Sdt201

Foto Luca Vittorio Toffolon - Spedizione in abbonamento postale 45% articolo 2, comma 20/B, legge 662/96, Milano

L’INTERVISTA

DOMENICO IANNACONE E L’INCHIESTA “VECCHIO STILE”

la le del i s n e Il m

strada

www.scarpdetenis.it maggio 2016 anno 21 numero 201

L’arte per ridare dignità agli oppressi DARIO FO COMPIE 90 ANNI E SI RACCONTA A SCARP TRA I RICORDI D’INFANZIA, IL TEATRO COME RISCATTO SOCIALE, LE CRITICHE AL POTERE COSTITUITO E IL GIUDIZIO (POSITIVO) SU PAPA FRANCESCO

BRUXELLES L’APPELLO DI DON GIANCARLO QUADRI: «LA PAURA SI VINCE COL DIALOGO»

EDITORIALE

Cosa unisce un Nobel, un prete e un giornalista?

LA PROVOCAZIONE

Sulla scena, tra paura di invasione e rischio sicurezza, irrompe il Papa di Luciano Gualzetti direttore Caritas Ambrosiana

di Stefano Lampertico [

@stefanolamp ]

Potremmo cominciare così. Ci sono un Nobel, un giornalista pluripremiato per le sue inchieste e un prete italiano che vive a Bruxelles. Stanno tutt’e tre sulla copertina di un giornale. Il nostro, il vostro giornale. E sono tre tipi che ci piacciono molto, perché raccontano verità. A modo loro, in forme diverse, ma tutt’e tre, raccontano verità.

Il primo tipo è Dario Fo, uno che ha vinto il Nobel per la letteratura, che ha appena compiuto novant’anni e che ha fatto del teatro e dell’arte lo strumento per raccontare verità e per ridare dignità agli oppressi.

Il secondo tipo, il giornalista, è Domenico Iannacone. Anche qui, in bacheca, numerose (e meritate) medaglie. Uno che, per dire, ha vinto cinque volte il premio Ilaria Alpi. Anche lui racconta verità scomode. Con la telecamera e con le inchieste vecchio stile.

Il terzo tipo è un prete.

Si chiama don Giancarlo Quadri. È un amico di

Scarp. Per tanto tempo siamo stati anche, come giornale, vicini di casa. E anche don Giancarlo Quadri non è un tipo che si tira indietro. Da due anni ha lasciato Milano per vivere a Bruxelles, insieme alla comunità italiana, nel cuore di quella che è diventata l’Europa più fragile. Anche don Giancarlo racconta verità scomode. Come questa: «La paura? Si combatte con il dialogo!».

Scarp li unisce, con un filo sottile, che è appunto quello delle verità. Scomode spesso.

Ma quelle vere sono le storie che ci piacciono. Le storie intrise di umanità, di coraggio, di futuro. Come quelle che raccontiamo su ogni numero e che continueremo a raccontare per tanti anni.

Abbiamo messo in archivio, con tante soddisfazioni, i primi duecento numeri. È tempo di guardare al futuro. E di pensare ai prossimi duecento. E oltre ancora. Con lo spirito che ha accompagnato questi primi vent’anni e con l’impegno a fare sempre meglio. Perché Scarp possa rimanere, anche in anni che saranno di grandi cambiamenti, un’occasione interessante di lettura e uno strumento di integrazione al reddito per chi ha più bisogno.

Abbiamo messo in archivio i primi vent’anni di giornalismo di strada. È già tempo di guardare al futuro con lo spirito che ha accompagnato i primi duecento numeri di Scarp

contatti Per commenti, idee, opinioni e proposte: mail scarp@coopoltre.it facebook scarp de tenis twitter @scarpdetenis www.scarpdetenis.it instagram scarpdetenis

I profughi che stanno attraversando l’Europa, ci provocano. Non solo perché è un tema che divide. Questi flussi epocali attraversano il Mediterraneo e i Balcani, i confini che pensavamo cancellati da Schengen, le istituzioni degli stati nazionali e dell’Europa stessa, i valori e i sentimenti degli europei. E mettono a nudo le fragilità di un processo di integrazione ancora da completare.

Per l’Europa c’è in gioco la sua stessa idea costitutiva. La dinamica di costruzione dell’Europa vive una tensione irrisolta tra la sovranità nazionale e le autorità sovranazionali europee, tra sicurezza e integrazione economica, tra welfare nazionali e vincoli europei. Queste contraddizioni si moltiplicano nelle politiche dell’immigrazione e dell’asilo.

Ci siamo trovati impreparati e senza un’organica azione comune “europea”. Come se non bastasse i professionisti della paura e dei muri, di partiti xenofobi e di stati disabituati ai flussi di immigrazione, ampliano la percezione dell’”invasione” e del “rischio sicurezza”. In questo scenario certamente preoccupante irrompe Papa Francesco. Con i gesti: il suo primo viaggio a Lampedusa nel 2013, quello recente con il Patriarca Ortodosso a Lesbo in Grecia, la richiesta il 6 settembre 2015 a ogni parrocchia europea, ogni santuario, ogni casa religiosa di ospitare una famiglia di rifugiati, l’Anno Santo che stiamo vivendo. Per viverlo ha chiesto di realizzare le opere di misericordia. Sono opere che indicano la strada per essere fedeli al Vangelo e dichiarare in modo eloquente la propria identità: “Da questo riconosceranno che siete miei discepoli, se vi amate gli uni gli altri”. Ai cristiani si chiede di fare una scelta. E noi?

E tu da che parte stai? maggio 2016 Scarp de’ tenis

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SOMMARIO

Raccontare una bella storia è raccontare una bella vita Un altro Nobel per la copertina di Scarp. Dopo Kailash Satyarthi, Nobel per la pace 2014, c’è Dario Fo, che il prestigioso Premio l’ha vinto nel 1997. Fo si racconta a Scarp e racconta i suoi novant’anni di vita e arte, di teatro e verità. Un incontro importante che Scarp celebrò,

tanti anni fa, con una copertina in bianco e nero e con il titolo “Nobel per un giullare”.

Vi raccontiamo le esperienze di chi cerca, all’interno delle carceri, di riscoprire il gusto del bello, tramite il teatro, la pittura, la scrittura. Vi raccontiamo le storie positive di chi cerca convivenze possibili anche in zone degradate, o pericolose. Vi raccontiamo la storia di chi è riuscito a ricostruirsi una vita grazie a un lavoro particolare come quello del liutaio. Vi raccontiamo le storie di chi scrive per

strada, di chi in strada vende libri e anche di una giovane scrittrice dal carattere forte.

E dall’estero, la storia tutta italiana del caffè sospeso che, a Glasgow, ha visto coinvolto anche George Clooney. Insomma. Un numero ricco. Che racconta storie. E che si propone con una “grafica” che piace.

A proposito. Scarp de’ tenis è nella top ten della categoria Best Design del Premi internazionali INSP. Complimenti a Francesco Camagna che ha disegnato il nuovo layout del giornale.

Un telefono che suona. Come dire ti perdono, ma non è più Quattro frasi senza dire. Che il treno è là. Com’è triste quel

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rubriche

servizi

PAG.6 (IN)VISIBILI di Paolo Lambruschi PAG.8 IL TAGLIO di Piero Colaprico PAG.11 PIANI BASSI di Paolo Brivio PAG.13 LA FOTO di Sergio Malacrida PAG.18 LE DRITTE di Yamada PAG.19 VISIONI di Sandro Paté PAG.53 VOCI DALL’EUROPA di Ronnie Convery PAG.65 SCIENZE di Federico Baglioni PAG.66 IL VENDITORE DEL MESE

PAG.20 L’INTERVISTA Dario Fo: arte e teatro per ridare dignità agli oppressi PAG.22 COPERTINA Carcere. Fare arte, per essere liberi PAG.28 L’INCONTRO Don Quadri: «A Bruxelles la paura si batte col dialogo» PAG.30 MILANO Bligny 42. Fare comunità contro il degrado PAG.34 L’INTERVISTA Iannacone e l’umanità delle sue storie PAG.36 LA STORIA Luca, libraio in bici, sfida Amazon PAG.38 LA STORIA Carolina scrittrice Down: «Siate felici, la vita è bella» PAG.40 BUONE PRATICHE Artepassante Da non luoghi a centri di cultura PAG.42 LA STORIA I violini mi hanno salvato la vita PAG.44 TORINO Housing sociale, il quartiere rinasce con Sharing PAG.47 VICENZA Scarp a scuola: i bambini sanno accogliere PAG.49 FIRENZE Danut, una vita in bilico. Ora sorride di nuovo PAG.51 RIMINI Crescenzo, malato di libri, la bici come casa PAG.54 VENTUNO La soluzione Ue per i migranti: tutti in Turchia PAG.61 CALEIDOSCOPIO Incontri, laboratori, autobiografie PAG.62 NAPOLI Vincenzo, il mastro artigiano della stampa

Scarp de’ tenis Redazione di strada e giornalistica via degli Olivetani 3, 20123 Milano tel. 02.67.47.90.17 fax 02.67.38.91.12 scarp@coopoltre.it

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Scarp de’ tenis maggio 2016

Direttore responsabile Stefano Lampertico Redazione Ettore Sutti, Francesco Chiavarini, Paolo Brivio

Segretaria di redazione Sabrina Montanarella Responsabile commerciale Max Montecorboli

Redazione di strada Roberto Guaglianone, Antonio Mininni, Lorenzo De Angelis, Alessandro Pezzoni

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Foto Insp, ISP, Luca Vittorio Toffolon, archivio Scarp, Sergio Malacrida Disegni Sergio Gerasi, Gianfranco Florio, Luca Usai, Loris Mazzetti, archivio Scarp

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aforisma di Merafina Il ladro incompreso Porta via tutto per favore, tutto!

Ma lascia le tue impronte Il tweet di Aurelio [Il bonazza

@aure1970 ]

A Palermo carabiniere coccola la piccola Alice «Ho coccolato la piccola Alice, all’ombra del camion che ha investito la sua mamma incinta» (Corriere della Sera) Beati quelli che, sotto gli abiti da lavoro, portano quelli da Essere Umano.

ù amore. Quattro passi in riva al mare el lamento. Non lo vuole neanche il vento

Cos’è Scarp de’ tenis è un giornale di strada noprofit nato da un’idea di Pietro Greppi e da un paio di scarpe. È un’impresa sociale che dà voce e opportunità di reinserimento a persone senza dimora o emarginate. È un’occasione di lavoro e un progetto di comunicazione.

Dove vanno i vostri 3,50 euro

Due gelati - tributo a Enzo Jannacci

Vendere il giornale significa lavorare, non fare accattonaggio. Il venditore trattiene una quota sul prezzo di copertina. Contributi e ritenute fiscali li prende in carico l’editore.

Quanto resta è destinato a progetti di solidarietà.

Per contattarci

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* Coppia sposata con due figli Fonte: Ocse, Taxing Wages 2016

TOP 15

34 Progetto grafico Francesco Camagna Sito web Roberto Monevi Editore Oltre Soc. Coop. via S. Bernardino 4, 20122 Milano Presidente Luciano Gualzetti

Peso del fisco su stipendi* 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15

Francia Belgio Italia Finlandia Austria Grecia Svezia Turchia Ungheria Germania Spagna Norvegia Portogallo Olanda Estonia

Registrazione Tribunale di Milano n. 177 del 16 marzo 1996 Stampa Elcograf Spa Verona

40,5 40,4 39,9 39,3 39 38,1 37,8 36,9 35,3 34 33,8 31,9 30,7 30,6 28,5

Direzione e redazione centrale - Milano Cooperativa Oltre, via degli Olivetani 3 tel. 02.67479017 scarp@coopoltre.it Redazione Torino Casamangrovia, corso Novara 77, tel. 011.2475608 scarptorino@gmail.com Redazione Genova Fondazione Auxilium, via Bozzano 12 tel. 010.5299528/544 comunicazione@fondazioneauxilium.it Redazione Verona Il Samaritano, via dell’Artigianato 21 tel. 045.8250384 segreteria@ilsamaritanovr.it Redazione Vicenza Caritas Vicenza, Contrà Torretti 38 tel. 0444.304986 scarp@caritas.vicenza.it Redazione Venezia Caritas Venezia, Santa Croce 495/a tel. 041.5289888 info@caritasveneziana.it Redazione Rimini Settimanale Il Ponte, via Cairoli 69 tel 0541.780666 rimini@scarpdetenis.net Redazione Firenze Il Samaritano, via Baracca 150/e tel. 055.3438680 samaritano@caritasfirenze.it Redazione Napoli Cooperativa sociale La Locomotiva via Pietro Trinchera 7 scarp@lalocomotivaonlus.org Redazione Sud Caritas diocesana, Salita Corpo di Cristo, Teggiano (Sa) tel.0975 79578 info@caritasteggianopolicastro.it

Consentita la riproduzione di testi, foto e grafici citando la fonte e inviandoci copia. Questo numero è in vendita dal 1 maggio 2016 al 4 giugno 2016

www.insp.ngo maggio 2016 Scarp de’ tenis

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(IN)VISIBILI

Le ricerche di Laura, il coraggio di Pietro. Alberi che danno frutti

di Paolo Lambruschi

Avevamo un’eccellenza in Italia e riguardava proprio la grave emarginazione. Siamo (eravamo?) infatti l’unico paese dell’Ue da qualche anno ad avere un servizio statistico che conta i senza dimora (50 mila in 158 città secondo l’ultimo rilevamento). Lasciamo perdere quel che fa o non fa la politica per aiutare gli invisibili. Basta dire che la maggioranza degli homeless è costituita da stranieri che fino a pochi anni fa erano perlopiù giovani in transito mentre ora si stabilizzano sulle strade del Belpaese e tendono a invecchiarci, come i senza dimora italiani. I quali per il 63% sono precipitati sull’ultimo gradino della scala della miseria a causa di una separazione spesso associata con la perdita dell’occupazione.

Tutto ciò mentre sono diminuiti in dieci anni i servizi, ma le risposte (le unità di strada, gli sportelli, l’accoglienza a bassa soglia) sono aumentate perché la domanda di aiuto resta alta. Il primo passaggio per restituire la cittadinanza perduta è contare chi non ce l’ha. Se un italiano

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maggio 2016 Scarp de’ tenis

Laura Sabbadini, pioniera degli studi di genere e innovatrice della ricerca sociale, da metà aprile, è tornata ad essere una semplice dirigente dell’Istat, perdendo il ruolo di responsabilità.

Come mai?

Pochi giorni fa, invece, è scomparso Pietro Pinna, il primo obiettore di coscienza italiano

scheda

Paolo Lambruschi è nato a Milano nel 1966. Lavora ad Avvenire, come capo degli interni, dopo essere stato per tanti anni inviato. Ha diretto Scarp de’ tenis e il mensile di finanza etica Valori. Nel 2011 ha vinto il prestigioso premio giornalistico “Premiolino” per le inchieste sul traffico di esseri umani nel Sinai.

non ha una residenza al momento del censimento, sparisce dall’anagrafe. Contare chi

sembra sparito causa povertà è dunque un modo di tenerlo aggrappato alla vita. Lo sa bene l’Istat che grazie a Linda Laura Sabbadini, pioniera degli studi di genere e innovatrice della ricerca sociale, aveva contribuito a realizzare questo servizio che andava oltre la demografia.

Da metà aprile Sabbadini è tornata ad essere semplice dirigente e la decisione dell’Istituto di statistica nazionale ha sollevato un autentico vespaio nel mondo della solidarietà. Si teme che la sua scomoda caparbietà nel rilevare non solo la povertà estrema, ma anche quella del ceto medio e gli effetti sui millennials delle politiche del precariato, abbiano dato fastidio.

Non vorremmo mai vivere in un Paese dove il potere vuole nascondere il vero numero dei poveri come polvere sotto il tappeto.

Un ultimo dato rilevato da Linda Laura Sabbadini fa riflettere: il calo della partecipazione nel Belpaese che segue l’andamento del tasso di fiducia nel prossimo: si aggira sul 30%. La media nel Nord Europa è il 60%.

In tema di partecipazione, solo il mondo pacifista ha ricordato la scomparsa di Pietro Pinna, classe 1927, che negli anni

quaranta rifiutò di prestare giuramento e divenne il primo obiettore di coscienza italiano. Pinna ha dato molto con la sua testimonianza e la sua coerenza al movimento non violento. Ha piantato un albero che ha dato frutti.

Un dato non trascurabile è che nel 2005, quando venne sospesa la leva obbligatoria, gli obiettori di coscienza al servizio militare erano più di un milione. Impegnati nei servizi alla persona, hanno dato molto agli ultimi del Belpaese. Oggi si

lotta per portare ad almeno 100 mila i posti nel servizio civile nazionale, magari ampliandoli all’Europa. Questa è una delle ultime scuole di partecipazione alla vita pubblica che resta in questo Paese, in altre parole una delle poche opportunità per le giovani generazioni di prendere parte alla vita della comunità facendosi carico dei problemi. La pace, ce lo ha insegnato con la sua vita anche Piero Pinna, si costruisce stando in mezzo ai problemi e alle storie, prevenendo la nascita dei ghetti nelle città ad esempio, accompagnando le persone e imparando a chiamarle per nome. Per evitare che diventino invisibili.

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Il concorso è organizzato dal Servizio C.E.I. per la promozione del sostegno economico alla Chiesa cattolica.

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IL TAGLIO

Vi prego. Non parlate più delle periferie in campagna elettorale Sindaco nostro, che sei ancora nei cieli demoscopici, abbi pietà di noi e non abusare della nostra pazienza: perché invochi le periferie sempre in campagna elettorale e, una volta eletto, stai sempre attaccato alle vie del centro città? La “prodi Piero Colaprico

messa non mantenuta”, per quanto orrenda, fa parte della politica. Come il tempo coniugato al futuro: faremo, andremo, miglioreremo. E “risaneremo le pe-

riferie” è infatti il grido di battaglia che risuona dalle Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno.

scheda

Piero Colaprico (Putignano 1957), giornalista e scrittore, vive a Milano dal 1976. È inviato speciale di Repubblica, si occupa di giustizia e di cronaca nera. Ha scritto alcuni romanzi, tra cui Trilogia della città di M. (2004), vincitore del Premio Scerbanenco. Una penna tagliente. Come questa rubrica che cura per Scarp.

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Scarp de’ tenis maggio 2016

Però c’è un però.

Dai tempi di Pier Paolo Pasolini le periferie romane sono le stesse raccontate dall’inchiesta “mafia capitale”: come se il Dna dell’antica plebe dei Cesari e del panem et circenses venisse tramandato di generazione in generazione, sino ad arrivare ai giorni nostri, tra raccomandazioni, scambi di favori, intrallazzi, inganni, servilismo. A Roma, insomma, ci vuole davvero uno scatto di reni perché le periferie possano credere ad un risanamento reale e in tempi non biblici.

A Milano, non è così: da Visconti del film Rocco e i suoi fratelli al Celentano della canzone sul Ragazzo della via Gluck, dalla Gilda del Mac Mahon e dal Fabbricone di Testori alla (scusate l’auto-citazione, non è per il valore dell’opera, molti gradini più in basso delle citate, ma per il titolo) Città di m. di Colaprico, noi abbiamo assistito al cambiamento delle periferie costante. Un ricambio di facce e di voci. Dialetti e lingue. Prima i palazzoni del boom ovunque, poi la droga del Giambellino, le sparatorie al Corvetto, i sequestri alla Co-

Caro Sindaco che sarai eletto pensaci bene: non entrare nella periferia dell’esistenza se non hai il coraggio di calpestare per qualche anno di notte i nostri marciapiedi sconnessi, sotto le nostre luci spaccate, tra i supermercati che ospitano per ore i vecchi smemorati

masina, le violenze nelle fabbriche abbandonate, gli immigrati africani in ogni possibile rifugio, le plasticopoli di rom e sinti cresciute dopo la caduta del Muro di Berlino, i nove morti in nove giorni di via Padova, le fantomatiche ronde, ma anche “i preti di periferia”, i comitati di quartiere, i circoli,

l’impegno, l’aiuto, la solidarietà, e si potrebbe continuare: ma quante volte abbiamo sentito in campagna elettorale la parola periferia? E quante la parola sicurezza?

Ovviamente, “la sicurezza nelle periferie” è sempre al primo posto: primo posto delle chiacchiere, non dei fatti, però.

Per questo, caro sindaco che sei in pectore, chiunque tu sia, evita di parlare delle periferie, se poi non passerai dalle parole alle azioni a urne chiuse.

Evita di girare per mercati, di sentire le voci “della gente”. È un paradosso, ma il tanto vituperato Paolo Pillitteri, socialista, cognato di Craxi, è stato l’ultimo che, andando nelle periferie, in mezzo agli addetti Atm che protestavano perché gli zingari salivano sui bus, s’arrabbiò: «Razzisti, fascisti», gridò loro, da vecchio socialista (alcuni insegnamenti non erano stati stravolti). L’ultimo. Non il leghista Formentini, asserragliato dentro Palazzo Marino. Non Albertini, in mutande di cachemire per gli stilisti. Non Letizia Moratti, estranea a qualsiasi abitante di qualsiasi palazzone dagli intonaci cadenti. E nemmeno, e quanto ci dispiace, Giuliano Pisapia: nemmeno lui ha confortato le periferie milanesi, basta andare in giro senza il paraocchi.

Per questo, caro sindaco che sorgerai, pensaci bene: non entrare nella periferia dell’esistenza se non hai il coraggio di calpestare per qualche anno di notte i nostri marciapiedi sconnessi, sotto le nostre luci spaccate, tra i supermercati che ospitano per ore i vecchi smemorati. Smemorati, ma non bugiardi.

a

edizione

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PIANI BASSI

Esordio di Leonard, buona notizia senza dimora

di Paolo Brivio

Vagito di Leonard, buona notizia tecnicamente senza dimora. Il bimbo è venuto al mondo con un tetto sulla testa, quello della Locanda che ospita i suoi genitori, nella parrocchia del mio paese. Appena nato, in aprile, si è

però trovato al centro di un piccolo garbuglio burocratico: a quale amministrazione toccava registrare la sua nascita? E poi: aveva diritto, insieme ai genitori, a richiedere la residenza? Poteva ambire, con la famiglia, all’iscrizione a un’anagrafe pubblica, base ineludibile del godimento di ogni diritto?

O si sarebbe dovuto accontentare, almeno per un po’, del più precario status di richiedente asilo?

Perché Leonard è un piccolo profugo. Cioè, va da sè, lui non è scappato da nulla: è

l’autore Paolo Brivio, 49 anni, si è appassionato ai giornali ai tempi dell’università.

E ha coniugato questa passione-professione con l’esplorazione dei “piani bassi” della nostra società. Direttore di Scarp dal 2005 al 2014, oggi fa il sindaco: pro tempore, perché rimane “giornalista sociale” in servizio permanente effettivo

sbocciato, germoglio di vita, nel bel mezzo della sicura Brianza. Ma i suoi giovani genitori sì, che hanno alle spalle un’odissea come quelle che sentiamo raccontare in tv: fuggiti dalla Nigeria, sono approdati alle nostre latitudini solcando savana, deserto e mare, e sperimentan-

do l’inesorabile via crucis di angosce e soprusi che questo genere di viaggi impone.

Tutti stranieri sulla Terra Profugo figlio di profughi, Leo-

nard è comunque un dono.

Perché è vita nuova. E perché «la vostra esperienza di dolore e di speranza ci ricorda che siamo tutti stranieri e pellegrini su questa Terra, accolti da qualcuno con genero-

sità e senza alcun merito. Chi come voi è fuggito a causa dell’oppressione, della guerra, di una natura sfigurata dall’inquinamento e dalla desertificazione, o dell’ingiusta distribuzione delle risorse del pianeta, è

un fratello con cui dividere il pane, la casa, la vita».

Citazione da Papa Francesco, tre giorni dopo la nascita di Leonard.

Non vorrei aggiungere altro, a queste magnifiche parole. Ma ho ancora una colonna da riempire. E allora riparto dal pontefice. Che sancisce, rivolto ai rifugiati: «Trattati co-

È venuto al mondo con un tetto sulla testa.

Ma al centro di un garbuglio burocratico: ha diritto alla residenza?

«I rifugiati, trattati come peso, sono un dono», esclama Papa Francesco. Nel vivo dell’inverno demografico, sono pure un investimento...

me un peso, un problema, un costo, siete invece un dono».

Io, umilmente, e più prosaicamente, preciserei: «Siete pure un investimento». Nel mio paese, nei primi quattro mesi dell’anno, sono nati 15 bambini. Se manteniamo la media, a fine anno ne avremo 45 (ai miei tempi, per dire, ogni classe d’età oscillava tra 40 e 60). Leonard e i suoi baby-fratelli migranti saranno più della metà dei neonati.

Ossigeno, per la compagine anagrafica del paese. O zavorra per le pubbliche casse, e attentato alle italiche tasche, come sostiene qualcuno?

Per stabilirlo, affacciamoci sul domani (e il dopodomani): se in paese avremo ancora due classi elementari, una squadra di calcio, manodopera per le aziende, volontari per le associazioni, pagatori di contributi per le pensioni, lo dovremo in buona parte ai piccoli Leonard di oggi. E dire che, in pieno inverno

demografico (locale, nazionale, continentale), qualche genio tira su muri, a salvaguardia di proprietà e identità: come edificare il recinto dell’ospizio.

Tristezza. Ché i muri non pro-

teggono mai davvero dal caos e dal terrore. Ma possono inibire l’incontro. E lasciar fuori il bene. Leonard, adulto, sarà angelo o brigante? Intanto, è bene che sia qui. Osamudiamen, è il suo secondo nome: “Dio ti sostiene”. Sostenga anche il nostro potenziale di fraternità, nel tempo presente. E il coraggio di investire nel futuro. maggio 2016 Scarp de’ tenis

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12 Scarp de’ tenis maggio 2016

LA FOTO

foto di Sergio Malacrida

scheda Questa immagine è stata scattata pochi mesi fa a Presevo in Serbia nel corso di una missione di Caritas Ambrosiana. Due profughi afghani sono in attesa, insieme a centinaia di altre persone, dei controlli di polizia. Di migranti ne parliamo approfonditamente a pagina 54 nel dossier Ventuno

Fino a marzo 2016 sulla “Rotta Balcanica” sono passate oltre un milione di persone. Solamente chi proveniva dalla Siria, dall’Iraq e dall’Afghanistan aveva il permesso di attraversare Grecia, Macedonia, Serbia, Croazia e Slovenia.

In ogni Paese era stato istituito un hotspot di entrata e uno di uscita. Le persone in paziente coda e al freddo dovevano attendere di essere ammesse alle frontiere.

Nella foto due rifugiati afghani sono in attesa dei controlli della polizia di frontiera Serba maggio 2016 Scarp de’ tenis

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IN BREVE

europa Un sistema d’asilo da riformare di Enrico Panero Nelle ultime settimane la Commissione e il Parlamento europei hanno proposto e sollecitato una riforma del sistema europeo comune di asilo (Ceas), prendendo atto della non sostenibilità del sistema attuale di fronte ai crescenti flussi di persone in cerca di protezione internazionale nell’Ue. «La crisi dei rifugiati ha messo a nudo le debolezze del sistema comune di asilo» ammette la Commissione europea, secondo cui i problemi derivano soprattutto dalla coesistenza di approcci nazionali diversi, che alimentano il cosiddetto asylum shopping, e dalla convenzione di Dublino che ha assegnato a pochi Stati membri una responsabilità eccessiva. Servono norme comuni e un’equa ripartizione delle responsabilità tra Stati membri dell’Ue, sostiene la Commissione che proprio per questo un anno fa aveva lanciato l’Agenda europea sulle migrazioni con le proposte di ricollocazione e reinsediamento di richiedenti asilo e rifugiati. Dei 160 mila richiedenti asilo da ricollocare da Italia e Grecia negli altri Stati membri, però, finora ne sono stati ricollocati 1.145, mentre 5.677 sono gli sfollati reinsediati in 15 Paesi dell’Ue sui 22.504 previsti. Un fallimento totale della solidarietà europea auspicata, aggravato dalla costruzione di muri e barriere in alcuni confini interni all’Ue. Servirebbe un sistema centralizzato per la raccolta delle domande e la distribuzione dei richiedenti sul territorio dell’Ue, osserva l’Europarlamento, che però sottolinea come il problema non si risolverà mai senza la volontà degli Stati membri, sempre meno propensi ad accettare norme comuni.

14 Scarp de’ tenis maggio 2016

A maggio torna l’appuntamento con la settimana slow Era il 19 febbraio del 2007 la Prima Giornata della Lentezza. Quel lontano evento ebbe un successo mediatico inatteso. La Lentezza, che faceva sorridere, ora può essere considerata un bene comune.

Sempre più persone, infatti, ricercano una qualità della vita più soddisfacente e la trovano in una dimensione lenta, più a misura umana: nel viaggio, nel lavoro, nell’approccio alla vita.

Giunti alla decima edizione, a partire dal 9 maggio 2016 e per una settimana, l’invito è ancora una volta a fermarsi per tessere una rete sempre più ampia e articolata di persone, associazioni, scuole, università, aziende, città che hanno avviato senza clamore e con forte senso di condivisione un cambiamento duraturo nel segno del movimento lento. L’associazione Vivere con lentezza chiede anche quest’anno che ognuno condivida la propria idea di lentezza e il gesto, o la giornata, che gli ha dedicato. Chi vuole può scrivere e pubblicare sul sito la propria “adesione a rallentare”.

Info www.vivereconlentezza.it

street art Blu, per protesta, cancella i murales per le vie di Bologna L’artista (di cui non si conosce l'identità) ha cancellato i suoi murales dalle vie di Bologna, la sua città adottiva, per protesta con gli organizzatori della mostra dal titolo Street art – Banksy & Co. Il suo gesto ha sollevato domande sul ruolo dell’arte e sull’uso degli spazi pubblici.

Blu, le cui opere sono anche a Roma, Berlino, Los Angeles e Londra, ha scritto sul suo sito: “Non c’é più Blu a Bologna, e non ci sarà più finché i magnati magneranno”. Per ulteriori spiegazioni l'artista ha poi rimandato a un articolo postato sul blog del collettivo di scrittori Wu Ming, dove si chiarisce il motivo della protesta: “Dopo aver denunciato e stigmatizzato graffiti e disegni come vandalismo, dopo avere oppresso le culture giovanili che li hanno prodotti, dopo avere sgomberato i luoghi che sono stati laboratorio per quegli artisti, ora i poteri forti della città vogliono diventare i salvatori dell'arte di strada”.

on

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Banca Etica chiude in utile. La crescita della Banca interamente dedicata alla finanza etica ha conseguito una crescita del 9%, con prestiti accordati pari a 865 milioni di euro. Finanziamenti che producono impatti positivi economici, ma anche sociali e ambientali, attraverso la creazione di occupazione, lo sviluppo di servizi sociali o la promozione di cultura e sport. In particolare il 2015 è stato un anno significativo per la crescita dei prestiti a favore delle famiglie. In Italia e in Spagna sono sempre di più le persone e le organizzazioni che scelgono la finanza etica per gestire i risparmi e la propria operatività bancaria: i clienti risparmiatori di Banca Etica nel 2015 hanno superato il numero di 45mila con una crescita del 13% rispetto all’anno precedente che ha portato a una raccolta complessiva di 1 miliardo e 70milioni di euro (+9% rispetto al 2014). Il bilancio integrato di Banca Etica è consultabile e commentabile all’indirizzo http://bilanciosociale.bancaetica.it

In occasione della Giornata Internazionale per il diritto alla verità sulle gravi violazioni dei diritti umani e le dignità delle vittime (che si è celebrata il 24 marzo), l’organizzazione umanitaria Soleterre ha denunciato il dramma dei desaparecidos in Messico. Sono circa 7 milioni le persone, per la maggior parte provenienti dal Centro America, che cercano di raggiungere la frontiera sud degli Stati Uniti. Ogni anno si stima che almeno 400 mila migranti irregolari attraversino la frontiera tra Guatemala e Messico. In particolare, il Messico è una delle terre più pericolose per i migranti a causa degli alti tassi di abusi e omicidi a cui sono soggetti. Qui, ogni anno, circa 20 mila migranti vengono sequestrati per estorcere denaro alle loro famiglie: molti spariscono senza lasciare traccia, vittime di traffico e tratta di persone. Secondo il governo messicano i desaparecidos sono 27 mila e tra questi ci sono anche migranti; il numero delle persone scomparse parrebbe però di gran lunga superiore, considerando che la maggior parte dei familiari non denuncia le sparizioni alle autorità.

Ottimi risultati. Chiude in utile il bilancio di Banca Etica

Soleterre denuncia il dramma dei desaparecidos in Messico

[ pagine a cura di Daniela Palumbo ]

Arché.

L’infanzia a Milano numeri e riflessioni

L’architettura icona della città raccontata da Basilico e Mulas Fino al 10 luglio al Castello Sforzesco c’è il racconto della Ca’ Brutta, in occasione del restauro. L’opera prima dell’architetto Giovanni Muzio (1893 – 1982) è un’icona dell’architettura italiana. Immagini di Ugo Mulas e Gabriele Basilico e le riprese di 30 tra i più autorevoli esponenti della fotografia contemporanea nella mostra curata da Giovanna Calvenzi. Disponibile una mappa della città realizzata in collaborazione con il Politecnico di Milano, che permetterà di percorrere un itinerario tra le opere di Muzio.

Info www.cabrutta.it

pillole homeless In Australia c’è la lavanderia ambulante per homeless

Cercasi donatore di coccole per neonati Cercasi persone che vogliano dedicare il proprio tempo a bambini che sono in attesa di adozione o che sono stati allontanati dai loro genitori. La richiesta viene dall’agenzia statunitense Spence-Chapin, che si occupa di trovare una famiglia ai bambini. Ai volontari viene chiesto di coccolare i più piccoli in base alla propria disponibilità di tempo. Ogni volontario può coccolare i neonati dalle due alle sei settimane, dopo aver frequentato un corso di formazione ad hoc. I donatori sono invitati a compilare un diario e scattare foto in cui sono insieme, da far vedere ai bambini quando saranno più grandi. In Italia, a caccia di coccole c’è l’associazione Dharma, di Brescia, che dal 2011 provvede ad accudire i bimbi appena nati abbandonati in ospedale dai loro genitori. Sono oltre trecento i volontari di Dharma, persone di tutte le età, che operano presso le strutture ospedaliere bresciane, accudendo anche quei minori ricoverati perché vittime di maltrattamenti in famiglia.

Info www.ibambinidharma.it

Due ventunenni australiani hanno avuto l’idea – semplice ma geniale – di attrezzare un piccolo furgoncino, a cui hanno dato un nome evocativo, sudsy (schiumoso), con delle lavatrici sul retro. Nicholas Marchesi e Lucas Patchett, a Brisbane, hanno così realizzato la prima lavanderia ambulante per persone senza fissa dimora. Il servizio naturalmente è gratuito e si basa sul volontariato. La prima lavanderia ambulante per gli homeless da Brisbane (è la terza città più popolosa dell’Australia), in due anni, si è diffusa in altre cinque città australiane (Melbourne, Sydney, Perth, Gold Coast e Adelaide). La Orange Sky Laundry, funziona grazie a ben 450 volontari.

I due fondatori ora puntano ai 1000 collaboratori e hanno affermato ai giornali locali: «Vogliamo abbattere la percezione comune che la gente ha degli homeless e aiutarli a crescere all’interno della società».

La Fondazione Arché organizza per sabato 14 maggio 2016 una Giornata di Studio dal titolo “#bambiniamilano”. L'evento si terrà presso il Pavillion Unicredit di Piazza Gae Aulenti 10.

La giornata di studio sarà l’occasione per la presentazione di una pubblicazione sulla condizione minorile nella città di Milano nell’intento di consegnare alla nuova amministrazione comunale alcune linee programmatiche di attenzione e rinnovamento delle politiche sociali. Un momento di riflessione aperto a tutti gli attori sociali, pubblici e del terzo settore della città. Secondo l’Istat, la popolazione residente a Milano di età inferiore a 14 anni ammonta a 174.749 unità, pari al 13% della popolazione . Conoscerne le condizioni e gli stili di vita, la cittadinanza, le forme di famiglia in cui vive, e la distribuzione sul territorio, è il primo passo utile per far emergere aree problematiche e creare progetti utili.

Info bambiniamilano@arche.it

La piattaforma per chi cerca lavoro nel terzo settore Si chiama job4good.it ed è utilizzabile da onlus, cooperative e ong italiane che cercano coordinatori di progetti, esperti di comunicazione o di fundraising, ma anche ostetriche o infermieri. Luca Di Francesco e Diego Maria Ierna sono i due ideatori del progetto. L'utilizzo di job4good.it è gratuito per i candidati e per le organizzazioni non profit. I candidati possono creare un profilo che sarà visibile solo alle organizzazioni e alle aziende registrate. Le organizzazioni registrate avranno un accesso diretto e autonomo alla pubblicazione degli annunci. È presente un servizio di job alert che in automatico avvisa i candidati quando una nuova posizione corrisponde alle proprie esigenze. Info www.job4good.it maggio 2016 Scarp de’ tenis

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IN BREVE

La fio.PSD e i giornali di strada Cristina Avonto - presidente Da 30 anni siamo “per la strada” a fianco delle persone senza dimora. A partire da questo numero diamo inizio a una collaborazione stabile con Scarp de' tenis e gli altri giornali di strada. È egregio il lavoro “di strada” di questi giornali, la capacità di prossimità e di incontro con il cittadino comune, la semplicità nel dar voce alle persone e al racconto delle storie della difficile vita di tutti i giorni. Una azione di dignità e diritti per le persone, e di questo da sempre ci vogliamo occupare.

Gli ambiti nei quali la fio.PSD è impegnata sono tre: - la comprensione del fenomeno della grave emarginazione adulta; - lo studio e la promozione di strategie e metodologie di intervento per contrastare la grave emarginazione adulta; - la sensibilizzazione e la promozione dei diritti delle persone adulte gravemente emarginate.

Negli ultimi anni siamo stati impegnati nella realizzazione delle due Indagini nazionali sui senza dimora condotte su incarico del Ministero del lavoro e delle politiche sociali con Istat e Caritas Italiana; nel coordinamento del gruppo di lavoro che ha redatto le Linee di Indirizzo per il contrasto alla grave emarginazione adulta; nella promozione del network Housing First Italia, a cui aderiscono oltre 50 realtà in Italia e che ci ha visto partecipare come rappresentanti italiani ai recenti meeting di Bruxelles e Los Angeles.

Con la collaborazione che parte oggi vorremmo contribuire a dare maggiori informazioni sulle attività che insieme si possono fare per promuovere una cultura dei diritti.

Info www.fiopsd.org

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CINQUE DOMANDE

Il bambino magico è stupore e bellezza insieme di Daniela Palumbo

Questa storia inizia in una notte africana sotto l’albero delle parole. Qui, dove

di giorno gli uomini del villaggio si raccolgono per prendere decisioni, un bambino di cinque anni, Gora, stringe al petto un bambino, è suo fratello appena nato. Ma è considerato una sventura perché è uno zeruzeru, un africano albino. Ma per Gora è solo Moussa, suo fratello. Maria Paola Colombo ci racconta la diversità vista attraverso gli occhi di un bambino. «Quando Gora vede per la prima volta il fratellino bianco il suo cuore si riempie di incanto – dice l’autrice – quella pelle lunare, abbagliante nella notte africana, per gli adulti è malocchio, per lui è solo stupore e bellezza. I bambini hanno gli occhi puliti, le menti sgombre dai pregiudizi. Lo sguardo dei nostri bambini va protetto, custodito e aiutato ad arricchirsi».

Con che occhi ha cercato di guardare una realtà così diversa dalla nostra?

Quando ho cominciato a scrivere l’idea era di ambientare la storia in Italia: una storia di migranti alle prese con la durezza dell’esperienza. Ma non riuscivo a scrivere, non funzionava: inanellavo stereotipi, positivi, ma stereotipi. Allora, per conoscere un poco l’anima dei miei protagonisti, ho deciso di scrivere qualche pagina della loro infanzia. E mi sono accorta di un difetto strutturale nel

mio pensiero (e dibattito collettivo): anche tra chi è favorevole all’accoglienza prevale l’idea del migrante come un povero disgraziato, da aiutare in forza della sua difficoltà. Èsicuramente vero: la nostra umanità è chiamata in causa in maniera ineludibile. Ma c’è di più: l’altro non è solo un “povero”, non è solo il destinatario di un gesto non paritario, ma è anche un “ricco”, un portatore di cultura, di storie e possibilità. L’Africa non è solo una terra martoriata dalle guerre, dagli autoritarismi, dalla fame e dal colera, ma anche un continente che ospita molte culture affascinanti, millenarie, che hanno molto da dire e da insegnare all’Occidente.

La protagonista africana dice alla fine del libro: «Il mio popolo non è una nazione, un paese delimitato da un confine geografico: è il popolo degli uomini e delle donne libere... che sanno custodire la speranza». I custodi della speranza, appunto, lei è ottimista sulla loro resistenza, anche oggi?

Sì, sempre. Continueranno le guerre e ne cominceranno di nuove. Ma quando sono preoccupata o triste, chiudo gli occhi e penso a tutti gli uomini e le donne che stanno lavorando per la pace. È un esercito silenzioso e costante. La pace non esplode, avanza un gesto dopo l’altro. Gli uomini e le donne della speranza si moltiplicheranno. Non si lasceranno scoraggiare: il loro agire è guidato dalla necessità di fare la cosa giusta. Il loro cuore è quello degli innamorati e non c’è niente di più follemente ostinato dell’amore.

IN BREVE

Accoglie i migranti a Milano La Grangia compie trent’anni

La Grangiadi Monluè compie 30 anni. Era il 1986 quando il cardinale Carlo Maria Martini individuò la necessità di dare una casa di accoglienza ai migranti in difficoltà.

Profetico come sempre. Da allora si sono susseguite alla Grangia tante persone che hanno sempre lavorato in nome di questo obiettivo. La Grangia è un’Associa-

zione Onlus di Volontariato che rivolge la propria azione a uomini stranieri, richiedenti asilo, profughi di guerra, perseguitati per motivi politici, religiosi, etnici, esuli a vario titolo, gestisce una casa di accoglienza, nella periferia sud est di Milano, con 23 posti per richiedenti asilo, rifugiati politici e profughi che stanno cercando di ricostruirsi una vita in Italia. Non solo un letto e un piatto caldo, ma l’associazione offre

un accompagnamento socio-educativo e la condivisione di alcuni dei passaggi del progetto migratorio di ognuno. Durante il periodo di accoglienza, infatti, gli ospiti ricevono un supporto finalizzato alla loro concreta integrazione: vengono sostenuti nell’apprendimento della lingua, accompagnati nella ricerca/mantenimento di un posto di lavoro regolare e nella conoscenza

del sistema sanitario nazionale.

Quando è necessario, la Onlus di via Monlué 87, li affianca con un orientamento e un accompagnamento giuridico e li supporta nella ricerca di alloggi autonomi. Il percorso educativo mira a potenziare le autonomie e le competenze relazionali di ognuno.

Bed&Care, start up innovativa a vocazione sociale Un portale turistico solidale che promuove e sostiene il turismo accessibile. La piattaforma di booking sarà aperta a tutte le strutture ricettive che accettano di sottoscrivere un codice etico comune, fondato sui principi e i contenuti del “Manifesto del turismo accessibile” e che, così facendo, segnalino ai propri clienti la propria disponibilità ad accogliere, al meglio delle proprie potenzialità, qualsiasi tipologia di viaggiatore. Attraverso il portale, favoriamo il dialogo tra le imprese che lavorano nel settore turistico e le associazioni delle persone con disabilità. La nostra offerta non è rivolta soltanto alle persone con disabilità, ma a tutti coloro che desiderano viaggiare in modo etico e solidale: una percentuale compresa tra il 10% e il 30% dei ricavi di Bed&Care è destinato a sostenere le attività delle associazioni nostre partner. La nostra mission è dare vita ad un modello di turismo solidale assistito e accessibile ottimizzando l’offerta turistica esistente, facendola conoscere e rendendola fruibile.

info: ww.lagrangiadimonlue.org

LA STRISCIA

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LE DRITTE DI YAMADA

Canzoni senza tempo Canzoni che commuovono

Avviso ai naviganti: questo mese la recensione è su due canzoni senza tempo che rimpatriano chi le ascolta con un abbraccio.

Cominciamo. Uno schiocco di dita e...via!, parte MoonRiver. La versione in questione è quella tratta dall’ultimo CD di Bill Frisell, When You Wish Upon a Star, un lavoro in cui Frisell reinterpreta, in modalità incantatore, alcuni temi di film o telefilm veramente famosissimi. Lo ascolti suonare e – proprio come nel disegno di copertina di When you Wish –lui, camminando sul manico della sua chitarra –raggiunge la tua polpa dolce, dieci bucce protettive ben sotto la scorza: da lì, da quel pertugino s’insinua questa MoonRiver che t’accende un filare di lucine attorno senza che sia Natale. La voce che la fraseggia dolcemente è di Petra Haden (figlia di Charlie, grande, immenso contrabbassista che ci ha lasciato l’anno scorso), e l’allure che cinge il pezzo lo trasogna. Fa ripensare

a cose preziose e lontane nel tempo, custodite con cura e lasciate scorrazzare solo quando qualcosa di emotivamente ad hoc ha la chiave per aprire quel certo scrignetto dorato.

Ascolto questa MoonRivere mi commuovo.

Altro schiocco di dita per la seconda canzone, che è nell’ultimo CD di Ron, La Forza di Dire Sì: un disco con 24 suoi pezzi ricantati in duplex con colleghi super bravi, i

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Due canzoni senza tempo che riconciliano con la vita.

Due meraviglie che trasformano il cantato in qualcosa di angelico

canzoni MoonRover di Bill Frisell Chissà Se Lo Sai Ron e Dalla

Trascinati a forza dai genitori, un gruppo di adolescenti passa le vacanze estive camminando sull’antica strada dei pellegrini, la Via Francigena. Il cammino diventa crocevia di incontri e di amicizie. E Giorgia, in un libro, scopre una lettera. È di Alessioilcamminotisialieve che le scrive raccontandole la sua vita, piuttosto complicata.

A ogni tappa una lettera.

cui proventi di vendita andranno all’Associazione Ricerca Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica.

Non so se avete visto che a Bologna c’è “la panchina di Lucio Dalla”, un’installazione con una statua di Lucio – scolpito realisticamente, con tanto di cappellino marinaro e occhialini tondi – seduto sull’estremità di una panchina che aspetta chi vuol fargli compagnia. Questa intro per dir-

Daniela Palumbo A un passo dalle stelle Giunti, euro 12

vi che la seconda meraviglia sonica di cui vi scrivo è...(qui il rullo di tamburi ci sta bene) Chissà Se Lo Sai, interpretata da Ron con Lucio Dalla. Ascoltatela, se capita.

Si dividono equamente il cantato (inizia Lucio poi tocca a Ron) e tutto il merito di trasformare la canzone in qualcosa di angelicato che danza al ralentì. Se pensate al fotogramma de l’Atalante con lei vestita da sposa che danza sott’acqua, fate bene: ha la stessa portata magica. Il testo del pezzo fotografa precisamente una serie di tenerezze – espresse da un “io” – che trovano il coraggio notturno di diventare i gesti (e le parole) fondanti di un “noi”. Le voci di Ron e Lucio sono così belle da far credere che tutto andrà bene, a queste due mani che diventano un ponte. Sotto questo ponte, in modo vivo e montante scorre la musica del pezzo, con gli archi morbidi che ne sono l’emoticon e il clarinetto suonato magnificamente da Dalla a dare dei tocchi, qui e là così suoi.

Chissà se lo sai che ci manchi così tanto, Lucio. Settimana scorsa ero a Bologna, e non sapevo ancora di quella panchina col posto vuoto vicino a te. Se lo sapevo te lo venivo a dire.

E dopo il successo e la fama, che c’è?

Cosa succede dopo una carriera passata sui campi di calcio, quando i riflettori degli stadi si spengono?

Matteo Cruccu, giornalista del Corriere della Sera, racconta dieci storie di campioni amatissimi, rimasti nella memoria collettiva del calcio italiano anni Ottanta e Novanta.

Matteo Cruccu Ex - Storie di uomini dopo il calcio Baldini e Castoldi, euro 15

Condividere gli ultimi giorni di vita

[ a cura di Daniela Palumbo ]

testo e illustrazione di Yamada

In cammino sulla Francigena

Un’infermiera e una volontaria incrociano le loro vite in un Hospice per malati terminali. Persone la cui aspettativa di vita non supera i 120 giorni. In quelle stanze, alla presenza della morte, l’infermiera e la volontaria non sono più figure professionali ma sono soprattutto esseri umani che vogliono condividere l’ultimo pezzo di vita di altre persone.

Angela Barbieri 120 giorni. L’équipe di un Hospice racconta Infinito, euro 10,50

L’infinita fabbrica del Duomo è nelle sale di tutta Italia grazie a Lab 80 Film, cooperativa che organizza rassegne, produce film, fornisce servizi per la realizzazione e la proiezione di audiovisivi dal 1976

VISIONI

Al di là delle montagne Fenyang, 1999. La Cina sta cambiando. La giovane Tao non sa decidersi fra Zhang, che si sogna capitalista, e Lianzi, umile minatore. Sceglie Zhang e cojn lui ha un figlio. Quindici anni dopo Tao è separata e sola.

Zhang è sposato con un’altra donna e non le vuole far vedere il figlio. Fino a quando, il giovane andrà a cercarla.

Il Duomo di Milano La fabbrica infinita stile mai fine a se stesso che

L’olmo di Mergozzo, Verbania, è uno degli alberi più antichi d’Italia. Dicono sia stato piantato alla fine del 1300. Narra la leggenda che fin quando questa pianta, che ha già visto succedersi una lunghissima sfilza tra imperatori e papi, assisterà paziente a ciò che le capita intorno, il Duomo di Milano rimarrà in piedi. Oggi è ancora in salute.

Nelle vicine cava di Candoglia, in effetti, a partire dal 1387 la Veneranda Fabbrica del Duomo ha cominciato a reperire materiali per la costruzione della cattedrale. Da questa antica credenza inizia il bellissimo documentario di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti.

L’infinita fabbrica del Duomo cita e utilizza in maniera sapiente due libri, Storia della veneranda fabbrica di Carlo Ferrari da Passano e Milano in mano di Guido Lopez e Silvestro Severgnini che raccontano la storia della nascita del simbolo de Milan e dei milanesi dalle cave di marmo ai lavori di manutenzione che non si fermano proprio mai.

La regia è un esercizio di

La storia del Duomo di Milano come nessuno ha scelto di raccontarla. La macchina da presa è tutta per le tante persone che lavorano ogni giorno perché questa autentica fabbrica continui a influenzare la vita delle persone

il film L’infinita fabbrica del Duomo Un film di Massimo D'Anolfi e Martina Parenti.

Documentario. Durata 74 min.

Italia 2015. Lab 80 Film

cerca di dare l’idea del lento lavorio legato al Duomo che da secoli influenza la vita quotidiana di centinaia di persone e che forse non finirà mai. Inquadrature

Banat Il viaggio

fisse, rumori d’ambiente e tante persone che svolgono lavori semplici ma fondamentali. Calchi delle statue, pulizia dei marmi e ricerche degli archivisti. Poi, carta, candele che vengono riciclate, legni, marmi e l’oro della madonnina: la

Una storia di migrazione al contrario dell’esordiente Adriano Valerio. Un agronomo accetta lavoro in Romania, a Banat. Ma la sera prima di lasciare Bari conosce Clara.

Anche lei a una svolta della sua vita. Due italiani che guardano alla Romania, paradossalmente, come al riscatto professionale.

macchina da presa si fissa come un microscopio sulla materia, che durerà nel tempo.

Un documentario che è un film quasi muto, che cerca di giocare con il tempo e creare un’atmosfera sospesa e quasi magica, non solo un documentario quindi.

L’appassionato di cinema si ritroverà in certe atmosfere del cinema di Tarkovskij o in passaggi da thriller.

Dopo i precedenti lavori come Il castello, dedicato all’aeroporto di Malpensa e ai suoi dietro le quinte, e La materia oscura sul poligono sperimentale di Salto di Quirra, Sardegna, la coppia di registi procede con questo rigoroso lavoro di sottrazione che continua a raccogliere consensi nei festival più importanti d’Italia.

Io sono Nujood, ho 10 anni e voglio il divorzio

[ a cura di Daniela Palumbo ]

di Sandro Paté

Autobiografia della regista, Khadija Al-Salami. La storia di Nujood, bambina yemenita che fugge dallo sposo aguzzino. Nujood è stata costretta dalla sua famiglia a sposare un uomo 20 anni più grande di lei.

Ricevendo violenza e insulti. La bambina è riuscita a fuggire e ad andare a scuola.

Nonché a ottenere il divorzio. maggio 2016 Scarp de’ tenis

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Dario Fo ha compiuto 90 anni lo scorso 24 marzo. Nel 1997 ha ricevuto il Premio Nobel per la Letteratura. Il Nobel per un giullare

Dario Fo Arte e teatro Per ridare dignità agli oppressi di Daniela Palumbo

Il “giullare” premiato con il Nobel compie novant’anni e si racconta a Scarp tra i ricordi d’infanzia, le critiche al potere costituito e il giudizio (positivo) su Papa Francesco 20 Scarp de’ tenis maggio 2016

Dario Fo ha compiuto 90 anni . Il 24 marzo. Ma continua a divertirsi sul palcoscenico, a sentirsi uomo di teatro che sa di avere ancora tanto da raccontare.

Non si stanca mai, dice, di meravigliarsi, di stupire, e nemmeno di andare all’assalto del potere a volto scoperto. Chiunque ci sia nella diligenza.

Che ricordo ha della strada dove è cresciuto?

Sono cresciuto a Porto Valtravaglia, sul lago Maggiore, un posto incantevole, in mezzo alla natura. C’era una vetreria dove veniva lavorato il vetro soffiato. Arrivavano da tutto il mondo i soffiatori di vetro: spiegavano i segreti di forme e tecniche differenti di lavorazione. Insieme alla loro sapienza portavano anche

lingue diverse, venivano dal Medio Oriente, dalla Spagna, dal Nord Europa... Io ero un ragazzino e li ascoltavo parlare. A scuola scimmiottavo le lingue che sentivo e cercavo di farmi capire dagli altri compagni. Mi guardavano come un folle. Ma poi la contaminazione dei suoni conquistò anche gli altri ragazzini e insieme comunicavamo con le lingue inventate. Il grammelot nasce da lì, dalla strada. Perché la strada era il nostro mondo dei giochi, avevamo tantissimo spazio, non come in città. Era un posto bellissimo il mio paese: ricordo che andavamo a giocare sulla riva del lago, o salivamo in montagna, in cerca di caverne. Un mondo straordinario per noi bambini; una memoria eccezionale che porto con me.

E qualche anno dopo, nel 1997, il Nobel per la Letteratura. Cosa è cambiato per Dario Fo? Vinsi insieme a Franca il Premio Nobel. Eravamo felicissimi. Storditi. Ci sembrava incredibile che stesse accadendo a noi. Il primo momento fu così. Di ubriacatura.

Poi io e Franca ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti: «Non montiamoci la testa. Bisogna ricominciare a lavorare con la stessa umiltà, con gli stessi obiettivi.

E senza porre fra noi e gli altri questo premio. Scongiuriamo il pericolo che l’altro debba pensare: attenzione con chi parli». E per meglio dimenticarci del Nobel mettemmo tutti i denari che ci arrivarono dentro il contenitore che ci sembrava adatto, quello del Nobel per i diseredati, li abbiamo dati a chi aveva davvero bisogno.

Dario Fo parla spesso al plurale. Franca, manca dal 2013, ma c’è ancora.

Non potrebbe essere altrimenti.

A Porto Valtravaglia arrivavano i soffiatori di vetro.

Arrivanvano dal Medio Oriente, dal Nord Europa, dalla Spagna.

Li ascoltavo e a scuola scimmiottavo le loro lingue: il grammelot Siamo stati insieme da quando lei aveva 19 anni e io 21. Tutta una vita insieme. Abbiamo combattuto, gioito e lavorato insieme. Abbiamo preso anche delle sleppe terribili da parte del potere che combattevamo e che si è “leggermente” risentito per la satira, il grottesco e la critica che noi mettevamo nei nostri lavori e che coinvolgeva dirigenti e capi di ogni livello e settore in questo Paese. Non c’è un giorno, un singolo ricordo che affiori maggiormente, proprio perché il nostro era un vivere e operare insieme.

Abbiamo diviso responsabilità e fatiche, ma soprattutto la reazione orribile del potere verso le cose che dicevamo...

Nel libro Dario e Dioha scritto della morte: il bello della vita è anche il suo finire. A 90 anni cosa teme della morte?

Eh, appunto... il fatto che sia la fine della vita! Ma bisogna cercare di arrivarci in surplace, senza che diventi un pensiero fisso, un freno a tutto quello che fai, ai programmi che hai, e io ne ho tanti. La morte non deve diventare l’ossessione dei vivi. Io sogno di morire con un programma pieno davanti a me, e dire: “Peccato!” Non ho fatto in tempo a realizzarlo fino in fondo.

Parliamo di Milano. Se dico... città dell’accoglienza?

Permettimi una risata gigante. Ma l’accoglienza di chi? Dei furbi, de-

L’INCONTRO gli scaltri, dei potenti. Se pensiamo solo ai governi che abbiamo avuto, che hanno tirato a campare, quelli che hanno fatto le loro truffalderie, se pensiamo al gioco delle banche che sovrasta ogni momento di collettività. No, Milano non è una città accogliente per i diseredati.

Eppure Fo crede nell’uomo.

Nonostante il potere sia un male che corrode l’uomo.

Perché unisci il potere all’uomo?

Il potere è una cosa l’uomo è un’altra. Quando penso all’uomo

scheda Il 24 marzo Dario Fo ha compiuto 90 anni. Sempre lucido e gagliardo nelle sue analisi sul potere come nei suoi spettacoli. Fo sarà con Mistero Buffo a Padova il 20 maggio, il 27 maggio al Ciak di Milano, il 16 giugno a Roma.

Felice si chiamava il papà del Maestro e faceva il capostazione. La mamma, Pina Rota.

Un'infanzia che Dario ricorda intensa e vivace.Dopo l'Accademia di Belle Arti a Milano, dal 1950 Fo comincia a lavorare in Rai come attore e autore di testi satirici. Nel 1954 sposa Franca Rame, un sodalizio, anche sulla scena, fortissimo, fino alla morte di Franca, nel 2013.

Nel 1955 nasce il figlio, Jacopo.

Nel 1962 i due artisti scrivono sketch per Canzonissima, ma la censura li taglia. Nel 1968 lui e Franca fondano il gruppo teatrale Nuova Scena. L'anno dopo è quello di Mistero Buffo e del linguaggio teatrale grammelot : improvvisazioni giullaresche, tipiche anche della Commedia dell'arte, con suoni onomatopeici, che imitano idiomi reali con intenti parodici.

Nel 1997 riceve il Premio Nobel per la Letteratura: «Perché, seguendo la tradizione dei giullari medievali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi». Fo dirà: «Con me hanno voluto premiare la gente di teatro». [DP]

io guardo a San Francesco, ad esempio, che si è battuto tutta la sua vita contro il potere. E quando lui è morto il potere ha deciso di non raccontare la sua vita come è avvenuta, narrando invece storie copiate da altri Santi. Mentre i fatti, unici, stupendi che ha compiuto San Francesco e chi gli stava accanto, erano altri. La difesa dei diritti umani, l’aiuto ai deboli, l’onestà, la purezza. Questo è il tormentone che io cerco di trasmettere con il mio lavoro, voglio e faccio di tutto perché sia narrata ai giovani una verità, anche quando racconto cose divertenti e ridicole.

Mistero Buffo è ancora attualissimo, immortale.

Mistero Buffoera l’attenzione al sacro della mia gente: la popolazione semplice, lavoratori, pescatori, contadini, operai, studenti, come ero io. Avevo scoperto grazie a loro questa voglia assoluta di trovare un momento di salute dell’anima. È grazie alla narrazione pubblica dei vecchi del mio paese che io ho imparato a raccontare le storie di Mistero Buffonel modo in cui le racconto. Con la meraviglia per il creato, con il fantastico e l’infinito. Poi, qualcuno, tutto questo lo chiama anche religiosità.

Nel suo libro Papa Francesco ne esce bene... Pensa che questo Papa riuscirà nella sua opera di cambiamento?

Chi può dirlo? Certo, ha cominciato bene. Le sue azioni sono di cambiamente e di rinnovamento: mi piace molto, è coraggioso, deciso. E soprattutto, ed è una cosa che pochi notano, è riuscito a relazionarsi con molte persone che lo sostengono e lo proteggono.

Non è solo. Spero che riesca ad avere sempre quest’ensemblestraordinario che gli dà la possibilità di agire.

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COPERTINA

Un momento di Ci avete rotto il caos, uno spettacolo di drammaturgia e regia collettiva con attori detenuti del IV reparto del carcere di Bollate e la supervisione degli operatori della cooperativa Estia

Fare arte, per 22 Scarp de’ tenis maggio 2016

Negli anni si sono moltiplicate le iniziative artistiche e letterarie dentro le carceri italiane: corsi di teatro, rassegne di cinema, laboratori di poesia e di scrittura.

Viaggio di Scarp tra i veri e unici strumenti di libertĂ

r essere liberi maggio 2016 Scarp de’ tenis

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COPERTINA

di Paolo Riva

Un ricco cartellone di rappresentazioni teatrali. Una rassegna cinematografica.

Laboratori di poesia con tanto di gara a colpi di rime. E poi gruppi di lettura, presentazioni di libri, mostre di pittura e sessioni di street art.

No, non è il programma di un centro culturale o il calendario di un’istituzione nel campo dell’arte, ma il ricco mosaico delle iniziative organizzate in molte delle 205 carceri italiane. Mentre “fuori”, spesso, arte e cultura faticano a trovare spazi e fondi, “in galera” fioriscono le proposte per i detenuti che, dietro le sbarre, trovano nuovi stimoli, momenti di libertà e occasioni di riscatto in attesa del fine pena.

Certo, le condizioni degli istituti del nostro paese non sono certo idilliache, soprattutto a livello di strut-

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ture e personale. Il problema del sovraffollamento però, è oggi meno pressante e lo scorso anno i suicidi in carcere, secondo il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), sono scesi a 39, il numero più basso dal 1992. Secondo il ministro della Giustizia Andrea Orlando, il 2015 ha segnato un “salto di qualità” anche se, ha ammesso il Guardasigilli, “resta molto lavoro da fare”. Nel campo artistico-culturale però gli esempi positivi sono tanti e gli spunti cui ispirarsi numerosi.

A farla da padrone è sicuramente il teatro. Il sipario, infatti, si alza praticamente in un carcere su due. A rivelarlo è stato lo stesso Dap il 27 marzo. Mentre nel mondo si celebrava la giornata mondiale del Teatro, nel nostro Paese è andata in scena la terza edizione della Giornata Nazionale del Teatro in Carcere, cui hanno partecipato 44 istituti di pe-

na per un totale di 60 eventi in quindici regioni. Complessivamente, però, lungo tutto lo stivale le compagnie che lavorano negli istituti penitenziari sono oltre cento. A gestire questi laboratori sono nel 41 per cento dei casi volontari, seguiti da professionisti (37 per cento) e insegnanti (12). I finanziamenti, invece, provengono per il 68 per cento dal settore pubblico e per il 32 per cento da privati.

In scena contro la recidiva Gli effetti di questo vasto impegno sono decisamente positivi. Sempre secondo il Dap, infatti, “l’attività teatrale costituisce uno strumento utile per i soggetti in stato di detenzione, sia sotto il profilo culturale che di crescita personale”. Inoltre, “le attività teatrali registrano un’alta valutazione sotto il profilo trattamentale e una ricaduta positiva sul clima

I DATI

Sempre più detenuti in esecuzione esterna, troppi quelli senza una sentenza definitiva Un momento di laboratorio teatrale della compagnia Teatro In-Stabile dentro il carcere di Bollate aperto anche a ospiti esterni alla casa circondariale

Al 31 dicembre 2015 la popolazione carceraria era di 52.164 detenuti, di cui 39.274 persone in regime di esecuzione esterna. Lo ha comunicato il ministro della Giustizia Orlando a gennaio. «A fine 2010 - ha spiegato il Guardasigilli - l’anno in cui venivano notificati i ricorsi Torreggiani al governo italiano (per il sovraffollamento delle carceri ndr), il numero dei soggetti in esecuzione penale esterna era di 21.494 ed erano 67.971 i ristretti in carcere. Una crescita di quasi 18 mila unità in termini assoluti, e quasi del 100 per cento in termini percentuali».

Per contro, fa notare il rapporto annuale di Antigone, presentato ad aprile, il tasso di affollamento è attualmente al 108 per cento (nel 2009 era il 147) e 3.950 persone sono ancora prive di un posto regolamentare. Il tasso di detenzione, prosegue il documento, è nella media europea: l'Italia ha circa 90 detenuti ogni 100 mila abitanti. Ancora troppi sono invece gli imputati. I detenuti in attesa di sentenza definitiva sono il 34,6 per cento del totale (la media europea è del 20,4). Infine, sottolinea l’associazione da sempre impegnata per i diritti dei detenuti, “cresce l'istituto della messa alla prova. I dati dicono che le misure alternative alla detenzione e il braccialetto elettronico portano la recidiva a tassi prossimi allo zero”.

Info: www.associazioneantigone.it - www.giustizia.it

dell’istituto”. A Bollate, alle porte di Milano, per esempio, la cooperativa Estia ha celebrato quest’anno i dieci anni di attività con ottimi risultati.

«Degli oltre 300 detenuti che hanno partecipato ai nostri progetti –spiega la fondatrice della cooperativa, Michelina Capato Sartore – solo il 7 per cento è tornato a commettere reati». Un dato importante, se si considera che il nostro Paese detiene il record poco lusinghiero del più alto tasso di recidiva in Europa.

A cercare di abbassarla, però, accanto ai fondamentali interventi nell’ambito lavorativo, non concorre solo il teatro. Anche la letteratura e i libri hanno uno spazio importante.

Nel carcere minorile de Il Pratello a Bologna, per esempio, i detenuti si sono sfidati in una gara di poesia chiamata Streets of freedom. Ad Ancona, invece, i reclusi si sono ci-

scheda Il tasso di affollamento nelle carceri italiane è attualmente al 108 per cento (nel 2009 era il 147) e 3.950 persone sono ancora prive di un posto regolamentare.

Il tasso di detenzione è invece nella media europea: l'Italia ha circa 90 detenuti ogni 100 mila abitanti.Troppi invece gli imputati. I detenuti in attesa di sentenza definitiva sono il 34,6 per cento del totale (la media europea è del 20,4)

mentati con le fiabe, raccolte in un audiolibro autoprodotto grazie all’aiuto di una radio locale e abbinato a un volume di illustrazioni. Il titolo? Fiabe in libertà, ovviamente.

Il bello dei libri Quando si parla di libri, però, non si può non parlare di biblioteche. Anche in carcere. Teoricamente, in ogni carcere. Gli articoli 12 e 19 della legge 354/1975, infatti, prevedono esplicitamente la presenza di una biblioteca in ogni istituto penitenziario: secondo il rapporto “Galere d’Italia” di Antigone, in media, ci sono 4.352 libri per carcere e 15 a dete-

nuto, per un totale di 840.116 volumi presenti nelle biblioteche carcerarie (in molti casi però in edizioni vecchie e poco utili). A Milano, dentro San Vittore di biblioteche ce ne son ben sette, una per ogni raggio e dal 2014 questi luoghi sono diventati il fulcro intorno al quale è ruotato il progetto Biblioteche in rete a San Vittore. Operatori e volontari di diverse realtà cittadine si sono impegnati per promuovere la lettura, formare i detenuti bibliotecari e creare un vero e proprio sistema bibliotecario interno al carcere, aggiungendo nuovi volumi con l’ingegnosa operazione chiamata #ZanzaUnLibro (www.bibliorete.org). Non solo: hanno anche organizzato gruppi di lettura, creato occasioni di incontro tra i detenuti e la cittadinanza e raccontato tutto in un documentario, Un momento di libertà girato del regista Giovanni Giommi.

Alla Dozza di Bologna, invece, a prendere in mano la telecamera sono gli stessi detenuti. Da ottobre, è iniziato Ciak in Carcere, un laboratorio di cinema curato dall’Associazione Documentaristi dell’Emilia-Romagna.

«Per noi è una novità – spiega uno dei partecipanti –. Viviamo le lezioni in maniera positiva: sono momenti unici nella giornata, durante la quale di solito non abbiamo niente da fare». «Presto – aggiunge un altro – interpreteremo un video che sarà visto anche fuori dal carcere, e non ci vergogniamo, anzi. Forse qualcuno comincerà a vederci non solo come detenuti».

In attesa che la percezione nei confronti delle persone recluse cambi, i partecipanti al laboratorio vestiranno i panni dei giurati, con l’incarico di valutare i film in concorso al Festival Cinevasioni, in programma nel carcere bolognese.

Dalla settima arte all’arte di strada il passo è breve. E infatti, negli ultimi anni, sono diverse le esperienze di questo tipo sbocciate all’interno degli istituti italiani, anche con il coinvolgimento di nomi noti della scena nazionale. A Roma, le mura del cortile interno del carcere di massima sicurezza di Rebibbia sono state completamente dipinte da dei Punti di fuga, una serie di vivaci muralesrealizzati dai detenuti insieme all’artista Agostino Iacurci.

Anche il collega Solo ha legato il suo nome a Rebibbia. Insieme a lui, i maggio 2016 Scarp de’ tenis

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COPERTINA detenuti hanno visionato documentari e video sull’arte di strada a Roma e nel mondo e ne hanno discusso vivacemente perché, come ha spiegato la volontaria Martina D’Andrea che ha seguito l’iniziativa, «La strada è l’ambiente di riferimento di molte persone detenute che, al di la dei luoghi comuni e delle generalizzazioni, sviluppano un forte senso di appartenenza rivendicato con orgoglio».

A Lecce, invece, sono le donne recluse a Borgo San Nicola ad aver creato insieme all’artista Ckeckos’Art alcune opere, tra cui una dedicata alla pittrice messicana Frida Khalo. A Milano, infine, a febbraio, il poeta di strada Ivan ha varcato i cancelli di San Vittore per dipingere sui muri della casa circondariale una delle sue celebre frasi insieme ai ragazzi dell’istituto. Poi, rigorosamente senza rendere riconoscibili i volti dei giovani detenuti, ha postato il risultato sulla sua pagina Facebok, commentando la foto con una frase perfetta: una “strada chiusa”, è pur sempre una strada.

Il poeta di strada Ivan insieme ad alcuni detenuti della casa circondariale di San Vittore a Milano ha dipinto i muri di una cella

Lucia Castellano: «La pena non è il carcere» di Paolo Riva

Lucia Castellano il carcere lo conosce molto bene. Per quasi dieci anni anni ha diretto la casa di reclusione di Bollate, alle porte di Milano, considerata da molti un esempio positivo anche negli anni più bui che ha attraversato il nostro sistema carcerario. Oggi, dopo una parentesi politica come assessore del Comune di Milano e consigliere regionale in Lombardia, ha accettato un incarico a Roma come dirigente generale dell’amministrazione penitenziaria. E dalla capitale riflette su carcere e arte, pena e cultura.

Una cultura capace di lasciare spazi di iniziativa ai detenuti, con il sostegno di educatori e volontari, è positiva 26 Scarp de’ tenis maggio 2016

Che ruolo svolgono le attività culturali e artistiche all’interno di un carcere?

La formazione e la cultura in carcere sono imprescindibili perché sono

strumenti di libertà. Una cultura attiva, che lascia spazi di iniziativa ai detenuti, con il sostegno di educatori e volontari, è molto positiva. Mentre lo è decisamente meno se viene calata dall’altro. Ricordo di un carcere nel quale organizzarono un concerto d’arpa durante una partita dell’Italia. Ecco, diciamo che non fu molto apprezzato dai detenuti… Per essere efficaci, formazione e cultura vanno cogestite con i detenuti.

E il teatro, in particolare, cosa può dare a chi è detenuto?

Il teatro è liberatorio. Credo sia l’unica attività, insieme al calcio forse, che fa sentire le persone recluse veramente libere anche dentro gli istituti di pena facendole vivere un’altra realtà. Erano gli stessi detenuti a dirmelo. Poi, un ingrediente fondamentale è la contaminazione col pubblico che, nel caso di Estia a

52.164

39.274

34,6%

Numero di detenuti in Italia al 31 dicembre del 2015

Numero di detenuti in regime di esecuzione esterna (2015)

Percentuale di detenuti ancora in attesa di sentenza definitiva

MILANO

Biblioteche a San Vittore: «Ho dato un senso alla mia pena» Nel documentario Un momento di libertà che racconta il progetto “Biblioteche in rete a San Vittore”, Dario è molto presente. Sarà la sua barba, bianca e folta, la sua parlantina coinvolgente, o la sua passione per i libri, già ben radicata in lui prima di entrare in carcere. Fatto sta che è uno dei protagonisti delle riprese fatte dal regista Giovanni Giommi durante gli incontri del gruppo di lettura dedicato a Farenheit 451 di Ray Bradbury. «È stata una bellissima esperienza – racconta oggi che è uscito di prigione in affidamento ai servizi sociali –. Insieme ai volontari che guidano il gruppo e agli altri detenuti, in tutto circa 20 persone, abbiamo discusso molto dei temi emersi. E ci è servito moltissimo. Ho visto compagni di detenzione, in particolare uno che ha la quinta elementare, fare delle riflessioni così profonde e intelligenti che nemmeno un plurilaureato...».

Dal lavoro sul testo, è nata anche l’idea di mettere in scena uno spettacolo per gli altri detenuti, nella rotonda che unisce i raggi di San Vittore. «È stato un momento forte, molto forte. Per noi, ma credo anche per il pubblico, al quale, prima della recita, abbiamo presentato il nostro lavoro. Poi, io conosco molto bene i Balcani e, durante lo spettacolo, abbiamo usato delle immagini vi-

deo della biblioteca di Sarajevo in fiamme durante la guerra in ex Jugoslavia. Il sottofondo era una musica classica molto potente e lì la commozione, di tutti, si è sentita davvero».

Il gruppo di lettura, però, non è stata l’unica attività di Biblioteche in rete a San Vittore. E, soprattutto, non è stata un’iniziativa sporadica. A marzo, infatti, è stata firmata una convenzione con cui Gruppo Carcere Cuminetti, BiblioLavoro, Carita Ambrosiana, Casa della Carità, centro provinciale Istruzione Adulti, la stessa Casa Circondariale di San Vittore e il sistema bibliotecario urbano del Comune di Milano si impegnano a proseguire il lavoro avviato.

Dal canto suo, anche Dario ha avuto modo di riflettere su quanto visto dentro San Vittore. «Ho partecipato a moltissimi gruppi mentre ero in carcere, anche quello di preghiera nonostante non creda – ricorda–. Le attività culturali le ritengo fondamentali. Le potenzierei, certamente, ma quello che, a mio parere, farebbe davvero migliorare le cose sarebbe la presa in carico da parte della direzione del carcere di tutte le attività. In questo modo si potrebbero inserire in un progetto più ampio e complessivo, organico e ragionato, all’interno del quale devono certamente trovare spazio associazioni e volontari. Quello si che darebbe molto più senso alla pena».

L’INTERVISTA

Bollate, faceva entrare i cittadini a seguire gli spettacoli in carcere e faceva uscire i detenuti per vedere degli spettacoli fuori.

Non c’è il rischio che attività di questo tipo distolgano da altre priorità come il lavoro e l’uscita positiva dal carcere?

Sono attività complementari. Il lavoro è la prima cosa, anche per i detenuti. Come per ogni cittadino, però, la giornata è scandita da momenti diversi: credo ci sia spazio anche per progetti di questo tipo. Poi è importante dare ad alcune persone la possibilità di provare a cimentarsi in attività che non avevano mai vissuto fuori dal carcere. Un ragionamento, questo, che non vale solo per il carcere ma per tutti i processi formativi. Ho promosso queste attività da direttrice a Bollate, ma lo farei anche se fossi la preside di una scuola.

Cultura e arte quindi entrano nelle carceri italiane, ma quale è la situazione in cui si trovano i nostri istituti di pena?

Il carcere e le cosiddette misure alternative stanno subendo una trasformazione epocale. Se sfruttiamo questo momento storico al meglio, le sorti dell’esecuzione penale in Italia potrebbero davvero cambiare.

Ormai la prospettiva si è ribaltata: il carcere non è più la prima delle risposte punitive. Ad esserlo è invece la sanzione all’interno della comunità dei cittadini, fuori dagli istituti di pena. Ci metteremo degli anni, ma scopriremo che la sanzione più efficace, quella che riduce maggiormente la recidiva, è quella scontata all’interno del contesto sociale. E questo non significa depenalizzare, ma comminare una sanzione che riguarda tutto il territorio e non solo l’istituzione totale della galera. Cer-

Mi auguro che siano sempre meno le persone completamente private della loro libertà

to, in un quadro come questo, è necessario dimostrare di essere capaci di controllare, ma è una scommessa straordinaria che chiama in causa tutti i cittadini.

In quest’ottica, quindi, le attività culturali possono essere un’occasione per far dialogare i detenuti con la cittadinanza?

Si, certamente. Anche se il mio auspicio è che siano sempre meno le persone completamente private della libertà. Può sembrare un paradosso, ma in un certo arco di tempo, le tante compagnie teatrali che oggi fanno un lavoro prezioso dentro le carceri potrebbero lavorare molto meno “dietro le sbarre” e sempre di più, sul territorio. Lo spero, perché questo vorrebbe dire che stiamo lavorando nel modo giusto, l’unico compatibile con la dignità umana e con il vero senso della pena. maggio 2016 Scarp de’ tenis

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Don Giancarlo « A Bruxelles, la paura si vince con il dialogo» di Paolo Riva

Dal 2014 don Quadri guida il servizio pastorale per la comunità italiana a Bruxelles: «Povertà, immigrazione e qualche chiusura. Bisogna far incontrare le persone» 28 Scarp de’ tenis maggio 2016

«Quando sono arrivato in città, mi ha colpito subito il gran numero di persone straniere o di origine straniera che vi abitano», ricorda don Giancarlo Quadri che, nella sua vita da sacerdote, è stato in Zambia, nel Regno Unito, in Marocco e, per 18 anni, a Milano occupandosi della Pastorale dei Migranti della Diocesi.

A Bruxelles ci vive dal settembre del 2014. Allora, il Belgio e la sua capitale non erano ancora associati in maniera immediata e inequivocabile al terrorismo islamico come oggi, anche se cause e segnali erano già tutti presenti.

«Quasi subito – continua il sacerdote –mi son accorto, da un lato, di quanto la povertà qui sia forte e, dall’altro, del fatto che l’immigrazione, in questo paese,

scheda

L’INCONTRO

REUTERS/Yves Herman

Il 22 marzo Bruxelles è stata colpita da due attentati che hanno causato 35 morti (compresi i tre terroristi che si sono fatti esplodere) e 316 feriti.

Gli obiettivi sono stati l’aeroporto di Zaventem, il principale scalo della capitale, e la fermata della metropolitana di Maelbek, nel quartiere delle istituzioni europee.

(Is o Daesh). Secondo le indagini, i terroristi dell’autoproclamato Stato Islamico autori dell’azione avrebbero organizzato anche gli attentati dello scorso novembre a Parigi e diversi, tra questi, sarebbero cittadini belgi di origini arabe nati e cresciuti nella zona di Molenbeek, nella regione di Bruxelles capitale.

sembri sostanzialmente subìta».

Quasi due anni dopo, Bruxelles è praticamente diventata sinonimo di terrore. A garantirle questa pessima fama sono stati i due attacchi a Parigi del 2015, i blitz e gli arresti a Molenbeek e dintorni, la chiusura della città a fine novembre a causa dell’allerta terrorismo ai massimi livelli (il cosiddetto lockdown) e, infine, lo scorso 22 marzo, il duplice attentato in città.

Attacco a sorpresa «Personalmente, dico che un attacco di questo tipo, a Bruxelles, non ce lo si aspettava. Anzi, dopo gli attentati di Parigi, il lockdown è stato vissuto con dignità, compostezza e, forse, anche con una sorta di superiorità nei confronti della situazione francese. Io stesso in quei giorni ho fatto una processione che, ripensandoci, forse oggi non rifarei più. Dopo gli attentati del 22 marzo, per esempio, una preghiera ecumenica interreligiosa organizzata in cattedrale è stata rimandata per motivi di sicurezza.

Poi, subito dopo Pasqua, si è tenuta comunque ed è stata molto bella e partecipata, ma lì per lì si è giustamente preferito non rischiare».

La preghiera, però, non è stato l’unico modo con il quale hanno reagito le comunità cattoliche italiane

Le occasioni di dialogo e di vita insieme sono tantissime.

Per coglierle, bisogna solo aprire gli occhi e lavorare bene, non alimentando le paure

di cui il sacerdote si occupa.

«In ogni parrocchia ci si è ritrovati per discutere insieme. È venuto quasi spontaneo riunirsi e domandarsi “Cosa sta succedendo?”.

“Cosa possiamo fare?”. Poi, le risposte che ognuno si è dato sono state tante e diverse. Qualcuna, inutile negarlo, anche di chiusura.

Altre di buon senso e invito al dialogo. Altre ancora di grande stupore. La gente qui si chiede: “i miei vicini di casa marocchini sono musulmani. Con loro ho un buon rapporto, ci vediamo ogni giorno, ci conosciamo. Come è possibile che accada tutto questo?” D’altra parte, sarà ovvio, ma quando si viene colpiti da vicino, fa più male».

La paura esiste E la paura, inevitabilmente esiste.

Don Giancarlo ne è consapevole.

«Parlando con la gente, un po’ la si avverte. Non so bene se sia la massiccia presenza di militari e forze dell’ordine o le sirene continue oppure la metropolitana che ancora non ha riaperto a pieno regime, ma oggi c’è timore. Tutto sommato però qui si vive bene».

E, soprattutto, si continua a vivere, gli uni accanto agli altri.

«Io, per esempio, ho diversi amici nella comunità marocchina di Molenbeek – dice il sacerdote riferendosi al Comune da cui pro-

Don Giancarlo Quadri da settembre 2014 guida il servizio pastorale per la comunità italiana a Bruxelles

bio Nato a Vaprio d’Adda (Milano) nel 1944 e ordinato prete nel 1969 don Giancarlo Quadri è stato vicario parrocchiale a Pero (MI) dal 1970 al 1982.

Missionario fidei donum in Zambia, dal 1983 al 1988 e cappellano (per la Migrantes) degli italiani a Birmingham (Gran Bretagna) dal 1989 al 1992 è stato responsabile della chiesa cattolica “Cristo re”’ di Casablanca (Marocco), dal 1993 al 1996.

Collaboratore della Segreteria per gli Esteri della Diocesi di Milano dal 1996 al 2000, è stato responsabile della Capellania Generale dei Migranti della Diocesi di Milano e responsabile dell’ufficio per la Pastorale dei Migranti della Diocesi. Da settembre 2014 guida il servizio pastorale per le comunità italiane di Bruxelles.

venivano diversi attentatori di Parigi e Bruxelles –. Ho conosciuto una prima famiglia perché, prima di arrivare qui in Belgio, era stata per anni in Italia e poi, tramite loro, ho conosciuto diverse altre persone. Dopo gli attentati, abbiamo parlato e pregato insieme e loro si sono scusati dicendo che quello non è il vero Islam».

Dialogo ancora immaturo Al netto della sua esperienza personale, però, il sacerdote pensa che il dialogo interreligioso in Belgio sia “ancora immaturo”. E lo dice dopo aver trascorso quattro anni in Marocco, inviato dal cardinal Carlo Maria Martini per approfondire proprio questo tema cruciale.

«Per la storia e la situazione del Paese, non è così sviluppato come dovrebbe.

Qui, per fare un paragone con una realtà che conosco bene, siamo indietro rispetto a Milano. Per contro, però, le

occasioni di dialogo e di vita insieme sono tantissime, perché a Bruxelles è la stessa comunità musulmana ad essere grandissima. Per coglierle, bisogna solo aprire gli occhi e lavorare bene, non alimentando le paure, ma cercando di superare criticità e incomprensioni che sono inevitabili». maggio 2016 Scarp de’ tenis

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Bligny 42 Fare comunità contro il degrado di Stefania Culurgioni

Nella zona di Porta Romana, a Milano, il “fortino” preso in ostaggio dagli spacciatori. Oggi, dopo anni di incuria, alcuni residenti hanno deciso di riprendersi i propri spazi organizzando cene, feste e momenti di incontro 30 Scarp de’ tenis maggio 2016

C’è un buco nero nel cuore di Milano. Come tutti i covi migliori di criminalità e droga, devi sapere come entrarci, altrimenti neanche lo vedi.

Tanto più che questo si trova in mezzo al quartiere di Porta Romana, una delle zone più fighette di Milano, piena di locali alla moda, e dove ha la sede anche l’università Bocconi. Si chiama Bligny 42, che poi sono il nome della via e il numero civico, e ci sono solo tre categorie di persone che lo conoscono bene: chi ci abita, gli spacciatori e i clienti degli spacciatori. Ah, e le forze dell’ordine, che ogni tanto entrano a dare “una ripulita”.

Ora però qualcosa sta cambiando: una decina di residenti si sono messi insieme e hanno creato un comitato. Hanno deciso che basta, proveranno a cambiare le cose.

Al fortino ci si accede da un cortile. Non ci sono citofoni all’esterno.

Da un mese, il cortile è chiuso da un cancello che hanno deciso di mettere gli stessi condomini. Il cancello è aperto durante la settimana, ma da

MILANO

Uno scorcio di Bligny 42 Qui sopra da sinistra: Nausica Cavezzale, Paolo Bassanini e Gianmarco Rossi Montecuccoli membri di Bligny 42

Tutto è cominciato quando un gruppo di residenti è andato in comune a chiedere maggiore sicurezza – racconta Nausica Cavezzale, 52 anni, – è stato circa due anni fa.

L’amministrazione ci ha consigliato di costituirci in associazione.

Da allora, abbiamo iniziato ad organizzare feste nel cortile

venerdì a domenica mattina è presidiato da una guardia. È un omone gigantesco; ti ferma e ti chiede chi sei: se abiti lì ti fa entrare, se non ci abiti non entri.

Un cancello per la legalità «È il nostro tentativo di limitare la compravendita di droga – spiega Gianmarco Rossi Montecuccoli, 36 anni, proprietario di due appartamentini e fondatore dell’associazione – perché nel fine settimana è un andirivieni». Nel cortile, alle otto di sera, c’è profumo di sugo, ma anche di pesce e di spezie. Ai ballatoi si affacciano uomini giovani, stranieri soprattutto. I clienti arrivano veloci.

Spesso in taxi, dai quali scendono professionisti incravattati. A volte sono studenti, a volte ragazzetti. Hashish, marijuana, coca, pasticche.

Per gli spacciatori non è particolarmente pericoloso: molti sono ai domiciliari, costretti a stare in casa, lavorano così.

«Tutto è cominciato quando un gruppo di residenti è andato in comune a chiedere maggiore sicurezza –racconta Nausica Cavezzale, 52 anni, contabile amministrativa – è successo circa due anni fa. L’amministrazione ci ha consigliato di costituirci in associazione. Da allora, abbiamo cominciato ad organizzare feste nel cortile».

Il palazzo è stato costruito alla fine dell’800, ci sono 213 miniappartamenti, alcuni non hanno neppure il bagno interno. Ci sono le luride latrine di una volta in fondo agli stretti corridoi. Ci vivono stra-

nieri soli, molti sono ex operai senza lavoro dopo la crisi edilizia, riconvertiti in spacciatori, ci sono famiglie con bambini sia italiane che straniere, poi ci sono studenti. I fratelli Paolo e Leonardo Bassanini, 27 e 29 anni, ingegnere biomedico il primo e studente di chitarra al Conservatorio il secondo, proprio come Nausica e Gianmarco, il loro monolocale se lo sono comprato perché era in vendita all’asta e costava due lire (un monolocale 35 mila euro).

Le aste all’inizio andavano regolarmente deserte: chi è il matto che va a vivere in un fortino come quello, dove i muri sono scrostati, l’edificio è in totale degrado, gira droga?

La bellezza di stare insieme «Le feste – racconta Paolo – le abbiamo organizzate per riprenderci il cortile: i ragazzi che vivono qui e spacciano li conosciamo tutti.

Quando facciamo le feste in cortile, lo accettano e si ritirano, oppure partecipano. Qui abitiamo in 400, alle feste siamo tantissimi. Una volta abbiamo deciso di ridipingere le scale e il portone: molti spacciatori vengono da mestieri manuali e ci hanno aiutato. Abbiamo anche organizzato un campo di volontariato con il servizio civile internazionale».

L’associazione ha creato una newsletter, ci sono più di cento condomini iscritti. E al pomeriggio si or-

LA STORIA

Al Gratosoglio tra spaccio e criminalità: «Gratosuol promuove coesione sociale» Periferia sud di Milano. Blocchi di palazzoni popolari, vicoli deserti.

Negli anni settanta era il quartiere dei lavoratori, c’era vita sociale, si faceva gruppo. Col tempo, quasi tutti si sono spostati in centro, nei casermoni Aler adesso ci vivono soprattutto anziani e stranieri. Qualcosa si è spezzato, è arrivato lo spaccio, il degrado, la microcriminalità.

«Eppure non sono queste le urgenze più grandi – racconta Nino Romeo, 53 anni, che vive lì e di giorno lavora in una nota libreria del centro – il problema principale è che mancano spazi di aggregazione.

Non ci sono luoghi dove poter costruire percorsi di socialità, il quartiere è un dormitorio deserto, perché è frammentato».

Insieme ad un altro gruppo di residenti, Nino ha fondato sette anni fa Gratosoul, un piccolo e molto attivo comitato che lavora a piccoli passi per ricostruire “coesione sociale”. «Un piccolo aneddoto di ieri sera: un amico cercava un numero civico e non lo trovava. Avrà girato per un’ora, ha incontrato solo due persone. E non sapevano dargli indicazioni». Trovi bar, quelli sì, ma chiudono presto, e non possono essere di certo loro ad occuparsi di ricostruire il senso dello stare insieme. «Abbiamo messo in campo diversi progetti – racconta Nino – ci ritroviamo in via Baroni 8 ogni mercoledì sera, nella portineria dove ha sede il Laboratorio di Quartiere (servizio del Comune di sostegno per chi vuole sviluppare attività al Gratosoglio)».

Lì Gratosoul ha messo in piedi il bookcrossing: un migliaio di libri a disposizione di tutti, gialli, romanzi, storie per bambini. Un modo come un altro per conoscersi e fare comunità.

«Facciamo anche Urban Knitting – continua – ovvero gruppi che fanno decorazioni con l’uncinetto, ci siamo poi riuniti per fare un Gas (Gruppo di acquisto solidale), organizziamo incontri con le associazioni sportive, lavoriamo insieme a Camera sud, un circolo culturale che fa documentazione sulla vita del quartiere e con l’associazione donne marocchine abbiamo organizzato uno splendido 8 marzo». maggio 2016 Scarp de’ tenis

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COPERTINA ganizzano laboratori per bambini e un doposcuolo per i ragazzi delle elementari.

«Il nostro scopo è di tra-

sformare questo posto – continua Leonardo –. È di riconoscersi per nome, di rispettarsi, di cercare di coinvolgere tutti. Prima eravamo ospiti a casa nostra adesso abbiamo superato la diffidenza reciproca, qualcosa comincia a cambiare».

Ahmed Mansour e Margherita Cavallo due dei protagonisti della rinascita “civile” dei palazzi Aler di via Celentano a Milano

Bligny 42 è finita anche in un libro, “I dannati della metropoli” dell’antropologo Andrea Staid. Ha raccontato il mondo oscuro di chi vive ai margini, ma oggi il fortino della droga comincia a cambiare faccia, grazie al lavoro di questi coraggiosi inquilini, e se ne sta accorgendo anche il mercato immobiliare. Le aste non vanno più deserte, i monolocali di 20 metri quadrati li si compra a non meno di 60 mila euro. Se il buco nero ti mangia, il consiglio è: mangiatelo tu. E se proprio non ci riesci, imboccalo di cibo fertile, generativo e fantasioso, e vedi cosa ne esce.

In Via Padova la ricetta del buon vicinato di Marta Zanella

Fare comunità ogni giorno nonostante le differenze e le difficoltà. Questa è la sfida che Margherita sta vincendo 32 Scarp de’ tenis maggio 2016

Da via Padova li vedi come una lunga macchia verde scuro, che da decenni non vede una rinfrescata. Sono i due caseggiati Aler di via Celentano, civici 1 e 2, che come due bastioni segnano l’ingresso alla strada. Due casermoni gemelli, con i portoni e i cortili speculari: in fondo all’uno e all’altro, curate e venerate, due piccole edicole dedicate alla Madonna.

Quando entrò la prima volta qui, nel 2009, Margherita Cavallo faceva parte della rete di associazioni che per alcuni anni ha animato la festa “Via Padova è meglio di Milano”.

«Tutto è cominciato con un citofono. Mi sono affacciata a questo cortile ho cercato i campanelli e ne ho suonato uno a caso – racconta oggi Margherita –. Mi rispose una signora. Le spiegai il nostro progetto

della festa di quartiere, e lei fu molto gentile. Dopo quello ne suonai molti altri». Sei anni dopo Margherita conosce quasi tutti. E quasi tutti conoscono lei. Quasi, appunto: tutti è impossibile dove ci sono oltre 200 alloggi e circa il 40% degli occupanti è di origine straniera. E dove, come spesso accade nei casermoni popolari, ci sono ricambi non proprio regolari, occupazioni di abusivi.

Una parola per tutti Però lei ha una chiacchiera per tutti quelli che passano, e intanto indica le finestre sopra la sua testa «Lì abita un signore anziano attivissimo: legge, va in biblioteca, segue tutte le vicende anarchiche», mentre saluta con la mano un’altra donna affacciata a un balcone «Calabrese. Vive qui da tanti anni».

E racconta della signora Virginia, ormai novantenne, che abita

400

40%

200

le persone che abitano nel fortino di viale Bligny 42 in Porta Romana

percentuale di stranieri che vive negli alloggi di via Celentano

Le persone che partecipano ad ogni incontro di bookcrossing al Vigentino

L’ESPERIENZA

Vigentino, quartiere spaccato a metà: «I libri fanno incontrare le persone» «Io ho alle spalle le case popolari e dalla finestra vedo i giardini di via Verro. Questo è un quartiere così, eterogeneo: abitazioni molto belle, la neonata Fondazione Prada, una sede dell'università, che convivono al fianco dei caseggiati popolari. E però, chi sta molto bene non vive il quartiere: lavora altrove, porta i figli in scuole fuori. Chi sta realmente qui sono gli anziani, gli stranieri, le famiglie “normali” o quelle più in difficoltà».

Così descrive il suo quartiere - il Vigentino, periferia sud di Milano - Francesca Armoire, ex professionista della comunicazione e ora mamma impegnata nel volontariato e come baby sitter.

Insieme ad alcuni amici aveva battuto la zona durante l'ultima campagna elettorale per le amministrative, cinque anni fa. «Poi, organizzando merende, ci siamo resi conto che nel quartiere c'era fame di occasioni e spazi di incontro.

Abbiamo messo da parte la politica e continuato a lavorare per il quartiere».

Gli spazi di incontro, in verità, ci sono anche. Come il Cam di via Verro, centro di aggregazione comunale dove fanno molte attività a basso costo o gratuite: «dal Tai Chi alle conferenze sulla musica. C'è una cooperativa che ge-

stisce un doposcuola per ragazzini. C'era persino il pomeriggio danzante per gli anziani e un cineforum che non organizzano più, ed è un vero peccato». È proprio lì che il comitato “Vigentino x Milano”, di cui Francesca è presidente, organizza ogni secondo sabato del mese un pomeriggio dedicato al bookcrossing e ai laboratori per bambini: gratuiti, fondamentale per molti qui.

Con materiali da riciclare hanno impaginato libri, piantato fiori, costruito piccoli acquari in scatola.

In prima linea anche con la rete di associazioni del territorio, il loro appuntamento fisso però è lo scambio di libri: «Ci sono 200 persone ad ogni incontro, portano libri, ne prendono altri e approfittano per restare l'intero pomeriggio a chiacchierare, fare merenda, passare il tempo insieme.

Dagli anziani agli studenti delle superiori – spiega Francesca -. Il nostro successo è stato portare la gente fuori dalle proprie casa, dando un'alternativa al centro commerciale».

Ogni volta arrivano persone nuove, ma sono molti anche quelli che non si perdono nemmeno un appuntamento, ogni mese da cinque anni. Come Ernesto, un senza dimora che arriva puntuale ad ogni incontro, in sella a una bicicletta «È il primo ad arrivare e l'ultimo ad andarsene. E ci ringrazia perché dice che è la sua unica possibilità per leggere. Ormai è uno di noi».

L’ESPERIENZA

qui da quando furono costruite le case, nel 1932. «Un appartamento da 25 metri quadri in cui hanno vissuto in otto. Virginia è stata tra le più attive ad aiutarci a ricostruire la comunità».

Legami che una volta c’erano: «i primi inquilini – spiega Margherita, – si sostenevano, vivevano il cortile, condividevano i pranzi. Una

solidarietà che ha tenuto a lungo nonostante immigrazioni prima dal Veneto, poi dal meridione. I primi stranieri dal nord Africa sono arrivati negli anni ‘70». Ad affievolire i rapporti è stato il ricambio: i vecchi che morivano e i nuovi che si facevano i fatti propri. E poi la povertà, il degrado anche la microcriminalità hanno fatto il resto.

Ripartire dai cortili La prima festa in cortile è stata nel

2011: piatti condivisi, spettacoli teatrali e musica. Un inizio di conoscenza e collaborazione, anche grazie al lavoro dei custodi sociali della Casa della Carità. Da allora le occasioni di festa si sono moltiplicate e le persone hanno ricominciato a riappropriarsi della loro casa.

«A partire dai due cortili, che assomigliavano a una discarica – racconta Ahmed Mansour, egiziano, da 24 anni in Italia e da sei inquilino di un appartamento al primo piano del civico 1 –. Li abbiamo ripuliti, vorremmo anche mettere delle panchine. Ma per fare qualunque cosa dobbiamo avere il permesso dell’Aler.

Anche per questo abbiamo deciso di costituire un Comitato inquilini».

Le votazioni sono state fatte lo scorso anno, durante la festa di giugno, e sono stati eletti un portavoce per ogni scala e cinque rappresentanti per il Comitato. Ahmed è uno

Aler ha concesso l’uso di un locale al pian terreno come spazio comune: parte della ristrutturazione la sta portando avanti la Casa della Carità, mentre gli inquilini hanno rimesso in ordine l’impianto elettrico

di loro. «Ci poniamo come intermediari tra inquilini e istituzioni. C’è una grossa urgenza di risanare gli alloggi, e c’è gente che fatica a mettere insieme un pasto».

Grazie alla presenza del Comitato, Aler ha concesso l’uso di un locale al pian terreno come spazio comune: parte della ristrutturazione la sta portando avanti la Casa della Carità, mentre gli inquilini si sono impegnati a rimettere in ordine l’impianto elettrico. «Abbiamo raccolto i fondi attraverso vendite in alcuni mercatini – racconta Ahmed – e manca poco all’inaugurazione».

Il locale diventerà uno sportello per ascoltare i bisogni dei cittadini, ma anche luogo dove ospitare incontri culturali, chiacchiere e partite di carte, laboratori dove chi vuole metterà a disposizione le proprie abilità «dal cucito all’orto».

Per fare comunità ogni giorno. maggio 2016 Scarp de’ tenis

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L’INTERVISTA

Iannacone e l’umanità delle sue storie di Laura Guerra

Domenico Iannacone ne I Dieci Comandamenti, in onda a tarda serata su Rai 3, riesce a raccontare la vera anima di un’Italia minore, lontana dai riflettori e dagli interessi dell’agenda politica.

Storie dure, storie vere. Che non fanno sconti 34 Scarp de’ tenis maggio 2016

L’eremita Mario Dumini ha avuto i nastri per la sua macchina per scrivere. Glieli ha dati Domenico Iannacone che ha raccontato la sua storia in una puntata de I Dieci Comandamenti, programma andato in onda su Rai 3. Mario vive da 21 anni in una grotta a Tivoli scrive opinioni e pensieri che chiama “scritti polemici” usando una macchina per scrivere meccanica.

Parlando di sé aveva detto che il nastro si stava seccando e non lo avrebbe potuto cambiare perché non sono più in vendita.

Qualche settimana dopo la messa in onda della puntata La Scelta, è arrivato in redazione un pacco. Lo ha mandato un signore di Mileto, conteneva 16 nastri per Mario.

«I tasti continueranno a battere e continuerà a battere anche il cuore di Mario – dice Domenico Iannacone, autore e conduttore del programma –. Raccontiamo storie senza farci condizionare dalla cronaca e dall’agenda politica, storie che ci narrano l’anima dell’Italia minore

Due bella immagini di Domenico Iannacone prese dal suo programma I Dieci Comandamenti in onda su Rai 3

Lo stile scelto da Iannacone è quello di un racconto profondo, accurato, attento.

Rispettoso della persona che si mette a nudo davanti alla telecamera e delle persone che scelgono di ascoltare quella storia e che non vengono mai portate sulla china della lacrima e del facile colpo basso allo stomaco

dando a loro volta un’anima ad ogni puntata. In quattro anni non ho cambiato lo stile della narrazione nonostante mi siano arrivati più di un invito a rincorrere il fatto del giorno o il volto del momento. Stare fuori dal mainstream mi dà uno spazio di libertà irrinunciabile per me e per questo progetto».

Un progetto che spesso racconta storie di gente di strada. Il poeta che espone parole su un ponte romano, il letterato che vive in una casa baracca, la prostituta matura nel suo camper. «Abbiamo percorso molte strade in questi anni – racconta –, molte facce le incontriamo per strada dove mi capita di cercare una storia e di trovarne altre più belle».

La forza della narrazione La prima puntata della serie di esordio, trasmessa il 13 maggio 2013, ha subito avuto la forza di catturare un pubblico di telespettatori affezionati che hanno seguito tutte e dieci le puntate. Ogni episodio un Comandamento declinato in due storie emblematiche dell’Italia di oggi.

Raccontati i comandamenti poteva anche finire lì, invece, la forza del racconto e lo stile scelto per proporle, ha portato il programma fino alla quinta serie; una forza partita dalla tv e cresciuta a colpi di click.

Centinaia commenti live social durante la messa in onda, centinaia i messaggi che arrivano nei giorni successivi, migliaia le persone che vedono le puntate sul web.

«Una community speciale – conferma Gaetano Colloca, in squadra fin dalla prima puntata, social media managerdi questa e altre trasmissioni Rai – diversa dalle tifoserie partigiane dei talkpolitici, dagli indignati dei programmi di denuncia. Lo spettatore de I Dieci Comandamenti ci scrive per commentare le storie; per raccontarci la sua e quella di altri; per aggiungere un pezzetto al rac-

conto, come quel signore che ha mandato i nastri a Mario Dumini; per contattare Domenico, che risponde, personalmente, a tutti».

Lo stile scelto da Iannacone e dalla sua squadra è l’inchiesta morale: un racconto profondo, accurato, attento, rispettoso.

Rispettoso della persona che si mette a nudo davanti alla telecamera; rispettoso delle persone che scelgono di ascoltare quella storia e che non vengono mai portate sulla china della lacrima e del facile colpo basso allo stomaco. Storie in cui, Domenico Iannacone non entra solo con la telecamera e la curiosità, abituali ferri del mestiere del cronista, ma fa domande e non giudica, guarda e ascolta i suoi intervistati che si fidano e si affidano; li tocca, nella loro

vita quotidiana, sta in contatto ma mantiene l’equilibrio. Il dipanarsi della storia rivela una sintonia, un’empatia, un’alchimia poetica unica nel panorama televisivo italiano. Il rischio per una personalità televisiva così diversa e forte poteva essere l’eccessiva personalizzazione del conduttore contenuta invece dal lavoro di squadra.

Solo storie da raccontare «Domenico davanti alla telecamera – spiega il regista Luca Cambi, anche lui nel gruppo dalla prima puntata – ha personalità ma il lavoro che fa lì, in quel momento, è sempre la sintesi del confronto che avviene nel lavoro di pre e post produzione». Un lavoro di ascolto confermato da Chiara Grigoletto autrice arrivata quest’anno dopo anni a Chi l’ha visto. Telespettatrice del programma ha chiesto di farne parte. Oggi è contenta di esserci.

In fondo il segreto de I Dieci Comandamenti sta tutto in un sentimento di urgenza di raccontare proprio quella storia e proprio in quel modo.

IL PERSONAGGIO

Giornalista in scarpe da tennis a cui piace cercare sempre la verità Domenico Iannacone, 54 anni, da 15 in Rai, è nato a Torella del Sannio, conserva nel suo approccio narrativo lo sguardo del liceale di provincia che ogni mattina, percorreva in autobus una strada accidentata che lo portava a scuola a Campobasso. La sua formazione giovanile è passata per alcune collaborazioni con riviste letterarie dove oltre a frequentare la poetessa Amelia Rosselli, ha imparato il rigore del lavoro sulla parola scritta e della composizione poetica. Il suo poeta preferito è Thomas Stearns Eliot, l’intellettuale di riferimento Pierpaolo Pasolini. Ama lo sport: gioca a calcetto, a tennis; corre, spesso con la figlia Nicole. Si definisce un tifoso distratto: un po’ della Juve un po’ della Lazio. Piatto preferito: la parmigiana di melanzane.

Esordi giornalistici al Corriere del Molise, poi una lunga esperienza al Quotidiano del Molise e a Teleregione.

In Rai ha cominciato a Okkupati per passare poi come inviato a Ballarò, W L’Italia in diretta, Presa diretta. Ha firmato per Raitre il film-documentario Vacanze d’Italia. Ha vinto 5 volte il Premio Giornalistico Ilaria Alpi. Quest’anno gli è stato assegnato il Premio Paolo Borsellino. Tornerà in video in autunno con la quinta serie de I Dieci Comandamenti. Indossa sempre scarpe da tennis. maggio 2016 Scarp de’ tenis

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LA STORIA

Storia di Luca, libraio in bici che sfida Amazon di Daniela Palumbo

Dopo un passato da bancario e da proprietario di libreria indipendente chiusa per i costi di affitto troppo alti, Luca Santini si è inventato #Librisottocasa e da allora consegna i volumi a domicilio e gira con la sua libreria su due ruote 36 Scarp de’ tenis maggio 2016

«Nella mia prima vita ero un bancario». Ne ha avute diverse di vite Luca Ambrogio Santini, Luca per gli amici.

Lavorava a Milano e lavorava all’ufficio cambi. Poi nel 2001 la lira va in pensione e arriva l’euro. Luca non ha più grande ragione di esistere.

Ha la possibilità di essere assunto in un altro istituto di credito. Però a quel punto sceglie: molla tutto e apre una libreria. Sotto casa praticamente. Lui abita a Milano in zona 5, in una traversa di corso San Gottardo. E lì ha aperto una libreria specializzata nella musica, altra sua passione, perché fra le altre cose, Luca Santini suona anche il sassofono.

In via Conchetta 2, nel 2002, inizia l’avventura della libreria. «Amo la musica e mi sembrò naturale specializzarmi in questo settore, anche perché avevo aperto a un

Luca Ambrogio Santini con la sua libreria a pedali con la quale consegna direttamente i libri a casa dei clienti.

A fianco un momento di Patabook, una delle tante iniziative di cui è promotore

Il mio più temibile concorrente è Amazon – spiega Luca -: loro fanno sconti più grandi dei miei. Ma per loro consegnare una scopa elettrica o un libro è la stessa cosa, per me no.

Ma ho un segreto: io conosco i miei clienti e ci scappa sempre una chiacchiera, un caffè e un sorriso

passo dall’auditorium di largo Mahler. Avevo davvero tutto, dalle novità agli spartiti introvabili. Nella mia piccola libreria avevo anche un reparto dedicato ai bambini. I libri per ragazzi li amavo fin da allora, alcuni sono dei capolavori. Per una decina di anni è andata benino, poi è arrivata la crisi e il crollo. Non ce la facevo più a tirare avanti. L’affitto era altissimo, i debiti aumentavano.

Ho detto basta».

Reinventarsi a 50 anni Ha detto basta ma non in silenzio.

Su Milano Sud, il gionale della zona 5, ha raccontato la sua storia. Senza piagnistei, ma con l’amarezza di quei giorni. Era il 2011. Dopo quell’articolo la gente del quartiere gli si è stretta intorno. «È stato incredibile – ricorda Luca – una marea di persone che mi chiedevano di non farlo, di resistere. E non si sono fermati all’appello. Hanno raccolto fondi, organizzato vendite speciali, mi venivano a trovare. Mi sono stati vicini concretamente».

Altri due anni così. Con la solidarietà delle persone e gli incitamenti a non passare il testimone. Ma i debiti aumentavano. «Nel 2013 ho dovuto abbassare la serranda.

L’affitto era il problema più gravoso».

A 53 anni Luca Santini non aveva più niente. Beh, mica vero. Aveva appena incontrato la donna che poi diventerà sua moglie, aveva l’amore per la musica, aveva l’amore per i libri e una bicicletta rossa fiammante. Ha messo insieme tutto questo, ha chiesto una licenza commerciale

itinerante (che di solito si usa per vendere le castagne o i panini ndr) e si è inventato #Librisottocasa: servizio di consegna a domicilio. Consegna libri su due ruote in tutta la zona 5, e oltre. Si può ordinare via mail, cellulare o pagina Facebook.

«Il mio più temibile concorrente è Amazon – sorride Luca -. Perché loro possono fare sconti più grandi dei miei. Ma per loro consegnare una scopa elettrica o un libro è la stessa cosa, per me no».

Perché per lui i libri sono la vita.

Perché dentro ci trova la vita e l’avventura. Ma anche per un’altra ragione. Luca conosce i suoi clienti: «Ci scappa sempre una chiacchiera, un

caffè, un sorriso. Soprattutto quando vado in casa degli anziani, hanno voglia di chiacchierare e io ascolto volentieri. Fra me e i miei clienti si crea un patto di fiducia che passa per la stima e anche l’amicizia in alcuni casi. E questo Amazon se lo sogna».

Il segreto dell’attività di Luca Santini è anche avere mantenuto il contatto con un grossista di fiducia che vende i libri con il 20-25% di sconto anche se lui prende piccoli quantitativi. Luca si tiene aggiornato. Ha tutte le novità. Lo interessa soprattutto il mercato di libri per bambini, per passione ma anche perché ha capito che è il mercato che tiene di più e quello con cui può lavorare. Le scuole del quartiere lo conoscono. Lui porta a scuola gli autori per ragazzi e poi i bambini acquistano i libri. Le professoresse e le maestre gli danno un tema e lui organizza un festival librario. In autunno ne organizzerà un altro. Itinerante, in bicicletta.

Mai avuto la macchina «Non ho mai avuto la macchina – racconta Santini che è anche fondatore e consigliere della Lim, “associazione librerie indipendenti di Milano”: 250 librerie in città, 500 in Lombardia – con la mia bicicletta, attrezzata per essere anche un banchetto dove esporre i libri, faremo tappe itineranti per la città con le letture di alcuni libri per ragazzi. Sto or-

INIZIATIVE

Tanti appoggi nei negozi di quartiere e una canale dedicato alla scolastica C’è un altro canale di vendita per i libri di Luca Santini. Il settore della scolastica. Il suo grossista lo rifornisce anche con i testi che i ragazzi devono ordinare per le scuole. Luca ha dei negozi di fiducia che ospitano un corner dove le persone possono andare a recuperare i libri ordinati con il servizio di LibriSottoCasa.

I negozianti non gli chiedono nulla in cambio. Ma il passaparola fa sì che siano considerati negozi amici di Luca Santini, e questa è diventata una garanzia nel quartiere. Ecco dove trovare i corner nella Zona 5 di Milano: Caffetteria Vaniglia e Zenzero di via Tantardini 8 (qui si può trovare Luca personalmente il giovedì mattina e il venerdì pomeriggio); Roots Hair e Tattoo in viale Bligny 2, Magazzino Musica in via Soave 3.

Per contattare il servizio di LibriSottoCasa: librisottocasa@outlook.it Cellulare: 3397840144. Twitter #librisottocasa. maggio 2016 Scarp de’ tenis

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LA STORIA ganizzando tutto, si farà per settembre/ottobre, prima di Bookcity».

Un altro canale di vendite per Luca sono le biblioteche: quelle di quartiere per comprare i libri del settore ragazzi si servono del servizio Librisottocasa. E ascoltano anche i suoi consigli di lettura.

Anche i mercatini biologici ospitano i libri di Luca Santini. Dal 2014 su questo fronte è nato un sodalizio particolare. Luca ha incontrato Ernesto Ponziani, ingegnere esodato che, dopo il licenziamento, si è messo a coltivare la terra. Insieme a Santini hanno inventato il Patabook, un piccolo evento con vendita di ortaggi e libri che si ripete ogni prima domenica del mese in parchi, scuole e piazze.

Ma ci si campa vendendo libri e senza uno straccio di negozio? Luca Santini consegna in media fra i cinque e i dieci libri al giorno. Lo scorso anno ha incassato circa 60 mila euro, lordi. Certo, poi con le tasse e tutto il resto diventano quasi la metà, ma ci si campa abbastanza bene.

«Da quando sono diventato Librisottocasa conosco davvero il mio quartiere, parlo con le persone, faccio amicizia, vivo con consapevolezza e con passione».

Walter Lazzarin nella sua postazione di scrittore di strada. A fianco la copertina del suo libro

Carolina, scrittrice down «Siate felici, la vita è bella» di Carlotta Peviani

Ho un appuntamento con Carolina Raspanti, una ragazza di Conselice (Ravenna) di 32 anni che ha da poco pubblicato il suo secondo libro.

Niente di particolare, starete pensando. Invece no, perchè Carolina è nata con la sindrome di Down. Cancellate dalla vostra mente, se mai li aveste ancora i vecchi stereotipi riguardo alle persone affette da sindrome di Down, perché non corrispondono alla realtà: Carolina ha una carica di positività e di voglia di vivere a mille.

Una carica che ha permesso a Carolina di pubblicare due libri a soli 32 anni. «È una passione che ho da sempre. Fin da piccola amavo impu-

38 Scarp de’ tenis maggio 2016

gnare la penna e scrivere, scrivere…

L’unico problema è che venivo presa in giro dai miei compagni di scuola per la mia calligrafia non proprio bella. Avevo così accantonato momentaneamente questa passione.

Ma poi è ritornata, ed ecco i due libri.

Ho il computer, il tablet e tutti gli strumenti tecnologici di oggi ma a me piace scrivere con carta e penna come una volta».

I due libri che hai pubblicato, Questa è la mia vita e Incontrarsi e conoscersi: ecco il mondo di Carolina” sono autobiografici...

Avevo l’esigenza di scrivere di me, della mia vita, e nel secondo in particolare, di dire la mia su alcuni argomenti che tutti i giorni leggo sui

ROVIGO

Walter, scrittore “di strada”: «Io, la mia Olivetti e la passione» Walter Lazzarin, classe 1982, padovano che ha sempre vissuto a Rovigo, ha due lauree. Una presa senza passione in Economia aziendale, e una conquistata dopo, in Filosofia.

Quando era un ragazzo aveva in mente solo il calcio: «Ero un mediocre giocatore – racconta - ma sognavo di diventare famoso». Ma dopo un infortunio piuttosto serio si è rassegnato ad avere la carriera spezzata e, chissà perché, da quel giorno ha cominciato a leggere. Un libro tira l'altro, fino a che è diventato insegnante. Precario. Poi è finita anche quella carriera e Walter ha deciso che sarebbe diventato scrittore.

Ma invece di mettersi alla scrivania, seduto comodo a inviare manoscritti, si è preso la sua vecchia Olivetti Lettera 25 e ha cominciato a scrivere in strada, cercando di farsi conoscere come scrittore.

«A chi si ferma regalo Tautogrammi personalizzati (un gioco linguistico, un componimento le cui parole iniziano sempre con la stessa lettera, ndr): le persone apprezzano».

E qualcuno compra il suo ultimo libro edito da RedFox: Drago non si droga, tanto per restare in tema di tautogrammi.

La strada è nata prima come idea per un romanzo.

«Il protagonista della mia storia era un ragazzo che decideva di girare l’Italia e di promuovere il suo libro andando di città in città. Ho raccolto dati e fatto conti, in modo da rendere credibile la trama. Quando ho capito che il ragazzo ce la poteva fare mi sono chiesto: Se lo facessi io, per davvero?». Era il 2015 e doveva durare pochi mesi. Non si è più fermato.

Gli piace la strada a Walter, ci ha preso gusto perché ci sono gli incontri. I bambini che si fermano ad ascoltare il ticchettio della macchina da scrivere, un suono sconosciuto per loro, nativi digitali. Qualcuno gli chiede perché ha scelto la strada, altri bofonchiano che lo invidiano: li vede andare via in giacca e cravatta, tiratissimi. Poi ci sono quelli che ridono.

«Nel 2012 – racconta Walter - ho scritto un tautogramma su Pier Paolo Pasolini e Pino Pelosi. Nel 2016 ho potuto regalare questo tautogramma a Pino Pelosi, in piazza Testaccio a Roma. Fantastico».

Le storie di Walter sono come un viaggio in emozioni sempre diverse. «Non ho un genere che prediligo. Mi piace che siano intrise di ironia, a volte nera. Devono far ridere, far pensare e commuovere. La scrittura è strumento di analisi e di comprensione di sé. Soprattutto, è un mezzo per viaggiare con la fantasia e per divertirsi come un bambino perché la scrittura è un gioco. E il mio sogno è di continuare sempre a sognare a occhi aperti». Prossimi appuntamenti?

«A Torino, a maggio c'è la Fiera del libro».

Per contattarlo: scrittoreperstrada.blogspot.it Daniela Palumbo

RAVENNA

giornali, o ascolto alla televisione: dalla violenza sulle donne, al bullismo, al problema degli immigrati, al razzismo e all’omofobia. Volevo dare la mia opinione. Ma soprattutto ho voluto rivolgermi ai miei coetanei e dare loro un messaggio: la vita è bella, bisogna essere positivi e non avere paura. Bisogna fare del bene alle persone per stare bene: il ricavato delle vendite dei miei libri l’ho devoluto a Lo Stelodi Cervia – che ha rilegato e stampato i libri – una cooperativa sociale che si occupa di ragazzi con problemi di handicap».

Hai in cantiere altri libri?

Per ora no, scrivo solo per me stessa, ho molti diari segreti. Forse tra qualche anno. Devo avere l’imput giusto per scrivere. A breve sarò impegnata sul set di un film italiano a Firenze, un regista mi ha voluto per interpretare me stessa e sono molto contenta. Ho un sacco di impegni.

Cosa dici ai ragazzi della tua età che hanno un sogno e faticano a realizzarlo?

Sognare non costa niente, bisogna insistere e non mollare.

Com’è la tua giornata tipo?

Lavoro tutti i giorni part time– a volte la mattina a volte il pomeriggio – in un ipermercato. Amo moltissimo il mio lavoro, mi piace da matti. Pra-

tico poi molto sport. E leggo tanto.

Ho ripreso anche a studiare. Sono una persona molto curiosa. Un’altra mia passione è viaggiare, ho girato tutta l’Italia in compagnia dei miei genitori.

Da dove attingi tutta questa energia positiva?

Dai miei genitori, la devo a loro, alla fiducia e alla serenità che mi hanno trasmesso.

La tua voce e le tue parole trasmettono tanta voglia di vivere: qual è il segreto della felicità?

Non esistono regole particolari.

L’importante è essere se stessi, sempre. Non bisogna mai abbattersi.

Carolina ha appena dato alle stampe “Incontrarsi e conoscersi: ecco il mondo di Carolina” il suo ultimo libro

Qual è il tuo prossimo obbiettivo?

Andare a vivere da sola. Finalmente.

La mia casa è quasi pronta. Non vedo l’ora di essere indipendente anch'io. maggio 2016 Scarp de’ tenis

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BUONE PRATICHE

Artepassante da non luoghi a centri di cultura di Simona Brambilla

Viaggio alla scoperta di Artepassante, un progetto che ha trasformato i mezzanini del passante ferroviario di Milano in luoghi di socialità. Laboratori educativi ed esperienziali per bambini, workshop artistico-terapeutici, spettacoli teatrali, corsi di ballo, canto, yoga, meditazione, stretching. La lista delle attività promosse dalle associazioni aderenti al progetto è infinita.

Alla scoperta di un progetto che è stato capace di trasformare i mezzanini del passante ferroviario di Milano, spazi che si percorrono di fretta per andare da un luogo all’altro della città, in luoghi di socialità e incontro. E in cui è davvero bello stare

Grazie a questo progetto molte realtà culturali e sociali milanesi che non riuscivano a trovare uno spazio adatto per svolgere le loro attività, hanno trovato casa nelle stazioni del passante ferroviario. Come succede a Berlino e in altre città europee, i mezzanini delle stazioni, definiti da molti sociologi come dei “non luoghi”, sono stati trasformati in spazi di socialità e cultura. È il caso di El Modernista, un’associazione di ragazze under 30 nata nel 2013 che si occupa principalmente di infanzia, educazione ed attività per il tempo libero. Oltre a diversi progetti che si svolgono “fuori

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Il teatro della Dual Band alla stazione di Porta Vittoria. A fianco una delle attività con i bambini delle ragazze de El Modernista

sede”, le Elmine(ragazze di El Modernista ndr) promuovono diversi eventi nel loro spazio, al passante di Porta Vittoria.

«Si va da English With Joy, corso di inglese per bambini, alle Domeniche Creative, ciclo di laboratori destinati ai più piccoli, ma anche corsi per gli adulti come Yoga e Meditazione, Stretchingposturale e la Feria Quinta, l’aperitivo popolare del terzo giovedì del mese –spiega la presidente Samia Ibrahim –. Molto altro stiamo progettando per rendere lo spazio un centro polifunzionale in grado di offrire opportunità aggregative, momenti di crescita personale e culturale».

I pendolari guardano “l’acquario” di Porta Vittoria incuriositi e affascinati. Sono sorpresi di trovare una stazione così attiva. Li sotto è pieno di gente.

C’è un teatro vero, con tanto di quinte, palco e sedute a gradoni.

C’è un coro, composto da un sacco di persone, tantissime. C’è la galleria d’arte ed è sempre gratuita

Luogo aperto a tutti Le loro attività, insieme a quelle delle altre associazioni, stanno infatti riscuotendo molto successo, sia tra i milanesi, “vicini di casa” del passante, sia tra coloro che ogni giorno prendono il treno.

«I pendolari guardano “l’acquario” spesso incuriositi e sempre affascinati. Sono sorpresi di trovare una stazione così viva e attiva. Li sotto è pieno di gente. C’è un teatro, un teatro vero con tanto di quinte, palco e sedute a gradoni. C’è un coro, composto da un sacco di persone, tantissime. C’è la galleria d’arte ed è sempre gratuita. L’atelier della parola, dove si racconta di poesia e la terapeuta artistica che lavora con i ragazzi autistici. Ci sono le artigiane di Gioiecolori e poi ci siamo noi, di El Modernista – conclude Samia».

Stesso entusiasmo verso questo “nuovo pubblico” si respira nel teatro della Dual Band, compagnia teatrale nata nel 1997 e rinata nel 2005 dopo l’incontro dei due soci fondatori originari con un gruppo di giovani artisti. Loro si occupano di tutto ciò che è “contaminato” fra arti diverse, ma in particolare fra teatro e musica.

«Il nostro raggio di azione si è molto allargato da quando siamo in

Porta Vittoria –dice Anna Zapparoli, fondatrice della compagnia –. Il rapporto coi pendolari è fantastico. All’inizio ci guardano attraverso il vetro. Poi finiscono per entrare. “Posso fermarmi a vedere le prove?”, domandano. Oppure chiedono se facciamo corsi, altri addirittura entrano e si mettono a suonare il pianoforte che sta in vetrina».

Non è difficile infatti rimanere affascinati dall’ambiente che la Dual Band ha creato: è un vero e proprio teatro con il palcoscenico, le classiche poltroncine in legno e le quinte.

Una volta entrati, si rimane colpiti dall’energia della compagnia e dai loro spettacoli originali. «Boite à surprises, è uno spettacolo che portiamo avanti dal 2011 e che è diventato un format– continua Anna -. Il protagonista è un baule, dal quale tiriamo fuori tutto quello che ci serve per teatralizzare le nostre canzoni. Il prossimo evento in calendario è invece un concerto comico che debutterà qui da noi al “Cielo sotto Milano” per poi andare a Torino, al Teatro Astra».

Una stamperia sotterranea Altra forma d’arte, altra stazione (Repubblica), ma stessa passione, contraddistingue il laboratorio “Sub seri la stamperia sotterranea”, creato da un gruppo di giovani artisti dell’accademia di Belle Arti di Brera. «Ci occupiamo di stampa d’arte e promozione culturale tramite l’organizzazione di eventi, workshop e laboratori artistico-terapeutici. Nel nostro laboratorio c’è la possibilità di lavorare con serigrafia, calcografia, xilografia, gum prin, rilegatoria, cianotipia e carta fatta a mano – spiega Simone Vegro».

Una realtà giovane ma molto attiva. Nonostante alcune difficoltà, legate soprattutto alla mancanza dell’acqua, che rende difficoltosa l’organizzazione dei workshop, i giovani artisti milanesi sono entusiasti: «È stato bellissimo vedere come un luogo ordinario, come il sottopassaggio del passante ferroviario, sia diventato un punto di espressione e liberazione della cultura artistica».

IL PROGETTO

Undici spazi in cinque stazioni diverse: così i mezzanini diventano palcoscenico Undici spazi dislocati in 5 stazioni del passante ferroviario (Garibaldi, Repubblica, Porta Venezia, Porta Vittoria e Dateo), 22 associazioni e circa 500 partecipanti ogni settimana: questi i numeri che raccontano il progetto Artepassante.

I mezzanini del passante ferroviario, grazie al lavoro dell’associazione Le Belle Arti, capofila del progetto, in collaborazione con enti ed istituzioni, sono rinati e sono diventati la “casa” delle associazioni di Milano. «A questo risultato, ha contribuito in modo determinante RFI (Rete Ferroviaria Italiana) che ha creduto nel progetto e tuttora lo sta supportando», spiega Camillo Dedori, presidente dell’associazione Le Belle Arti.

«L’obiettivo che Artepassante si pone è innanzitutto quello di avvicinare un nuovo pubblico alla cultura utilizzando spazi e location al di fuori dei tradizionali circuiti culturali della città – continua Dedori -. Il progetto organizza circa 37 corsi diversi ogni giorni che vanno dal teatro alla poesia, dalla pittura, all’artigianato, dall’arteterapia, al canto e al ballo. Un punto di riferimento per molti». maggio 2016 Scarp de’ tenis

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LA STORIA

I violini mi hanno salvato la vita di Generoso Simeone

Fabrizio, undici anni di carcere alle spalle, oggi è un apprezzato liutaio con tanto di laboratorio in quel di Cremona. «Ho imparato il mestiere nel laboratorio interno di Opera – dice – e da lì non mi sono più fermato. Oggi sono un uomo felice» 42 Scarp de’ tenis maggio 2016

Fabrizio dice che adesso è un uomo felice. «La sera vado a dormire tranquillo, soddisfatto del mio lavoro e pensando già a quello che dovrò fare il giorno dopo. È una sensazione bellissima». Forse era questa stessa ricerca della serenità che lo spinse a imboccare strade sbagliate, quelle ti sembrano più veloci e facili. Furti e rapine come scorciatoie per il benessere e per placare l’inquietudine dell’anima, ma che ti portano solo a perdere la libertà. «Sono stato in carcere undici anni, di cui cinque in Spagna.

Sono venuti a prendermi alle Canarie e nel 2008 mi hanno trasferito in Italia, a Opera».

Opera non è un penitenziario come gli altri. Oltre a essere il più grande delle 225 carceri italiane con circa 1.400 detenuti di cui 1.300 con condanne definitive, è anche quello che ospita i maggiori esponenti del crimine italiano, da Totò Riina in giù.

Per Fabrizio Fornara, 49 anni, originario della provincia di Novara e con un passato da cuoco, Opera è stato

Invece i violini sono stati da subito una passione. È questo che fa la differenza».

un luogo di redenzione. Perché se il fine della pena è restituire alla società una persona cambiata, nel caso di Fabrizio l’obiettivo è stato raggiunto. Oggi è un affermato liutaio, vive a Cremona e non sono pochi quelli lo chiamano “Maestro”.

Fabrizio davanti ad alcuni violini di sua produzione nella sua bottega di Cremona.

A fianco Fabrizio mentre crea un nuovo strumento

Il violino a cui tengo di più è il primo che ho fatto perché è quello che mi ha cambiato la vita.

Ed è quello che ho regalato a mia figlia.

Mi viene spesso a trovare, trascorriamo del tempo insieme e lei è orgogliosa di me.

Questo è ciò che mi rende in assoluto più felice

Passione nata in carcere «Ho iniziato a costruire violini nel laboratorio di liuteria di Opera. Era il 2009 e ho cominciato per curiosità, non sapevo nemmeno cosa volesse dire la parola liutaio».

A Fabrizio hanno commissionato violini dalla Svizzera e dalla Repubblica Ceca. I suoi strumenti sono stati in Corea e in Germania. «Devo ringraziare il mio maestro, Edgar Russ, che porta in giro i miei lavori e li fa conoscere. Lui mi stima molto e questo per me è motivo di grande soddisfazione». La bottega di Edgar Russ, un austriaco che da giovane è giunto a Cremona col sogno di costruire chitarre e che in tre decenni è diventato uno dei più importanti e prestigiosi liutai della città, è una boutique gioiello che strabilia e dove il fare artigiano si tramuta in arte raffinata. Fabrizio qui è di casa, viene spesso a chiedere consigli, a confrontarsi, a imparare.

«Vivo a Cremona dall’ottobre 2014 e qui sto benissimo, è una bella città, la capitale dei violini. Ho conosciuto un po’ tutti i liutai e si sentono un po’ di rivalità e gelosie. Negli ultimi anni dicono ci sia il problema degli strumenti costruiti a basso costo dai cinesi. Io vado avanti per la mia strada anche perché per me fare un violino è prima di tutto un’emozione. Così come la prima volta che ho sentito suonare uno strumento fatto da me. Mi sono messo a piangere dalla contentezza».

Fabrizio è tutto casa e bottega, appartamento al primo piano e laboratorio al piano terra. «Passo qui tanto tempo, inizio la mattina alle

otto e non mi rendo conto più delle ore che passano. Rimango spesso fino alle dieci di sera e vengo anche nei fine settimana».

Un lavoro di precisione I violini che costruiva in carcere sono molto diversi da quelli che fa adesso. «Dentro ho iniziato e imparato tanto. Sono molto grato al laboratorio di liuteria perché se non ci fosse stato ora non sarei qui. Ma non c’è paragone con quanto faccio oggi.

Fuori si devono seguire delle regole ferree, gli standard di qualità richiesti sono molto più alti, bisogna stare attenti a tutti i dettagli. È un lavoro di assoluta precisione e di estrema concentrazione».

Fabrizio tornerà presto a Opera in veste di insegnante per il laboratorio della Casa di reclusione. «Cercherò di trasmettere quello che ho imparato. Penso che fare qualcosa in carcere aiuti tantissimo. Però non dovrebbe essere una semplice mansione. Io, ad esempio, ero tra i cuochi di Opera perché quello era sempre stato il mio lavoro. Ma era una routine, lo facevo solo per mantenermi.

Fabrizio ha un rapporto speciale con gli strumenti che costruisce. «Il primo violino l’ho fatto in tre anni, adesso ci impiego tre settimane, ma ogni pezzo è come il primo. In questo lavoro si deve cercare la perfezione e io provo continuamente a migliorarmi. Anche se ho preso la mano e acquisito un po’ di mestiere non c’è mai un violino uguale all’altro. Dal tipo di legno, alla lavorazione fatta di misure millesimali, fino alla vernice, che preparo io stesso, tutto influisce sul suono. I violinisti sono sempre alla ricerca dello strumento che suoni meglio di quello che hanno e tu glielo devi dare».

Il laboratorio di liuteria del carcere di Opera è un progetto della Fondazione Casa dello spirito e delle arti di Milano. Ad aprile una delegazione della Fondazione è stata ricevuta in Vaticano e un violino fatto da Fabrizio è finito nelle mani di Papa Francesco. «Fa un certo effetto sapere che un mio violino ce l’abbia il Papa. Ma il violino cui tengo di più è il primo che ho fatto perché è quello che mi ha cambiato la vita. Ed è quello che ho regalato a mia figlia. Mi viene spesso a trovare, trascorriamo del tempo insieme e lei è orgogliosa di me. Questo è ciò che mi rende in assoluto più felice».

IL PROGETTO

Un percorso di formazione in carcere per offrire un’opportunità di futuro La Fondazione Casa dello spirito e della arti dirige e coordina il laboratorio di liuteria del carcere di massima sicurezza di Opera.

Qui i detenuti seguono un percorso di formazione in collaborazione con i maestri liutai della Scuola internazionale di Cremona e costruiscono violini di qualità utilizzati dall’Orchestra dei Popoli.

Gli strumenti possono essere venduti anche a privati, enti, o realtà interessate a sostenere l’iniziativa. Il progetto, oltre ad avere come obiettivo il reinserimento sociale e lavorativo, mira a dare ai detenuti la formazione necessaria per ottenere il diploma presso l’Istituto Stradivari, una delle scuole di liuteria più importanti e riconosciute a livello internazionale. maggio 2016 Scarp de’ tenis

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Housing sociale: quartiere rinato grazie a Sharing di Enrico Panero

Nel quartiere di Pietra Alta, periferia problematica di Torino, un progetto di housing sociale è riuscito a cambiare volto alla zona. Garantendo risposte concrete anche a quella fascia grigia di chi non ha accesso, per motivi di reddito, all’edilizia popolare 44 Scarp de’ tenis maggio 2016

Cosa possono avere in comune una famiglia in emergenza abitativa, una coppia di turisti, un dirigente d’azienda, qualche studente universitario, dei rifugiati, un gruppo di ragazzi in gita scolastica? Un luogo, in cui abitano per un certo periodo, condividono spazi e servizi, mangiano allo stesso tavolo. Questo luogo si chiama Sharing ed è nato nel 2011 come primo progetto di housing sociale temporaneo in Italia.

Nel quartiere popolare e turbolento di Pietra Alta, periferia nord di Torino, noto alle cronache soprattutto per lo spaccio e il campo sosta abusivo più grande d’Europa, un palazzone di 9 piani e 10 mila metri quadri appartenuto alle Poste Italiane, è stato messo a bando nel 2008 dal comune di Torino per la realizzazione di un progetto di housing sociale. La società Ivrea 24 (costituita da fondazione Sviluppo e Crescita – Crt, Oltre Venture e cooperativa D.O.C.) dopo essersi aggiudicata la gara ha dato il via alla ristrutturazione dell’immobile creando 122 appartamenti con cucina, 58 camere hotel, un ristorante, una

TORINO

A sinistra il palazzo nel quartiere di Pietra Alta che ospita Sharing. Qui sopra uno dei momenti di incontro organizzati nella struttura

Lavorare su più fasce consente di reperire risorse da chi risiede a Sharing con tariffe di mercato e offrire tariffe calmierate a tutti gli altri. Nei casi di persone con esigenze particolari e in difficoltà economiche ci avvaliamo di convenzioni con enti e associazioni

lavanderia, un ambulatorio dentistico, una sala meeting e spazi comuni per 250 metri quadri. Obiettivo del progetto, “dare risposte alla domanda residenziale della cosiddetta fascia grigia della popolazione, che non trova collocazione nel mercato immobiliare e tuttavia non è destinataria dei piani di residenza popolare rivolti a chi vive una vera emergenza sociale”. Caratteristiche, la temporaneità del soggiorno (massimo 18 mesi), la diversificazione dell’offerta abitativa necessaria per la sostenibilità economica, l’offerta di servizi e socialità che differenzia la struttura da un residence.

Offerta differenziata Il gruppo di lavoro di Sharing è costituito da una ventina di operatori, tutti giovani, che si occupano del funzionamento di una struttura che ospita oltre 300 persone.

«Ci rivolgiamo a tutti – spiega la direttrice della struttura Carmela Langillotti –, siamo un’impresa start up che si deve sostenere anche dal punto di vista economico, per cui lavorare su più fasce consente di reperire risorse da chi risiede qui con tariffe di mercato e offrire tariffe calmierate agli altri. Nei casi di persone con esigenze particolari e in difficoltà economiche ci avvaliamo di convenzioni con associazioni ed enti».

Così, 23 appartamenti sono destinati all’emergenza abitativa sulla base di una convenzione con il comune di Torino e con alcuni centri dell’area metropolitana (Venaria e Settimo). Una settantina di stranieri di varie nazionalità sono ospitati nell’ambito del

Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar). Sharing offre alle persone che abitano la struttura, e più in generale al quartiere, servizi e spazi comuni, quali una biblioteca, un ristorante, una sala multiuso, spazi per studio e relax, uno spazio per bambini piccoli e uno utilizzato per il doposcuola, ma anche dato in affitto per feste ed eventi, un ambulatorio dentistico, servizi di consulenza legale e psicoterapia.

«La particolarità è quella di rivolgersi a persone che rimangono anche per periodi brevi, cercando di coinvolgerle in qualcosa di utile per tutta la comunità».

Un punto di riferimento Sharing si inserisce in una riqualificazione urbana di un quartiere difficile, in cui da alcuni anni sono stati avviati degli interventi migliorativi attraverso l’apertura di un’agenzia per lo sviluppo in collaborazione con la Circoscrizione VI, per dare un luogo comune a tutte le associazioni del territorio.

«All’inizio, quando si seppe del

progetto di housing sociale, che naturalmente non si sapeva bene che cosa fosse, nel quartiere furono raccolte le firme contro l’iniziativa – ricorda Valentina Gallia, che si occupa dei servizi e della comunicazione di sharing».

I promotori del progetto, un anno prima dell’inaugurazione, aprirono uno sportello per informare gli abitanti del quartiere, spiegando loro che l’iniziativa sarebbe stata un’opportunità, oltre che una risorsa economica e lavorativa. Così fu superata la diffidenza e il lavoro di rete ha aiutato a superare anche l’iniziale freddezza delle associazioni del quartiere.

«Sharing è entrata a far parte dell’Agenzia di sviluppo, ha evitato di sovrapporre i servizi offerti a quelli già esistenti, ha iniziato collaborazioni con associazioni ed enti ed è riuscita nell’intento di far comprendere il valore aggiunto di questa iniziativa, diventando nel tempo un punto di riferimento nel quartiere» – spiega Gallia, sottolineando come i servizi offerti siano affidati a professionisti e realtà già operanti sul territorio: il servizio di doposcuola con una onlus, lo sportello di psicoterapia con una cooperativa, il servizio di biblioteca con le biblioteche civiche e il servizio di consulenza legale con cittadinanzattiva. www.sharing.to.it

LA SCHEDA

Una progettazione in divenire per rispondere alle diverse esigenze Gli operatori di Sharing considerano positivo il bilancio sociale dell’attività, che è riuscita a inserirsi nel territorio, a dialogare con le persone e le realtà del quartiere. Ma, precisano, «Sharing è un progetto in fieri, non è fermo, le persone passano e anche la progettazione si apre e si chiude continuamente, deve essere costantemente ripensata perché le persone e le esigenze sono diverse, il flusso è la sua cifra distintiva. Con i servizi che forniamo spesso entriamo in contatto con persone disposte ad aiutarci ad erogarne di nuovi. Per quanto riguarda poi il metterci a sistema con altre realtà un po’ ci aiuta Torino, città che punta molto sul lavoro di rete nel territorio». maggio 2016 Scarp de’ tenis

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VICENZA

L’incontro tra la redazione vicentina di Scarp e i ragazzi della scuola elementare di Anconetta

Scarp a scuola: i bambini sanno accogliere di Cristina Salviati

Scarp de’ tenis Vicenza ha sperimentato il racconto di alcune storie di strada ai ragazzini di quinta elementare di Anconetta, quartiere alla periferia della città grazie alle sollecitazione del loro maestro, Andrea De Pasquale. Il progetto in cui il reading di Scarp è stato inserito riguarda l’affettività, ed è intitolato “Coltivare il mondo per coltivare i pensieri”. Attraverso la semina e la cura di un orto sinergico i bambini hanno sperimentato il fatto che ogni pianta possa essere di aiuto all’altra.

«Un lombrico – spiega Andrea De Pasquale – è più brutto di una farfalla, ma molto più utile. Piccole osservazioni come questa sono servite a introdurre il lavoro

Negli elaborati prodotti dai ragazzi nei giorni successivi all’incontro emerge umanità e accettazione delle diversità

mirato a una migliore conoscenza di sé».

Intanto sui banchi ci si chiedeva «Chi sono i miei amici?», ma poi anche «E i miei nemici?», sempre con l’intento di trovare quali siano i punti in comune. Quando si è arrivati al tema del diverso Scarp de’ tenis è diventato protagonista, uno strumento per abbattere i pregiudizi, continuando a lavorare su ciò che accomuna le persone.

Il confronto con i bambini «Abbiamo utilizzato le foto per immaginare il vissuto della persona raffigurata – racconta il maestro – andando poi a leggere la storia, scoprivamo che l’apparenza inganna e che quello che accade ad alcune persone che vivono in situazioni di disagio sono fatti comuni, che possono accadere a chiunque».

Ed ecco che confrontarsi con chi non ha casa, è diventata una ricerca per capire cosa qualifica la loro vita, cosa li rende felici.

«Abbiamo molto più in comune di quello che sembra a un primo approccio – spiega ancora De Pasqua-

le – per questo è stato facile far loro capire un concetto molto profondo: negare un saluto a chi vive per strada significa negare anche una parte di me stesso».

Vista la bontà del progetto la redazione di Vicenza è andata ad Anconetta proponendo quattro racconti tratti dal reading “Diario di strada”. Ne è risultata una piacevole mattinata di conoscenza reciproca e per i componenti della redazione di Scarp Vicenza anche l’occasione di sentirsi, contrariamente al solito, trattati da gente “più che normale”.

Alla fine della performance, divisi in gruppi per le interviste, la situazione si è rivelata davvero sorprendente. Nessuno dei ragazzi ha insistito sulla vita in strada, sulla guerra o sulle difficoltà, ma voleva conoscere gli scarpisti per quello che sono, con le loro passioni, i loro desideri. Non persone segnate dal disagio o dalla difficoltà, ma uomini e donne con sofferenze sì ma anche gioie, passioni, sogni.

Negli elaborati prodotti dai ragazzi nei giorni successivi all’incontro emerge umanità e una assoluta accettazione delle differenze.

C’è Umar, musulmano e unico africano presente, “scappato dalla guerra in Libia viaggiando su un barcone scricchiolante fino a Lampedusa. Ma adesso abita a Caldogno con alcuni coinquilini, festeggia il Natale come noi, e anche la Pasqua”.

Ma anche Nebojsa, “che si veste come mister Bean, suona il violino e lo ama così tanto da considerarlo la sua vita”. E poi Stefano, “una persona gentile, è simpatico e gli piace parlare con i bambini per spiegare come vivono i poveri che dormono negli scatoloni”. Senza dimenticare Federica “che adora scrivere poesie, il suo colore preferito è il celeste e la sua passione il tip tap”.

«Per me è stato bello così –spiega Ivano - mi è bastato farli un po’ pensare, fermarli due minuti a riflettere che al mondo abbiamo un po’ di tutto, se non nella nostra città, magari a due passi da noi».

Il resto è stato conoscersi e fare amicizia. maggio 2016 Scarp de’ tenis

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FIRENZE ciò mi diede la spinta ad aumentare i miei affari, dagli immobili alla compravendita e riparazione di automobili usate, riuscendo a mettere da parte i soldi necessari per comprare una casa e assicurare una vita dignitosa alla mia famiglia.

Un’immagine di Danut che dopo tante peripezie, ha trovato una famiglia a Il Samaritano

Danut Una vita in bilico «Sorrido di nuovo» di Danut

È il 1965, quando tutto ha avuto inizio in un piccolo paese a Nord della Transilvania, in Romania. Là sono nato io, Danut. Sono il primo di dieci figli, nasco da una famiglia modesta, mio padre lavorava in miniera e mia madre si occupava della casa.

Nel 1986 stanco del regime in cui vivevo provai a superare la frontiera con la ex-Jugoslavia. Fui arrestato. Sei mesi dopo ci riprovai superando il confine, ma fui arrestato a Belgrado. Così scontai altri sei mesi di prigionia e torture che non fecero altro che rafforzare la mia motivazione. La terza volta fu quella buona: il mio desidero di libertà mi portò a Udine. Arriva il 1989, un anno che ha segnato la storia, l’anno in cui cadde il Muro di Berlino e la Romania diventa un paese libero e democratico. L’anno in cui sono

Dopo molte cadute è arrivato il carcere.

E pensavo che non sarei mai potuto risalire. Poi ho incontrato Il Samaritano

potuto tornare dalla mia famiglia per rivederla. La mia permanenza in Italia finì nel ’95, quando decisi di tornare in Romania, dove mi aspettava il mio primo figlio Daniel, nato da un matrimonio combinato fatto cessare dal regime comunista dopo la mia fuga. Intanto, grazie a degli amici, avevo trovato un posto di lavoro in Inghilterra.

Appena arrivato decisi subito di darmi da fare senza perder tempo, studiando e lavorando assiduamente. Dopo un anno conobbi Louisa: una bellissima ragazza, piena di vita e sorridente. Ci innamorammo e decidemmo di sposarci nonostante le resistenze di sua madre, che non mi parlò per 4 anni fino alla nascita di Alex, il nostro primo figlio.

Nuova vita in Inghilterra Siamo già nel 2000, e la famiglia si allarga con l’arrivo della nostra secondogenita, Lenuta. Con il passare del tempo arriva un’altra sorpresa, Louisa rimane incinta per una terza volta. Ma la vera sorpresa arriva con l’ecografia di due bellissime gemelle, Maria e Dorina. Tutto

Tutto bello, forse troppo, per essere vero. Infatti nel 2010 finisce tutto: a causa del tradimento di mia moglie arriva il divorzio e la scelta di tornare in Romania senza la mia famiglia, senza una casa e senza soldi.

Da qui la disperazione e i problemi con l’alcol. Tuttavia fu proprio toccare il fondo che mi permise di comprendere quanto fosse necessario per me riprovarci di nuovo.

Nel 2011 decisi quindi di tornare in Italia: integrarmi era difficile ma grazie al’impegno trovai lavoro nell’edilizia in Toscana.

Una notte i coinquilini finirono una festa in rissa e mi misi in mezzo per dividerli. La nottata si concluse con i Carabinieri che ci portarono in caserma. Dimenticai presto l’accaduto senza concedergli troppo spazio, grazie anche alle rassicurazioni del mio avvocato. Nel 2015, tre anni dopo, durante un controllo di routine della Polizia mi accompagnarono in caserma dove mi fu annunciato che dovevo scontare otto mesi di reclusione nel carcere di Sollicciano.

Rimasi due mesi nel carcere, là mi ammalai. Persi di nuovo tutto: casa, compagna e lavoro. In carcere, però, ho incontrato il coordinatore de Il Samaritano, la struttura dove ora sto scontando il resto della pena in misura alternativa.

Qui ho trovato numerosi aiuti e possibilità concrete per poter ricominciare da capo la mia vita. A Il Samaritanoc’è la possibilità di frequentare corsi di formazione per reinserirsi nel mondo del lavoro, sperimentare la creatività nei laboratori di artigianato o di scrittura, c’è anche una palestra dove allenarsi.

Importanti anche il supporto, dalla consulenza legale agli aiuti sanitari, e il sostegno psicologico a disposizione degli ospiti.

A Il Samaritano ho ricominciato a sorridere. maggio 2016 Scarp de’ tenis

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VERONA meglio della terra può sostenere questo cammino? Tornare alla terra è tornare al cuore del nostro Essere. La terra è faticosa da coltivare però è anche generosa ed insegna che, quando si dà con pazienza e costanza, si raccoglie».

Operatori al lavoro nel campo messo a disposizione dal comune di Verona per offrire percorsi di reinserimento

R.accolti La cura della terra può salvare l’anima di Elisa Rossignoli

A San Massimo, in periferia di Verona, c’era fino a pochi mesi fa un terreno incolto.

Cosparso di sterpaglia, ospitava qualche attrezzo in disuso, oggetti abbandonati, cumuli di pietre e persino un paio di collinette di rifiuti ricoperte di vegetazione. Ma era un terreno con tanta voglia di tornare a dare frutto.

Alcune persone, la cui esperienza di vita si è snodata su un percorso difficoltoso e accidentato, se ne sono prese pazientemente cura.

Anche loro avevano e hanno voglia di tornare a portare frutto. Hanno spianato la collina, rimuovendo e smaltendo i rifiuti che la componevano, hanno spostato, uno dopo l’altro, i grossi sassi e hanno trasformato quel terreno in un campo. Era la fine del 2015.

Un campo messo a disposizione dal comune è diventato uno strumento di promozione sociale. E dà buoni frutti 50 Scarp de’ tenis maggio 2016

Con pazienza, e con l’aiuto di esperti, hanno imparato ciò che non sapevano di semi, di orti, di innaffiatura, di concimazione. Con pazienza e perizia hanno seminato. E hanno atteso, con l’attesa vigile del contadino che non dimentica, ma si prepara all’arrivo dei frutti.

Bello essere R.accolti «R.accolti – spiega la coordinatrice del progetto, Alessandra Soardo – nasce dalla collaborazione fra la cooperativa Il Samaritano (Caritas Diocesana di Verona) e l’associazione Orti di San Giuseppe, entrambe impegnate nel sostegno e nel reinserimento di persone in situazioni di grave marginalità. L’esperienza a fianco di queste persone ci ha insegnato che chi ha intrapreso un percorso di reinserimento non necessita solo di un sostegno nella ricostruzione di un contesto economico e abitativo, ma deve essere affiancato anche nella ricostruzione del contesto identitario e valoriale perduto. Il terreno datoci in concessione dal comune di Verona era l’occasione che cercavamo: chi

Il rapporto con la terra e la natura offre un ambiente ideale ai percorsi di riabilitazione sociale, perché consente la presa in carico e l’assunzione di responsabilità in un contesto in cui la tolleranza e la disponibilità alla prova ed all’errore sono più ampie.

«La struttura flessibile delle attività, che variano con il ciclo della giornata e delle stagioni, offrono maggiori possibilità di adattamento degli orari e delle mansioni alle esigenze e abilità diverse dei soggetti coinvolti, gli ambienti di lavoro sono aperti e meno costrittivi e la valenza “terapeutica e inclusiva” del rapporto con la vita che l’agricoltura consente: dal seme alla pianta e dalla pianta al frutto che serve a nutrire, con tutta la valenza relazionale di questa funzione primaria».

Ad aprile 2016 i frutti hanno iniziato ad arrivare. Prima due varietà di lattuga, verde e rossa: ormai è rigogliosa e orgogliosa, quasi pronta alla vendita, e presto le faranno compagnia le quattro varietà di cavolo che dimorano nelle altre aiole.

Ed è solo l’inizio.

Nel progetto, svolgono al momento un tirocinio 5 persone, affiancate da Adriano Merlini, agronomo dell’associazione Orti di S. Giuseppe e da un operatore de Il Samaritano.

«Il prossimo passo – prosegue Alessandra – è la vendita diretta, qui al campo. A chilometro, anzi a “metro zero”. Parte della produzione sarà utilizzata dal nostro catering “Gusto Solidale” andando a costituire una vera e propria “filiera etica e sociale”. Ma soprattutto, trovandoci nel cuore di un quartiere della città, speriamo che questo diventi l’“orto del quartiere”, che la comunità sia sempre più coinvolta . Ciò creerebbe un vero e proprio circolo virtuoso i cui frutti andranno a beneficio di tutti».

Crescenzo e la sua inseparabile bicicletta diventata ormai compagna inseparabile e strumento di lavoro

Crescenzo, “malato” di libri La bici come casa di Luca Filippi

Una bici preziosa come l’ossigeno. Per Crescenzo “Alfredo” Della Corte la mountain bike è mezzo di trasporto, ufficio, casa e compagna.

Difficile potere immaginare l’esistenza senza le due ruote. L’ex carpentiere 52 enne una volta andata a rotoli la storia con la compagna, con la quale ha vissuto a Silvi Marina e ha dato alla luce due figli, ha rivoluzionato la sua vita.

Crescenzo, chiamato da tutti Alfredo, si è presentato al centro di ascolto della Caritas di Rimini e le particolarità della sua bizzarra storia non sono rimaste nascoste. Con la classica simpatia e carica napoletana, nella borsa della spesa aveva con sé giusto un giacchetto e il libro “Il padrino” di Puzo ed è stato accolto per il colloquio.

La bici per Crescenzo è tutto. Insieme a lei ha girato in lungo e in largo l’Italia e grazie a lei riesce anche a campare

«Sono arrivato da Roma in bici, partendo con una coperta, il telefono, le cuffie e poco altro – racconta Crescenzo –. Roma era diventata una città troppo caotica per me, la paura per gli attentati l’ha resa troppo pericolosa. La prima tappa è stata Narni. Il percorso è stato bellissimo, certi passaggi sono davvero mozzafiato. Arrivato alla stazione, ho mangiato qualcosa con i pochi soldi che avevo con me e poi ho dormito in stazione, “vigilando” sulla bici, per me è troppo preziosa e non posso permettere che qualcuno me la porti via. Anche perché qualche anno fa, ne ricevetti una nuova di zecca direttamente dal Vaticano. Frequentavo allora la mensa del Circolo San Pietro e tramite il direttore Nannerini, Papa Francesco riempì il mio cuore di gioia con questo dono».

Un viaggio del cuore Il secondo giorno sveglia alle 5, la colazione e poi via, in sella alla volta di Ancona, distante più di 200 chilometri.

RIMINI «Ho girato un po’ per la città che conoscevo – continua Crescenzo – , soprattutto la zona del porto, ma ho visto che non c’erano le condizioni per lavorare e così il terzo giorno di viaggio sono arrivato fino a Pesaro, ma le persone per il mio tipo di attività non mi sembravano adatte, così come le dimensioni della città. Ed eccomi a Rimini anche se, non nego, avrei voluto andare avanti fino a Ravenna e poi Padova».

Dunque, dopo oltre 400 chilometri, il viaggio di Crescenzo si è per un attimo interrotto.

«Ho fatto per anni il carpentiere – prosegue Crescenzo – ma la crisi mi ha lasciato senza lavoro.

Trovandomi in difficoltà quando ero a Milano nel 2010, decisi di prendere la bici e partire alla volta di Roma, passando per Genova dai parenti. Un viaggio lungo, intervallato da soste. Non sapendo più come fare, mi sono inventato una nuova mansione. In sostanza, cerco ovunque (biblioteche, associazioni, parrocchie, conoscenze e contatti vari ndr) libri usati da rivendere prima di tutto ai negozi e poi alle persone. Nella cassetta dietro alla bici, ho ideato un modo per riuscire a portarne fino a cento. Quelli più rari ovviamente li tengo da parte, gli altri li rivendo a due euro. Alle mie esposizioni, quando ero a Roma venivano pure studenti di giurisprudenza e anche un finanziere assieme alla moglie».

Non stupisce dunque se Crescenzo è un divoratore insaziabile di libri. Interessanti anche le cifre di questo innovativo mestiere.

«La letteratura è il mio genere preferito, potrei citare autori come Alessandro Manzoni per la prosa, Giosuè Carducci e D’Annunzio per la poesia, ma amo anche la storia.

Per alcuni testi antichi del ’700 sono riuscito a guadagnare anche 160 euro, una volta 500 per una Bibbia rarissima in piccoli volumi. Posso racimolare anche cinquanta euro a giornata, ma a volte non vendo nulla. Arrivato a Rimini, spero che le cose vadano bene e di stabilirmi qui definitivamente». maggio 2016 Scarp de’ tenis

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VOCI DALL’EUROPA

Social Bites Cafes: caffè sospesi e posti di lavoro per i senza dimora

di Ronnie Convery

Una tradizione nata nel quartiere Sanità della Napoli dell’ottocento, rinasce in chiave moderna per le strade della Gran Bretagna. La tradizione del “caffè sospeso” si fa strada per la prima volta oltremanica, col sostegno di attori e politici, e sono migliaia gli homelessche ne ricavano il vantaggio. L’usanza prevede che quando un cliente ordina un caffè sospeso, si trova a pagare due caffè pur ricevendone uno solo lasciando così un caffè pagato per chi ne ha bisogno.

Grazie a internet e a un nuovo tipo di business che si chiama Social Enterprise il caffè sospeso rinasce.

scheda Ronnie Convery, nato nel 1965, è giornalista, scrittore, personaggio televisivo e traduttore in UK. È stato uno dei pionieri per le nuove connessioni culturali tra Scozia e Italia. Ronnie mostra un particolare interesse per emigrazione, religione e scambi culturali, e contribuisce sui media di entrambe le nazioni.

Cibo e caffè sospesi Social Biteè una società scozzese nata non per arricchire i suoi fondatori Alice Thompson e Josh Littlejohn, ma per rispondere ai problemi sociali del Paese, sopratutto la povertà e la mancanza di possibilità per chi vive sulla strada.

Josh e Alice hanno rilanciato la vecchia tradizione napoletana ma con qualche differenza. Entrando in uno dei loro locali –i Social Bite Cafes si trovano a Glasgow, Edimburgo, Aberdeen e presto in altre città della Gran Bretagna – puoi comprare un pranzo o un panino sospeso per chi non ha i mezzi per pagare.

In più la società ha stabilito che un dipendente su quattro deve essere una persona senza dimora.

Così Social Bite offre la possibiltà non solo di guadagnarsi il pane, ma anche di vivere decentemente e con dignità.

La società scozzese fondata da Josh e Alice per rispondere ai problemi sociali del Paese, povertà e mancanza di possibilità per chi vive sulla strada, ha stabilito che un dipendente su 4 deve essere una persona senza dimora.

In questo modo Social Bite offre la possibiltà non solo di guadagnarsi il pane, ma anche di vivere con dignità

George Clooney insieme ai fondatori dei Social Bite Cafes

Parecchie sono le persone che vivono vendendo per strada The Big Issue (rivista settimanale venduta dagli homeless in Gran Bretagna) e che hanno ricevuto un’offerta di lavoro dai Social Bite Cafes.

Un lavoro agli homeless John è senza casa dall’età di 16 anni. Si è sposato e ha avuto un figlio ma poi il matrimonio è finito e ha ripreso la vita di strada. Da sei mesi lavora a Social Bite Edimburgo. Recentemente è stato promosso barista e gli è stata affidata la responsibilità di chiudere il bar alla fine della giornata.

Adesso è un uomo rinato: «Prima di trovare questo lavoro il mio unico guadagno era vendere The Big Issue . L’ho fatto per quasi otto anni, sempre lì sulla strada, sperando che qualcuno si fermasse per comprare una copia. Non è una vita facile. Adesso mi sento un uomo nuovo. Spero solo che il mio caffè sia buono, devo essere bravo ora che mi hanno nominato ufficialmente barista».

L’iniziativa ha attirato l’attenzione anche di George Clooney, che, trovandosi a Edimburgo prima di Natale, per una conferenza, ha visitato il locale per bere un caffè, lasciando 650 sterline – quasi 1.000 euro come contributo personale al progetto. Un altro ospite famoso è il nuovo capo del partito laburista, Jeremy Corbyn, che ha visitato recentemente il locale di Glasgow, apprezzando il suo panino e lasciandone pagati due in più.

A Social Bitepiacerebbe in futuro espandere la sua attività magari oltre i confini della Gran Bretagna.

Chissà se non sarà un imprenditore scozzese, con un cuore buono a riportare a Napoli e in Italia la tradizione bella e rinnovata, partita dal quartiere Sanità. maggio 2016 Scarp de’ tenis

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VENTUNO

La soluzione Ue per i profughi Rispedirli tutti in Turchia La decisione voluta dalla cancelliera tedesca Merkel, dal presidente di turno Rutte e dal presidente del Consiglio europeo Tusk, e accettata dal premier turco Davutoglu, in cambio di fiumi di denaro. E i diritti umani?

Fabíola Ortiz/IPS

di Andrea Barolini

scheda

Ventuno come il secolo nel quale viviamo, come l’agenda per il buon vivere, come l’articolo della Costituzione sulla libertà di espressione.

Ventuno è la nostra idea di economia. Con qualche proposta per agire contro l’ingiustizia e l’esclusione sociale nelle scelte di ogni giorno.

Lo scorso 18 marzo l’Unione europea ha annunciato di aver raggiunto un accordo con la Turchia che permetterà alle autorità dei Paesi membri di rinviare verso la nazione euro-asiatica tutti i migranti in arrivo alle loro frontiere. Secondo quanto riportato dalla stampa internazionale, i primi profughi arrivati sulle coste della Grecia sono stati imbarcati all’inizio di aprile: destinazionei porti turchi. Da parte sua, Ankara si è incaricata di fungere da “filtro”, selezionando coloro che hanno le carte in regola per ottenere lo status di rifugiati: solo loro potranno, a quel punto, riprendere il cammino verso l’Europa.

Una decisione voluta fortemente dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, dal premier olandese Mark Rutte (presidente di turno dell’Ue) e dal presidente del Consiglio europeo Donald Tusk. E accettata di buon grado dal primo ministro turco Ahmet

54 Scarp de’ tenis maggio 2016

LA SCHEDA

Un comune francese ammaina la bandiera dell’Unione europea Non sono solo le Ong a dire no all’accordo tra Ue e Turchia per il respingimento dei profughi siriani. Un comune francese di ottomila abitanti, Vern-sur-Seiche, nelle immediate vicinanze di Rennes, in Bretagna, è finito sulle prime pagine dei quotidiani transalpini per aver adottato una forma di protesta particolarmente dura. Indignati per la decisione assunta da Bruxelles, i consiglieri comunali hanno infatti indetto una riunione straordinaria, il 20 marzo, e hanno approvato un documento durissimo, nel quale ricordano le parole dello scrittore Stéphane Hessel, autore del celebre libro Indignatevi: «Signori dirigenti, permetteteci di ricordarvi la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo».

Subito dopo, il sindaco Didier Moyon e i consiglieri sono usciti dal municipio, hanno letto in pubblico la loro risoluzione e ammainato simbolicamente la bandiera dell’Unione europea: «Non possiamo restare indifferenti di fronte alla politica comunitaria in materia di gestione dei migranti. Da qui, vogliamo lanciare le basi di un movimento che chieda un’Europa più umana e solidale», ha spiegato il primo cittadino.

Davutoglu, che in cambio ha chiesto e ottenuto un finanziamento pari a 3 miliardi di euro, da pagare entro il 2018, che si aggiunge agli altri 2,7 miliardi già promessi da Bruxelles per aiutare Ankara ad accogliere 2,7 milioni di profughi siriani. Ma non è tutto. La Turchia sembra abbia ottenuto anche un’accelerazione nelle trattative per l’ingresso nell’Ue, che risultano, di fatto, bloccate ormai da anni.

Le discussioni sul respingimento dei migranti, invece, sono durate solo pochi giorni. Il tempo necessario alle diplomazie di mettere il tutto nero su bianco. Ankara ha cominciato dunque a ricevere i profughi, raccolti da barche, pescherecci e gommoni nei mari italiani, maltesi e greci. Per attuare tale piano epocale di “rinvio” dei profughi, l’Unione europea sta mobilitando 4 mila agenti, 400 esperti di asilo politico, centinaia di traduttori. E l’agenzia europea per le frontiere (Frontex) sta mettendo a disposizione 8 navi, capaci

Solo due voci fuori dal coro.

Quella del primo ministro greco Tsipras e del premier del Lussemburgo Betel.

Per Hollande i siriani «rimarranno più vicini a casa»

di imbarcare fino a 400 migranti ciascuna. Grandi sorrisi e vigorose strette di mano sono state immortalate al vertice euro-turco: una soluzione che sembra non scontentare nessuno. Il presidente della Commissione europea JeanClaude Junker, in particolare, gongolava: «I profughi saranno inviati verso un Paese considerato sicuro». Mentre il presidente francese François Hollande ha spiegato che i siriani rimarranno così «più vicini a casa, e potranno tornare più facilmente nel loro Paese non appena ristabilita la pace».

E pazienza se pochissimi mesi fa, alla fine del 2015, la Turchia veniva attaccata in modo durissimo proprio dall’Unione europea per via delle «gravi carenze in termini di tutela dei diritti umani». E pazienza anche se il presidente Recep Tayyip Erdogan è stato criticato in modo pressoché unanime dal mondo occidentale per aver ordinato alla polizia, nello scorso mese di febbraio, di fare irruzione nella sede di un

giornale colpevole di opporsi apertamente alla linea del governo. Le uniche voci fuori dal coro, rispetto all’accordo sui migranti, sono state quelle del primo ministro della Grecia, Alexis Tsipras, e del premier del Lussemburgo, Xavier Betel. Il primo ha affermato: «Il mio Paese in ogni caso si attrezzerà per accogliere 20 mila migranti sulle proprie isole, rispetto agli attuali 6 mila». Il secondo si è chiesto invece se i rinvii sistematici di migranti verso la Turchia siano legali, vista anche la Convenzione di Ginevra.

Chi ha avuto l’idea?

Non a caso, pare che nessuno abbia voluto assumere apertamente la paternità della decisione. Angela Merkel, ad esempio, ha parlato dell’accordo come di «un netto miglioramento» della situazione, specificando tuttavia al contempo che «la proposta è arrivata dal governo della Turchia». Il quotidiano francese Les Echos, tuttavia, ha riportato le dichiarazioni di uno dei partecipanti alle riunioni che maggio 2016 Scarp de’ tenis

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VENTUNO ha assicurato: «L’idea di rinviare i profughi siriani in Turchia? È della Germania».

Nel frattempo, è arrivata unanime la reazione sdegnata delle organizzazioni non governative. «I profughi

Lo sdegno delle Ong e delle organizzazioni umanitarie.

«I profughi hanno bisogno di protezione, non di essere rifiutati», la reazione dell’Unhcr

hanno bisogno di protezione, non di essere rifiutati», ha tuonato Boris Cheshirkov, dirigente dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Amnesty International ha parlato senza mezzi termini di «colpo storico ai diritti umani». L’organizzazione umanitaria Oxfam ha puntato il dito contro i dirigenti europei, che «rendono queste persone una merce di scambio politico», stigmatizzando in particolare le contropartite ottenute da Ankara. E Loris Filippi, presidente di Medici senza frontiere, ha parlato di «accordo della vergogna, che riduce

le persone a semplici numeri, negando loro un trattamento umano e il diritto di cercare protezione in Europa».

Anche il Vaticano ha accolto con sdegno la decisione dell’Ue di respingere i migranti. Di fronte all’autentico dramma vissuto da chi fugge dalla guerra, «dovremmo avvertire come umiliante la scelta di chiudere le porte, quasi che il diritto umanitario, conquista faticosa della nostra Europa, non trovi più posto», ha dichiarato il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, in occasione dell’apertura di una nuova residenza vescovile a Skopje, in Macedonia. Una delle nazio-

Bambini siriani vanno a scuola, in una fredda mattina nel campo profughi di Nizip, in Turchia, ai confini con la Siria

ni crocevia nell’esodo dei profughi siriani.

Fabíola Ortiz/IPS

In Europa asilo solo per l‘1,4% dei profughi siriani

La decisione dell’Unione europea di rinviare in Turchia i profughi siriani in arrivo sulle proprie coste è figlia di una scelta politica dettata da quella che viene definita “un’emergenza”.

Tanto grande da alimentare nella popolazione la paura di essere “invasi”. Di qui la crescita esponenziale dei partiti e dei movimenti che cavalcano la chiusura delle frontiere come la soluzione al problema dei migranti.

Eppure la realtà è molto diversa da quella immaginata. I Paesi

ricchi (non solo europei) hanno infatti accolto un numero estremamente conte-

Accoglienza migranti. Uno studio dimostra come solo tre Paesi hanno fatto quanto risultava possibile: Canada, Germania e Norvegia 56 Scarp de’ tenis maggio 2016

nuto di profughi in fuga dalla guerra in Siria: un rapporto pubblicato dalla Ong Oxfam alla fine di marzo ha spiegato che in totale solamente 67 mila persone hanno ricevuto asilo nelle nazioni più agiate del mondo. Su un to-

tale di 4,8 milioni di siriani che hanno abbandonato la loro terra, rifugiandosi per la maggior parte nelle nazioni limitrofe: in Libano, ad esempio, dove ormai un abitante su cinque è un profugo. O in Giordania, dove i migranti siriani rappresentano il 10 per cento della popolazione. «Ma si tratta di Paesi con economie fragili, incapaci di sopportare una responsabilità così grande», ha denunciato Winnie Byanyima, presidente dell’associazione umanitaria.

Secondo quest’ultima, infatti, il mondo ricco potrebbe accoglie-

IL PUNTO

www.bild.de

re almeno il 10% dei profughi, ovvero circa 480 mila persone. Contro le 129 mila che l’insieme dei Paesi avanzati ha dichiarato di voler far entrare sui loro territori: delle promesse insufficienti e che, per giunta, nel loro complesso sono state mantenute solamente al 50%. Oxfam ha inveLA CURIOSITÀ

Germania, il leader estremista salvato dai profughi siriani La notizia è stata riportata dal quotidiano Repubblica, e ha davvero l’aria di un contrappasso. Stefan Jagsch, ventinove anni, dirigente del partito nazionaldemocratico di estrema destra che alle ultime elezioni regionali ha ottenuto un boom di voti, ha avuto un incidente stradale nella regione dell’Assia. L’uomo si è ritrovato incastrato tra le lamiere. A salvarlo è stato un gruppo di profughi siriani, che passavano proprio sulla stessa strada (erano diretti ad un centro di accoglienza nei pressi di Buedingen). «I migranti - ha spiegato il quotidiano - sono riusciti ad estrarlo dalla vettura, gli hanno prestato le prime cure e hanno chiamato un’ambulanza». Chissà se l’episodio sarà sufficiente per far riflettere il giovane neofascista.

ce indicato quello che ha definito un quantitativo “equo” di profughi che ciascun governo ricco dovrebbe accettare. Un parametro individuato tenendo conto della ricchezza economica degli Stati, ma anche, ad esempio, di quanto gli stessi hanno devoluto in termini di aiuti umanitari. Ebbene,

sulla base di questi dati, la Ong ha spiegato che solamente tre Paesi hanno fatto quanto risultava nelle loro possibilità: si tratta di Canada, Germania e Norvegia.

Altre cinque nazioni - Australia, Finlandia, Islanda, Svezia e Nuova Zelanda - hanno invece accolto circa la metà dei profughi che potenzialmente potrebbero far arrivare, mentre tutti gli altri (una ventina di Paesi) hanno fatto meno, se non molto meno rispetto a ciò che potrebbero.

Traducendo il tutto in termini concreti, secondo Oxfam una

nazione come la Francia, ad esempio, possiede i mezzi necessari per accogliere 26 mila profughi, mentre per ora si è ufficialmente impegnata solo per mille di loro.

Ancora, gli Stati Uniti potrebbero aprire le porte a 171 mila siriani, mentre per ora hanno annunciato solo 1.812 arrivi. E l’Italia ha promesso di accogliere 1.400 profughi, mentre il livello che secondo l’associazione umanitaria sarebbe “equo” è pari a 21.519. maggio 2016 Scarp de’ tenis

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Cronaca di uno sbarco “ordinario” di Stefania Marino

Cronaca di uno sbarco. Il 30 marzo, arriva la notizia del primo sbarco del 2016 di migranti a Salerno. Dalle prime informazioni giunte in Prefettura, a bordo della nave norvegese Siem Pilot operante nel Mediterraneo nell’ambito dell’Operazione Frontex, ci sono 40 minori. Non si sa di che età, non si sa se accompagnati. È il 1 aprile. Alle 8 di mattina, la nave attracca al porto di Salerno.

Iniziano le operazioni di sbarco.

Scendono per prima le donne, alcune portano i loro bambini in braccio. Quelli più grandi stanno

vicini vicini alle loro mamme, quasi aggrappati alle loro vesti. C’è qualcuno che forse è spaventato da quella moltitudine di gente che li aspetta, con le divise delle organizzazioni umanitarie e delle forze armate. Bambini

Scarp era sul molo di Salerno, pochi giorni fa, il 1 aprile, quando è attraccata la nave norvegese Siem Pilot con il suo carico di umanità. Ve lo raccontiamo.

Con qualche dato che fa pensare: dal 2014 a oggi, solo a Salerno, sono sbarcati circa 400 minori 58 Scarp de’ tenis maggio 2016

che arretrano, si impuntano, piangono. Bambini che dormono tra le braccia dei genitori, stremati anche loro dopo un viaggio durato giorni, e provati per le basse temperature notturne, dal ricordo del buio nero del mare di notte. Alcuni poggiano i piedi nudi sulle scalette che dividono la nave dalla banchina del molo. Non hanno più le scarpe. Prima

VENTUNO no indirizzati dalla Prefettura di Salerno verso le strutture di accoglienza individuate dal Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno, parte la corsa per trovare “posto” nelle comunità alloggio. Caliulo ci dice che nessuno si aspettava un numero così alto di minori. Le ore passano e sul Molo Manfredi, Caliulo procede a stilare i verbale per l’affidamento dei minori. Alle 8 di sera, dopo dodici ore, missione compiuta. I ragazzi salgono sui pulmini per raggiungere le comunità alloggio individuate in provincia di Napoli, Caserta, Bari, Salerno.

Una donna con un bimbo in braccio sbarca il 1 aprile al porto di Salerno. Nell’altra pagina un’immagine dello scorso luglio.

La scena si ripete

di essere accompagnati sotto le tende dell’Ufficio Stranieri della Questura di Salerno per l’identificazione, ai migranti scalzi vengono date delle ciabatte. Tra i mille volti

che si affacciano per toccare terra ci sono delle donne incinte. Sono somale, eritree.

Con lunghe vesti e i veli che coprono il capo. Tutte giovanissime. Una di loro mentre cam-

I medici dell’Asl di Salerno non rilevano tra i migranti casi di patologie gravi.

Certo davanti a così tanti minori, così piccoli, ci si chiede dove hanno trovato il coraggio di affrontare un viaggio così duro, senza nessuno su cui riversare angosce e paure

mina non si regge per la fatica e si accascia a terra. Viene soccorsa e accompagnata sotto la tenda della Croce Rossa.

I medici dell’Asl di Salerno non rilevano tra i migranti casi di patologie particolari. Durante ogni sbarco si riscontra sempre la presenza di minori soli, per la legge minori stranieri non accompagnati. Per questo motivo, sono presenti i funzionari e gli addetti dell’Ufficio delle Politiche Sociali del Comune di Salerno. È sempre il 1 aprile. Man mano che le ore passano, e i migranti dopo l’identificazione vengono fatti salire sui pullman diretti in varie regioni d’Italia, sul Molo Manfredi ci si rende conto che cresce il numero di minori completamente soli. Tra loro anche ragazzini di appena dodici, tredici, quattordici anni. L’immagine dell’infanzia.

Rosario Caliulo è il dirigente del settore Politiche Sociali del Comune di Salerno.

Da tre anni gestisce gli sbarchi, undici fino ad ora, quelli del 2014 nell’ambito dell’operazione Mare Nostrum e quelli del 2015. Sempre lì con i suoi collaboratori a registrare i minori stranieri non accompagnati (Msna) e a indirizzarli verso le comunità alloggio. Lo scorso 1 aprile, nel primo pomeriggio, ad un certo punto i Msna dichiarati erano 104.

La maggior parte di nazionalità egiziana, ma sono presenti anche alcuni somali. Piccoli, esili, smarri-

ti, soli. Non si conoscono tra di loro, ognuno è partito per conto suo. Sono seduti lì uno accanto all’altro. Non sanno dove andranno. Ci chiediamo, così piccoli, dove hanno trovato il coraggio di affrontare un viaggio così duro, senza nessuno su cui riversare la paura e l’angoscia. Ci chiediamo se hanno un padre e una madre. Se hanno pianto quando hanno lasciato la loro casa e il loro Paese. Gli viene portato da mangiare e da bere. Per alcuni di loro più grandicelli è necessario l’accertamento dell’età dichiarata attraverso la radiografia del polso. Mentre i circa 400 adulti vengono mano ma-

Le canzoni di Lamin Qui potranno lavarsi, cambiarsi, avere poi un permesso di soggiorno per minore età, andare a scuola. Anche in passato ci si trovò ad affrontare emergenze simili ma con una struttura logistica diversa. Accadde il 19 luglio del 2014 quando a Salerno attraccò la Nave Etna della Marina Militare da cui scese una fila interminabile di migranti: 2.200. Allora, furono 70 i minori stranieri non accompagnati, di diverse nazionalità soprattutto subsahariani.

In quel caso, c’era una struttura allestita dalla Protezione Civile che servì da appoggio per l’accoglienza.

Una struttura che è stata utilizzata per una settimana. Caliulo ci racconta quell’esperienza non nascondendo la parte emotiva che accompagna quei ricordi, ci racconta del sostegno dell’amministrazione comunale, della solidarietà dei commercianti e dei ristoratori. Come ad esempio una sera quando per quei 70 ragazzini arrivarono le pizze e gli spaghetti. Le magliette.

Alcuni di quei «ragazzi del 19 luglio»come Caliulo li chiama, sono rimasti a Salerno. Di alcuni di loro ne è stato tutore. Con orgoglio “paterno” ci racconta dei successi conseguiti, alcuni frequentano un Istituto professionale, e c’è chi invece ha tirato fuori il suo talento musicale. Come Lamin, che ha già scritto e musicato sei canzoni. Dall’inizio del 2014 ad oggi sono sbarcati a Salerno, circa 400 minori stranieri non accompagnati. maggio 2016 Scarp de’ tenis

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INCONTRI

LABORATORI

AUTOBIOGRAFIE

CALEIDOSCOPIO

Simeon con le sue percussioni prodotte in casa pronto per una delle sue performance: «A Milano mi trovo bene: la gente è bella»

Simeon, maestro di ritmo: dalla Russia a Milano Le percussioni per Simeon sono una scuola di vita. Nato in Bulgaria, è cresciuto in Urss, a Mosca, dove i suoi lavoravano. Qui ha fatto gli studi: liceo, scuola statale di musica e scuola di falegnameria. A 11 anni lascia il corso di pianoforte per iscriversi a batteria dove si diploma pochi anni dopo. Con la caduta del socialismo scappa in Italia. Si trasferisce in Calabria, qui lavora con una cooperativa agricola raccogliendo arance e olive a seconda del periodo. Riprende a suonare la batteria e con diversi gruppi gira il sud in lungo e largo. A Milano inizia a collaborare con diversi cantautori tra cui Vinicio Capossela. Quattro anni fa prova a suonare in strada con la batteria ma i vigili glielo vietano perché recava disturbo e gli consigliano invece di creare uno strumento non convenzionale. Così Simeon ha iniziato a creare strumenti a percussione fatti di cartone o utilizzando pentolini e bidoni vuoti di vernice. «I ricordi belli sono tanti, gente che si ferma a ballare, altri che mi chiedono lezioni con questi Antonio Vanzillotta strumenti. Questa città offre tutto ciò che una persona cerca. La gente è bella e affabile: mi trovo bene». maggio 2016 Scarp de’ tenis

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PAROLE

Un uomo e il suo sogno: un patrimonio da valorizzare Vincenzo Falcone in compagnia della redazione di Scarp Napoli.

Nella foto a lato Enzo con la foto della bottega storica

Vincenzo mastro artigiano, da 80 anni difende la bellezza L’artigianato a Napoli negli anni floridi, quelli in cui si stava bene anche con poco, dava lavoro a tante persone e assicurava guadagni, magari non stratosferici, ma capaci di garantire di vivere dignitosamente nella società civile a una larga fascia di persone.

Con il passare degli anni e in seguito all’avvento delle nuove tecnologie, il declino di diverse attività è stato evidente e repentino, al punto tale da impoverire e svuotare interi settori di mercato.

Vincenzo Falcone, proprietario di una nota tipografia che si trova a piazza Mercato, racconta il vissuto di un lavoro portato avanti amorevolmente da tanti anni.

Vincenzo è figlio d’arte. Dopo il diploma liceale decide di continuare l’operato del padre portando nel suo laboratorio di tipografia tutte le innovazioni del setore, cercando di migliorare costantemente i prodotti, garantendo un servizio qualitativamente sempre preciso all’affezionata clientela.

Passono gli anni e, complice anche l’avvento di nuove tecnologie che aprono il mercato, la crisi incomincia a farsi avanti inesorabilmente. L’attività traballa, in un modo implacabile, ineluttabile, costringendo Vincenzo a chiudere i battenti.

I macchinari vengono messi in un deposito. Vincenzo ormai ha 80 anni, anche se non li dimostra, e oggi vive con una pensione di poche centinaia di euro al mese. Dopo la cessazione dell’attività, il suo impegno principale è stato quello di creare un museo della tipografia e di promuovere il commercio a piazza Mercato che ha una tradizione di negozi molto antica. Vincenzo è il presidente dell’associazione culturale Storico Borgo Sant’Eligio che, ogni anno, promuove nel periodo di Natale la rassegna “Arte in Vetrina” che dà l’occasione a tanti pittori bravi ma poco conosciuti di esporre i loro quadri di apprezzabile fattura, nelle vetrine dei negozi della zona di piazza Mercato.

Sergio Gatto

62 Scarp de’ tenis maggio 2016

PAROLE

Tempo Il tempo di un tempo non ferma il tempo Il progresso avanza la storia imprime la sua memoria che con tenacia ed esperienza percorre la strada ovunque vada Il tempo di un tempo non ferma il tempo.

Antonio Zacco

Prima di incontrare Enzo Falcone, vecchio, quasi antico tipografo napoletano, non mi ero mai soffermato a pensare quanto, fosse difficile aprire un museo.

Perché è proprio questo che il nostro vuol fare: ottenere dai locali del comune di Napoli e organizzare un museolaboratorio della tipografia.

Lui possiede molte macchine, antiche, antichissime e moderne in grado di realizzare tutte le tecniche di stampa possibili e conosciute e pensa, giustamente, sia un peccato non far conoscere ai giovani tutto ciò. Purtroppo la burocrazia è quello che è e le istituzioni, tutte, sono famose per la scarsa lungimiranza e attenzione verso tutto quello che non dà un immediato risultato, o almeno una visibilità politica e proprio per questo spero che il signor Enzo ce la faccia. Quel giorno per lui sarà una vera vittoria la bella chiusura di un cerchio durato una vita, e il museo della tipografia, proprio qui a Napoli che ai tempi dell’unità d’Italia contava ben 133 stamperie, sarà una realtà.

Bruno Limone

NAPOLI

Enzo che sogna un museo dove mostrare i suoi segreti Da anni sta cercando di convincere il comune ad aprire uno spazio espositivo dove mettere in mostra il suo “patrimonio” Enzo Falcone un tipografo di 80 anni ci ha raccontato, quando siamo andati a trovarlo, a Sant’Eligio zona Piazza Mercato, un po’ della storia della sua tipografia nata nel 1922.

Il padre di Enzo, Giovanni, cominciò con una piccola macchina a mano e l’anno successivo comprò la famosa “pedalina” che funzionava sia con la corrente elettrica che a pedale, l’unica che riusciva a stampare nel corso dell’ultima guerra quando mancava la luce. Enzo è cresciuto in tipografia e fin da bambino si incuriosiva a tutti quei pezzetti di piombo con lettere a sbalzo che messi in fila formavano la riga e si usavano per stampare libri, inviti, etichette.

Negli anni ’40 il padre Giovanni gli faceva vedere come fare e lui eseguiva su un piccolo compositoio che conserva ancora oggi.

Dopo la tecnica tipografica con la stampa a caldo, hanno cominciato a fare la stampa a rilievo, la stampa a colori sfumata con un solo passaggio, poi la stampa offset, quella serigrafica e la stampa di etichette in bobina e su nastro di stoffa.

Nel 1980 Enzo è diventato titolare della ditta e si è adeguato alla fotocomposizione, all’uso del computer e delle macchine per la stampa digitale.

La sua vita è stata tutta dedicata alla tipografia, conosce tutti i segreti di quest’arte e possiede tanti macchinari che sono stati usati nel corso del secolo scorso. Molti sono in deposito altri, come la famosa pedalina li abbiamo visti nel suo piccolo laboratorio.

Il suo sogno oggi è veder aperto un museo laboratorio di arti tipografiche, dove mostrare a tutti oltre alle macchine, anche la sua collezione di disegni, bozzetti a colori, riviste gra-

fiche e stampati che partono dal 1930 e arrivano fino ad oggi. Gli piacerebbe insegnare ai giovani tutti i trucchi del mestiere Ha proposto tante volte il suo progetto al Comune di Napoli che dovrebbe mettere a disposizione dei locali a Piazza Mercato dove metter in mostra tutto questo patrimonio.

Ma finora non ha avuto una risposta concreta. Un’altra cosa che mi ha colpito del suo racconto sulla tipografia e sulla stampa dei libri, è stata la nascita del libro sulle regole del tressette avvenuto nel 1840 grazie al monaco Marcello Chitarrella che pensò di stamparlo proprio a Napoli dove esisteva una forte tradizione di stampa anche clandestina.

Il libro del tressettecontribuì a far diffondere questo gioco da Napoli in tutta l’Italia del Sud. Massimo De Filippis

VICENZA

A Vicenza attivi gli angeli di periferia: il degrado si può battere con la socialità Vicenza è una città fortunata. Qui non esistono interi quartieri degradati e il merito va dato a una comunità coesa che resiste e combatte contro l’abbandono e la ghettizzazione di situazioni a rischio. L’ultimo caso eclatante ha riguardato un condominio in zona San Lazzaro, il Campiello, che sorge quasi di fronte alla chiesa che porta il nome del quartiere. Anno dopo anno la situazione era degenerata al punto che l’intero edificio era caduto in mano a persone dedite alla delinquenza che spadroneggiavano alla grande, rendendo impossibile la vita degli inquilini.

Sulla situazione ci aggiorna il parroco, don Pino Arcaro: «Dopo momenti non certamente semplici da qualche tempo la situazione al Campiello si è normalizzata – racconta –. Questo grazie all’intervento deciso dal Comune e, soprattutto, all’azione dell’amministratore dello stabile che è una persona molto energica ed attenta».

Due interventi importanti ma che, da soli, non spiegano come si sia potuta risolvere la questione. A Vicenza sono tantissimi i comitati di quartiere, promossi dai cittadini, che vigilano per la protezione del verde contro la cementificazione. A San Lazzaro è attivo il comitato dei Pomari che, grazie all’esperienza maturata nella trentennale battaglia per trasformare in parco la zona delle ex fornaci, da tempo si batte per destinare a parco le ultime aree verdi della zona.

Un tessuto sociale molto vivo e stimolante, dunque, in cui la cittadinanza opera, stimolata da questi movimenti, dando vita a realtà che poi animano le zone.

«Anche la mia parrocchia – spiega ancora don Pino – non potrebbe “resistere” al degrado senza il lavoro di animazione e formazione che quotidianamente portiamo avanti con i ragazzi.

Fondamentale anche l’azione promossa dalla Caritas parrocchiale che supporta le famiglie più povere, incidendo non poco sul cambiamento, così come il centro diurno per persone disabili mentali “Davide & Golia”. Insomma se si fa animazione, se si crea movimento di opinione, il degrado regredisce».

Cristina Salviati maggio 2016 Scarp de’ tenis

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CALEIDOSCOPIO

Libero come il vento Un gabbiano che vola sulle onde del mare così come il vento così libero anche io vorrei volare spensierato vedere il mondo dall’alto che non ho mai visto.

Vorrei essere un gabbiano che vola così leggero vedere come pesca per mangiare come lui vorrei fare galleggiare sul mare e poi volare libero come il vento.

Umberto D’Amico

Ricordo il mio paese Mi ricordo ancor bambino una quiete al mio paese, erano quasi tutti emigrati con la speranza che un dì sarebbero ritornati.

Prati verdi e fiori dove tutto il giorno pigro s’allungava il baglior del sole, or s’avverte in ogni passante un inquieto mesto viandante.

Non v’è nulla che immobile resta se non l’aria che resta sospesa sulla magica solitudine, con i venti che scuotono gli alberi ululanti come gemiti umani.

Venti che trascinano le nubi irrequiete dall’alba al tramonto, che copiose percorrono il cielo ricoprendo i monti con il manto di velo.

Gaetano “Toni” Grieco

64 Scarp de’ tenis maggio 2016

“Pianto notturno”, senza dignità non siamo nulla di Nicolò Tagliabue

«Com’è andata?».

«Nulla, non c’era nulla. Nulla».

«Non, non importa Beppe, non importa.

Metto su un po’ di brodo? Va bene?».

«Va bene Pina, per me poco, voglio solo andare a letto. Vado io a prendere l’acqua».

Beppe si rimise addosso la vecchia giacca, un lungo impermeabile verde militare che aveva comprato coi primi soldi guadagnati in gioventù. Raccolse il mazzo di chiavi dal tavolino e uscì di casa con lo sguardo sommesso. Arrivato fuori il freddo lo fece rabbrividire, si chiuse la giacca e partì verso la fontanella.

«Ecco Pina, ecco l’acqua».

«Grazie, sei sempre un tesoro. Sarai stanchissimo, che giro hai fatto stasera?».

«Il solito: dietro casa, gli isolati qua intorno, sono andato fino oltre la chiesa. Almeno fosse servito a qualcosa. Scusa Pina, non ti meriti tutto questo».

«Ma non dire sciocchezze. Senza di te non saprei neanche cosa farmene di questa vita. Vai sul letto un momento. Ti chiamo quando è pronto».

«Beppe» disse Pina mentre si chinava verso di lui facendo schioccare le proprie labbra sulle profonde rughe delle guance del marito «È pronto».

Mentre mangiavano Beppe non faceva altro che guardare il proprio piatto e schifarsi della tristezza del contenuto.

«Era proprio buono, sai?» le disse infine quando ebbe terminato; Pina, consapevole della tremenda bugia del marito, come ogni sera controbattè, giusto per dargli l’illusione di crederci.

«Va’ pure a dormire, metto a posto io».

Beppe rimase solo in quella che non riconosceva più come casa propria, la cucina si confondeva con le altre stanze. La sua casa era quella colorata, piena di quelle inutili suppellettili che ora tanto rimpiangeva, non questa scatola vuota dalle pareti ingrigite. Si guardò intorno: 1, 2, 3, 4. Quattro mobili in tutta la casa. Tavolo, tavolino, letto, cassapanca del bagno. Vuoto. Tutto quanto, tutto il resto della casa era vuoto. Quattro inutili e schifosi mobili rimasti nella sua casa.

La lacrima che gli scese dagli occhi dovette superare i mille avvallamenti del volto prima di schiantarsi a terra.

Tick. Il rumore gli ricordò di non avere neanche più un tappeto. Quando arrivò nella camera da letto Pina già dormiva. Fece piano. Posò gli occhiali sul tavolino, ma la vista non peggiorò di molto. Da quando aveva fatto fare le lenti erano passati 10 anni e 2 diottrie e mezzo, ma non aveva mai potuto cambiarle; gli occhiali gli servivano a ricordargli di possedere un naso più che a fargli funzionare gli occhi. Si sedette sul letto. Pensieroso e malinconico.

Tick. Un’altra lacrima era riuscita a cadere. Non sapeva come dire a Pina cosa era successo quella sera di tanto diverso. Di terribilmente schietto e diverso. Sussurrò. «È arrivato un bambino, stasera. Avrà avuto 4 anni. Mi ricordava tanto il nostro Mattia. Te lo ricordi Mattia, vero? Come dimenticarlo, come dimenticare il suo sorriso che ci osservava curioso dalle finestre dell’ospedale, mentre i medici ci elencavano una ad una le ore di vita rimaste. Mattia sorrideva, sempre» mormorò nostalgico.

«Stasera il papà teneva la mano al bambino che mi guardava fare ciò che pensava impossibile. E poi ha chiesto al papà: perché quel signore guarda nella spazzatura?».

Tick.

Tick.

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I metodi alternativi di ricerca sono in forte espansione visti i prezzi più bassi ma in alcuni casi si utilizzano ancora cavie

Sperimentazione animale: un male ancora necessario? di Federico Baglioni

scheda Federico Baglioni Biotecnologo, divulgatore e animatore scientifico, scrive sia su testate di settore (Le Scienze, Oggi Scienza), che su quelle generaliste (Today, Wired, Il Fatto Quotidiano). Ha fatto parte del programma RAI Nautilus ed è coordinatore nazionale del movimento culturale “Italia Unita Per La Scienza”, con il quale organizza eventi contro la disinformazione scientifica.

La sperimentazione animale è un tema fortemente controverso e che divide.

Cerchiamo di capire cosa c’è di vero e quali sono i dati a livello scientifico. Si sente spesso parlare di vivisezione come pratica crudele e inutile ancora in uso nei laboratori. Come stanno le cose? Fortunatamente la “vivisezione”, intesa come taglio di animale da sveglio, non esiste più da decenni: oggi quasi tutti gli esperimenti sono effettuati sotto anestesia per evitare dolori agli animali.

La sperimentazione animale nel corso dei secoli ha permesso di scoprire il funzionamento degli organismi ed è stata essenziale per la scoperta di quasi tutti i farmaci, antibiotici, vaccini e prati-

che chirurgiche che oggi diamo per scontati. Fortunatamente oggi, a differenza del passato, la sensibilità verso le condizioni animali è decisamente più forte, motivo per cui esistono leggi molto stringenti per l’uso di animali a fini di ricerca, che impongono tutta una serie di buone prassi da mantenere nei laboratori per ridurre al minimo lo stress degli animali: se gli animali sono stressati, infatti, gli esperimenti sono poco utili a livello scientifico.

Utilizzati topi e ratti Possibile che nel 2016 ancora sia necessario utilizzare animali?

Purtroppo sì, almeno in alcune circostanze. I cosiddetti “metodi alternativi”, cioè metodi al computer o su cellule e organi, sono infatti in fortissima espansione, sono molto più economici e per-

SCIENZE

mettono di studiare un sacco di aspetti fondamentali, ad esempio sul meccanismo di nuovi farmaci.

Tuttavia non si è ancora in grado di riprodurre su semplici cellule la complessità di un organismo, essenziale per valutare ad esempio come un farmaco si comporta nel circolo sanguigno e come raggiunge o meno i vari organi.

La sperimentazione animale, dunque, non è una pratica cruenta e crudele come spesso si pensa, ma una pratica molto diversa da quella di un tempo e che purtroppo è ancora necessaria, soprattutto per studiare le tante malattie che non hanno ancora una cura.

Oggi gli esperimenti su animali vengono comunque effettuati solo in mancanza di metodi alternativi efficaci e soprattutto su specie a basso livello neurologico come topi e ratti. Inoltre vi sono apposite leggi per garantire agli animali una vita dignitosa, grazie a un’alimentazione controllata, un ambiente pulito e l’uso di anestesia, analgesia ed eutanasia per evitare ogni tipo di sofferenza.

Speranza per il futuro La speranza è che grazie agli avanzamenti scientifici ci sia sempre meno bisogno dell’uso di animali fino a quando non si potranno davvero effettuare tutti gli esperimenti necessari con metodi alternativi. Fino ad allora, e gli scienziati sono concordi, gli animali saranno ancora fondamentali per la cura delle malattie, sia dell’uomo che degli animali.

Per approfondimenti Topi dietro le sbarre: cosa bisogna sapere sulla sperimentazione animale C1V Edizioni

maggio 2016 Scarp de’ tenis

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Le persone in stato di difficoltà a cui Scarp de’ tenis ha dato lavoro nel 2015 (venditori-disegnatori-collaboratori).

In 20 anni di storia ha aiutato oltre 800 persone a ritrovare la propria dignità

IL VENDITORE DEL MESE

Alberto in pochissimo tempo è riuscito a lasciarsi alle spalle la strada e trovare casa e lavoro: «Scarp mi ha fatto ritrovare la fiducia»

Alberto Dopo la strada ho casa e lavoro: «Scarp mi ha ridato la dignità» di Salvatore Couchoud

info La redazione di Como collabora da molti anni con Scarp. Grazie all’instancabile lavoro di Caritas e della nostra Cecilia Gossetti, negli ultimi due anni, con soli tre venditori all’attivo, ha portato le sue vendite a 4 mila copie all’anno.

66 Scarp de’ tenis maggio 2016

COMO

Dalla casa alla strada e ritorno, in un battere di ciglia o poco più. Se c’è una persona caduta in disgrazia che ha bruciato le tappe nel risollevarsi, grazie a Scarp de’ tenis, questa è certamente il comasco Alberto Marzorati, passato dall’abitazione alla strada e da questa a un alloggio housing firstin neanche due anni.

In mezzo il lavoro di venditore della rivista, che ha rappresentato la svolta nel senso reale del termine, come il 60enne ex operaio di una fabbrica di legnami è il primo a sottolineare.

«Senza l’attività di venditore non sarei stato accolto all’Ozanam, dove è richiesto un “progetto minimo” di reinserimento. Da lì il passo verso il mio personale riscatto è stato, poi, relativamente breve, perché ho frequentato un corso di assistente familiare che mi ha permesso di trovare un lavoro nella struttura del centro diurno Ozanam di via Leoni.

Questo il motivo per cui, seppure a malincuore, ho dovuto abbandonare la vendita della rivista. L’unica cosa che so è che senza quel 2015 pas-

sato con Scarp ora dormirei probabilmente ancora alla stazione di San Giovanni».

Dormire in strada non è la semplice mancanza di un tetto sopra la testa ma l’annullamento della speranza, la mancanza di una prospettiva. Ed è qui che entra in gioco Scarp.

«Sembrerà strano –continua Alberto, ma la mia gratitudine verso Scarp de’ tenis va ben aldilà dei soldi che mi ha permesso di guadagnare dopo lunghi mesi di magra. Quello che il lavoro di venditore mi ha assicurato è la possibilità di rimettermi in pista, facendomi circolare tra parrocchie e paesi che non conoscevo, permettendomi di ritrovare quel contatto con le persone che avevo perduto da tempo o forse mai del tutto avuto a causa del mio carattere chiuso e non aperto alle relazioni.

Ora sono diventato solo un lettore di Scarp, e già mi manca quel rapporto con la gente che avevo instaurato non senza qualche fatica iniziale. Ma la fiducia in me stesso che ho recuperato, ne sono certo, non mi abbandonerà più. E di questo sono debitore a Scarp da’ tenis».

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