma in molti già davano per certa la vittoria finale. E così è stato.

«Per me è fondamentale immergermi completamente nella realtà che inizio a scoprire nel momento in cui giro», ha dichiarato Rosi, per poi aggiungere che un film sulla realtà di Lampedusa non poteva essere un piccolo film. Gli ottimi film, non importa se sono

Tante storie legate all’isola di Lampedusa. Un medico, dei pescatori, un disc jockey di una radio locale e un ragazzino che gioca libero. Il tutto mentre dal mare arrivano tantissimi messaggi d’aiuto…

il film Fuocoammare Un film di Gianfranco Rosi. Con Samuele Pucillo, Mattias Cucina, Samuele Caruana, Pietro Bartolo, Giuseppe Fragapane. Documentario durata 107 min. Italia, Francia 2016

Zona d’ombra. Una scomoda verità Bennet Omalu è il neuropatologo che cercò di portare all'attenzione pubblica la sua scoperta: una malattia degenerativa del cervello che colpiva i giocatori di football vittime di ripetuti colpi alla testa. Colpevole un ambiente sportivo che, per interessi economici, metteva a repentaglio la salute degli atleti.

coammare, invece, vanno alla ricerca di storie in luoghi difficili, di fatti che nessuno ha mai sentito. Quali storie può raccontare l’isola di Lampedusa?

Si parte dalle avventure di Samuele, figlio di pescatori, preoccupato perché in famiglia pensa di essere il solo a soffrire il mal di mare, e si arriva al dottore che cura i clandestini che vengono, purtroppo non sempre, portati in ambulatorio in condizioni disperate. E poi sub alla ricerca di ricci, casi di disidratazione, donne che partoriscono in alto mare, il macabro rituale della conta dei morti e le affettuose dediche alla radio locale. Storie, storie e ancora storie da un fazzoletto di terra raccontato diversamente da come i media solitamente ce lo propongono. Ed è così che Lampedusa diventa finalmente vicina e siamo costretti ad affrontare l’urgenza di queste vite in difficoltà.

Dalla Somalia il Fiore del deserto

[ a cura di Daniela Palumbo ]

di Sandro Paté

western, dei musical o documentari come in questo caso, modificano le regole del cinema, sovvertono le abitudini dei registi e cambiano gli occhi degli spettatori. A partire da L’uomo della folla scritto da Edgar Allan Poe, si è spesso pensato che il cinema potesse trovare ispirazione solamente in ambienti urbani, in città e metropoli. I film come Fuo-

Waris Dirie, somala, subisce l'infibulazione a cinque anni. A tredici il padre la vende a un uomo di sessant'anni. Waris fugge e arriva a Londra. Si guadagna da vivere con mestieri umili finché un giorno un fotografo la convince a posare e diventa una fotomodella. Oggi è la portavoce ufficiale della campagna Onu contro le mutilazioni femminili. aprile 2016 Scarp de’ tenis

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Vent’anni in dieci facce

COPERTINA

Facce da Scarp Nel riquadro in questa pagina la splendida tavola con la “faccia” di Dylan Dog opera di Gigi Cavenago

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Dieci facce più una. Quella di Dylan Dog, in copertina. Sono le facce da Scarp, scelte dalla redazione per questo numero davvero speciale. Dieci facce, dieci storie, che vi raccontiamo in punta di penna. Le lega insieme un filo comune: sono storie di ordinaria straordinarietà. Storie belle perché vere. Come quella di frère Jean Pierre, sopravvissuto alla strage di Tibhirine, in Algeria, quando un commando irruppe in un convento trappista sequestrando sette dei nove monaci che ne formavano la comunità. Storie di fedeltà al giornale, come quella di Antonio, a Scarpda vent’anni. Storie di integrazione come quelle di Giana e Riad. Storie di coraggio come quelle di don Patriciello e di Giovanni Tizian: un prete e un giornalista in prima fila nella denuncia contro le mafie e il malaffare. Storie di generosità infinita, come quelle di Federica e Camilla, misterin gonnella di una squadra di calcio molto particolare, o come quella di Francesca e Roberto, genitori in prima linea nella battaglia all’ictus prenatale. Storie di strada. Come quella di Pao, tra i più importanti street artist italiani. Storie infine di imprenditoria illuminata come quella di Heiner Oberrauch, patron di Salewa. Sono le storie di Scarp, le facce da Scarp.


Nelle foto sopra, da sinistra: frère Jean Pierre, 92 anni, è l’ultimo sopravvissuto al massacro di Tibhirine. Oggi continua ad aprire la porta del monastero di Notre Dame de l’Atlas. Non in Algeria, ma in Marocco, dove si è trasferita l’unica comunità monastica maschile rimasta in tutto il Nordafrica. Antonio Mininni è a Scarp de’ tenis dal primo numero. Ha coordinato per tanti anni la redazione di strada. Heiner Oberrauch, presidente di Salewa, il brand di abbigliamento e outdoor più importante d’Europa. A fianco da sinistra: Giovanni Tizian giornalista de L'Espresso. Suo padre, Peppe Tizian, un funzionario di banca che non si è piegato al malaffare mafioso, è stato ucciso a colpi di lupara. Dal 2011 vive sotto scorta. Don Maurizio Patriciello, parroco di Caivano in piena Terra dei fuochi da sempre in prima linea per denunciare il malaffare e la camorra

Nelle foto a lato, da sinistra: Riad Khadrawi, siriano, arrivato a Milano da rifugiato, ora lavora come mediatore culturale aiutando altri rifugiati a rifarsi una vita. Il piccolo Mario insieme a papà Roberto e mamma Francesca fondatori di Fightthestroke, associazione che lotta contro l’ictus perinatale, la stessa patologia che ha colpito Mario. Nella foto sotto, da sinistra: Giana, rom kosovara, scappata dalla sua terra sotto i bombardamenti. Ora ha una casa, un marito e una famiglia. E si considera milanese a tutti gli effetti. Federica e Camilla, fondatrici di Tukiki, progetto pensato per far giocare a calcio ragazzi con disabilità cognitive. Paolo Bordino, in arte Pao, uno dei più affermati street artist italiani

dicembre 2014 - gennaio 2015 Scarp de’ tenis

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foto Bruno Rotival

Jean Pierre, 92 anni, è l’ultimo sopravvissuto al massacro di Tibhirine. Oggi continua ad aprire la porta del monastero di Notre Dame de l’Atlas. Non in Algeria, ma in Marocco, dove si è trasferita l’unica comunità monastica maschile rimasta in tutto il Nordafrica

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Frère Jean Pierre Eredità vivente degli uomini di Dio di Tibhirine di Anna Pozzi

info Il massacro di Tibhirine. Nella notte tra il 26 e il 27 marzo del 1996 un commando formato da una ventina di uomini armati irruppe nel monastero trappista di Tibhirine, vicino a Médéa, 90 km a sud di Algeri, sequestrando sette dei nove monaci che ne formavano la comunità, tutti di nazionalità francese. Dopo inutili trattative, il 21 maggio dello stesso anno i terroristi annunciarono l’uccisione dei monaci, le cui teste furono ritrovate il 30 maggio. Due monaci della comunità scamparono al sequestro, Amédée Noto e Jean-Pierre Schumacher, che dopo la morte dei loro confratelli si trasferirono a Fès in Marocco. Frère Jean Pierre è l’ultimo testimone ancora in vita

Vent’anni fa, quando i terroristi fecero irruzione nel monastero di Tibhirine in Algeria, frère Jean Pierre Schumacher si salvò perché stava in portineria, un po’ discosto dall’edificio principale dove c’erano le celle degli altri monaci. E con lui frère Amédée, perché i rapitori non sapevano della presenza di nove trappisti, invece degli abituali sette. Qualche mese dopo, le teste

dei monaci sequestrati vennero ritrovate dei pressi di Médéa, poco distante dal mona-

stero, dove oggi riposano insieme ai monaci che hanno garantito una presenza di quasi sessant’anni sulle alture dell’Atlante algerino. Frère Amédée è deceduto nel 2008. E Jean Pierre, l’ultimo

sopravvissuto, continua ad aprire la porta del monastero di Notre Dame de l’Atlas. Non in Algeria ma in Marocco.

«Non potevamo partire, la nostra presenza al Monastero era un segno di fedeltà al Vangelo»

È qui, infatti, che si sono trasferiti lui e l’ultima piccola comunità monastica maschile rimasta in tutto il Nordafrica, al limitare della città di Midelt, sul Medio Atlante marocchino.

FACCE DA SCARP/1 te del posto: ero, in un certo senso, il monastero in mezzo alla gente».

La sua memoria è ancora lucida e vivace. Torna volentieri ai primi anni di presenza a Tibhirine. Era il 1964,

si cominciava a costruire un diverso rapporto tra il monastero e la popolazione del villaggio: «Quando sono arrivato, c’è voluto un po’ di tempo per conoscerci reciprocamente. Il nostro dialogo era terra-terra, con gente semplice. Ma ci si intendeva molto bene. In seguito, ci si sentiva davvero in famiglia». La sua figura fragi-

Novantadue anni portati con gentilezza, occhi blu vivacissimi, un sorriso sempre disponibile, che si apre sul viso dolce segnato dal tempo e dagli événement.

le e un po’ ricurva si profila dinanzi ai ritratti dei suoi fratelli uccisi, in una specie di cappellina poco distante dall’ingresso del monastero di Midelt. È come se fosse

Continuano a chiamarli così gli anni bui del terrorismo islamista, che ha devastato l’Algeria per più di un decennio, a partire dal 1992. E che ha provocato la morte, oltre che dei sette monaci, di altri dodici religiosi e religiose presenti nel Paese, tra cui il vescovo di Orano, Pierre Claverie, ucciso con un’autobomba il primo agosto 1996. Frère Jean Pierre è l’eredità vivente di Tibhirine. Ha assunto su lui il martirio dei suoi fratelli, che «hanno dato la loro vita sino all’estremo. Era la scelta che avevamo fatto insieme - racconta con grande semplicità -: restare, nonostante tutto, continuare a essere una comunità di preghiera accanto ai nostri vicini musulmani. Non potevamo partire. La nostra presenza al monastero era un segno di fedeltà al Vangelo, alla Chiesa e alla popolazione algerina. Non volevamo essere martiri, piuttosto segni d’amore e di speranza». Nonostante il dramma, ricorda volentieri i trentadue anni trascorsi nel monastero algerino: «Ero l’incaricato delle varie commissioni. Facevo le spese tre volte la settimana e andavo al mercato per vendere i nostri prodotti. Avevo molte relazioni con la gen-

ancora fra di loro. E tuttavia è evidente che frère Jean Pierre è riuscito a rielaborare quella tragedia, anche se continua a porsi una domanda: «Se mi fossi accorto che li stavano portando via, che cosa avrei fatto? Sarei andato con loro? È una questione a cui ancora oggi non so rispondere…». Di una cosa, però, è certo: «Sono sicuro dice con serenità - che i miei fratelli hanno saputo dimostrare la loro dolcezza di uomini di preghiera persino fra i terroristi».

Frère Jean Pierre si lascia andare volentieri ai racconti. Attinge alle memorie di una lunga vita, dedicata soprattutto alla preghiera. Sette volte al giorno. A

cominciare dalle quattro di mattina. Al monastero di Midelt, la campana suona prima del muezzin, i due appelli alla preghiera si rispondono come un tempo a Tibhirine. «E la gente sa quando non bisogna suonare alla porta», dice sorridente. È ancora lui, oggi, che intona i canti nella piccola cappella, il cui coro è sovrastato da una copia del crocifisso di Tibhirine, il Cristo in gloria. Qui come in Algeria, lo stesso crocifisso che aveva voluto il priore di allora frère Christian de Chergé. Una presenza che continua… aprile 2016 Scarp de’ tenis

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Antonio e Scarp «La mia vita per il giornale e i suoi venditori » di Marta Zanella

La voce certo girava da tempo, ma si fermava sempre lì, al “si dice”. Questa volta la notizia parrebbe fondata. E l’interessato, 70 anni compiuti da pochi giorni, lo conferma: «Entro la fine dell’anno vado in pensione».

info All’inizio, nel 1996, era uno soltanto. Oggi i venditori di Scarp sono 112, di cui 49 nella diocesi di Milano: coprono, con il loro lavoro, una quindicina di città italiane. Negli ultimi sei anni, solo a Milano, 32 di loro hanno potuto accedere a una casa, mentre altri 8 hanno avuto un posto in un centro di accoglienza. In totale sono state 300 le persone che, in vent’anni, hanno venduto il giornale e hanno beneficiato di questo progetto di inclusione sociale

Antonio Mininni, a Scarp de’ tenis, è un po’ come un nonno in questa che per i venditori è più una famiglia che un luogo di lavoro. È lui che troneggia, sempre presente, nella redazione di strada centrale, a Milano. È lui che ogni mattina alle sei a mezza, da vent’anni, apre l’ufficio. È lui che coordina le copie da vendere e la rete dei cinquanta venditori del nostro magazinedi strada. Da vent’anni, e cioè praticamente da quando Scarp è nato. Lui, invece è nato a Bari, la città di origine della sua famiglia, ma poi nella sua infanzia e adolescenza saltò tra Firenze – «è per quello che sono tifoso della Fiorentina» –, Genova e Torino, seguendo il padre carabiniere nei suoi trasferimenti continui.

Venezia fu la sua città da adulto, dove lavorò per anni e dove successe quello che gli cambiò la vita. «Stavo bene, sta-

vo molto bene, ma a causa di un’attività non proprio pulita la finanza mi intercettò e mi sequestrò tutto. Colpa mia, feci delle vere e proprie stupidaggini». Si trovò senza casa, senza soldi, senza più nulla. Si spostò a Milano perché – pensava – era una città più grande e avrebbe avuto più possibilità di ricominciare. «E invece mi so-

Antonio Mininni, dalla strada alla redazione come punto di riferimento per i tutti i venditori 30 Scarp de’ tenis aprile 2016

no trovato a dormire in stazione Garibaldi, a imparare sulla mia pelle il significato reale di fame e freddo: se non lo hai provato davvero puoi solo immaginare cosa sia».

Ma non si è mai rassegnato alla vita in strada e ha tenuto duro su piccole, ma fondamentali abitudini. Tutte le

mattine andava nei bagni della stazione, si lavava e si radeva con l’acqua gelida. Ma l’importante era essere in ordine. Intanto cercava di trovare una via d’uscita. Lo spiraglio lo vide una mattina al sindacato.

«Mentre entravo all’ufficio sociale della sede della Cisl mi incrociai con un uomo che mi chiese di cosa avessi bisogno. Era il responsabile dell’ufficio. Mi chiese di raccontargli la mia storia e poi mi indirizzò alla Cena dell’Amicizia». Era, ed è, una delle

storiche realtà milanesi che si prendono cura delle persone senza dimora, fondata da un indimenticato uomo, Ermanno Azzali. Antonio non conosceva l’associazione, «ma sentendo il nome, pensai che mi avrebbero dato da mangiare». E invece, al quartiere Comasina, alla sede della Cena, incontrò proprio Azzali che gli offrì che una stanza oltre che un posto dove mangiare e tornare ogni sera. «Ermanno, dopo qualche giorno, mi chiese se ero capace di vendere. C’era un giornale nuovo della Caritas e mi propose di provare a venderlo. Mi diede un pacco di cinquanta copie, uscii al mattino e tornai a sera che ne avevo vendute quarantanove. Una l’avevo tenuta per me, volevo leggere quello che avevo venduto per tutto il giorno».

Era il primo numero di Scarp de’ tenis, e da quel gior-

FACCE DA SCARP/2

no Antonio e il giornale della strada non si sono più lasciati. Quando, pochi mesi dopo, nacque l’esigenza di avere una persona che tenesse aperta la redazione di strada del giornale che allora era in un garage umido in via delle Leghe, in zona viale Monza, la Caritas lo chiese a lui. «Con qualche esitazione, non tutti si fidavano all’idea di lasciarmi le chiavi». Alla fine vinsero i sì, e da allora le chiavi della sede – Scarpne ha cambiate sei – le ha sempre in tasca. All’inizio i venditori a cui doveva affidare le copie e da cui doveva raccogliere i soldi erano cinque, incluso lui. Tra di loro c’era Daniele Gazzola, che di Antonio divenne un grande amico. «Lo conobbi in Cena. Era un uomo intelligente, era stato anche un professionista in Eni, ma si era rovinato con l’alcool. Passavamo insieme molto tempo, soprattutto il sabato e la domenica quando andavamo a vendere nei mercati, mangiavamo insieme – Antonio si commuove mentre lo ricorda. – Poi, era quasi Natale, un giorno sparì. Lo ritrovammo più tardi, ubriaco. Aveva ripreso a bere e non ci fu niente da fare. L’hanno trovato morto tempo dopo sui gradini di una chiesa».

Forse è perché di storie così ne ha viste tante che oggi Antonio non ha i classici progetti di chi sogna cosa farà appena in pensione. «Non mi

interessa fare un viaggio, o cose così – fa spallucce. – Probabilmente continuerò quello che ho fatto in questi anni, aiutando persone senza dimora e collaborando con altre associazioni. E poi resto presidente dell’Associazione Scarp de’ tenis, quindi seguirò ancora i venditori della nostra “grande famiglia”. Però una cosa c’è: mi piacerebbe fare la pennichella. Dopo vent’anni passati ad alzarmi alle 4 del mattino, mi concederò il lusso degli anziani di un’ora di riposo dopo pranzo, questo sì».


Antonio Mininni è a Scarp de’ tenis dal primo numero. Ha coordinato per tanti anni la redazione di strada

aprile 2016 Scarp de’ tenis

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foto T. Brunner

Heiner Oberrauch, presidente di Salewa, il brand di abbigliamento e outdoor più importante d’Europa

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Heiner Oberrauch «Il Lavoro? Un circolo virtuoso di responsabilità » di Daniela Palumbo

Heiner Oberrauch, presidente di Salewa, non parla mai di dipendenti, ma di persone.

info Un marchio italiano Heiner Oberrauch è il presidente di Salewa, azienda italiana che si occupa di attrezzature ed abbigliamento per la montagna con sede a Bolzano. L'azienda fu fondata a Monaco l'8 luglio 1935 da Josef Liebhart e altri amici, esperti di sellai e tappezzieri. Il nome deriva dalle iniziali di Sattler (in italiano sellaio), Leder (ovvero cuoio) e Waren (in generale, articoli), che composti formano la parola SaLeWa

«Da noi non si timbra il cartellino – racconta il presidente di Salewa con un sorriso – per me è contrario alla natura stessa dell’uomo. Può succedere che le persone si fermino a lavorare oltre l’orario di lavoro, ma se c’è una bella giornata abbiamo la flessibilità necessaria per uscire prima. Uno dei principi della nostra cultura aziendale è la fiducia fra le persone». Evidentemente, la fiducia funziona: il marchio Salewa rappresenta attualmente il brand di abbigliamento e prodotti outdoor più importante d’Europa (fatturato del 2015: 214 milioni di euro, previsto in crescita nel 2016). Oltre 600 i dipendenti. Il marchio è presente in 30 Paesi.

Heiner Oberrauch, intendiamoci, non è un filantropo. È un abile imprendi-

«Spesso esaminiamo prima il problema e poi le risorse degli individui. Invece le persone si devono autodeterminare»

tore altoatesino di 58 anni che ha la fortuna di nascere in una famiglia di Bolzano considerata un’istituzione nella produzione e il commercio di loden, con il marchio Oberrauch Zitt. Il 1983 è un anno importante: innanzitutto Heiner si sposa con la sua attuale compagna, madre dei suoi tre figli. Ma ottiene anche la rappresentanza per l’Italia di una grande azienda di Monaco, Salewa. Che però produce “solo” attrezzatura per alpinismo e arrampicata. Oberrauch ha l’intuizione giusta: la richiesta di coloro che amano lo sport legato alla montagna avrà sempre più mercato, anche verso l’abbigliamento tecnico. E osa. Disegna i campionari di abbigliamento sportivo e, in cambio, ottiene di poter distribuire gratuitamente il marchio in Italia. Nel 1990 il fatturato dell’abbigliamento è superiore a quello dell’attrezzatura. A quel punto, l’imprenditore diventa proprietario del gruppo Salewa, rilevandone il marchio. Heiner Oberrauch, tra i 10 vincitori nel 2013, del premio Il campione, ha declinato la Responsabilità sociale d’impresa in un’ottica di sostenibilità che non riguarda solo l’ambiente, ma le persone.

Nella sua azienda di Bolzano chi diventa mamma è incentivata a prolungare la maternità perché lo stipendio resta al 50%, e non al 30; c’è un asilo nido; i dipendenti hanno a disposizione una palestra, un parco, una mensa a km zero, un maso e una casa al mare per le ferie. Non solo, la nuova sede Salewa è stata costruita in modo tale

FACCE DA SCARP/3 da essere quasi autosufficiente dal punto di vista energetico. Una filosofia di vita, più che aziendale: «Oggi i grandi gruppi imprenditoriali sono costretti a pensare al successivo bilancio trimestrale: una prospettiva di “breve termine” diventata uno dei mali dei nostri tempi, in economia e in politica. Ma ci sono tante aziende familiari che come noi mettono le persone al centro della propria attività. Nessuno può dimenticare di avere la responsabilità di fare scelte che abbiano senso non solo per sé e nell’immediato, ma anche per la comunità e le generazioni future». Quando gli chiediamo se è ottimista sul futuro, il presidente annuisce con convinzione: «Sono ottimista perché credo nella bontà dell’uomo. A partire dal dopoguerra siamo stati abituati a una continua crescita economica. Oggi, che il benessere materiale non aumenta più e la disoccupazione è un grosso problema, parliamo di crisi economica. Ma in generale ho l’impressione che stiamo entrando in una nuova epoca: dob-

biamo cominciare a valutare il nostro benessere in termini qualitativi, di crescita intellettuale e spirituale più che materiale. È una tendenza che vedo già in molti giovani che fanno scelte che per la loro qualità di vita, anziché sulla base di quello che possiedono». Le prossime sfide? Ancora umanitarie per l’imprenditore: «Quella dei migranti e dei profughi in cerca di un futuro. Come ha detto Papa Francesco, la morte di queste persone nel nostro mare è una vergogna. Noi abbiamo chiesto ai nostri nonni dove stessero guardando durante il periodo del fascismo e dell’occupazione nazista, e io dovrò rendere conto ai miei nipoti di cosa sto facendo oggi mentre tanta gente muore in mare. A volte mi chiedo se la nostra civiltà sia in grado di affrontare questo nuovo modello di convivenza, eppure sono convinto che l’Europa possa vincere questa sfida». aprile 2016 Scarp de’ tenis

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Episodio inedito per Scarp

IL FUMETTO

don Camıllo di Stefano Lampertico

scheda Nel 2011 era poco più di una sfida: quattro volumi per testare il mercato e capire se il progetto poteva funzionare. Dopo cinque anni, Don Camillo a fumetti, collana curata da Davide Barzi e pubblicata da ReNoir Comics, è l’unica di produzione italiana per librerie. L’obiettivo è altissimo: adattare in ordine cronologico, con un’accurata e fedele ricostruzione delle atmosfere della Bassa, tutti i 346 racconti di Giovannino Guareschi ambientati nel Mondo piccolo. Davide Barzi: scrittore, saggista e sceneggiatore. Ha vinto numerosi premi, curato collane di fumetti ed esposizioni sul tema. Collabora con la Sergio Bonelli Editore per cui scrive per le collane Nathan Never, Dylan Dog e Le Storie. Alberto Locatelli: diplomato in Arti Visive-Scenografia, ha frequentato la Scuola del Fumetto ComiXrevolution; fa parte dal 2014 dello staff di Don Camillo a fumetti.

34 Scarp de’ tenis aprile 2016

Finora sono quasi cento i racconti già realizzati, e numerose le ristampe necessarie per soddisfare i lettori sempre in crescita. La serie è stata tradotta in Germania, Francia e Sud Corea. Don Camillo a fumetti, insomma, è una concreta realtà e un nuovo modo per far rivivere personaggi celeberrimi della cultura italiana. In parallelo alla collana da libreria, i primi tre volumi sono già stati presentati con la Gazzetta di Parma, mentre racconti fuori collana hanno conquistato altre realtà: Il campioneè stato pubblicato sul catalogo della mostra Mondo piccolo roba Minima. Le periferie esistenziali in Giovannino Guareschi ed Enzo Jannacci. Suor Filomena è protagonista di uno speciale per la kermesse Riminicomix 2015, e sul numero di settembre della testata per ragazzi Super G è comparso il racconto Sul fiume. L’episodio che pubblichiamo è uscito in prima edizione, nella sua versione in prosa, il 26 marzo del 1950 sul n. 13 della rivista Candido, . Questa è la prima edizione mondiale dell’adattamento a fumetti, che non apparirà più in questa rara versione a colori, che rimarrà quindi un’esclusiva per i lettori della nostra rivista (e per questo ringraziamo l’editore ReNoir Comics). Si tratta di uno dei tantissimi episodi non utilizzati per gli adattamenti cinematografici delle avventure dei celebri personaggi, quindi in tal senso del tutto nuovi a chi conosce il prete della bassa e il suo mondo attraverso le pellicole realizzate tra il 1952 e il 1983. Grande attenzione è sempre prestata ai volti dei personaggi; i due presentati in questo episodio sono due importanti caratteristi del cinema italiano: Antonio Moletti ha il viso di Antonio Allocca, mentre Gianni Stombarri ha le fattezze di Salvatore Baccaro.


© Eredi Guareschi (per il testo) © 2016 - Renoir Sas

14 marzo 1930.

GianNi StombarRi!

Sceneggiatura: Davide Barzi - Disegni e colori: Alberto Locatelli - Prima pubb. del racconto originale di Giovannino Guareschi: Candido n.13, 26/3/1950 - Scarp de’tenis

Proprio io.


Basta, ti prego! Giuro, non è vero che importuno la tua ragazZa, come dicono in paese!

L’hai voluto tu, troglodita!

Tu la Marina non la devi nemmeno nominare!

FacCiamo che adesSo nomino chi voglio quando voglio, maledetTo cane rabBioso?

MoletTi, tu non avresti mai il coragGio di uccidere...

…a difFerenza di me!


Anf! Anf!

GianNi StombarRi, sapPiamo che sei lĂŹ dentro, esci con le mani in alto!


Carcere di Parma, 26 marzo 1950.

Sapevano che ero qui dentro da vent’anNi, ma nesSuno mi ha aspetTato fuori…

...qualcuno, però, mi ha aspetTato qui dentro da alLora!


27 marzo, ore 8.10.

Ehm‌ abBiamo apPena aperto...

Mi porta anche cinque o sei uova?

lo vedo!

Un cognacchino e pagatevi, grazie!

mi avete dato quatTrocentodieci lire. io ve ne ho date milLe.


Cento pane, duecentocinquanta salame, cento uova, cento formagGio e quaranta cognac. Totale cinquecentonovanta. Più quatTrocentodieci fa milLe.

Non capisco. Per mangiare quel che ho mangiato ci vogliono cinquecentonovanta lire?

La vita è cara. Adesso uno alLa sera si ilLude quando vede un casSeTto pieno di soldi…

…ma poi basta pensare che per comprare un canchero di bicicletTa come quelLa là bisogna mungere trentacinquemila lire e alLora vien voglia di metTersi a piangere.

Mpf!

Se andate in un altro posto, mangiate pegGio e ne spendete seicentocinquanta.


Hai finito?

Sì.

Questa notTe. Ho il foglio di rilascio del carcere.

Bene: ci mancavi proprio tu in questo paese di stramaledetTi. Quando sei arRivato?

non mi interesSa. io non sono il marescialLo dei carabinieri.

Li hai fatTi tutTi e venticinque?

Venti soli. Cinque me li hanNo tolti per buona condotTa.

E adesso, come ti trovi?

Sono l’uomo più disgraziato delL’universo!

Li ho nascosti prima che mi becCasSero e stamatTina sono andato a prenderli. erano là, intatTi.

AlLora non è stato per la ragazZa.

non sono il tipo che fa le stupidagGini per le ragazZe. io in celLa pensavo solo ai miei cinquanta biglietToni, sicuro che li avrei trovati. nel 1930 con questi mi sarei comprato un camion e avrei lavorato…


‌e invece scopro di aver fatTo vent’anNi di galera per un vestito, un paio di scarpe, un capPelLo, una manciata di biancheria e sÏ e no venti pasti!

Non mi servono piĂš, fatene quel che volete!

Via! Via quei soldi maledetTi!

GesĂš, al mondo ci sono tropPe cose che non funzionano.

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Giovanni Tizian «Sotto scorta per troppo amore della verità » di Angela De Rubeis

Nicola Femia. È bastato fare questo nome perché tutto cambiasse. «Ci penso io, o la smette o gli sparo in bocca» dice al telefono il faccendiere di fiducia Guido Torello a Femia, indicando come bersaglio Giovanni Tizian, giornalista che vanta - dal 2011 il primato di essere il solo giornalista del nord a vivere sotto scorta.

info Vita sotto scorta Giovanni Tizian scrive per L'Espresso e ha collaborato con Repubblica. Suo padre, Peppe Tizian, un funzionario di banca che non si è piegato al malaffare mafioso, è stato ucciso a colpi di lupara la notte del 23 ottobre 1989, a Locri. Un delitto rimasto impunito su cui Giovanni ha in seguito indagato. Da allora la famiglia Tizian ha lasciato la Calabria per trasferirsi in Emilia. Ha iniziato la professione a La Gazzetta di Modena, ha poi collaborato con il mensile Narcomafie e il portale Stop'ndrangheta.it. Nel 2012 gli sono state assegnate la menzione speciale al Premio Biagio Agnes e la Colomba d'oro per la pace. Dal 2011 vive sotto scorta

«Io, la mia famiglia, siamo originari di Bovalino –racconta Giovanni Tizian –, 8 mila abitanti nel cuore della Locride, sul mar Ionio. Il territorio è tagliato in due dalla strada 106, nota ai calabresi come la strada dei morti ammazzati. Una strada controversa perché è anche la sola che ci porta fuori dalla Calabria, verso altre regioni e verso il nord». Sulla 106 il 23 ottobre 1989 è stato ucciso anche il padre di Giovanni, Giuseppe Tizian, funzionario della filiale della Locride del Monte de Paschi di Siena. Le modalità del suo omicidio sono quelle dell’esecuzione mafiosa; la banca era da considerarsi «un luogo di lavoro caldo, visto che un tempo i soldi si riciclavano – quasi esclusivamente – attraverso le banche. Luoghi pericolosi soprattutto per chi era contrario a certe dinamiche e richieste. Non ci sono colpevoli per la morte di mio padre». Nel 1993 la famiglia di Giovanni lascia la Calabria per l’Emilia Romagna. «Modena arriva quasi per caso, siamo saliti su un treno e siamo andati. Modena era una delle tante fer-

«Io tornerò sempre in Calabria, perché quella è la mia terra, la porterò sempre nel mio cuore. E guai chi me la tocca...» 36 Scarp de’ tenis aprile 2016

mate, fui io a dire: scendiamo qui». Arrivano la laurea in sociologia, la specializzazione in criminologia e il pallino del giornalismo.

«Chiesi ad una mia amica che lavorava alla Gazzetta di Modena come potevo fare, lei mi disse di andare a fare due chiacchiere con il direttore». Comincia subito. Cronaca locale in principio. Ma la vocazione è quella dell’approfondimento e della comprensione di un fenomeno per intero; il fatto non è che un tassello che s’incastra tra mille altri per creare un muro. Ecco a Giovanni interessano i muri. Il passo successivo è stato quello di occuparsi dell’espansione criminale al nord. Alla Gazzetta di Modena accettano le sue proposte. Comincia a scrivere i suoi pezzi sulla ‘Ndrangheta in Emilia Romagna e il territorio comincia a sentir parlare e prendere coscienza di un fenomeno che sino a quel momento era sconosciuto. «A ottobre 2010 comincio ad approfondire il tema del gioco d’azzardo, in particolare delle slot machine, disegno una mappa dei personaggi coinvolti nella gestione delle slot machine e del gioco on line. Faccio il nome di Nicola Femia, che sino a quel momento era venuto fuori solo in alcuni trafiletti di carte giudiziarie. Nel territorio era quasi uno sconosciuto. Professione: imprenditore del gioco». Sulla testa di Femia pende una condanna definitiva a 20 anni per

FACCE DA SCARP/4 traffico di droga e armi, nonostante questo continua a lavorare, vendendo alle cosche calabresi le sue macchinette o imponendole, con la forza, agli esercenti.

La sua voce viene intercettata nel 2011, in una conversazione con Guido Torello (suo collaboratore) nella quale, Torello, gli propone di risolvere il problema Tizian - con un colpo di pistola in bocca. «Il 22 dicembre ero a Catania, con la mia compagna, quando squilla il cellulare. Era la polizia per comunicarmi che da qual giorno avrei vissuto sotto scorta perché ero esposto a un rischio. In quel momento mi ritrovai solo». Gli articoli di Giovanni Tizian entrano nel fascicolo dell’inchiesta Black Monkey, che nel 2013 porta all’arresto di 29 persone, 150 indagati, 120 perquisizioni e 90 milioni di euro sequestrati. Il processo comincia nel 2014, uno dei più grandi mai istruiti contro la mafia al nord, anche Nicola Femia è alla sbarra e continua a minacciare Tizian dall’aula di un tribunale. «Legge un memoriale, con frasi minacciose, imputandomi tutte le colpe della sua disgrazie. Mi chiama il calunniatore e mi querela. Attenzione, non querela il giornale ma querela me, personalmente. Io mi sono costituito parte civile nel processo». Oggi Giovanni Tizian continua a fare le sue inchieste per le pagine dell’Espresso. Nella casa di Mo-

dena vasi pieni di sabbia e pietre delle spiagge di Bovalino, segni di radici che non possono sradicarsi: «Io tornerò sempre in Calabria, perché quella è la mia terra, la porterò sempre con me. Senza quel mare io non ci posso stare, è una questione di appartenenza. Sono cresciuto tuffandomi in quel mare: è una parte di me e guai chi me la tocca».


Giovanni Tizian, dal 2011 vive sotto scorta. A fianco la copertina del suo ultimo libro La nostra guerra non è mai finita (Mondadori)

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Don Maurizio Patriciello, parroco di Caivano. Nella foto a destra un’immagine del rione parco Verde. Sopra la chiesa di San Paolo

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Don Maurizio Patriciello «Qui moriamo per colpe non nostre. Non staremo zitti »

FACCE DA SCARP/5

che non riescono a pagarle; nell’altra ha una serie di lettere scritte a mano che conclude con la benedizione e la firma e indirizzate al supermercato del paese, in cui chiede di inviare spese di 50 o 100 euro che poi passerà a pagare.

Interviene come può nelle urgenze quotidiane e come sa a livello pubblico: in prima fila nella grande manifestazione Stop Biocidio, che a novembre 2013 portò alla ribalta nazionale la correlazione fra l’avvelenamento della terra e l’aumento esponenziale di morti per cancro; edi-

di Laura Guerra

info La Terra dei Fuochi A Caivano, comune al confine tra Napoli e Caserta si muore di inquinamento: il 47 per cento in più che nel resto d’Italia. Don Maurizio Patriciello, parroco di San Paolo apostolo, combatte il degrado stando vicino alla sua gente, respirando con loro lo stesso pericolo di morte. Firmando petizioni e denunce. Accendendo i riflettori su questa terra violentata in cui tutti hanno paura

Èil prete simbolo della Terra dei Fuochi. Conosciuto per l’opera di testimonianza e denuncia dell’avvelenamento colpevole e colposo di quella terra. Lui è Maurizio Patriciello, parroco nella chiesa di San Paolo di Caivano al Parco Verde. In nome di Dio, incessante il suo grido per questo pezzo di Campania di 57 comuni in 1.100 chilometri quadrati chiusi fra l’area a nord di Napoli e il basso casertano, dove sono state interrate per anni tonnellate di rifiuti tossici. Qui sono sepolti i fanghi velenosi di Porto Marghera e dell’Acna di Cengio; le discariche abusive sono decine e negli anni hanno raccolto, come documentato dalle indagini della magistratura, 807 mila tonnellate di rifiuti tossici industriali. Fin dagli anni Novanta, queste terre, vocate all’agricoltura di qualità, sono state violentate dallo smaltimento illegale. Che continua e assume un carattere ciclico: nelle

«Abbiamo le stesse malattie che hanno nelle zone a più alta densità industriale. Peccato che qui le industrie non ci sono»

prime settimane dell’anno sono stati riversati pneumatici e copertoni, seguiti dagli scarti dell’industria tessile, poi arriveranno pellami e materiali calzaturieri e, all’inizio dell’estate, quando cambieranno le coltivazioni, decine di metri quadrati di teli di plastica delle serre agricole. Le quantità sono impressionanti, tanto quanto il giro di interessi economici che generano, con la camorra che domina e controlla i flussi di rifiuti e di denaro.

Don Maurizio non sta a suo agio nella definizione di sacerdote simbolo perché sente e vive la sua instancabile denuncia come un dovere. Il dovere di stare accanto agli

ultimi del rione Parco Verde, dove i caseggiati di periferia dipinti, appunto, di un tenue verde primaverile, sono le quinte di una piazza di spaccio controllata palmo a palmo dai clan della camorra; qui vivono circa 5 mila persone, il 30% è pregiudicato. Quando lo incontriamo in parrocchia è giorno di consegna del pacco alimentare; in fila decine e decine di persone per ritirare qualche chilo di pasta, scatole di legumi, confezioni di pomodori pelati; va nel suo ufficio a prendere un mazzo di bollette intestate a parrocchiani

torialista dell’Avvenire, commentatore del Vangelo per a Sua Immagine su RaiUno. In ogni suo dire e incontrando vertici istituzionali civili e religiosi di ogni ordine, chiede una decisa lotta al lavoro nero che genera salari da fame, profitto illecito, evasione fiscale e, a fine della catena, rifiuti da smaltire irregolarmente, che diventano veleni infiltrati nelle falde acquifere, fumi pestiferi dei roghi tossici, frutta e verdura ai metalli pesanti. L’amara conferma è negli ultimi dati pubblicati dall’Istituto Superiore di Sanità che certifica che qui ci si ammala di tumore molto di più che nel resto della Campania, in particolare si ammalano i bambini entro il primo anno di vita. La denuncia per suo tramite è arrivata a Papa Francesco, ai presidenti della Repubblica, del Consiglio e della Regione, ai sindaci di Napoli che è una città metropolitana e quindi connessa ai destini dell’area nord. Non si stanca di percorrere ogni strada convinto che il Signore si stia servendo di lui per attraversare le sue infinite vie. Del resto fu per strada che germogliò il seme della sua vocazione tardiva: era infermiere caposala, un lavoro a servizio degli altri, sicuro e comodo all’ospedale di Frattaminore vicino casa. Un giorno diede un passaggio a frate Riccardo, francescano. Un incontro che lo segnò profondamente tanto da indicargli la scelta della vita sacerdotale. aprile 2016 Scarp de’ tenis

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Riad Da rifugiato a operatore sociale «Bello aiutare » di Paolo Riva

«E tu cosa ci fai qui?». Quando Riad Khadrawi ha sentito parlare il suo dialetto si è girato di scatto e ha riconosciuto il volto stanco e provato di uno dei suoi più cari amici. Entrambi nati e cresciuti a Erbin, cittadina alla periferia di Damasco, si erano persi di vista a causa della guerra in Siria e ora si sono rincontrati lì, al mezzanino della stazione Centrale di Milano.

info Casa dell’Ospitalità di Mestre. Nel 2015, sono stati 153.842 i richiedenti asilo sbarcati sulle coste italiane. Una cifra in calo rispetto ai 170 mila del 2014. Per la maggior parte provengono da Eritrea e Nigeria. Insieme queste due nazionalità sfiorano il 40% del totale, pari a oltre 50 mila persone. A seguire, i profughi provenienti da Somalia (12.176), Sudan (8.909), Gambia (8.123) e Siria (7.444). A seguire Mali (5.752), Senegal (5.751), Bangladesh (5.039) e Marocco (4.486)

Il primo appena arrivato dal Sud Italia dopo un tremendo viaggio in mare, pronto a ripartire per la Svezia. Il secondo nei panni di mediatore, volontario anche lui insieme ai tanti milanesi accorsi per aiutare i profughi in transito per la città. «Di tutti i momenti passati al mezzanino – ricorda – quello è stato sicuramente uno dei più belli». Mentre la crisi dei rifugiati, anziché risolversi, peggiora di mese in mese, la storia di Riad merita di essere raccontata. Per quanto piccola ed eccezionale, contrasta con le notizie dei morti in mare, dei blocchi alle frontiere, dell’accoglienza che manca e dell’intolleranza che cresce. Il suo sorriso entusiasta, il suo italiano spedito e i suoi progetti per il futuro ci ricordano quello che oggi l’Europa non è e, al tempo stesso, quello che potrebbe essere. A cominciare dal modo in cui gli è stato “concesso” di lasciare la Siria.

«Lavoravo in un’agenzia di viaggi e, quando nel 2013 la guerra non sembrava finire,

«Quando riesco porto i rifugiati in piazza Duomo, il mio luogo preferito, per far vedere loro qualcosa di bello» 40 Scarp de’ tenis aprile 2016

ho chiesto un visto per l’Italia, che mi è stato dato – racconta –. Non so come mai. Non so nemmeno chi abbia approvato la mia richiesta, ma se lo incontrassi oggi lo bacerei». Quel pezzo di carta ha evitato a Riad il terribile viaggio che centinaia di migliaia di suoi connazionali sono stati costretti a intraprendere. Non gli ha però impedito di essere rispedito indietro dalla Svezia a Milano. «Ho raggiunto un amico già rifugiato a Goteborg, ma mi hanno rimandato indietro per il regolamento di Dublino» (che obbliga a fare la richiesta di asilo nel paese d’ingresso nell’Ue, ndr).

Convinzione e fortuna hanno fatto il resto. L’accoglienza in un centro in provincia di Lecco è stata molto positiva. «Stavo in un appartamento, studiavo italiano, potevo cucinare da solo e avevo anche un abbonamento gratuito ai trasporti pubblici, che usavo per andare a Milano». Ed è proprio in uno dei suoi giri nel capoluogo che viene a conoscenza dei volontari attivi in stazione per aiutare i profughi. «Ero lì per aiutare la famiglia di un mio amico e ho conosciuto Susy Ioveno di Sos Erm. Così, dato che il lavoro era tanto, mi ha

FACCE DA SCARP/6

chiesto se volevo dare una mano. Ho accettato». Delle ore convulse e faticose in stazione, a colpire di più Riad sono state la paura dipinta negli occhi dei connazionali e la generosità mostrata dai milanesi. «I profughi non si fidavano, perché temevano che venissero prese loro le impronte e che, quindi, dovessero restare in Italia. Per contro, l’impegno e la generosità di cittadini e volontari sono stati straordinari». Nei confronti dei profughi in transito, ma anche nei suoi. Grazie al sostegno dei volontari della stazione, Riad ha trovato impiego come insegnante di arabo, ha poi organizzato cene siriane ed è riuscito a trasferirsi a Cormano, pagando una stanza in affitto. Infine, ha firmato un contratto, a tempo indeterminato. «Lavoro in un centro di prima accoglienza, che mi ha assunto alcuni mesi fa». Un’evoluzione positiva, eccezionale verrebbe da dire, ma reale. Che però non ha tolto dalla mente di Riad la Siria. «Resto convinto di voler

tornare un giorno nel mio Paese per ricostruirlo. Voglio farlo dopo aver ottenuto la cittadinanza italiana, per poter dare un contributo ad entrambe queste nazioni». Un piano a lungo termine, che però è già cominciato. «Con dei connazionali, tra cui diversi artisti, abbiamo creato un’associazione culturale siriana qui a Milano. Si chiama Alfabet e a giugno la presenteremo al Museo delle Culture». Riad si entusiasma mentre lo racconta, immagina l’arte e la bellezza come antidoto alla guerra e alle sofferenze dovute alla fuga dal proprio paese. Quando ha incontrato il suo vecchio amico in Centrale, gli ha fatto visitare la città. «Non si trattava solo di aiutare, ma di trascorrere del tempo insieme e così l’ho portato in Duomo, il mio luogo preferito. Quando lui e i suoi familiari sono arrivati in piazza e si sono trovati davanti la cattedrale, sono rimasti a bocca aperta. Erano mesi e mesi che non vedevano niente di così bello».


foto Stefano Merlini

Riad Khadrawi, rifugiato dalla Siria, ora lavora come mediatore culturale aiutando altri rifugiati

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Andrea Ruggeri per Fight The Stroke

Il piccolo Mario corre contento, alle sue spalle papĂ Roberto e mamma Francesca

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Fight the stroke «Storia di Mario, nato con l’ictus. Ora sa camminare » di Alberto Rizzardi

info L’associazione Fight the stroke viene costituita formalmente nel 2014 con l’obiettivo di rispondere alle necessità delle famiglie impattate dalla gestione di un sopravvissuto all’ictus. Educare alla consapevolezza che i bambini, anche quelli non ancora nati, possono essere colpiti dall'Ictus, ispirare le nuove generazioni e favorire la ricerca e l'adozione di terapie disruptive fightthestroke.org

Nella vita ci sono tanti momenti in cui si spera che tutto vada per il meglio: un esame universitario, il primo appuntamento, il giorno del matrimonio. Ma ce n’è uno, su tutti: la nascita di un figlio, dove tensione e fatica abbondano, ma dove tutto è stemperato da una gioia inebriante e totalizzante. Solo che non sempre, purtroppo, le cose vanno come dovrebbero andare. Come nel caso di Francesca e Roberto, una giovane coppia di Milano, la cui storia ha preso una piega diversa alla nascita del loro Mario cinque anni fa. Un’ecografia, dieci giorni dopo il parto, disse che Mario, aveva avuto un ictus cerebrale, poco prima o poco dopo la nascita, compromettendo la capacità di muovere la parte sinistra del corpo. Dopo la luce, il buio più cupo. L’ictus perinatale è un evento raro nella prima infanzia, ma non eccezionale: colpisce 2-3 bambini

Quel buio cupo dopo la diagnosi non c’è più: al suo posto di nuovo una luce, che diventa ogni giorno più brillante

ogni mille ed è molto difficile da diagnosticare nei neonati. Il rovescio della medaglia è rappresentato dalle migliori capacità di recupero dei piccoli pazienti colpiti rispetto a quelle degli adulti, perché i neuroni non interessati dalla lesione, ancora immaturi, hanno la straordinaria capacità di sopperire alle funzioni delle cellule nervose mancanti.

Un percorso, certo, lunghissimo e pieno di difficoltà. La stessa straordinaria capacità di reazione l’hanno avuta Francesca e Roberto, che, dopo una prima fase d’inevitabile e comprensibile disorientamento e chiusura, hanno risposto con coraggio e determinazione: intanto, scegliendo terapie diverse da quelle convenzionali, che, di fatto, accentuano il problema, spingendo ad “aggiustare” i piccoli malati. Poi decidendo di raccontare la loro storia, per aiutare se stessi e tante altre persone: a un Ted Talk nel 2013 e, un anno dopo, creando un’associazione, Fight the stroke, che si occupa di formazione e sostegno alla famiglie, condividendo esperienze e conoscenze. L’obiettivo è creare consapevolezza, dare una vita dignitosa ai bimbi colpiti da ictus e arrivare a

FACCE DA SCARP/7 una diagnosi precoce. Come? Lavorando a stretto contatto con medici e neuropsichiatri, promuovendo percorsi riabilitativi basati sulla teoria dei neuroni specchio (cellule nervose motorie che si attivano quando si guarda qualcuno che compie un gesto e che “insegnano” al cervello a ripetere lo stesso movimento) e studiando tecnologie che, attraverso il gioco, rendano più agevoli ed efficaci il recupero e la fisioterapia.

Condivisione, mutuo aiuto e co-creazione le parole d’ordine dell’associazione, che cresce mese dopo mese: all’interno della comunità è nato il progetto Mirrorable, che si basa proprio sul meccanismo dei neuroni specchio ed è attualmente in fase di finanziamento. Si tratta di una piattaforma di video-riabilitazione che aiuta i bambini affetti da emiplegia, una delle conseguenze principali dell’ictus in età precoce, attraverso video costruiti ad hoc, all’insegna del peer learning. Il tutto con un respiro internazionale. La storia di Francesca e Roberto e il percorso in divenire di Fight the stroke sono raccontati anche in un libro, “Lotta e sorridi” (Sperling & Kupfer), sulla cui copertina campeggia il piccolo Mario. Già: e Mario? Lo avevamo lasciato all’inizio del suo cammino. Oggi ha cinque anni: corre e gioca, cade e si rialza come tutti i bambini.

Ovvio, le difficoltà non mancano: di recente ha fatto capolino anche l’epilessia, molto probabile in caso di lesioni al cervello, ma le potenzialità sono enormi e i risultati finora raggiunti considerevoli. Insomma, quel buio cupo dopo la diagnosi non c’è più: al suo posto di nuovo una luce, che diventa ogni giorno più brillante.

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Giana «Milano è casa mia Finalmente non ho più paura » di Ettore Sutti

Giana quando la vedi ti sorprende subito. Perchè con la sua faccia da ragazzina sorridente non rientra proprio nell’idea che abbiamo delle donne rom. Giana ha 27 anni, è nata in Kosovo, è sposata ed ha due figli. Vive a Milano dal 2003 e qui, ormai, si sente a casa: «Mio marito ha un lavoro. I miei figli vanno a scuola. Abbiamo una casa tutta nostra: cosa chiedere di più?».

info

Quanti sono In Italia rom, sinti e camminanti sono circa 170 mila cioè lo 0,25% della popolazione, una delle percentuali più basse in Europa. La metà dei rom che vivono in Italia sono cittadini italiani. Il resto sono cittadini di altri Stati Ue e di paesi extracomunitari. Molti sono rifugiati e apolidi arrivati dai Balcani a seguito delle guerre degli anni ‘90, come Giana. Il nomadismo è un fenomeno ormai molto marginale: sono circa 35 mila i rom e sinti che abitano nei campi, e questo vuol dire che 4 persone rom su 5 vivono in una casa, studiano e lavorano. A Milano vivono circa tremila persone di etnia rom

A sentirla parlare sembra sia tutto semplice e scontato. Ma è proprio così? Perché è vero che Milano negli anni è cambiata e l’integrazione è diventata ormai una prassi consolidata. Ma essere rom, anche o soprattutto oggi – momento in cui diventano spesso capro espiatorio – è tutt’altro che semplice. Chiedetelo al figlio di Giana, unico ragazzo di origine rom in una scuola media della periferia milanese, se davvero è così facile integrarsi. Oppure a lei che, nonostante sia scappata dalla sua città durante la guerra, ci ha messo più di dieci anni per ottenere la protezione sussidiaria. Già perché essere rom significa essere all’ultimissimo gradino della scala sociale. Dove tutto è complicato. Entrare in un negozio a comprare qualcosa, accedere alle cure sanitarie, ottenere un posto di lavoro.

Non a caso solo pochissimi dichiarano la loro ap-

«Noi viviamo in pace in quella che riteniamo come la nostra città. Sogno di poter riabbracciare le mie sorelle» 44 Scarp de’ tenis aprile 2016

partenenza al “popolo del vento”. La maggior parte si dichiara cittadino del paese di origine: rumeno, kosovaro, serbo. Così si è solo stranieri. Sempre meglio che essere rom. Anche se italiani. Giana però non ci sta. «Né io né mio mio marito abbiamo mai mentito sulle nostre origini. E nemmeno sul fatto che fino a quattro anni fa abitavamo in un campo. Noi siamo rom. Ma non tutti i rom sono uguali. Noi rispondiamo solo delle nostre azioni e del nostro modo di essere. E non siamo disposti a scendere a compromessi su questo. Perchè dovrei vergognarmi? Perche mai dovrei rinnegare i miei nonni o i miei genitori? Se alcuni giudicano dalla apparenze o sul sentito dire, non posso farci nulla. Noi viviamo bene e in pace in quella che ormai consideriamo la nostra città. E finalmente non ho più paura».

Sì. Oggi Giana non ha più paura. Non si sveglia più nel cuore della notte. E non trema nel letto finché il temporale è passato. Il rumore delle bombe che cadevano su Mitrovica, la sua città, mentre da ragazzina dodicenne scappava insieme ai nonni, finalmente è diventato un ricordo lontano. «Ho anche ricordi belli, degli anni prima della guerra. I nonni, i giochi, le mie sorelle. Poi le bombe, la fuga, il rumore. Tutto quel rumore. E mio nonno che non c’era più. Disperso sotto i bombardamenti. Poi la nuova vita. Prima a Brescia e poi a Milano. Nel campo. Nella casetta che i miei nonni si sono costruiti dopo

FACCE DA SCARP/8 aver vissuto in una roulotte. E mio marito. Il mio bravissimo marito. Che mi ha regalato due figli e una casa. E la forza per andare avanti».

Da quattro anni Giana e la sua famiglia hanno finalmente una casa tutta loro. Il padrone di casa scherza sul fatto che Giana deve essere di origini svizzere perché è sempre la prima a pagare l’affitto, anche prima della scadenza. «É bello avere un posto tutto per noi. Una casa vera. Con la cucina, il salotto e le camere da letto». Giana non se ne accorge ma sorride mentre parla della sua famiglia e della sua casa. E pensare che c’è ancora chi crede che i rom siano tutti nomadi e che abbiano bisogno di campi di transito in cui stare. Una vita semplice, ma tutt’altro che scontata per chi ha perso tutto sotto i bombardamenti di una guerra che non sa nemmeno perché è iniziata.

Giana, però ha tre sogni chiusi accuratamente nel cassetto. Sogni piccolini che, però, renderebbero perfetta la sua vita. «Ora che ho il permesso di soggiorno vorrei tanto andare a Parigi a incontrare le mie sorelle. L’ultima volte che le ho potute abbracciare è stato poco prima che fossi costretta a scappare sotto il bombardamento di Mitrovica. E poi vorrei tanto avere un lavoro tutto mio. So cucinare, mi piace stare in mezzo alla gente, adoro chiacchierare. Spero di riuscire a trovare qualcosa. Così posso mettere da parte i soldi per i miei figli». Già, i figli. Che so’ pezze ‘e core. Per tutti. Anche per i rom. Giana spera, e questo è il suo ultimo sogno, che continuino ad essere dei bravi ragazzi. E che magari continuino a studiare. «Loro oggi possono scegliere. Non come noi che a 16 anni eravamo già sposati e impegnati a portare a casa il pane. Loro possono sognare in grande. Spero continuino a farlo».


foto Stefano Merlini

Scappata dal Kosovo sotto i bombardamenti Giana si considera milanese a tutti gli effetti

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foto Stefano Merlini

Federica e Camilla, in tuta, prima dell’allenamento sul campo dell’Ausonia Milano

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Federica e Camilla mister in gonnella Tukiki e il calcio da extraterrestri di Stefania Culurgioni

«Sono come un extraterrereste che si è perso in questo mondo. Non ho un manuale per

info Il Progetto Tukiki è nato per dare la possibilità di praticare sport senza barriere. Federica Cappella e Camilla Meroni, giocatrici di calcio della Ausonia Milano, hanno aperto una scuola di calcio per bambini e ragazzi con disabilità cognitive

sapermi orientare. Ma sappiate che non desidero essere guarito da me stesso. Concedetemi la dignità di ritrovare chi sono nel modo che desidero. Lavorate con me per costruire ponti tra di noi». Lo scrisse un ragazzo autistico di grande intelligenza, si chiamava Jim Sinclair, erano gli anni novanta, e oggi c’è un campo da calcio in terra sintetica, a Milano, che sembra rispondere a quella esortazione. Eccoli lì, dieci marziani correre dietro a un pallone. Non c’è niente da fare. Metti una boccia in mezzo ad un campo con due porte agli estremi, ma ne basta anche una, gli umani gli correranno dietro e se la contenderanno. Quando lei ro-

tola, tu ti accendi, e non importa di che pasta cerebrale sei fatto nel mondo di fuori. La palla rotola, tu ti accendi. Tuona un aereo sulla cima del cielo, nel buio della sera, copre per

un attimo la voce dell’allenatrice, ma i concetti del calcio sono roba semplice, quando c’è da allenarsi: si chiama Federica Cappella, ha

27 anni, di mestiere fa la trainer in una palestra, è laureata Isef, gioca a pallone da sedici anni. Poi un giorno è andata in Madagascar, ci è rimasta un mese a fare la volontaria ai bambini poveri, e quelli, che la vedevano intristirsi, le dicevano: «Ehi Federica, tukiki!», che vuol dire: «Ma sorridi no? Sorridi!». Sono quelle cose che da occidentale non comprendi bene. Ti dici: ma come? Sorridi di cosa, proprio tu poi, messo così. Ma quando è tornata in patria, ha capito. Se la sua fonte di gioia pro-

veniva da una palla rotolante, bisognava che trasmettesse gioia anche in chi di gioia ne aveva di meno, così insieme a Camilla Meroni, 32 anni, educatrice e skipper, lo hanno fatto. Hanno passato in rassegna i centri diurni per disabili di Milano e hanno fondato la

prima, vera, grande squadra di calcio di extraterrestri: autistici e disabili intellettivi, i Tukiki. (Che poi, chi l’ha detto che

Eccoli lì dieci marziani che corrono dietro a un pallone. La palla rotola, tutti si accendono. Contagiati dal calcio

di felicità ne abbiano meno degli altri). «Ci alleniamo ogni mercoledì e venerdì per un’ora, nel campetto del centro sportivo Dindelli – racconta Federica, che insieme a Camilla gioca nella squadra calcistica femminile Ausonia e ha realizzato il progetto insieme alla Special Olympics Italia – ci sono una decina di ragazzi dai 14 ai 19 anni con diverse disabilità, la maggior parte sono autistici. Molti di loro avevano già giocato in altre squadre, ma non riuscivano a stare insieme agli altri». Qui, vai a capire perché, è di-

FACCE DA SCARP/9 verso. È vero che ci sono tante forme di autismo, è che vero che dire “autismo” è come racchiudere in un termine solo una galassia di sfumature, ma quando li osservo da bordo campo, li vedo come giocatori di calcio, e basta. Sul campo ci sono i cinesini poggiati per terra a due a due, ciascuna coppia ha un colore. L’allenatrice dice:

«Correte dietro alla palla. Poi mettete un piede sulla palla. E cosa succede? Succede una magia! La palla si ferma. Visto? Si ferma!». I giocatori eseguono. Sono perfetti. L’allenatrice dice: «Ora io dico verde, e voi correte con la palla in mezzo ai cinesini verdi. Pronti? Verde!». E loro ci si infilano come anguille, e non si scontrano. Ti verrebbe da dire: beh facile, sono ciascuno per conto loro, autistici puri, da manuale. E invece no: arriva il momento dei tiri in porta con passaggio. Fila di palloni sulla riga di mezzo campo. Camilla passa

ad Alessandro, maglia verde, numero 10, Alessandro passa ad Eugenio, alto, pantaloncini corti, tiro in porta, gol. Poi certo, nel frattempo un compagno si è buttato per terra e ha cominciato a rotolarsi stringendosi le ciocche di capelli, ma si sono parlati o non si sono parlati, quei due, prima di arrivare in porta, con un passaggio di piatto? Tukiki e le due ragazze si sono prese un premio, qualche settimana fa: è il Premio Campione, nato da un’idea di Mario Furlan, fondatore dei City Angels, che assegna riconoscimenti a chi migliora il proprio ambiente sociale e dà un esempio positivo all’opinione pubblica. Ecco, qui

l’esempio non è tanto aver fatto una squadra di calcio di giocatori con disabilità cognitiva, ma averli considerati talmente normali che quella smania del calcio che si attacca alle ossa e al cervello manco fosse un’epidemia (colpisce gran parte degli italiani), potesse contagiare anche loro. Li ha contagiati davvero. Andate a vederli. aprile 2016 Scarp de’ tenis

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Pao Dalla strada alla galleria con un approccio fresco

Pao è uno che cita Picasso - La pittura non è fatta per decorare gli appartamenti. È uno strumento di guerra offensiva e difensiva contro il nemico – e Bruno Munari – È necessario oggi in una civiltà che sta diventando di massa, che l'artista, scenda dal suo piedistallo e si degni di progettare l'insegna del macellaio (se la sa fare). Lo incontriamo nel suo studio alla periferia di Milano. Sta finendo due opere per una fiera di arte contemporanea. Sono due pinguini splendidi in vetroresina. Con il suo tratto distintivo, che è la leggerezza. «L’arte di strada è un mezzo straordinario per trasformare lo spazio pubblico, per modificare la realtà. È un efficace strumento di dialogo che l’arte contemporanea ha un po’ perso, avvitata su se stessa. L’arte di strada determina il paesaggio urbano, influisce sulla realtà, incontra ogni giorno un pubblico vastissimo. Per questo ha una capacità

pinto per la prima volta per la strada non ero un writer, eppure lì mi sono messo a dipingere, dedicandomi per anni a questa attività, senza mai sentirmi un graffitaro. Oggi, in galleria, porto quello spirito originario, porto quello che sono, con un approccio fresco». «Una delle domande che mi pongo – si legge in un suo catalogo – è quale sia il ruolo dell’artista nella società. Io penso che l’artista abbia il compito di esplorare i territori meno battuti, di vedere quello che gli altri non vedono e di mostrare punti di vista inediti, lo stupore, la meraviglia, anche l’orrore se necessario. Passando dalla strada e dalla sua libertà all’ambito ristretto della tela bianca e della galleria mi sono trovato a dover ricominciare da zero, questa volta con maggior consapevolezza». A noi piace Pao, una faccia da Scarp, anche per questo. Perché qui a Scarp nella categoria “tra chi ricomincia o riparte da zero”, siamo in tanti.

bombolette spray perfettamente ordinate, un caleidoscopio di colori. I resti di un panettone stradale con il famoso pinguino. Un pezzo di cucina. Il divano, che ce l’aveva anche anche Andy Warhol a New York.

E ancora due pinguini stupendi, colorati, non finiti, sui quali Pao – artista, classe 1977, una compagna, Laura, e due bimbi – sta dando qualche tocco di pennello. Ecco. Togliamo subito un dubbio. Pao non è solo l’artista di strada che tutta Italia ha imparato a conoscere per i suoi lavori, simpatici, allegri, colorati. Pao non è solo uno dei più importanti street artist del panorama italiano. E non è neppure uno di quegli artisti con i quali fai fatica a parlare perché

Paolo Bordino non è soltanto uno dei più affermati street artist italiani. Ma è un artista completo. Contemporaneo 48 Scarp de’ tenis aprile 2016

Pao oggi lavora sullo spazio e sulle sue dimensioni. Palcoscenico. Spazio. Si vede che alle spalle ha una formazione teatrale. «Ho lavora-

parlano un linguaggio che non capisci, e che, spesso, è davvero fatto di tanto tanto fumo. Pao è altra

Due scalini, seminterrato. Entri nello studio di Paolo Bordino, in arte Pao, e ti sembra di entrare in un mondo magico. Centinaia di

Pao è nato nel 1977 a Milano, dove vive e lavora. Si forma in teatro come macchinista, fonico e tecnico di palcoscenico con la compagnia di Franca Rame e Dario Fo. Studia e lavora presso i laboratori del Teatro alla Scala di Milano e nel 2000 realizza i suoi primi interventi di Street Art. Ha esposto i suoi lavori in varie rassegne d’arte tra cui al Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano, alla Triennale di Milano, alla Biennale di Venezia

immediata di veicolare messaggi».

to come macchinista, fonico e tecnico di palcoscenico con la compagnia di Franca Rame e Dario Fo. Ho studiato e lavorato presso i laboratori del Teatro alla Scala di Milano. Solo nel 2000 ho realizzato i primi interventi di Street Art». I pinguini sui paracarri in cemento, le lattine di Pao Cola e zuppa Campbell’s sui bagni pubblici, smile e palle da biliardo, delfini e squali, pellicani, margherite e tanto altro. Nel 2005 fonda Paopao Studio, come naturale conseguenza della sua attività artistica. Dalla strada allo studio. Senza perdere il gusto delle nuove sfide. «Passare dalla strada alla galleria è una sfida decisiva, importante. Nel mio per-

di Stefano Lampertico

info

FACCE DA SCARP/10

cosa. È un artista completo. Contemporaneo. Che ha fatto della strada il palcoscenico apprezzato dei suoi primi lavori, ma che non si è fermato lì.

corso d’artista mi sono sempre trovato di fronte a luoghi sconosciuti da scoprire, a muri da abbattere, a spazi da trasformare. Quando ho di-


Paolo Bordino, in arte Pao. L’artista milanese nel suo studio con uno dei suoi famosissimi e colorati pinguini. Nella pagina a fianco nel riquadro il pinguino con le scarpe da tennis, omaggio alla nostra rivista

aprile 2016 Scarp de’ tenis

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TORINO

Opportunanda Vent’anni di strada di Vito Sciacca e Cristina Cellamare

Fin dall’inizio l’associazione si è distinta per una spiccata tendenza all’innovazione progettuale nell’ambito degli interventi per i senza dimora. Un esempio, seguito poi da molti altri, fu la sperimentazione delle convivenze guidate 50 Scarp de’ tenis aprile 2016

A Torino, nel centrale quartiere di San Salvario (in via Sant’Anselmo 28), ha sede un’associazione che si occupa di adulti in difficoltà e persone senza dimora. Il suo nome è Opportunandae in marzo ha festeggiato i venti anni di attività. Una storia molto vicina a quella di Scarp de’ tenis. Opportunanda nacque quasi per caso: «Tutto iniziò – spiega Giacomina Tagliaferri, co-fondatrice dell’associazione e riferimento storico – nel 1994, con un giornale di strada che si chiamava La Città Invisibile, su iniziativa di un gruppo di operatori e ospiti della casa di ospitalità notturna di via Marsigli 12». I primi tre numeri del giornale furono finanziati dall’assessorato alle Politiche Sociali, ma per accedere al finanziamento occorreva lo status di associazione, perciò fu costituita. L’avventura editoriale durò circa un anno, al termine del quale si pose il dilemma di cosa fare dell’associazione: fu allora deciso di mantenerla in vita e di chia-


marla Opportunanda, gerundio inesistente nel vocabolario italiano ma che fu scelto con il significato di un “qualcosa” che avrebbe creato opportunità.

Un momento delle celebrazioni per i vent’anni di Opportunanda. Nella foto a destra alcune opere di Mario Arduino

Risale al 2002 l’apertura del centro diurno che per molti anni rimase l’unico presente in città, in grado di fornire un’alternativa alla strada, soprattutto nei mesi invernali. Dal 2005 il centro si è spostato nei nuovi locali di via Sant’Anselmo 28, che da allora ospitano la maggior parte delle attività dell’associazione

Laboratorio sociale Fin dall’inizio l’associazione si distinse per una spiccata tendenza all’innovazione progettuale nell’ambito degli interventi per i senza dimora. Un esempio fu la sperimentazione delle convivenze guidate, attuate a Torino per la prima volta e che vennero recepite con interesse dalle istituzioni: nate come sostegno all’emergenza freddo divennero esperienze pilota di reinserimento graduale delle persone in attesa di avere una casa. In seguito, le prime nove convivenze guidate furono prese in carico dal Comune e Opportunandaproseguì l’esperienza in proprio; attualmente sono operativi tre alloggi che possono ospitare 3-4 persone ciascuno per 6-12 mesi. Fino ad oggi sono state ospitate più di 50 persone, che nella quasi totalità hanno poi raggiunto l’autonomia. Altra importante innovazione fu l’apertura nel 2002 di un centro diurno, che per molti anni rimase l’unico in città, in grado di fornire un’alternativa alla strada soprattutto nei mesi invernali. Dal 2005 il centro si è spostato nei nuovi locali di via Sant’Anselmo 28, che da allora ospitano la maggior parte delle attività dell’associazione. Aperto dal lunedì al venerdì dalle 8.30 alle 12, accoglie circa 1.500 persone l’anno, in maggioranza uomini, con oltre 15 mila passaggi in totale; moltissimi tra coloro che lo frequentano sono stranieri. Progetti nati dall’ascolto «Tutte queste iniziative – dice ancora Giacomina – non sono il prodotto di progetti fatti a tavolino ma

scaturiscono dall’ascolto delle persone cui sono destinate: quasi iniziative ad hoc fatte per sopperire a bisogni reali». In quest’ottica si inseriscono i laboratori, operativi da diversi anni, nei quali sono svolte attività diversificate: cucito, cucina, canto, teatro, lavorazione del legno e creatività. Sono poi organizzate delle cene settimanali, in concomitanza con il laboratorio di cucina, che costituiscono momenti conviviali in cui nascono e si consolidano rapporti tra le persone, una sor-

ta di antidoto alla solitudine che accompagna chi vive in strada. Accogliere le persone, ascoltarle e sostenerle nel percorso di reinserimento ha comportato ben presto l’apertura di un vero e proprio centro di ascolto, con colloqui diretti e personali: emergono bisogni e richieste ai quali si cerca di dare una risposta anche attraverso l’accompagnamento ai servizi socio-sanitari o ad altre agenzie o associazioni del privato sociale. Il centro di ascolto è aperto dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 12. Nel 1999 Opportunanda iniziò la collaborazione con Scarp, istituendo la redazione torinese, curandone le attività e la gestione delle vendite in città fino al 2013 quando il progetto è stato preso in carico dalla Caritas diocesana.

INIZIATIVE

Dalla strada alla produzione artistica, le opere di Mario Arduino in mostra Per il ventennale di Opportunanda, sabato 5 marzo si è svolto un incontro nei locali dell’associazione per presentarne le attività e i progetti. Il pittore Mario Arduino, da sempre legato ad Opportunanda, ha esposto alcune sue opere e ha accettato di parlarci del suo lavoro. Quando hai scoperto la tua passione per l’arte? Credo di averla sempre avuta. Già quando andavo a scuola l’educazione artistica era la materia nella quale eccellevo. E a dirla tutta non è che nelle altre andassi gran che bene. In ogni caso dipingere, o fare collages, per me è esprimere qualcosa che ho dentro e che preme per uscire. L’unico rammarico è essere partito tardi, solo da quindici anni produco seriamente. Perché hai iniziato da così poco tempo? La mia vita è stata piuttosto travagliata. Ho trascorso un periodo in strada e in simili frangenti dipingere diventa un’utopia. Solo quando ho ritrovato una stabilità ho potuto riprendere in mano i pennelli. Qual è il filo conduttore delle tue opere? Seguo l’estro del momento ma un filo conduttore penso vada ricercato nell’uso del colore: sono da sempre stato affascinato dalla pop art, dalla possibilità di stravolgere oggetti ed immagini di uso comune e trasformarli in tutt’altro. Hai accennato a un passato da homeless ma nei tuoi lavori non traspare nulla: come mai? Vuoi dimenticare? No, non si devono dimenticare queste cose, ma penso che crogiolarsi nelle proprie disavventure sia deleterio. Non rinnego ne rimpiango nulla, anzi sono orgoglioso di essere riuscito a risollevarmi, ma credo che il passato lo si debba lasciare alle spalle e guardare avanti. aprile 2016 Scarp de’ tenis

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VERONA

Il momento della consegna del premio Verona Giovani alla Ronda della Carità

Una premio per La Ronda, impresa di carità di Elisa Rossignoli

Il premio Verona Giovani (organizzato da Api Giovane – Associazione piccole imprese) nel corso degli anni è diventato un evento ormai tradizionale a Verona. Quest’anno, il prestigioso riconoscimento, giunto alla sua ottava edizione, è stato conferito all’associazione di volontariato Ronda della Carità. Un bellissimo risultato per il gruppo presieduto da Marco Trezza che ha appena festeggiato il suo ventesimo compleanno. La Ronda, com’è affettuosamente conosciuta per le strade della città scaligera, dal febbraio 1995, ogni notte incontra le persone che sulla strada vivono e dormono, offrendo loro aiuto, ascolto e un pasto caldo. Nata dall’idea di un gruppo di amici, come spesso

L’associazione compie 20 anni di attività e ottiene il prestigioso premio Verona Giovani dell’Api 52 Scarp de’ tenis aprile 2016

accade, ora conta più di 200 volontari e i pasti distribuiti sono circa 54 mila all’anno. E, oltre a con-

tinuare l’attività di strada con cui aveva iniziato, l’associazione è oggi coinvolta in progetti di accoglienza temporanea e di reinserimento sociale, nonché nella distribuzione di aiuti materiali anche per le famiglie che si trovano in condizioni di povertà. Imprese della carità La cerimonia di premiazione, avvenuta la sera del 26 febbraio, è stata accompagnata da una tavola rotonda dal titolo “Impresa della Carità”, incentrato sul tema delle povertà nel territorio e sulle modalità per affrontarne i bisogni. Sono intervenuti l’assessore alle politiche sociali del comune di Verona Anna Leso, che ha rinnovato la disponibilità del comune , con interventi il più possibile mirati, Michele Righetti, direttore della Casa di accoglienza Il Samaritano (Caritas diocesana Veronese), che ha affrontato la tematica

scottante della grave marginalità fra i giovani (18-25 anni), in continuo aumento, e don Carlo Vinco, da molti anni impegnato nel sociale, ha sottolineato come i volontari della Ronda abbiano contribuito a spezzare la paura dell’incontro con chi vive sulla strada. «Imprese della Carità – spiega Marco Tezza – sono le associazioni come La Ronda, che si organizzano in modo sempre più strutturato per venire incontro alle necessità delle nuove povertà, ma anche quelle imprese che ci hanno supportato fin dall’inizio della nostra avventura. Ad

oggi sono circa quaranta a offrirci gratuitamente diversi generi alimentari e di prima necessità. Inoltre, abbiamo il validissimo e costante aiuto di almeno 6 “baite alpine” (le associazioni di alpini locali) sparse tra Verona e provincia, e il supporto del progetto Rebus (per il recupero delle eccedenze alimentari) delle Acli e del Banco Alimentare. Senza di loro sarebbe possibile ben poco». Aspettando il Banco tessile Lo spirito della condivisione, della lotta agli sprechi e della solidarietà è multiforme ma ha una caratteristica unica e imprescindibile: per sua natura si propaga, come i cerchi nell’acqua. «Per il nostro nuovo progetto, il Banco tessile – spiega Marco Tezza –, riutilizziamo tutti gli indumenti che riceviamo in donazione e che non sono adatti alla distribuzione, e le nostre volontarie li riadattano per poi venderli in un piccolo negozio dove persone in condizioni di povertà possono trovare ciò di cui hanno bisogno, con unasimbolica offerta. L’idea è stata accolta dalle Circoscrizioni della città, che si stanno attivando per ospitare punti distribuzione del banco tessile nei loro spazi. Gli indumenti che non vengono utilizzati al Banco li doniamo a diversi progetti, sia locali che internazionali, che ce ne hanno fatto richiesta. Ad oggi abbiamo inviato loro circa 2.500 sacchi di abiti da riutilizzare».


VENEZIA

Mirco nel locale che ha riportato a nuova vita in quel di Mestre. «Qui mi sento libero», dice

In un locale le tante vite di Mirco di Michele Trabucco

Mirco Erizzo ha vissuto tante vite. Prima il carcere per tanti anni, poi la strada, poi la vita sregolata e sfrenata, poi l’alcol e lo spreco di soldi, tempo ed affetti. Ma ora, a 54 anni, ha scelto di iniziare un’avventura diversa. Dove è lui il protagonista in senso positivo e costruttivo. L’occasione è nata da un incontro con una sua vecchia compagna delle elementari di Marghera, zona industriale e periferica della terraferma veneziana. Un incontro che fa ritrovare a entrambi la voglia di cogliere un’opportunità, complice un locale chiuso da tempo. Una pizzeria che stava andando in rovina, rendendo la zona meno viva e attraente. Galeotta fu la bici Così, passeggiando in bicicletta viene lanciata l’idea di riaprire lo storico

Prima il carcere, poi la strada e l’alcol. Poi la voglia di riscatto. Che ogni giorno Mirco mette nel lavoro alla cichetteria

ristorante di Mestre, a ridosso del centro città, in mezzo a un quartiere popoloso e con diverse scuole intorno. Mirco e Monica si danno da fare e riescono ad avere l’aiuto burocratico – lei è ragioniera, lui ha sempre fatto lavoretti nel settore edile – ed economico per prendere in affitto spazi e arredi. Inizia così l’avventura del “Time out”, pizzeria, ristorante e cichetteriadella tipica cucina veneziana in via Cattaneo 22, a Mestre.

Nell’Ottobre 2015 si tirano su le maniche e, coinvolgendo anche amici, si danno da fare per scrostare, pitturare, ridisegnare, lavare, sistemare l’ampio locale. Mesi di lavoro per arrivare al 2 gennaio 2016, giorno dell’inaugurazione. Tanti gli amici presenti, soprattutto quelli della Casa dell’ospitalità di Mestre, dove Mirco ha trovato negli ultimi 6 anni aiuto e sostegno per riprendersi la vita. Ma anche tante persone del quartiere, curiose di vedere chi aveva riaperto quel locale tanto amato. Mirco ora è felice Nuova gestione, nuovi piatti, nuovi sorrisi. Primi, carne e pesce, ma soprattutto quei “cichetti” tanto amati dai veneziani: saredee in saor, moscardini, folpetti, seppie in umido e in rosso e l’immancabile spritz. Mirco è felice di questa nuova avventura: «Mi sento libero. Ho lavorato diverse volte ma in modo saltuario e sempre sotto padrone. Adesso, invece, sentire la responsabilità di aprire e chiudere il locale, sapere che il risultato dipende dalle mie mani e dalla mia capacità mi regala una sensazione totalmente diversa. Prima mi sembrava di essere in carcere. Qui sono io che decido. Anzi siamo insieme a decidere, perché noi due, io e Monica, insieme a Monir il pizzaiolo, e la stagista in cucina, siamo una famiglia. Discutiamo insieme, decidiamo insieme, ci diamo una mano a vicenda» . Una sfida tutt’altro che semplice ma sono in tanti a tifare per loro.

IL CASO

La fortuna di incontrare le persone giuste La vita di Mirco non è stata facile per lui né per le persone intorno a lui. È tornato a vivere con la mamma appena uscito dal carcere, ma poi quando è mancata, nel 2009, ha sperperato quello che gli era rimasto. Ha avuto relazioni importanti con tre donne da cui ha avuto quattro figli, con cui ha un buon rapporto, tanto che tutti sono venuti a mangiare al ‘suo’ ristorante. Ha fatto tanti sbagli ma ha anche trovato persone che lo hanno aiutato e accompagnato. Ci tiene a ringraziare Laura B. e Barbara V., due operatrici-assistenti sociali che hanno saputo sostenerlo e lo hanno aiutato a ricostruire una bella vita. aprile 2016 Scarp de’ tenis

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VICENZA toressa, si incontrano e vanno insieme al bar per un caffè. Comincia così una strada lunga e piena di intoppi, dove la Caritas con Maria Giacobbo cerca quella soluzione, quel traguardo che si conquista solo con la pazienza, il tempo, il rispetto della dignità della persona. Da quando Maria Giacobbo e Matteo si sono conosciuti sono passati cinque anni prima di trovare una possibile soluzione.

Matteo, salvato da un incontro, ora ha una casa di Cristina Salviati

Matteo è un nome di fantasia. Ma la sua storia non ha niente di fantasioso. Anzi, nei suoi risvolti raccapriccianti, è l’indice di come le norme e le leggi siano disattente nei confronti di chi ha cercato sempre di condurre un’esistenza tranquilla e rispettosa delle leggi. Matteo ha sempre lavorato, un lavoro duro, 34 anni in fonderia che però lo rendono orgoglioso. È uno scapolone e ha sempre vissuto con la mamma a cui consegnava l’intero stipendio. Ne avanzava anche per incontrare gli amici e per far festa, insomma una vita equilibrata tra il lavoro e gli svaghi meritati. Nel 2003 Matteo ha 53 anni, la fonderia chiude i battenti e lui resta senza lavoro. Manca ancora un anno di contributi per poter ricevere la pensione. Per cinque anni tira avanti grazie alla pensione della madre, ma

L’incontro e l’amicizia con la dottoressa Maria Giacobbo hanno cambiato la sua vita. Perché la dignità nasce dal rispetto 54 Scarp de’ tenis aprile 2016

quando, nel 2008, l’anziana muore deve lasciare l’appartamento dove abita, e rimane senza niente. Allora

si adatta a dormire al ricovero notturno, ma quegli stanzoni pieni di persone sconosciute non fanno per lui, e dopo un mese abbandona, scegliendo i cartoni e le coperte, la strada come letto e una galleria del centro di Vicenza come tetto. L’incontro con Maria È qui che la dottoressa Maria Giacobbo, allora direttrice del centro oncologico di Padova e presidente dell’associazione Diakonia onlus, braccio operativo della Caritas diocesana vicentina lo nota. La dotto-

ressa lo segnala all’unità di strada della Caritas ma Matteo di sera non si fa trovare. La vigilia di Natale Maria lascia un panettone; al mattino Matteo non ha dubbi, il regalo è della signora gentile, e quando la incontra rompe il ghiaccio per ringraziarla. Comincia così un’amicizia di quelle belle, basate sulla fiducia e sul rispetto reciproco. Tutte le mattine Matteo, il senza tetto, e Maria, la dot-

Una casa tutta sua Nel 2013 la Caritas vicentina apre il social housing Casa Beato Claudio Granzotto: per Matteo è la svolta, gli viene offerto un appartamento e lui coglie l’occasione. L’assistente sociale gli assegna il minimo per far fronte alle spese, e quando riesce fa qualche lavoretto. Comunque ogni mattina, alle 5.20 in punto, si presenta per il caffè con la dottoressa. «Èuna bravissima persona – dice Maria Giacobbo –, sempre in ordine, pulito anche quando dormiva in strada. Non annegava la tristezza nell’alcol come fanno altri, passava le giornate in biblioteca». «Quante letture – rincara Matteo –. Mi leggevo tutti i giornali, poi passavo ai libri». «E poi si è fidato di me, è stato bravo – aggiunge Maria –. Quando mi sono accorta di un brutto bozzo a lato del collo». Non bastava aver perso tutto, Matteo ha dovuto fare i conti anche con un tumore: prima la chemio, poi ben trenta sedute di radioterapia, e alla fine l’operazione. Un altro calvario per Matteo e un impegno indefesso per la dottoressa.

Con la malattia arriva però una piccola pensione di invalidità e il primo pensiero di Matteo è per la dottoressa: «Sapevo che le piacciono i fiori e le ho regalato una gardenia». Mentre Matteo racconta, gli squilla il cellulare, è il geometra del comune che gli dà appuntamento per la firma del contratto d’affitto: 70 metri quadri tutti per lui. Sì, perché dal primo gennaio è finalmente arrivata la pensione, quella giusta, che gli spetta di diritto. In aprile Matteo si trasferirà nella nuova casa e riprenderà in mano la sua vita.


SUD

Uno dei tantissimi muri d’autore sparsi per il quartiere Fornelle a Salerno

“Muri d’Autore” La poesia diventa socialità di Stefania Marino

«Com’è bella la notte e com’è buona ad amarci così con l’aria in piena fin dentro al sonno». Sono questi i versi di Alfonso Gatto, uno dei più grandi poeti del Novecento. A Salerno, dove il poeta nacque nel 1909, in vicolo S. Bonosio, stradina che incrocia la storica via dei Mercanti, c’è la sede della Fondazione Alfonso Gatto, nata nel 2011 e presieduta da Filippo Trotta.

info

Premio internazionale di poesia “Alfonso Gatto” L’anno scorso la Fondazione ha premiato lo scrittore americano Paul Polanski, Gian Mario Villalta e l’artista e il poeta di strada Ivan Tresoldi.

Nel 2014 è stata Alice Pasquini, celebre street artist a far rivivere la “Scalinata dei Mutilati” con un suggestivo murales le cui immagini rimandano alle poesie per bambini scritte da Gatto. A fargli compagnia, il volto del poeta con la sua sigaretta. Da questi primi sprazzi di colore, nell’autunno 2015 nasce un altro ambizioso e riuscito progetto della Fondazione: Muri d’Autore. Lì, nel

Lo storico quartiere di Fornelle è stato trasformato in un museo all’aria aperta, un luogo bello da visitare e in cui vivere

quartiere Fornelle, dove era nato e dove aveva trascorso l’infanzia e la giovinezza Alfonso Gatto, i palazzi iniziano a farsi guardare. Non più grigi ed anonimi, ma vivi e parlanti. Il quartiere, uno dei più antichi della città, diventa un museo all’aperto dove poesie e immagini si intrecciano per essere strumento di una straordinaria riqualificazione urbana. Un’operazione culturale con la direzione artistica di Pino Rosci-

gno, alias Greenpino servita a portare la poesia fuori dai libri per renderla pubblica e parte integrante dello spazio cittadino. Non è un progetto solitario ma collettivo che vede la partecipazione di 15 artisti, provenienti dalla stessa Campania, dalla Puglia, da Milano, dal Messico, dal Perù. Carlos Atoche, Luis Alberto Alvarez, Francesco Muti (Piger), Davide Ratti, Davide Brioschi, Mauro Trotta sono alcuni dei nomi che hanno dato il loro contributo a Muri d’Autore. La forza della poesia Sulle facciate delle case del quartiere, dove la gente ancora si raduna per raccontarsi la giornata e ci si parla da balcone a balcone, oggi fanno bella mostra di sé i versi di poeti italiani ed internazionali del ‘900. C’è O ssaje comme fa’ o core di Massimo Troisi e ancora Era de maggio di Salvatore Di Giacomo. Ci sono anche i versi di Eduardo De Filippo, di Totò, di Pino Daniele e poi ancora i grandi Salvatore Quasimodo e Giuseppe Ungaretti. Gli abitanti del quartiere escono di casa e si fanno accompagnare dalle parole di Jim Morrison, di Edoardo Sanguineti, di Libero Bovio. «È un progetto di innovazione sociale – dice Filippo Trotta – per la ridefinizione di un quartiere attraverso la Poesia.» Tanto forte che a Fornelle sono arrivate le scuole ma anche i turisti armati di macchina fotografica. Il progetto è sostenuto dalla Fondazione di comunità Salernitana e da una schiera di privati.

IL RICORDO

Le iniziative a 40 anni dalla morte Alfonso Gatto morì l’8 marzo 1976 ad Orbetello, vittima di un incidente stradale. A quarant’anni dalla sua morte, sono tante le iniziative messe in campo per ricordare la sua figura. L’8 marzo, a Salerno, al Teatro Verdi è stato l’attore Toni Servillo a consegnare al pubblico i versi di Gatto. «Parteciperemo al Festival della Poesia di Milano al Museo delle Culture e poi ancora saremo a maggio a Parigi dove dipingeremo una poesia di Gatto dedicata alla Costiera Amalfitana su un muro dell’Istituto culturale dell’Ambasciata italiana». E poi ancora incontri letterari in collaborazione con l’Università degli Studi di Salerno e di Firenze. aprile 2016 Scarp de’ tenis

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VENTUNO

Addio al Pil Nuovi indicatori per misurare la ricchezza Se si misura la ricchezza in termini quantitativi, la produzione di mine antiuomo ha lo stesso valore della produzione di cibo biologico. Un concetto da superare. Introducendo il criterio del benessere e della qualità. Ci han provato i francesi di Andrea Barolini

Se davvero vogliamo provare a cambiare l’ordine economico mondiale, dobbiamo partire dalla base. Ovvero dall’indicatore che più di ogni altro determina le decisioni politiche in tutto il pianeta: il Prodotto interno lordo. Il Pil è infatti il metodo

utilizzato per indicare il valore di un sistema economico: la sua salute, in altre parole. Per città, regioni, nazioni, orga-

scheda

Ventuno come il secolo nel quale viviamo, come l’agenda per il buon vivere, come l’articolo della Costituzione sulla libertà di espressione. Ventuno è la nostra idea di economia. Con qualche proposta per agire contro l’ingiustizia e l’esclusione sociale nelle scelte di ogni giorno.

56 Scarp de’ tenis aprile 2016

nizzazioni internazionali si tratta del sistema più semplice da adottare, perché non è altro che la somma di tutta la ricchezza che viene prodotta in un anno in un determinato territorio. Tutta, e il problema è proprio qui. Il Pil non fa alcuna di-

stinzione tra la produzione “buona” e quella “cattiva”. Tra ciò che migliora la vita della popolazione e ciò che non contribuisce affatto ad aumentare il benessere e anzi, al contrario, in alcuni casi lo diminuisce. La produzione di cibo biologico e quella di mine antiuomo, ad esempio, a parità di valore monetario, contribuiscono in misura identica ad aumentare il prodotto

LA SCHEDA

Il discorso di Robert Kennedy, pronunciato 48 anni fa 18 marzo 1968. Robert Kennedy parla all’università del Kansas, negli Stati

Uniti. «Non troveremo mai un fine per la nazione, né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico. Nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base del Dow-Jones (l’indice della Borsa di New York, ndr), né i successi del Paese sulla base del prodotto interno lordo. Il Pil comprende anche l'inquinamento dell'aria e la pubblicità delle sigarette. E le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana. Il Pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per poi vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, di missili e di testate nucleari. Comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, cresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e continua ad aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia né la solidità dei valori familiari, l'intelligenza del nostro dibattere o l'onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell'equità nei rapporti fra di noi. Il Pil non misura né il nostro acume né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro Paese». 6 giugno 1968. Bob Kennedy viene ucciso durante la campagna elettorale che lo avrebbe probabilmente portato a divenire presidente degli Stati Uniti.


interno lordo. Così come quella di frigoriferi e di sigarette. Il Pil, insomma, è un indicatore meramente quantitativo, una sommatoria della produzione che nulla esprime in merito alla qualità del prodotto.

La critica al suo impiego, d’altra parte, non è di certo recente. Basti pensare al celeberrimo discorso che tenne Robert Kennedy, nel 1968, di fronte agli studenti dell’università del Kansas, nel quale disse a chiare lettere che il Pil «misura tutto, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta». Ancor più efficace l’immagine tracciata da uno scrittore americano, che si divertì a creare due personaggi immaginari: “l’eroe del Pil” e il “vigliacco del Pil”. Il primo è un malato terminale, con una causa di divorzio in corso, che fa un frontale sull’autostrada. Medici, farmaci, meccanici, assicurazioni, avvocati, soccorsi: nessuno fa muovere l’economia come lui. Al contrario, il vigliacco del Pil è un uomo che si reca al lavoro in bicicletta, coltiva nell’orto dietro casa le verdure che mangia e fa volontariato: nessuna di

Anche l’Europa ha fondato la sua unione monetaria su parametri legati al Pil. Parametri che dovrebbero indicare se un’economia è sana o meno

queste attività è “visibile” agli occhi del prodotto interno lordo, perché è priva, appunto, di una quantificazione monetaria. Eppure, immaginate quanto benessere (anche economico!) deriva proprio dall’immensa attività di volontariato che esiste in un Paese come l’Italia, nel quale centinaia di migliaia di persone – in assenza di uno stato sociale adeguato –vivono, si nutrono, mangiano, studiano, si curano, proprio grazie ai cosiddetti caregivers. Ovvero ai benefattori che assistono anziani, ai nonni che seguono i nipotinia, ai vicini di casa che portano la spesa alle persone in difficoltà. E pensiamo a quanti risparmi, ad esempio in termini di spesa sanitaria, consentono di centrare coloro che non utilizzano mezzi di trasporto inquinanti.

Nonostante queste gravi mancanze, però, il Pil continua ad essere il centro di gravità dell’economia mondiale. L’Europa stessa ha fondato la sua unione monetaria (l’euro) sulla base dei “parametri di Maastricht”, ovvero di una serie di indicatori che

dovrebbero dirci se un’economia è o meno sana. Ebbene tra questi figurano il rapporto tra debito pubblico e Pil, e quello tra deficit e Pil. A conferma della totale centralità di questo indicatore. In questo senso,

si comprende facilmente la portata rivoluzionaria di un suo superamento: se da domani la salute di un Paese fosse valutata non più sulla base del rapporto tra debito e Pil ma tra debito e, ad esempio, un indicatore che tenga conto dei problemi ecologici legati alla produzione, è chiaro che una fabbrica estremamente inquinante farebbe scendere, anziché salire, tale valore. La stessa fabbrica che oggi, invece, aiuta il Pil a crescere. È chiaro che la portata del cambiamento sarebbe enorme. Perché allora ci si ostina a salvaguardare questo indicatore? Mancano le alternative ? Nient’affatto: economisti, istituti internazionali, le stesse Nazioni Unite hanno proposto centinaia di indicatori alternativi. Esiste ad esempio il Coefficiente di Gini, ideato nel lontanissimo 1912 da Corrado Gini, economista e statistiaprile 2016 Scarp de’ tenis

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VENTUNO

Nel tempo sono stati proposti moltissimi indicatori alternativi. Ma manca la volontà politica per un cambiamento che sarebbe epocale

co: esso misura le disuguaglianze di reddito in una scala che varia tra zero (uguaglianza perfetta) e uno (tutto il reddito è in mano a un solo individuo). Le Nazioni Unite hanno poi proposto lo Human Development Index (Hdi), nel 1990: ideato dall’economista pakistano Mahbub ul Haq, si basa su un concetto elaborato alla fine degli anni ottanta dal Programma dell’Onu per lo Sviluppo. Esso non cresce solamente grazie alla produzione economica, ma anche attraverso la promozione dei diritti umani, la difesa dell’ambiente, l’uso sostenibile delle risorse, l’alfabetizzazione, lo sviluppo dei servizi sanitari e sociali, o le pari opportunità. Ancora, esiste il Genuine Progress Indicator (Gpi), che prende in considerazione capitale umano, capitale costruito, capitale sociale e capitale ambientale: a differenza del Pil, il Gpi aggiunge il contributo

L’analisi francese con gli indicatori alternativi

economico di tutti i servizi familiari gratuiti e del volontariato, e sottrae le spese dovute a inquinamento, danni ambientali, divorzi, disoccupazione, crimini, esercito. Simile al Gpi è l’Isew (indice di benessere economico sostenibile) introdotto da Herman Daly e John Cobb nel 1989. Degni di nota sono poi l’Impronta Ecologica, che mette in relazione il consumo umano di risorse naturali con la capacità della Terra di rigenerarle, e anche il Prodotto Interno di Qualità, lanciato dalla fondazione Symbola nel 2006, che offre una “contabilità della qualità” capace di garantire la stessa immediatezza comunicativa ma non limitandosi ad un calcolo quantitativo. Di possibilità, insomma, ce ne sono in abbondanza. Ciò che manca, è solo la volontà politica di effettuare un cambiamento che sarebbe epocale.

Una delle poche nazioni ad aver compiuto qualche passo concreto verso il superamento del Pil è la Francia. Per ora il tutto si è risolto soprattutto in un esercizio mediatico, ma per lo meno è stato imposto all’esecutivo di Parigi di misurare la propria economia anche con metodi alternativi. A lanciare l’iniziativa è stata la deputata ecologista Eva Sas, che nella primavera del 2015 ha proposto una legge in merito: «Dobbiamo affiancare al Prodotto interno lordo nuovi indicatori che tengano conto della qualità della vita e dello sviluppo sostenibile», aveva spiegato. Ciò perché le decisioni assunte dal governo di Pa-

Valutare un sistema economico secondo il criterio della qualità e non solo della quantità. L’alternativa c’è. E arriva da Parigi 58 Scarp de’ tenis aprile 2016

Nella misurazione classica del Pil non c’è differenza tra produzione di mine antiuomo e produzione di benessere. Entrambe generano ricchezza. Dalla Francia l’alternativa. Indicatori nuovi anche in chiave qualititiva, come ricerca e agricoltura biologica

rigi (ma vale lo stesso anche per gli altri) in campo economico seguono oggi un’unica stella polare: «Aumentare il Pil ad ogni costo. Ma esso è un indicatore parziale, che non riflette tutte le sfaccettature della società, né tiene conto del lungo termine». D’altra parte, lo stesso segretario di Stato al Bilancio, Christian Eckert, aveva ammesso che «l’indicatore non è in grado di misurare la qualità della crescita». Dieci indicatori alternativi Così, il 13 aprile del 2015 il parlamento transalpino ha approvato la legge Sas, e il 27 ottobre scorso

il governo ha pubblicato il primo rapporto che valuta il sistema economico anche in ottica qualitativa. In che modo? Parigi ha scelto un totale di 10 indicatori alternativi al Pil, frutto di una consultazione pubblica e del lavo-


IL PUNTO

ro di due think tank: France Stratégie e il CESE. Ne è discesa una “fotografia” dell’economia francese valutata prendendo in considerazione il tasso di occupazione, il valore delle diseguaglianze nei redditi, l’impegno profuso nella ricerca scientifica. E ancora la qualità della vita di chi versa in condizioni di povertà, la speranza di vita in condizioni di buona salute, la soddisfazione complessiva della popolazione, il problema della di-

spersione scolastica, la quantità di CO2 emessa nell’atmosfera, nonché gli avanzamenti in materia di salvaguardia del territorio. È interessante notare, ad esempio, che accanto al debito

pubblico vengono presi in considerazione anche i tassi di indebitamento delle imprese e quello delle famiglie. Mentre la speranza di vita in buona salute risulta pari a 79 anni per gli uomini e 85,6 anni per le

Altro che Pil. In Francia misurano la qualità della vita, il benessere sociale, la speranza di vita

donne (contro una media europea, rispettivamente, di 77,8 e di 83,3). Ancora, in tema di disuguaglianze si è scelto di mettere a confronto la remunerazione media del 20% più ricco della popolazione con quella del 20% più povero (ne è scaturito un indice che risulta in leggera diminuzione negli ultimi anni, il che significa che le disuguaglianze sono state attenuate, seppur di poco). aprile 2016 Scarp de’ tenis

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INCONTRI

LABORATORI

AUTOBIOGRAFIE

CALEIDOSCOPIO

Simona, Sara, Susanna e Lidia, sono tutte attrici della Compagnia Teatro Nudo di Genova. Si esibiscono in strada con un repertorio swing

“La leggerezza del trio Lescano”, a colpi di swing La bellezza di sentire dello swing per strada. In perfetto stile anni trenta. Il tutto grazie a quattro attrici che dedicano all’arte e alla cultura gran parte del loro tempo: Simona, Sara, Susanna e Lidia, quattro artiste che hanno deciso di portare il teatro in strada. Sono tutte attrici della compagnia Teatro Nudo di Genova e da anni lavorano insieme. I pezzi che mettono in scena sono tratti da “La leggerezza del Trio Lescano”, un lavoro ispirato alla storia delle tre giovani ungheresi dell’Italia fascista che divennero famose con le loro armonizzazioni vocali a ritmo di swing. «Lo spettacolo è nato come progetto per il teatro – raccontano le ragazze – e, nel recitare e cantare in strada, alcune particolarità si perdono. Per questo lavorare in strada è molto più impegnativo. Però la gente è molto contenta della nostra performance e gli applausi ci rendono liete e soddisfatte. Milano per l’arte è un ottimo trampolino quindi, visto che non tutti frequentano i teatri, perché non portare lo Antonio Vanzillotta spettacolo in strada, alla portata di tutti?». aprile 2016 Scarp de’ tenis

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Alcuni volontari dopo i lavori di sistemazione di una aiuola. A destra i fondatori Davide D’Errico e Pasquale Pennino

PAROLE

Solo la forza dei giovani può davvero cambiare Napoli

Adda passà a nuttata la forza di cambiare Nel bene o nel male che sia delle sue bellezze o delle sue monnezze, del suo ricchissimo passato, più antico di quello di Roma, o della sua eterna indigenza, dell’arte di arrangiarsi o delle schifose storie di camorra, di Napoli si parla sempre, fin troppo. Invece c’è chi ha deciso di fare; cambiare quel che c’è da cambiare, modificare, creare e perché no distruggere quel che va distrutto, come il disamore di certi napoletani per questa incredibile città. Davide D’Errico e Pasquale Pennino, due studenti universitari si sono inventati, insieme a una trentina di giovani di buona volontà, l’associazione Adda passà a’ nuttata. Si tratta di un’associazione un po’ particolare e che opera in maniera altrettanto particolare. Quello che Davide e Pasquale fanno, insieme ai loro compagni, è impegnarsi in prima persona per cercare di cambiare le cose che non funzionano. L’idea, semplice quanto geniale, è quella di abbattere quei piccoli e grandi soprusi che rendono la vita più difficile a tutti ma che ognuno di noi aspetta che siano le autorità a cambiare. L’autobus R4 detto anche “il fantasma”, che collega il centro della città alla zona degli ospedali, non passa mai? E allora questi ragazzi si sono inventati la campagna Adda passà l’R4. Napoli è piena di parcheggiatori abusivi? Eccoli pronti armati di telecamere a documentare il sopruso ai danni degli automobilisti alla perenne ricerca di un parcheggio. Le strade sono sporche e abbandonate e gli spazzini non si vedono mai? Loro si organizzano con scope e ramazze e fanno pulizia. Questo fanno questi ragazzi, partono dal basso, da chi è stanco di promesse elettorali e di impegni mai mantenuti, non si limitano a dire come si dovrebbero cambiare le cose che non vanno ma si organizzano e coinvolgono con entusiasmo tutti perché tutti possono essere protagonisti del cambiamento. Bruno Limone

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PAROLE

Il re Chi giustamente farà re sarà chi non lo farà re non sarà Il re di nome Federico andò in guerra a cercare il nemico trovò un piccolino gli mise un camicino e lo chiamò Felicino gli mise in testa una coroncina piena di smeraldini, cuoricini e brillantini. Federico non era un soldato capace perché era un uomo di pace Monica Esposito

L’associazione Adda passà a’nuttata si interessa di tante cose. In Piazza Nazionale, ad esempio, ha contribuito a far rimuovere quelle ridicole e pericolose barriere di ferro. In questo modo i bambini possono tornare a divertirsi senza paura di concludere la giornata al pronto soccorso. Altra piaga cittadina, e chi non è di Napoli non può comprendere fino in fondo, sono i parcheggiatori abusivi. Questi ragazzi si sono impegnati in una forte azione di denuncia del fenomeno, girando dei video che in rete sono stati visti e condivisi da migliaia di persone. Il risultato è che attorno agli ospedali il biglietto per il parcheggio costa meno di prima e dura di più. Mi auguro che questi ragazzi possano continuare questa speciale missione. Napoli ha davvero bisogno di giovani con la voglia di mettersi in gioco per far capire che la nostra città è l’ombelico del Mediterraneo, abbiamo una storia da difendere. I giovani d’oggi non hanno ideali? Forse siamo noi ad essere attaccati ai nostri falsi ideali. Le generazioni cambiano ci saranno sempre i buoni e i cattivi, i sensibili e gli insensibili. La storia ne è piena. Davide e Pasquale hanno la bontà e la sensibilità per continuare. E bene. Aldo Cascella


NAPOLI

Tutti possiamo darci da fare: la sfida di Davide e Pasquale Storie di cittadini che diventano i protagonisti della propria città, denunciando, pulendo, piantando e, perché no, festeggiando Davide D’Errico e Pasquale Pennino, rispettivamente presidente e vicepresidente di Adda passà a’ nuttata sono venuti a trovarci in redazione. Ho visto che sono molto amici, si divertono a scherzare e sono proprio dei bravi ragazzi, conoscendoli ho pensato: «non è vero che i giovani non si interessano di niente e non si impegnano per cambiare le cose». Adesso per esempio sono impegnati nel progetto “Adotta la strada” che stanno realizzando ai Colli Aminei dove due ragazzi – David, immigrato regolare ed Enzo, disoccupato – tengono pulita la strada e le aiuole di viale dei Pini e vengono rimborsati con i buoni regionali comprati grazie ai contributi volontari di commerciati e residenti della zona. Il progetto sta piacendo molto a tutti quelli che abitano e lavorano a viale dei Pini. Non a caso, infatti, 70 persone danno ogni mese un piccolo contributo per sostenerlo. I ragazzi hanno messo però la regola che nessuno può contribuire con più di 5 euro. Questa manutenzione la dovrebbe fare il Comune ma la loro idea è che ognuno può organizzarsi per fare una piccola cosa. Questa associazione è diventata molto conosciuta in città quando hanno realizzato Adda passà l’R4. C’è un pullman che non passa mai e collega il centro con la zona degli ospedali, si chiama R4 e chi deve andare a fare qualche visita o a trovare un parente lo aspetta per più di mezz’ora. Poco tempo fa Davide, Pa-

squale e i loro amici hanno preso le loro macchine e addobbandole con cartelli e palloncini per farle riconoscere percorrevano il tragitto del bus e davano un passaggio a chi aspettava, a una sola condizione: chi saliva doveva avere il biglietto che loro poi annullavano. Secondo me questa è una bella idea, loro sono bravi e ci hanno spiegato che si chiama cittadinanza attiva. Non conoscevo il termine. Adesso so che significa: che tutti possono fare qualcosa. Non solo per dire quello che non va ma per fare e vivere in una città migliore. Antonio Casella

COMO

Rifugiati di “serie B” alla stazione di San Giovanni La Caritas: «Servono piani di accoglienza puntuali» È dallo scorso agosto che, tutte le sere, l’androne posto di fronte alla biglietteria della stazione San Giovanni di Como si trasforma in un dormitorio in piena regola, popolato in massima parte da migranti afghani e pakistani. La ragione, paradossale ai limiti del surreale, si annida nei cavilli burocratici legati alla gestione delle richieste per l’asilo politico e l’accoglienza, dal momento che i migranti in questione, non essendo stati soccorsi in mare ed essendosi spontaneamente presentati in questura, sono considerati richiedenti asilo ordinari esclusi dall’emergenza mare nostrum. Il che, tradotto in termini spiccioli, significa che è loro preclusa l’accoglienza nelle strutture individuate dal Ministero dell’Interno, e che una cinquantina di persone è tuttora costretta, a nove mesi di distanza dall’arrivo nella città lariana, a rimanere sospesa in quella sorta di “limbo notturno” che è divenuta la stazione ferroviaria, tra le lamentele dei viaggiatori, gli sforzi dei volontari che si prodigano nel tentativo di offrire comunque assistenza, e il monitoraggio instancabilmente eseguito dalle forze dell’ordine. «La sensazione – spiega il presidente della Caritas comasca, Roberto Bernasconi – è che manchi la volontà di trovare una soluzione al problema. Questo perché si ha paura che, sistemate queste persone, ne possano arrivare altre con le stesse caratteristiche. Quello che chiediamo è una presa di responsabilità da parte delle istituzioni perché, andando avanti così, non si fa altro che mettere a dura prova le istituzioni e le associazioni che si occupano di grave emarginazione, come le mense cittadine e i servizi Caritas. Senza parlare del fatto che, continuando su questa falsariga e obbligando i richiedenti asilo a vivere nel degrado coatto, non faremo che generare dei disperati e dei disadattati, rischiando di vanificare l’efficacia dei percorsi di integrazione ed esponendo i migranti alla prospettiva di cadere nella criminalità e nel malaffare». In teoria, con l’apertura del dormitorio del Cardinal Ferrari, prevista per la prossima estate, alla chiusura del cosiddetto ”piano freddo”, una parte cospicua di queste persone dovrebbe trovare una sistemazione. Ciò non toglie che la situazione resta grave e l’aria che si respira è sempre più pesante. Perché non è questo il modo in cui una città civile deve rispondere a un fenomeno di questo tipo, e non si potrà sempre affidare alla volontà e alla generosità dei singoli la soluzione di problemi di tale portata. Salvatore Couchod

aprile 2016 Scarp de’ tenis

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Sguardo sull’Italia

Lenostre

LE REDAZIONI

facce di Stefano Lampertico

Nella foto sotto a sinistra foto d’insieme per la redazione de Il Ponte/Scarp de’ tenis di Rimini. Da sinistra Francesco Barone, Angela De Rubeis, Antonio (venditore), Giovanni Tonelli, Evy Righini e Paolo Guiducci

In basso a destra La redazione di Verona. Da sinistra in ordine: Alessandro (responsabile del progetto), Roberto (redazione), Davide (logistica e parrocchie), Oreste e Moctar (venditori), Elisa e Babacar (redazione) e Sergio (venditore)

64 Scarp de’ tenis dicembre 2014 - gennaio 2015

Nella foto a fianco alcuni venditori e una rappresentanza delle redazione di strada e di quella giornalistica di Scarp Milano. Da sinistra in piedi: Roberto, Habib, Matteo, Claudio, Valeriy, Francesco, Roberto, Antonio, Ettore, Stefano, Max e Paolo. Seduti: Lorenzo, Daniela e Sabrina

Nella foto qui sotto alcuni membri della redazione di Scarp Torino (Massimiliano, Gheorghe, Giovanni e Vito), attualmente costituita da 6 venditori, un operatore e due redattori. A Torino Scarp è presente ogni mese in 29 parrocchie e in altri punti vendita


Sopra a sinistra i venditori della redazione di Teggiano: Arturo Esposito, Angela Ivie Chukwuyem e Carmine Lamanna Sopra a destra la redazione di Firenze: Francesco Vedele (Referente), Martina L'Erario (collaboratrice) e i venditori Giovanni, Spartak, Bouchaib e Daniel A fianco la redazione di Napoli in cui sono 15 le persone protagoniste della vendita e della scrittura di Scarp. Lo scatto ritrae alcuni dei venditoriredattori e componenti dell’Êquipe. In redazione lavorano insieme Antonio, Bruno, Alessandra, Monica, Giuseppe, Domenico, Aldo, Marianna, Laura, Peppe, Luciano, Massimo, Mena, Umberto, Maria, Marta, Marco, Domenico, Sergio e Antonio

Nella foto a fianco i sei venditori genovesi. Da sinistra, in piedi: Giancarlo Migliorini, Antonio Fiore, Osvaldo Ghiddi, Graziano Vicini, Agostino Calice, Michele Barresi. Accosciati: Emanuele Barisone, collaboratore che sta svolgendo il Servizio Civile Nazionale. Stefano Neri, educatore e Mirco Mazzoli, referente del progetto per la redazione locale di Genova Nella foto sotto a sinistra la redazione di Vicenza. Da sinistra a destra: Fichret Halilovic, Stefano Sanna, Franca, Tania de Soghe, Ivano Frare, Carlo Mantoan e Cristina Salviati Nella foto sotto a destra i tre venditori di Scarp Venezia: Francesco, Loris e Vincenzo

dicembre 2014 - gennaio 2015 Scarp de’ tenis

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IL SALUTO

Arrivederci Scarp E grazie per lo stile

INTERVENTO

Passo dopo passo insieme a Scarp per “trovare Dio in mezzo a noi”

di don Roberto Davanzo direttore Caritas Ambrosiana dal 2005 al 2016

Lasciateci essere orgogliosi: 200 numeri significano quasi 20 anni. Se poi consideriamo che stiamo parlando di una rivista di strada, che cioè viene venduta per strada, da venditori che sono uomini e donne che - per tanti motivi - hanno fatto della strada la loro abituale dimora, e che tratta della vita di queste persone che non contano, che non votano, che sui giornali “seri” fanno notizia solo quando muoiono di freddo, ... beh allora 200 numeri capite che sono proprio un bel traguardo di cui essere orgogliosi.

In più vale la pena di ricordare che dietro a Scarp de’ tenis non c’è solo un progetto editoriale, ma un più ampio sogno di emancipazione sociale e umana. Dunque 200 numeri significano nomi, volti, storie, relazioni ricostruite, disciplina riacquista, case riabitate, salute riacquistata. Certo, in questi anni abbiamo anche accompagnato nell’ultimo viaggio diversi di loro. Ma appunto li abbiamo accompagnati, non sono morti da soli.

In questa bella cornice celebrativa è per me motivo ulteriore di onore salutare i lettori, la redazione e i venditori di Scarp per questi 11 anni di splendida collaborazione. Col 1° di aprile sono stato nominato parroco a Sesto San Giovanni e dunque lascio la direzione di Caritas Ambrosiana.

Tempo, dunque, se non di bilanci, almeno di ringraziamenti. Anzitutto per avermi offerto la conoscenza di un mondo articolato e complesso come quello dei senza dimora, fatto anche da persone che arrivano a vivere per strada dopo una vita assolutamente normale, per una malattia mentale, per la rottura del legame matrimoniale, per una dipendenza. La gratitudine riguarda anche l’approccio con cui il nostro giornale affronta queste problematiche. La morte dell’indimenticabile Enzo Jannacci ha scatenato una bella amicizia con tanti artisti che ci hanno gratificato con loro opere grazie alle quali siamo usciti dall’ambito a volte angusto e un po’ dimesso che circonda le iniziative a favore dei senza dimora.

Uno stile di carità che porterò come preziosissima eredità nel mio nuovo servizio pastorale. Un augurio per la rivista e un arrivederci. Magari al numero 300.

66 Scarp de’ tenis aprile 2016

Col 1° di aprile sono stato nominato parroco a Sesto San Giovanni e dunque lascio la direzione di Caritas Ambrosiana. Arrivederci a tra altri 100 numeri. Nel segno della carità e della promozione umana

Bruxelles 22 marzo 2016 (Andrea Bianchi Carnevale)

di don Francesco Soddu direttore Caritas Italiana Duecento numeri. Un traguardo importante per una rivista, Scarp de’ tenis, che da venti anni cerca di incarnare lo stile di accoglienza, di accompagnamento, di animazione della Caritas nelle comunità locali. Il panorama di quanti vivono la condizione di senza dimora si è molto ampliato e diversificato e necessita di risposte sempre più complesse e creative. Credo che Scarp vada proprio in questo senso e possa, dunque, a ragione essere considerata un’opera-segno: non solo esorta persone e organismi a farsi carico, anche semplicemente attraverso l’acquisto di una copia del giornale, di un progetto di reinserimento sociale personalizzato, quello del venditore, ma diffonde storie, esperienze e riflessioni che possono aiutare una comunità locale a mettere a fuoco il tema dell’esclusione sociale e della povertà. Sui territori è un richiamo a vedere e riconoscere un bisogno, una povertà, a riscoprire il valore della persona, a metterla al centro di ogni progettazione, a riconoscerne tutte le potenzialità e al contempo tutti i bisogni. A sentirsi responsabili di chi si incontra e attenti in special modo, poiché meno visibili, ai bisogni di relazione, di vicinanza. La metafora della strada, evocata già dal titolo, rafforza l’esortazione di Papa Francesco ad “uscire da noi stessi e andare sulle strade dell’uomo per scoprire che le piaghe di Gesù sono visibili ancora oggi sul corpo di tutti quei fratelli che hanno fame, sete, che sono nudi, umiliati, schiavi, che si trovano in carcere e in ospedale. E proprio toccando queste piaghe, accarezzandole, è possibile adorare il Dio vivo in mezzo a noi” (3 luglio 2013 – Meditazione Cappella Domus Sanctae Marthae)




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