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LA STORIA

NEI LUOGHI AMATI DAI NAZISTI ORA SI ACCOLGONO I MIGRANTI

ANTONIETTA MISSIONARIA A MILANO LA SUORA CHE INSEGNA L’ITALIANO AI CINESI

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Spedizione in abbonamento postale 45% articolo 2, comma 20/B, legge 662/96, Milano

luglio 2016 anno 21 numero 203

L’oro di Rio è il sorriso di Bebe BEATRICE MARIA VIO, PER TUTTI BEBE, 19 ANNI, DA MOGLIANO VENETO, SARÀ TRA LE PROTAGONISTE DELLE PARALIMPIADI A SETTEMBRE IN BRASILE. LA SUA È UNA STORIA CHE MERITA DI ESSERE RACCONTATA



EDITORIALE

Quante idee dal Summit dei giornali di strada

LA PROVOCAZIONE

I diritti dei deboli non sono diritti deboli di Luciano Gualzetti direttore Caritas Ambrosiana

di Stefano Lampertico [

@stefanolamp ]

Sono rientrato da pochi giorni da Atene, dove si è tenuto il Global Summit dei giornali di strada organizzato da Insp, che è appunto il network internazionale che mette in rete più di 120 streetmagazine di tutto il mondo. È stata una settimana densa di appuntamenti e molto ricca di contenuti, utile per capire le diverse esperienze, per cogliere le idee più innovative, per capire quali modelli replicare e quali progetti poter sviluppare. Era la prima volta per il nostro giornale, che aderisce al network soltanto dallo scorso anno. Da Atene sono ritornato con la valigia piena, non solo dei giornali di strada degli altri Paesi che ho voluto portare in redazione, ma anche e soprattutto di idee e contenuti. Il respiro inter-

nazionale insieme alle potenzialità che la rete esprime sono davvero significative. Voglio darvi solo questo numero. L’intervista esclusiva a Papa Francesco realizzata dai colleghi olandesi di Straatnews

lo scorso ottobre per i giornali di strada di tutto il mondo, è stata pubblicata, oltre che da Scarp de’ tenis in esclusiva per l’Italia, da 61 giornali di strada di 27 Paesi differenti. Dall’Australia all’Argentina, dagli Stati Uniti alla Norvegia. Per un target di lettori stimato in oltre 6 milioni di persone.

Numeri che dimostrano quanto sia importante il ruolo giocato dai giornali di strada nel campo dell’informazione sia sul piano della capacità di “incidere” sull’opinione pubblica sia sul piano dei contenuti, quelli che difficilmente trovano posto sulle pagine dei media tradizionali, sia infine sulla capacità di reddito generata da un movimento globale che permette a migliaia di venditori di poter godere di un reddito minimo garantito o di una integrazione al reddito stesso. Sui contenuti del giornale.

Si avvicinano le olimpiadi di Rio de Janeiro. Le raccontiamo a modo nostro. Con la storia, bellissima, di Bebe Vio, la giovane atleta ritratta in copertina che parteciperà alle Paralimpiadi nella scherma. Bebe ha perso, per una malattia, gambe e braccia. Ma il suo sorriso per noi è l’oro di Rio.

L’intervista a Papa Francesco è stata pubblicata da 62 giornali di strada di tutto il mondo e ha raggiunto un target di lettori superiore ai 6 milioni di persone

contatti Per commenti, idee, opinioni e proposte: mail scarp@coopoltre.it facebook scarp de tenis twitter @scarpdetenis www.scarpdetenis.it instagram scarpdetenis

Il Cardinale Tettamanzi, qualche anno fa, lo sottolineava con forza. I poveri non vanno solo assistiti ma hanno diritti fondamentali che devono essere difesi e tutelati. L’attenzione al rispetto della dignità delle persone passa attraverso un’azione che certo sostiene le difficoltà personali e familiari con aiuti immediati, ma lo sguardo deve essere sempre attento a dare giustizia. A prevenire, a volte denunciando, le violenze che passano da piccoli o grandi soprusi, ma soprattutto dall’indifferenza di chi dice: “Non mi riguarda”. L’azione educativa della Caritas è rivolta, oltre che ai singoli cittadini, alle istituzioni. Abbiamo bisogno di istituzioni forti che partano anch’esse dalla difesa scrupolosa dei diritti dei deboli. Perché i forti hanno diversi strumenti per far rispettare i propri. Mentre i poveri spesso non hanno neanche la voce per farsi sentire: sono invisibili. La loro posizione diventa ancora più drammatica quando siamo in presenza di prassi che cedono alla corruzione. Per Papa Francesco è una delle piaghe del nostro tempo: “C’è il martirio del sangue per i cristiani ma anche il martirio di tutti i giorni, il martirio dell’onestà in questo mondo che si può chiamare paradiso delle tangenti” descritte con parole forti come “pane sporco che, attraverso di esse, i genitori fanno mangiare ai loro figli”. Occorre vigilare tutti sulla “cosa pubblica” per resistere alla deriva dell’egoismo, rompere legami clientelari e pressioni di carattere corporativo. Questa azione di vigilanza, insieme alla tutela dei diritti, fa parte dell’azione a favore dei poveri. Non basta la beneficenza e l’elemosina; insieme a queste la Caritas vuole promuovere percorsi di giustizia e legalità perché i diritti dei deboli non siano diritti deboli. luglio 2016 Scarp de’ tenis

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SOMMARIO

Il sorriso di Bebe, e la graphic novel Storie di vita per le letture estive La copertina è splendida e colorata di azzurro. Perché il sorriso di Bebe è splendido e perché per gli azzurri delle Olimpiadi e delle Paralimpiadi di Rio tiferemo tutti insieme tra poche settimane. Speriamo sia anche di buon auspicio per le gare che la giovane atleta ita-

liana disputerà nella scherma. Intanto la sua storia merita di essere letta con attenzione, così come le storie dei rifugiati che, “senza patria”, correranno sotto la bandiera del Comitato Olimpico nelle diverse discipline. Belle storie, ricche di vita, per la lettura estiva di Scarp, che, lo ricordiamo, non va in vacanza e tornerà il prossimo mese con il numero doppio agosto-settembre. Intanto su questo numero ai nostri lettori proponiamo come sempre storie originali, come quelle dei preti

che seguono le comunità cattoliche dei cinesi, o come l’approfondimento sugli abiti usati e sui meccanismi di sharing che tanto vanno per la maggiore. C’è anche un’altra bella novità. Anche Scarp si allinea ai più importanti magazine di qualità che propongono ai lettori graphic novel, ovvero storie realizzate a fumetti. Grazie alla preziosa collaborazione con la Scuola del Fumetto di Milano, su questo numero (e ce ne sarà un’altra già pronta per ottobre) pubblichiamo la prima storia a fumetti.

C’è un fiore di campo che è nato in miniera per soli pochi giorni Di un pianto suo dolce sfiorì in una sera, a nulla le nere mani

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rubriche

servizi

PAG.7 (IN)VISIBILI di Paolo Lambruschi PAG.9 IL TAGLIO di Piero Colaprico PAG.11 PIANI BASSI di Paolo Brivio PAG.12 LA FOTO PAG.18 LE DRITTE di Yamada PAG.19 VISIONI di Sandro Paté PAG.51 VOCI DALL’AFRICA di Davide Maggiore PAG.61 SCIENZE di Federico Baglioni PAG.66 IL VENDITORE DEL MESE

PAG.20 L’INTERVISTA Confortola: «Tanto sacrificio, e sarai campione nella vita» PAG.22 COPERTINA Aspettando Rio. Il sorriso di Bebe Vio PAG.26 DOSSIER Abiti usati, non chiamateli rifiuti PAG.34 MILANO La Messa in cinese di don Zhang PAG.38 LA STORIA Cafè Waldluft. I rifugiati nei luoghi amati da Hitler PAG.40 MILANO Il mutuo aiuto dei senza dimora in biblioteca PAG.42 TORINO La violenza sulle donne si può battere PAG.45 GENOVA Una giornata per conoscere i senza dimora PAG.46 RIMINI Esecuzione: il Kanun colpisce in riviera PAG.48 SUD A Salerno i rifugiati al lavoro per la comunità PAG.52 VENTUNO Le armi dell’Isis arrivano da 25 Paesi diversi PAG.57 CALEIDOSCOPIO Incontri, laboratori, autobiografie PAG.58 NAPOLI Il mare non bagna Napoli. Il richiamo dell’arte alla città PAG.60 COMO Stazione chiusa ai senza dimora PAG.62 GRAPHIC NOVEL “Il ricordo è servito”

Scarp de’ tenis Redazione di strada e giornalistica via degli Olivetani 3, 20123 Milano tel. 02.67.47.90.17 fax 02.67.38.91.12 scarp@coopoltre.it

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Scarp de’ tenis luglio 2016

Direttore responsabile Stefano Lampertico Redazione Ettore Sutti, Francesco Chiavarini, Paolo Brivio

Segretaria di redazione Sabrina Montanarella Responsabile commerciale Max Montecorboli

Redazione di strada Roberto Guaglianone, Antonio Mininni, Lorenzo De Angelis, Alessandro Pezzoni

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Foto Insp, Reuters, archivio Scarp, Stefania Culurgioni Disegni Sergio Gerasi, Gianfranco Florio, Luca Usai, Loris Mazzetti, archivio Scarp, Lucia Resta


da

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Il men

aforisma di Merafina I miei sogni infranti Il modo migliore per realizzare i propri sogni è svegliarsi Il tweet di Aurelio [Il bonazza

@aure1970 ]

(ANSA) - Milano - Milano, bulli insultano e aggrediscono 15enne perché indossa la kippah

Cos’è

Il termine “bullo” è troppo generoso. Preferisco “imbecille” o altre cose che non si possono scrivere.

Scarp de’ tenis è un giornale di strada noprofit nato da un’idea di Pietro Greppi e da un paio di scarpe. È un’impresa sociale che dà voce e opportunità di reinserimento a persone senza dimora o emarginate. È un’occasione di lavoro e un progetto di comunicazione.

i lo stettero a guardar. ni valsero a salvar

Dove vanno i vostri 3,50 euro Sfiorisci bel fiore - tributo a Enzo Jannacci

Vendere il giornale significa lavorare, non fare accattonaggio. Il venditore trattiene una quota sul prezzo di copertina. Contributi e ritenute fiscali li prende in carico l’editore. Quanto resta è destinato a progetti di solidarietà.

Per contattarci

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TOP 15

Città europee più inquinate 1 Fonte: Oms (2015) dati raccolti tra il 2008 e il 2013

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62 Progetto grafico Francesco Camagna Sito web Roberto Monevi Editore Oltre Soc. Coop. via S. Bernardino 4, 20122 Milano Presidente Luciano Gualzetti

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Sofia Ankara Belgrado Sarajevo Budapest Varsavia Lubiana Bucarest Nicosia Bratislava Mosca Roma Berlino Vienna Praga

Registrazione Tribunale di Milano n. 177 del 16 marzo 1996 Stampa Elcograf Spa Verona

PM10: 45 PM10: 58 PM10: 51 PM10: 48 PM10: 33 PM10: 35 PM10: 31 PM10: 40 PM10: N/D PM10: 31 PM10: 33 PM10: 32 PM10: 24 PM10: 27 PM10: 26

PM2,5: 65 PM2,5: 39 PM2,5: 34 PM2,5: 33 PM2,5: 27 PM2,5: 26 PM2,5: 25 PM2,5: 24 PM2,5: 24 PM2,5: 23 PM2,5: 22 PM2,5: 21 PM2,5: 20 PM2,5: 19 PM2,5: 19

Direzione e redazione centrale - Milano Cooperativa Oltre, via degli Olivetani 3 tel. 02.67479017 scarp@coopoltre.it Redazione Torino Via San Massimo 31/C, presso Spazio Laboratorio tel. 3200454758 scarptorino@gmail.com Redazione Genova Fondazione Auxilium, via Bozzano 12 tel. 010.5299528/544 comunicazione@fondazioneauxilium.it Redazione Verona Il Samaritano, via dell’Artigianato 21 tel. 045.8250384 segreteria@ilsamaritanovr.it Redazione Vicenza Caritas Vicenza, Contrà Torretti 38 tel. 0444.304986 scarp@caritas.vicenza.it Redazione Venezia Caritas Venezia, Santa Croce 495/a tel. 041.5289888 info@caritasveneziana.it Redazione Rimini Settimanale Il Ponte, via Cairoli 69 tel 0541.780666 rimini@scarpdetenis.net Redazione Firenze Il Samaritano, via Baracca 150/e tel. 055.3438680 samaritano@caritasfirenze.it Redazione Napoli Cooperativa sociale La Locomotiva via Pietro Trinchera 7 scarp@lalocomotivaonlus.org Redazione Sud Caritas diocesana, Salita Corpo di Cristo, Teggiano (Sa) tel.0975 79578 info@caritasteggianopolicastro.it

Consentita la riproduzione di testi, foto e grafici citando la fonte e inviandoci copia. Questo numero è in vendita dal 2 luglio al 31 luglio

www.insp.ngo luglio 2016 Scarp de’ tenis

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(IN)VISIBILI

Come nel film con Richard Gere C’è solo un cane a vegliarlo

di Paolo Lambruschi

Un uomo e il suo cane ai margini della strada, sotto un ponte, in un rifugio da disperati in una stazione ferroviaria. Un classico delle vite invisibili, vite spesso talmente solitarie e randage che solo un cane può accompagnarle e condividerle. A metà giugno a

Invisibile per tutti tranne che per la sua unica compagnia, che ringhiava, abbaiava, sembrava pronto ad attaccare se qualcuno avesse fatto un passo in più

Catanzaro, una mattina i pendolari della stazione hanno notato un cane che abbaiava per svegliare il padrone, il quale non ne voleva sapere di alzarsi. Poi ha cominciato ad abbaiare come volesse dare l’allarme perché qualcosa non andava. L’uomo era un cinquantenne senza dimora che dopo una giornata a cercare di campare nel capoluogo calabrese, si era trovato un posto per la notte sotto le scale che conducono alla stazione delle Ferrovie della Calabria. Con quel cane aveva instaurato un rapporto privilegiato, dicono. Li vedevano

sempre insieme, condividevano tutto. E all’alba, quando la città si rianimava con suoni e luci, era il suo amico a quattro zampe a dargli la sveglia. Ma quella mattina l’uomo non ne voleva sapere di aprire gli occhi.

scheda

Paolo Lambruschi è nato a Milano nel 1966. Lavora ad Avvenire, come capo degli interni, dopo essere stato per tanti anni inviato. Ha diretto Scarp de’ tenis e il mensile di finanza etica Valori. Nel 2011 ha vinto il prestigioso premio giornalistico “Premiolino” per le inchieste sul traffico di esseri umani nel Sinai.

Non è stato più in grado di aprirli per ricominciare la sua vita di fame, freddo, stenti. Morto per

cause naturali, hanno detto i carabinieri chiamati da un altro homeless svegliato dal cane. I militari prima di avvicinare il cadavere hanno dovuto sudare le proverbiali sette camicie perché il cane non voleva che nessuno toccasse il suo amico. Quel rapporto misterioso e unico che si crea tra animale e padrone lo aveva portato a difendere il corpo immobile dagli estranei. Solo lui doveva vegliarlo, solo lui poteva stare vicino a un uomo che non aveva più nessuno, solo quel cane. Invisibile per tutti,

tranne che per la sua unica compagnia, che ringhiava, abbaiava, sembrava pronto ad attaccare se qualcuno avesse fatto un passo in più. Lo proteggeva come l’uomo faceva ogni giorno con lui. Una scena commovente, che ha richiamato la storia di Hachiko, il cane di razza Akita che dopo la morte improvvisa del padrone per nove anni si recò ogni giorno alla stazione in attesa che tornasse dal lavoro col solito treno. Storia divenuta anche un film con Richard Gere. E proprio l’attore americano è il protagonista di un film che non potevamo non menzionare, Invisibili, che racconta la vita di un homeless di New York. Possiamo vedere con i suoi occhi cosa

capita a chi finisce ai margini, come ogni cosa – anche i bisogni primari – diventi una conquista per chi è senza diritti e ha perso tutto. La realtà americana è diversa, gli homelessnegli Stati Uniti sono un milione e finire sulla strada probabilmente è più facile che in Italia. Ma anche da noi le 50 mila persone che l’Istat stima compongano il popolo degli invisibili non sono poche. Sappiamo che i volontari si danno un gran da fare, che la politica rispetto al buio degli anni ’90 e dei primi anni del decennio, oggi è più sensibile. Ma non basta. Questo film, queste storie di povertà estrema che peraltro negli Usa vengono raccontate con maggiore frequenza con documentari, reportage giornalistici e fotografici e racconti, devono toccare la coscienza di ciascuno di noi, guarirci dal virus dell’indifferenza e aiutarci a rompere queste mortali barriere di solitudine che avvolgono le persone rendendole invisibili. La vittoria di Richard

Gere è riprendere il rapporto con la figlia che aveva perduto. La storia di Catanzaro non ha lieto fine, invece, ma

se passate dalla stazione di Catanzaro e vedete un cane che aspetta, almeno sapete che un uomo è morto meno solo.

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IL TAGLIO

La Waterloo del mojito. Periferie umane perse nel chissenefrega Non criminalizziamo il cocktail, anche se qualcuno se ne beve sei o sette di fila, arrivando a «quota tre o quattro» nel sangue, come a dire che s’è affogato nel gin, tranquilli, sa reggere l’alcol.

di Piero Colaprico

scheda

Piero Colaprico (Putignano 1957), giornalista e scrittore, vive a Milano dal 1976. È inviato speciale di Repubblica, si occupa di giustizia e di cronaca nera. Ha scritto alcuni romanzi, tra cui Trilogia della città di M. (2004), vincitore del Premio Scerbanenco. Una penna tagliente. Come questa rubrica che cura per Scarp.

Non criminalizziamo l’happy hour, dove alzi il calice e «magni» quello che trovi, tanto poi il giorno dopo si digiuna tutti a base di crusca e di acqua rigorosamente non gasata, che gonfia. Non criminalizziamo lo smartphone, anche se vedi tavolini con tre o quattro amici che passano una mezz’ora in religioso silenzio, ognuno a smaltire la sua posta, a visionare youtube, a ridere o incavolarsi o soffrire per le ragioni che ai vicini risultano oscure, sino al chiarificatore: «Ma sì, il mio ragazzo dice se ci lasciamo». Non criminalizziamo la movida, perché in casa non si sta, basta divano, si esce, si gira, si beve, ci si mandano messaggi vocali e filmati, su dove siamo, con chi siamo e persino su «chi» siamo: ma siamo o crediamo di essere? Non criminalizziamo nemmeno l’eterna giovinezza, perché se a 40 anni non hai combinato niente e, magari, ti sei impegnato, non puoi perdere i tuoi sogni: ora, però, se uno sogna di fare il regista, lo scrittore, il pubblicitario o la stilista, si è mai domandato e ha mai verificato sul campo quanto «talento» ha e quanto gliene viene riconosciuto qui e ora? Il genio incompreso? Ormai sono «old age», giuro sulla Bibbia che non ne ho conosciuto nessuno, purtroppo. Intelligenti che non hanno avuto fortuna, sì, ahivoglia. Geni vilipesi dal destino? Zero.

Non criminalizziamo Milano, la città di m., mai sia:

Tu sei la mia periferia, sei poco illuminata e deserta, e un po’ a rischio, mentre io voglio che sotto casa mia si stia bene. Quindi sotto casa tua, veditela tu

eppure quanti milanesi con il drink e lo smarthphone durante la movida vedono i loro amici in condizioni estreme – strafatti, agitati, vicini al collasso, che cadono per terra come se fossero i combattenti alla Waterloo del mojito – e se ne vanno sereni per la loro strada, seguendo altri sms e altri destini? Tutto questo, scusate, viene da dirlo dopo la morte in un parco di Milano di Carlotta, 37 anni, stilista sul web. Una morte misteriosa in alcuni aspetti, ma molto chiara in uno: il passaggio dal ru-

more della festa e dei locali al silenzio di piazza Napoli, dal tavolino carico di risate alla robinia dov’è stata trovata impiccata con la sua sciarpa. A poca distanza, tra gli stessi alberi che circondando l’acquedotto, tre mesi prima una badante polacca era salita su un bidone dell’immondizia, s’era appesa a un rampo e s’era lasciata andare. Due donne così diverse in vita, una che in morte ha occupato le pagine dei giornali, l’altra andata via dalla terra ostile senza nemmeno una «breve» in cronaca. Stessa solitudine, stessa indifferenza, stessa rabbia? Non lo potremo mai sapere, non possiamo fare domande a chi non c’è. Non criminalizziamo infatti l’indifferenza, la rabbia, la solitudine, non criminalizziamo la vita e la morte, non criminalizziamo la politica e le periferie derelitte, non criminalizziamo nemmeno i criminali. Va tutto bene, «non criminalizziamo», non giudichiamo, non osserviamo, anzi, guardate, non parliamone nemmeno. Anzi, scusate, vado a farmi un doppio whisky anch’io.

Meglio se andiamo avanti, smemorati e smagnetizzati, ognuno per sé e Milano per tutti. Scusate anche se le periferie, osiamo dire, non sono geografiche, ma siamo noi: tu sei la mia periferia, sei poco illuminata e deserta, e un po’ a rischio, mentre io voglio che sotto casa mia si stia bene, quindi sotto casa tua veditela tu. Periferie umane s’incontrano davanti a un gin: chi vive, chi muore, chissenefrega, è la legge del prosit, buona movida a tutti. Cioè: a quasi tutti. luglio 2016 Scarp de’ tenis

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PIANI BASSI

HomelessZero Fidatevi del bel Richard...

di Paolo Brivio

Quando le star ci mettono la faccia, c’è sempre di che diffidare. Anche le comparsate umanitarie presentate come più sincere vengono sporcate, o rischiano di esserlo, da un intento ultimo smaccatamente promozionale. Non che commercio e marketing siano da demonizzare. Quan-

do però si ammantano di finta pietà, diventano una delle peggiori incarnazioni della falsità e del cinismo. Roba da far venire l’orticaria, a chi ha davvero a cuore le sorti dei vulnerabili. È raro che le stelle dello sport, dell’intrattenimento, persino del giornalismo muovano un’unghia, se non fiutano una remunerazione. È

la legge del loro business e del loro mondo, e in un certo

l’autore Paolo Brivio, 49 anni, si è appassionato ai giornali ai tempi dell’università. E ha coniugato questa passione-professione con l’esplorazione dei “piani bassi” della nostra società. Direttore di Scarp dal 2005 al 2014, oggi fa il sindaco: pro tempore, perché rimane “giornalista sociale” in servizio permanente effettivo

attore non fa rima per forza con illusionista. E perché ci sono ab-

bracci sinceri, anche sotto i riflettori, così come in privato possono esistere sorrisi di plastica.

Un esempio di convinzione e disinteresse, nel proprio spendersi come testimonial celeberrimo di una causa destinata a non procurare soverchi consensi, è

stato, non più di un mesetto fa, niente meno che Richard Gere. Sì, proprio lui, il divo di Uffi-

ciale e gentiluomo, American gigolò, Pretty Woman e tante pellicole che

Quando le star senso è giusto così: per vendere i lo- mettono la faccia ro prodotti –immateriali, frutto del- per iniziative l’ingegno, diretti alla psiche e all’im- benefiche, maginazione dei fruitori – devono risultare professionalmente capaci, lasciano spesso esteticamente ammalianti, emozio- un retrogusto nalmente attrattivi. Che siano andi cartapesta che eticamente credibili può non essere necessario, ma non è d’im- e conto in banca. paccio: il pubblico si dispone a Spesso, ma maggior benevolenza, se dietro alla bella forma intravede non sempre... Il divo Gere una buona causa. è stato in Italia, Un film, una campagna Dunque, anche se non nascondono a giugno: film e niente di male, le peripezie benefi- messaggi a favore che di vip, star e famosi assortiti la- dei senza dimora, sciano spesso un retrogusto di cartapesta e conto in banca. Spesso, senza pensare però, non vuol dire sempre. Perché troppo al business

hanno fatto la storia del cinema, negli ultimi 40 anni. Gere è venuto in Italia per presentare un film che ha prodotto e in cui ha interpretato il ruolo di un homeless non (ancora) redento. Nel contempo, ha fatto

da “volto” a una campagna, HomelessZero, che ha ambiziosi

obiettivi sociali e politici. Che non l’abbia fatto per un ritorno di immagine, lo dimostrano tre circostanze. Primo, il suo film (Gli invisibili – The time out of mind) arriva nelle sale italiane due anni dopo essere uscito negli Stati Uniti: poiché i botteghini della penisola non promettono mietiture copiose, è evidente che al produttore-at-

tore interessa soprattutto il messaggio, ovvero la densità cul-

turale del film. Secondo, Gere ha scelto di abbinare il suo nome a quello di fio.PSD, le Federazione italiana delle organizzazioni per le persone senza dimora: sigla serissima, ma non certo glamour, tra quelle che popolano il “mercato” del non profit. Terzo, il divo ha dialogato per giorni con persone senza dimora, operatori di settore, politici, ascoltandoli a lungo e facendosi eco delle loro considerazioni, sen-

za limitarsi alla canonica toccata e fuga in favore di flash: chi ha vissuto con lui i giorni di metà giugno, tra Taormina e Roma, garantisce che ci crede davvero. Dunque non è una bolla mediatica. La campagna ha obiettivi nobili e concreti. E vale la pena conoscerla.

Fidatevi di Richard: www.homelesszero.org.

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Situato al confine tra Grecia e Macedonia, il campo profughi di Idomeni è stato aperto a febbraio e ha ospitato circa 9 mila persone. Il 90% dei profughi proviene da tre Paesi: Siria, Afghanistan, Iraq, oltre il 60% sono donne e bambini. A fine maggio è iniziato il 12 Scarp de’ tenis luglio 2016


LA FOTO

REUTERS/Marko Djurica

scheda

Tende vuote, un cartello divelto con la scritta “Idomeni”. La foto scattata nel corso delle operazioni di sgombero e di evacuazione del campo greco ai confini tra Macedonia e Grecia, proprio vicino al villaggio di Idomeni. (26 maggio 2016) courtesy Reuters/INSP

graduale sgombero. Il trasferimento in strutture più piccole e meglio organizzate, avrebbe dovuto avvenire alla presenza di giornalisti, psicologi e operatori umanitari. Di fatto nessuno ha avuto il permesso di essere presente alle operazioni di sgombero luglio 2016 Scarp de’ tenis

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IN BREVE

europa Cresce il “no” agli accordi di libero scambio di Enrico Panero È in corso in Europa una forte mobilitazione contro i trattati di libero scambio che l’Ue sta negoziando a livello internazionale. Si tratta dell’accordo transatlantico sul commercio e gli investimenti con gli Usa (Transatlantic Trade and Investment Partnership Ttip), di un accordo analogo con il Canada (Comprehensive Economic and Trade Agreement - Ceta) e dell’accordo sugli scambi di servizi (Trade in Services Agreement - Tisa) nell’ambito dell’Organizzazione mondiale del commercio. Tali accordi sono negoziati in modo poco trasparente e privilegiano gli interessi di pochi gruppi multinazionali a scapito dei diritti sociali, economici, ambientali e del lavoro, sostengono i promotori di una campagna ormai diffusa a livello europeo. Sono già oltre 1.800 infatti le autorità locali in 12 Paesi dell’Ue che hanno dichiarato i loro territori «zone libere» da questi accordi, sulla base della Dichiarazione di Barcellona approvata nell’aprile scorso da rappresentanti di autorità locali e da 500 organizzazioni di tutta Europa impegnate nella campagna, mentre quasi 3,5 milioni di cittadini hanno sottoscritto una petizione contro tali accordi. In Italia hanno finora approvato una “Mozione Stop Ttip” 95 città e 5 regioni. Chiare le ragioni della mobilitazione europea: «Con la falsa illusione di risollevare l’economia dell’Europa, si assisterà ad una progressiva corsa verso il basso in cui saranno i cittadini e l’ambiente a farne principalmente le spese, in un processo che porterà alla progressiva mercificazione di servizi pubblici e di beni comuni». Info https://stop-ttip.org

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Trisome games Le olimpiade per atleti con sindrome di Down Dal 15 al 22 luglio Firenze ospiterà la prima edizione di Trisome Games, manifestazione riservata ad atleti con sindrome di Down, che si cimenteranno nel tennis, nel ping pong, nel nuoto, nell’atletica, nel judo e nella ginnastica ritmica. Quella di Firenze sarà la prima Olimpiade dedicata unicamente ad atleti con sindrome di Down: al momento sono già iscritte 34 nazioni provenienti dai 5 continenti con la pre-

senza di quasi 900 fra atleti e tecnici. L’evento è a cura del Comitato organizzatore locale presieduto da Alessio Focardi, responsabile dell’Ufficio politiche sulla disabilità della Cgil nell’area metropolitana della provincia di Firenze. Focardi è sulla sedia a rotelle dall’età di 15 anni e mezzo. Ma non si è mai arreso. Dedica la sua vita alla disabilità, alla sua difesa, alla sua valorizzazione. Info www.trisomegames2016.org

street art La street art conquista la città eterna Fino al 4 settembre Palazzo Cipolla ospita la più imponente mostra museale mai dedicata finora al lavoro di Banksy, il più noto degli street artist. Guerra, Capitalismo e Libertà è il titolo che riprende concetti cari all’arte irriverente di Banksy. La prima mostra ufficiale si tenne a Bristol, che fra l’altro molti ritengono essere la sua città natale. La sua prima apparizione pubblica risale al 2000, due anni più tardi espone alla 33 1/3 Gallery, a Los Angeles. Banksy si muove però sempre più fuori dalla scena inglese e le sue incursioni sono sempre in “prima linea” sulla frontiera della denuncia sociale, dell’anticonvenzionale. I suoi lavori sono quotati con cifre di tutto rispetto da moltissimi collezionisti e anche la mostra romana si è potuta fare solo grazie alla Fondazione Terzo Pilastro, ma soprattutto grazie ai prestiti di molti suoi collezionisti sparsi per il mondo.

on

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Per far nascere l’archivio fotografico online del volontariato sono stati coinvolti oltre 700 fotografi che hanno realizzato più di 10 mila scatti. I migliori sono stati esposti in una mostra nazionale a Bibbiena (Arezzo) nel mese di giugno. Grazie all’archivio il mondo del volontariato italiano svela i volti e i cuori che sono il motore di tante azioni utili alla vita di tutti e in particolare alle giornate di chi è nel bisogno. “Tanti per tutti. Viaggio nel volontariato italiano” si chiama il progetto realizzato da CSVnet insieme alla Federazione italiana associazioni fotografiche e al Centro Italiano della fotografia d’autore. I 700 fotografi coinvolti hanno lavorato da febbraio a dicembre 2015 realizzando circa 10 mila scatti. Importante è stato il supporto dei Centro Servizi per il Volontariato, che hanno messo in contatto i fotografi con le associazioni sparse su tutto il territorio nazionale.

Nel recente rapporto World Heritage and Tourism in a Changing Climate, realizzato da Unesco, Unep (United Nations Environment Program) e Ucs (Union of Concerned Scientists) si legge che il cambiamento climatico sta diventando uno dei maggiori rischi per i siti Patrimonio dell’Umanità in tutto il mondo. Fra questi, la laguna di Venezia, i grizzly del parco di Yellowstone, la Statua della Libertà. L’indagine ha analizzato 31 siti naturali e culturali del patrimonio mondiale in 29 Paesi e in 6 continenti: dalla Groenlandia al Sud Africa, dal Brasile al Giappone, e naturalmente l’Europa. Il cambiamento climatico provoca fenomeni come lo scioglimento dei ghiacciai e il conseguente aumento dei mari, ma anche un aumento della siccità e degli incendi. A rischio anche siti naturali come la barriere corallina della isole della Nuova Caledonia, nel Pacifico occidentale, che hanno già subito lo sbiancamento dei coralli a causa dei cambiamenti climatici di quest’anno.

Nasce il primo archivio fotografico del volontariato

Il cambiamento climatico incide sul patrimonio artistico


[ pagine a cura di Daniela Palumbo ]

Impara a guardare, leggere e interpretare la tua città

Un museo e una mostra a Lampedusa, porta d’Europa Il presidente della Repubblica Mattarella ha inaugurato la prima esposizione nel nuovo Museo del Dialogo e della Fiducia per il Mediterraneo, a Lampedusa. Un museo che nasce nel nome del dialogo fra i popoli. La mostra allestita dentro il Museo è ricca di simboli: sono arrivate sull’isola opere importanti, a cominciare da L’amorino dormiente, di Caravaggio, messo a disposizione dalla Galleria degli Uffizi. Il dipinto vuole essere un omaggio a tutti i bambini del Mediterraneo che vivono o hanno vissuto esperienze drammatiche, quelli che non ce l’hanno fatta e che sono sepolti nel mare, e quelli che sono riusciti ad arrivare in una nuova casa.

pillole homeless Sleep Bus rifugi sicuri per i senzatetto

mi riguarda

Bibliocity. Come far diventare Trani la città dei libri

Un’idea da copiare: semplice e low cost. È nata in America con le Little free Library ed è arrivata nella piccola Trani, in Puglia. Una storia del sud che sogna in grande. A realizzarla è stato Enzo Covelli della libreria Miranfù. Covelli voleva portare i libri nelle periferie. Molte persone condividevano con lui questo sogno. Cosa fare? Le biblioteche di quartiere certo, ma costava troppo avere degli spazi in affitto. Allora le casette biblioteche, le Little free library che sono dislocate in alcuni punti della città e nelle scuole, hanno percorso diverse strade. Le casette contengono un centinaio di libri tra nuovi e usati. Si prende un libro in prestito e possibilmente se ne dona uno alla casetta, e naturalmente si rstituisce il prestito. Ma non è finita: Covelli e compagnia hanno coinvolto gli esercizi commerciali nelle periferie della città chiedendo ai commercianti di diventare delle BiblioPoint del quartiere. Grazie a facebook sono arrivati libri da tutta la Puglia per le nuove biblioteche. Info www.littlefreelibrary.org

Simon Rowe è un ex senzatetto di Melbourne, in Australia, che ha presente cosa significa non riposare bene, non riuscire a dormire un sonno lungo. Per la paura di essere assalito, la paura di essere derubato, malmenato. E allora ha avuto un'idea che sta avendo successo. Ha lanciato una campagna di crowdfunding che ha già raccolto oltre 46 mila dollari per proteggere chi dorme in strada. L'idea è semplice: acquistare autobus e attrezzarli all'interno per far dormire gli homeless. Si stima, infatti, che in Australia ci siano almeno 105 mila persone senza fissa dimora, di cui 6 mila dormono in modo irregolare e mille hanno meno di 12 anni. Ogni autobus potrà accogliere 22 persone, si è pensato anche allo spazio per gli animali, bagni, caricatori usb. Rowe punta ad acquistarne almeno 300. Sleep Bus è il nome del progetto. Poter dormire è tutto, spiegano sul sito gli organizzatori. Perché il sonno gioca un ruolo vitale per il benessere e la salute delle persone.

Il museo di Arte Urbana di Torino (in collaborazione con l'associazione Tribù del Badnightcafé, la galleria Campidoglio e le Biblioteche Civiche Torinesi) ha indetto il concorso fotografico “Leggi=immagina una città”: ovvero la città come microcosmo individuale e collettivo, le biblioteche e i luoghi di arte e cultura come sorgenti di riflessione, ricerca e critica. Fino al 30 luglio è possibile inviare le immagini. L'edizione 2016 del Concorso è divisa in due sezioni, una collettiva e una individuale. Gli autori potranno partecipare indifferentemente ad una delle due o ad entrambe. Fb Leggi=immagina una città

Sosta Forzata, con i ragazzi in messa alla prova Nuova vita per Sosta Forzata, il giornale del carcere di Piacenza, rimasto chiuso per diversi mesi. Oggi si chiama Sosta Forzata – itinerari della giustizia e i redattori sono le persone in messa alla prova esterna dell’Uepe (l’Ufficio per l’esecuzione penale esterna), alcune studentesse volontarie e un tirocinante dell’Uepe. Il direttore di Sosta Forzata è Carla Chiappini. A scrivere sono i ragazzi detenuti molto giovani, tra i 19 e i 28 anni. Le studentesse e il tirocinante hanno più o meno la loro età, ciò consente un dialogo e un confronto diretto, aperto e onesto fra pari. Continuerà a uscire anche una versione cartacea sempre in allegato al giornale diocesano Il nuovo giornale. Previsti 3 numeri l'anno. Il giornale sarà portato anche nelle scuole per avviare un confronto con le nuove generazioni che spesso non conoscono nulla della vita carceraria. Ma anche per aprire un canale di comunicazione sul tema complesso della giustizia e della pena. luglio 2016 Scarp de’ tenis

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IN BREVE

Dove abiti o dove vivi?

Francesco che arrivò un giorno d’inverno, il libro di tre autricioperatrici alla Sacra Famiglia di Cesano Boscone. Finanzierà la ricerca

comunicazione fio.PSD La campagna #HomelessZero è stata lanciata il 10 dicembre 2015 dalla fio.PSD in occasione della presentazione dei dati “dell’Indagine sui Senza Dimora” e delle “Linee di Indirizzo per il Contrasto alla Grave Emarginazione Adulta in Italia” ed è patrocinata dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Il Ministro Poletti, che da subito ha manifestato il suo interesse, e Cristina Avonto (presidente fio.PSD) hanno firmato l’11 giugno 2016 a Taormina il Protocollo di Intesa tra il Ministero e la fio.PSD e presentato i contenuti della campagna. Obiettivo: porre fine alla estrema povertà in cui vivono oggi oltre 50 mila persone. La campagna è rivolta al mondo politico, dell’associazionismo, del lavoro, della salute, alla società civile e all’opinione pubblica per mettere in campo azioni coordinate in cui le persone senza dimora siano parte integrante e che abbiano come finalità il riconoscimento della dignità umana e l’esigibilità dei diritti inviolabili già riconosciuti dalla Costituzione Italiana. La partnership con Richard Gere: durante le riprese del film Time out of mind, l'attore ha potuto sperimentare la disperazione degli homeless e ha deciso pertanto di sostenere le campagne di sensibilizzazione sociale. A tal fine è stato realizzato uno spot dall’attore americano e ne saranno realizzati altri da attori presenti al Taormina Film Festival; è stata organizzata una anteprima riservata a 300 tra utenti e operatori dei servizi sociali siciliani ed è stata dedicata al tema Gli Invisibili la serata inaugurale del Taormina Film Festival, con la partecipazione di Richard Gere e della fio.PSD. Info www.homelesszero.org

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TRE DOMANDE

Autismo. Da una storia vera un libro per sostenere la ricerca di Daniela Palumbo

Francesco che arrivò un giorno d’inverno (ed. Terra Santa, Altrevoci) è innanzitutto una storia d’amore. Francesco è un ragazzo autistico e la madre e il padre hanno fatto tanta fatica ad accettare la sindrome autistica. La fatica di accettare la di-

sabilità, i sensi di colpa, la fatica di avere risposte chiare dalle istituzioni sanitarie circa le terapie e le cure di una sindrome sulla quale non è stato detto tutto. Ciò ha rischiato di togliere la luce a questa famiglia. Fino a quando Francesco e la mamma si sono compresi. Per strade diverse da quelle percorse normalmente. Si sono incontrati. A quel punto la famiglia si è riscoperta più forte di prima. Tre operatrici

della Fondazione Sacra Famiglia hanno raccontato la storia, vera, di Francesco (che oggi ha circa 20 anni) dando la propria voce alla madre del ragazzo. Maia Consonni, che appare come l’autrice del libro, è in realtà uno pseudonimo che cela tre nomi: Anna Miele, Monica Conti e Sonia Lentini, tre professioniste che operano nell’ambito dell’assistenza e della cura presso la Fondazione Sacra Famiglia. Alla struttura di Cesano Boscone (Mi) andranno i proventi del libro, per la ricerca e la cura dell’autismo.

Cosa può fare un genitore per non sentirsi escluso? La mamma di Francesco nel libro racconta che in certi momenti è come se Francesco “andasse via”. Un genitore – è la risposta corale delle tre autrici – aiutato da persone esperte, può trovare un modo differente di comunicare. Perché se si utilizza un sistema di comunicazione non condiviso, la persona autistica non risponderà e la comunicazione sarà un’esperienza spiacevole e frustrante. La Fondazione Sacra Famiglia che servizi offre alle persone affette da autismo? Dal centro diurno alle strutture residenziali. Da poco è stato inaugurato un nuovo servizio di counseling-autismo che si propone di collaborare con gli operatori dei servizi territoriali e sociali che si trovano a operare con la persona autistica e provvede alla definizione di programmi d’intervento da attuare nei diversi momenti di vita. Cosa ha insegnato di nuovo a voi operatrici sanitarie la storia di Francesco? La sofferenza di una famiglia come quella di Francesco poteva essere, come lo è spesso, interminabile, se non fossero riusciti a ritrovare un equilibrio nuovo, ad allearsi dentro e fuori con chi poteva aiutarli a percorrere una strada comune.


IN BREVE

A Torino il Panorama artistico e intellettuale di Francesco Jodice

Al centro italiano per la Fotografia fino al 14 agosto, Panorama è una prima, completa e complessa, ricognizione sulla carriera del fotografo e filmmaker Francesco Jodice, artista napoletano, anno 1967. La mostra presenta la più ampia selezione di opere di Jodice mai raccolta in una singola esposizione ed esplora vent’anni del suo lavoro. L’esposizione è particolare perché è lo stesso Jodice a essere un artista eclettico e singolare che utilizza linguaggi artistici diversi per la sua investigazione dello scenario geopolitico contemporaneo, e le conseguenti trasformazioni sociali e urbanistiche. Jodice

nella sua carriera ha infatti alternato fotografia, video e installazioni. Panorama racconta anche il processo che anima il lavoro e la ricerca dell’artista. Tutto l’impianto della mostra mette in evidenza gli argomenti, le motivazioni e le riflessioni dietro la sua produzione, coinvolgendo lo spettatore con un allestimento che pone al centro le procedure da cui ogni opera prende vita. Francesco Jodice comincia la sua ricerca mettendo da parte una quantità immane di materiale: dal caos, dall’accumulo di mappe, libri, ritagli di giornale, immagini di backstage, provini, interviste, filmati e molto altro, emerge alla fine il filo sottile su cui costruisce l’opera che sintetizza la ricerca. Data la vastità del materiale di Jodice

sono stati selezionati sei progetti che attraversano la sua carriera, dagli esordi sino ai lavori più recenti, evidenziandone insieme la continuità e l’eclettismo. Un viaggiatore instancabile lo si potrebbe definire vedendo la mostra che con le sue opere ci racconta un mondo contemporaneo dove Jodice cerca di anticipare e sintetizzare le mutazioni di scenari. In mostra le 150 diverse metropoli di What We Want, vero e proprio atlante fotografico sull’evoluzione del paesaggio sociale, iniziato nel 1996 e ancora in progress. Il lavoro Ritratti di classe (2005-2009), sullo stato dell’arte della cultura e della società italiana, risolto attraverso il canone standard della fotografia scolastica di fine anno. Solid Sea (2002), progetto che trasforma il Mar Mediterraneo in uno spazio solido e compatto, unico confine stabile in un’epoca segnata dai conflitti e dalle continue revisioni delle identità nazionali. Solo per citarne alcuni. Info: www.gamtorino.it

Venezia La Biennale estiva propone il teatro di qualità Dal 26 luglio al 14 agosto si svolge il Festival Internazionale del Teatro all’interno della Biennale. Il festival si caratterizza per l’integrazione tra spettacoli e laboratori. I registi, gli attori e i drammaturghi sono a Venezia infatti anche come maestri di giovani artisti selezionati dalla Biennale College-Teatro. Inoltre, oltre ai 10 spettacoli che andranno in scena, ci saranno anche 17 laboratori di cui 9 aperti al pubblico. E infine, sono previsti 19 incontri con tutti gli artisti protagonisti del festival teatrale. A Venezia le proposte sono di alto profilo e le produzioni arrivano da tutta Europa. Segnaliamo gli italiani Valeria Raimondi ed Enrico Castellani di Babilonia Teatri i quali portano in scena un Pinocchio molto particolare. Anzi, i Pinocchi sono tre e sono più che reali perché trattasi dei non-attori dell’Associazione Gli amici di Luca che hanno vissuto esperienze di coma. E ne portano i segni. I tre sono sul palco a condividere la propria esperienza in uno spettacolo dove la fiaba diventa una chiave per scavare nella vita di ognuno.

LA STRISCIA

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LE DRITTE DI YAMADA

La cassetta per l’estate 2016 Da Bowie a Niccolò Fabi Tempo d’estate. Tempo di canzoni da ascoltare e riascoltare. Basta immaginarsi stanza buia. Davanti a voi un puntino luminoso, che danza come un in una stanza atomo impazzito e s’appuntisce, buia, o meglio si riempie di angoli: andandogli in una tenda, incontro diventa una tenda. Una tenda à la Tenenbaum – tenera- teneramente mente accessoriata e segreta –che accessoriata invita ad entrare: dentro c’è un e segreta, piccolo giradischi con un vinile. Dopo pochi istanti, la piccola ten- con dentro da illuminata si riempie di note un piccolo amate e conosciute a memoria. Sono quelle di I Remember giradischi Tempo d’estate, della consueta manciata di canzoni in una vetusta e immaginata cassetta che metto nel registratore: lasciate la finestra aperta, e – giurin giuretta–arriveranno fino a voi. Immaginate di essere in una

That dei Prefab Sprout. Un pezzo che afferra le mani e fa girare in tondo insieme a lui, sempre più veloce fino a smarrirsi nei doo-wop dolci/amari della voce di Paddy McAloon, autore dei testi e front manleggendario di questo gruppo inglese mai dimenticato. La traiettoria centrifuga e volante del nostro ascolto si scolpisce in una scala a spirale che saliamo fino in cima. La chitarra che cadenza un ritmo ipnotico ci guida davanti a un mare argentato. Beach On The Moon: fin qui siam giunti. Anche la voce del cantante–il magico Kurt Vile – riverbera, si fa vicina e poi riempie lo spazio nero, prima che le onde la portino lontano. Nel silenzio che s’è fatto, transita veloce una luce e ci aggrappiamo. Diventiamo dinamici

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musica La cassetta per l’estate 2016

«Per la prima volta nella storia dell’umanità a intervalli regolari e a orari fissi, milioni di individui si sistemano davanti al loro televisore domestico per assistere e partecipare alla celebrazione dello stesso rituale». Il calcio è pratica e spettacolo, fenomeno sociale. Gli stadi diventano così luoghi di senso e di controsenso in cui si compiono rituali moderni. Marc Augé Football. Il calcio come fenomeno religioso EDB, Euro 6

Un omicidio alla fine del mondo Sei mesi e sarà tutto finito perché la terra è in rotta di collisione con un asteroide che la distruggerà. Eppure il poliziotto Hank Palace si ostina a cercare la verità dentro un caso del New Hampshire che sembra un suicidio, frutto della depressione per la fine del mondo imminente. Scopre che c'è ancora chi ha voglia di uccidere, pur sapendo che tutto finirà. Se, finirà. Ben H. Winters Un omicidio alla fine del mondo Piemme, euro 17,90

La porta di Anne (Frank)

[ a cura di Daniela Palumbo ]

testo di Yamada

e leggeri, lasciamo scie arancioni come il sole al tramonto che abbiamo di fronte: ora siamo in una macchina e corriamo sull’autostrada delle vacanze. Chi guida ha il nostro cuore e il nostro sorriso e ci sta portando verso ore che speriamo più libere lunghe e zeppe di quello che conta. Il sottotesto di questo stato d’animo pieno di aspettative e porte aperte è tutto nel pezzo di Colapesce, Oasi, che riempie l’abitacolo e fa respirare più a fondo. Apro una di queste porte e vado verso un ricordo: una festa in spiaggia, le risate, un pallone che rimbalza da una mano all’altra, l’allegria che volteggia sulle teste e anche lei non cade mai, i balli improvvisati: come in Beachball dei REM, mi rivedo a far bottino di ispirazioni come viatico per i giorni a venire. Chiudo quella porta... e ne apro un’altra che s’affaccia su un metrò. Salgo. Il rollio del vagone mi culla per un’ora e mezza, mimetizzata con l’ordito del mondo –fuori dal finestrino –impreziosito da quello che sento. Sto arrivando davanti all’oceano. Ci saranno i gabbiani, le patatine fritte più buone del pianeta, le montagne russe vintage e il pontile visto in tanti cari film. Nelle orecchie, Lou Reed mi sussurra Coney Island Baby. Ormai è buio e fa quel fresco perfetto. Metto un passo davanti all’altro sul pontile in fondo ad aspettarmi rivedo la piccola tenda illuminata. Entro. C’è il tempo di suonare un altro disco, e chiudo questo piccolo sogno con Le Chiavi di Casa di Niccolò Fabi: la tenda prende quota nella notte, chissà dove si poserà.

Il calcio come fenomeno religioso

Ancora Anne? Anche se il Giorno della Memoria è lontano? Sì, vale la pena perché l'autrice narra la vicenda di Anne Frank da un punto di vista inesplorato. Il romanzo ci racconta una nuova bellezza nella piccola Anne e nelle altre vite che con lei hanno condiviso i giorni della speranza. Guia Risari La porta di Anne Mondadori, euro 16


VISIONI

«Da poco ho scoperto il tablet e c’è un universo lì dentro, ma i caratteri mobili mi piacciono ancora di più» (Alberto Casiraghi)

Pelé. La verità sul mito del calcio 1950. Finale dei Mondiali, Rio de Janeiro. Il Brasile soffre per la sconfitta con l’Uruguay. Ma di lì a pochissimo arriverà un ragazzino che cambierà la storia del calcio mondiale e il Brasile tornerà a brillare. Pelé, la leggenda: 1.283 gol, tre mondiali vinti. Il più forte calciatore di sempre. Un film che si sofferma molto sulla sua infanzia nelle favelas: fatta di povertà, fatica e perdite dolorose.

Il fiume ha sempre ragione amano la propria professione fino a difenderla con amore. Il lavoro dello stampatore

Uno è Alberto Casiraghi, fondatore della micro casa editrice PulcinoElefante, più di 9 mila libretti di poesie editi con un pesantissimo torchio a caratteri mobili che sembra venire da un altro mondo. L’altro è Josef

Weiss, poetico stampatore a pedale, attento rilegatore e bibliofilo oltre misura, che sistema libri nel suo bellissimo atelier di Mendrisio. Questi due, un po’ artigiani e un po’ artisti, sono i protagonisti dell’ultimo stupendo documentario di Silvio Soldini.

C’è tanta poesia in questo piccolo grande racconto cinematografico. In anteprima al Biografilm Festival di Bologna, questa storia fuori dal tempo ha subito guadagnato il Premio del pubblico come miglior film del Concorso Internazionale 2016. Il regista milanese con una filmografia in doppia cifra per le storie di finzione, ma anche per i documentari prova a mostrare nel dettaglio la vita e soprattutto le opere di due persone speciali che con il loro senso della misura e l’attaccamento a carta, colla e inchiostro fanno venire voglia di cambiare mestiere.

Due lavoratori veri che

Dopo Per altri occhi su un gruppo di non vedenti e Rom Tour sui migranti della guerra in Italia, Silvio Soldini racconta la vita di due artigiani, Alberto e Josef, innamorati del proprio lavoro, dei libri e della semplicità

il film Il fiume ha sempre ragione Genere: documentario Regia di Silvio Soldini. Durata 72 min. Italia, Svizzera 2016.

oggi è in pericolo: i suoi strumenti sono resi obsoleti dal tempo, le abitudini sembrano mutate per via del progresso tecnologico e i suoi prodotti, i libri, devono combattere contro il disinteresse generale per la lettura. Alberto che a volte si firma Casiraghy, invece, vive in una casa laboratorio piena zeppa di libricini, tutti pezzi unici diversi l’uno dall’altro e ricorda. Ricorda del “bel nido” in cui ha avuto la fortuna di nascere, gli incontri con i grandi poeti – tra gli altri, Alda Merini, Gillo Dorfles, Dario Bellezza e Allen Ginsberg– e parla con piglio diretto e semiserio di caratteri tipografici, di aforismi e dei segreti del suo lavoro. È impegnato in una delicata e originalissima gara di semplicità con lo svizzero Josef, altro maestro della stampa a piombo, di fatto, sistema considerato superato dal mondo dell’editoria. Scegliendo font da scatole di cartone, rilegando i libri per salvarli e garantirgli un nuovo futuro, Il fiume ha sempre ragione, letteralmente, scorre fino al momento in cui Alberto e Josef, amici già da tanti anni, si incontrano davanti a un bicchiere di vino in riva al lago. Documentario da non perdere, racconto per immagini delizioso.

Un remake per gli amanti del western I magnifici 7. Ispirato a I sette samurai, di Akira Kurosawa. È il remake dell’omonimo film di John Sturges, 1960. Con Denzel Washington. Sette pistoleri vengono assoldati dai cittadini disperati della cittadina di Rose Creek per proteggere il piccolo villaggio da banditi senza scrupoli.

Il Silenzio. Un film come atto politico [ a cura di Daniela Palumbo ]

di Sandro Paté

L’unica produzione italiana selezionata al festival di Cannes è questo cortometraggio di Farnoosh Samadi e Ali Asgari. La storia di due rifugiate curde, mamma e figlia, e di una diagnosi di tumore che nessuno è in grado di tradurre (nessuno parla inglese) a parte la bambina. Che però non vuole farlo e si chiude nel silenzio. luglio 2016 Scarp de’ tenis

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Nel carnet di Marco Confortola ci sono nove “Ottomila”, compreso l’Everest, scalato nel 2004. Da tempo l’alpinista è impegnato in un progetto per le scuole, insieme ad altri campioni dello sport

Marco Confortola « Tanto sacrificio, e sarai campione nella vita » di Daniela Palumbo

Abbiamo incontrato lo scalatore nella sua baita di Santa Caterina Valfurva. Da tempo spiega ai ragazzi delle scuole di tutta Italia quanto sia importante vivere solo con l’essenziale 20 Scarp de’ tenis luglio 2016

Il 23 maggio 2016 l’alpinista Marco Confortola è arrivato sulla cima del Makalu, in Nepal, la quinta montagna più alta della Terra (8.462 metri). L’atleta valtellinese ha nel suo carnet degli ottomila altre otto cime. Il mitico Everest lo ha scalato nel 2004, primo valtellinese in vetta. Lo scorso anno Confortola – che, oltre a essere un alpinista è un operatore elisoccorso, maestro di sci e guida alpina – ha tentato di scalare il Dhaulagiri, un’altra cima sopra gli 8 mila. Ma quando era al campo base è arrivato il terremoto e tutti hanno fatto ritorno a casa. Marco però

non ha dimenticato il Nepal distrutto dal sisma. Grazie alla solidarietà dei collaboratori Bosch in Italia, sono stati raccolti 50 mila euro a sostegno del Nepal. I fondi sono stati devoluti all’as-


sociazione Finale for Nepal (www.finalefornepal.org) per la ricostruzione della Sunkoshi Boarding School, una scuola frequentata da 200 bambini nepalesi che si trova sulle montagne , vicino Kathmandu. La scuola era stata distrutta dal terremoto e i bambini costretti a studiare nelle baracche di lamiera. «I lavori vanno un po’ a rilento – spiega l’alpinista –, su quelle montagne se arrivano i monsoni bisogna smettere di lavorare. Ma mi hanno assicurato che la scuola sarà inaugurata il prossimo ottobre». Quando incontriamo

l’alpinista è nella sua baita a 2000 metri, sopra Santa Caterina Valfurva. Per farsi il caffè prende l’acqua del ruscello, non c’è il riscaldamento ma un camino, la legna si raccoglie nei boschi. «Io qui ho tutto – racconta Confortola -. Ho un tetto, un letto, la montagna e i boschi. In città si corre e ci si affanna inseguendo i sogni fasulli, ma in realtà quando hai l’essenziale, hai tutto. È la montagna a insegnarmelo ogni giorno».

Da qualche anno questo suo modo di essere è diventato anche un progetto concreto, grazie agli incontri che Marco conduce nelle scuole con i giovani ragazzi. L’alpinista, infatti, è uno degli sportivi italiani testimonial del progetto, Allenarsi per il Futuro, promosso da Bosch e Randstad. Il programma prevede una serie di iniziative di orientamento e crescita professionale per i ragazzi, proponendo a scuole e istituti una formazione pratica, attraverso tirocini o ore di laboratorio in azienda. Durante gli incontri in aula, attraverso la metafora dello sport e dei valori quali passione, impegno, responsabilità e costanza, l’atleta trasmette agli studenti

Il terremoto nel Nepal non gli ha permesso di raggiungere la vetta del Dhaulagiri. Dopo quella vicenda, con amici e collaboratori di Bosch Italia, ha finanziato la ricostruzione di una scuola l’importanza di compiere scelte professionali compatibili con le proprie attitudini, “allenando” il proprio talento per raggiungere l’obiettivo prefissato. A settembre ricomincerai a incontrare i ragazzi nelle scuole? È un progetto che porto avanti con entusiasmo. Racconto agli studenti che fare sport significa avere uno stile di vita sano, sia dal punto di vista fisico sia mentale. Perché, e questo lo dico anche ai genitori, quando fanno sport alla sera i ragazzi sono stanchi e non hanno voglia di “sballarsi”. Con l’elisoccorso ne vedo tanti di giovani che si schiantano con la macchina a causa di droghe o alcol. Mi fa rabbia perché questi ragazzi sono il futuro. Quando li incontro racconto loro il senso del sacrificio, non si deve aver paura della fatica, ti insegna a perseguire il tuo obiettivo. Ogni settimana sei in una scuola diversa. Che impressione hai dei ragazzi? Hanno voglia di mettersi in gioco. Ma sono anche insicuri, hanno telefoni da seicento euro ma usciti da scuola sono soli. Parcheggiati davanti alla playstation. I genitori spesso lavorano tutti e due fino a tardi... e come fargliene una colpa? È la società che ci impone di rincorrere le cose di cui non abbiamo bisogno. Soldi, macchine, casa al mare, cellulare nuovo. Se hai tutto

L’INCONTRO

facile non apprezzi niente. In Nepal i ragazzini ci chiedevano le penne, i libri. Vorrebbero studiare, imparare, se gli regali un libro impazziscono. Non hanno niente, eppure amano la vita. Nel corso di un’ascensione hai perso per congelamento le dita dei piedi, dal 43 sei passato al 35. Lo racconti agli studenti? Sempre. Quando ero in ospedale i medici mi dicevano che non avrei più potuto scalare. Ma io ho fatto di tutto e adesso con scarpe su misura e grazie a una rieducazione dolorosa e lunga riesco a fare tutto anche senza le dita. Volere

scheda Marco Confortola (Valfurva, 22 maggio 1971) è un alpinista italiano. Guida alpina, maestro di sci, tecnico di elisoccorso. Come scrive sul suo sito www.marcoconfortola.it vive la montagna a 360 gradi trasmettendo la voglia e la passione per vivere la montagna stessa. Prossimi impegni: 23, 24 e 25 settembre a Finalborgo (Finale Ligure) un evento sportivo con Marco protagonista, insieme all'associazione Finale For Nepal e al progetto Allenarsi per il Futuro, ancora per raccogliere fondi per il Nepal. Poi l'alpinista ricomincerà ad allenarsi per il prossimo 8 mila.

è potere. Mai arrendersi di fronte alle difficoltà, al dolore, alla fatica. E poi, i migliori amici li trovi nello sport, perché condividi il sacrificio della tua passione. Ricordaci le quattro regole di Confortola. Obbedire a chi sa di più. Studiare. Fare sport. E non mollare mai. L’ho imparato dal mio allenatore che mi diceva che lo sport è stile di vita. Marco, quando ti alzi, ti rifai il letto. Quando ti svesti, pieghi tutto. Mi rimproverava se sbagliavo, mi motivava se mi abbattevo. Dopo l’estate ricomincerai ad allenarti per il prossimo 8 mila. Sveglia alle 4.30, colazione, sci d’alpinismo per 4 ore con 2.000 metri di dislivello, su e giù per la montagna. Pranzo, riposo. Altre 4 ore di sci. E a letto presto. A proposito di sacrificio. Ma chi te lo fa fare? La passione. Quando arrivo in cima sono felice, c’è una pace e una tranquillità che ritrovo solo in montagna. Torno a casa dal campo base in Himalaya e godo di tre cose: il letto, la doccia e il rubinetto dell’acqua. La montagna ti dà la percezione dell’essenziale, di ciò che serve per essere felici.

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Beatrice Bebe Vio sarà una delle atlete di punta della nazionale italiana ai giochi paralimpici di Rio de Janeiro in programma il prossimo settembre

Aspettando Rio Il sorriso di Bebe: « Posso fare tutto, anche vincere» di Alberto Rizzardi

A settembre, chiusi i giochi olimpici, il Brasile ospiterà anche le Paralimpiadi. Beatrice Bebe Vio è una delle atlete della nazionale italiana: una forza della natura, più forte di tutto 22 Scarp de’ tenis luglio 2016

Non ce ne vogliano Federica Pellegrini e Tania Cagnotto, ma per noi il più bel sorriso della Rio de Janeiro olimpica sarà il suo: Beatrice Maria Vio, per tutti Bebe, 19 anni da Mogliano Veneto, provincia di Treviso. La sua è una storia che merita di essere raccontata, anzi, che deve essere raccontata. Una storia dai mille colori. C’è un motto che può riassumerla: «Io posso fare tutto quello che io voglio fare». A pronunciarlo non è stato un filosofo o qualche condottiero romano: è stata proprio Bebe e lo ripete testardamente fin da quando era bambina. Bebe ora è un’adolescente come molte altre: va a scuola (quest’anno è l’anno della maturità), ama uscire con le amiche,


optare ogni tanto per un paio di scarpe col tacco e, da buona veneta, concedersi pure uno spritz. Ma Bebe è anche una ragazza unica e straordinaria: lo diciamo una sola volta, perché, ecco, se c’è una cosa che la infastidisce, è proprio sentirsi dare continuamente della persona eccezionale. Bebe ama lo sport e lo pratica fin da piccolissima: la scherma, in particolare, scoperta quasi per caso. Non sono la mia malattia «Avevo cinque anni, facevo pallavolo ma non mi piaceva – racconta –. Alla fine di una lezione presi le mie cose e me ne andai: uscendo dalla palestra, trovai una porta aperta. Sbirciai dentro e vidi queste persone, che sembravano degli Zorro in bianco: mi sedetti a guardare, mi fecero provare e da quel momento mi sono innamorata di questo sport». Il colore più cupo nella ricca gamma di colori dell’arcobaleno Vio è il nero e ha una data precisa: 20 novembre 2008. Bebe ha 11 anni e viene colpita da una meningite fulminante: sopravvive, ma un’infezione provoca necrosi in varie parti del corpo e porta all’amputazione degli avambracci e delle gambe. Stop, potrebbe essere la parola fine ai sogni di gloria di una promessa della scherma italiana e una mazzata alle aspettative di una ragazzina solare, curiosa ed energica.

Il nero potrebbe essere l’unico colore di questa storia: potrebbe, appunto, ma non sarà così. Ricordate il motto di Bebe? «Io posso fare tutto quello che io voglio fare». Quando il gioco si fa duro, i duri iniziano, anzi, tornano a giocare. Bebe passa tre mesi e mezzo in ospedale, poi torna a

Le mie cicatrici fanno parte di me. Io il fondotinta lo uso per coprire i brufoli, mica le cicatrici. Non riesco a immaginarmi senza cicatrici e nemmeno a fare scherma con le gambe

scuola e, nel giro di due anni, riprende a gareggiare: cosa quei 104 giorni abbiano rappresentato è ben descritto nel libro Mi hanno regalato un sogno, uscito l’anno scorso per Rizzoli. «Di solito, nel corso di un incontro o di un’intervista – scrive Beatrice – della meningite dico solo che l’ho avuta e che mi sono salvata, ma che hanno dovuto amputarmi le braccia e le gambe: non mi piace parlarne. Io non sono la mia malattia e la mia vita non è finita con quei 104 giorni che ho passato in ospedale. È vero, oggi non sarei come sono se non avessi avuto la meningite, ma io sono soprattutto una che ce l’ha fatta grazie allo sport e che adesso si impegna al massimo per far uscire di casa il mag-

COPERTINA gior numero possibile di persone amputate e far loro riscoprire che la vita è una figata. Io così sto benissimo. Con le mie due paia di gambe, le mie mani da Robocop e le mie cicatrici sul viso. Sono stata in televisione e mi hanno messo così tanto fondotinta in faccia che non si vedevano più: a me le mie cicatrici piacciono, fanno parte di me. Io il fon-

dotinta lo uso per coprire i brufoli, mica le cicatrici. Non riesco a immaginarmi

scheda Beatrice Maria "Bebe" Vio, è nata a Venezia nel 1997, è campionessa mondiale di fioretto individuale paralimpico in carica. All’età di 11 anni è stata colpita da una meningite fulminante che le causò un'infezione, con annessa necrosi, ad avambracci e gambe di cui si rese necessaria l'amputazione. Un anno dopo l'insorgenza della malattia riprese l'attività sportiva agonistica come schermitrice. Nel 2009 la famiglia di Bebe ha fondato Art4sport, per sostenere la pratica sportiva di bambini che hanno subito amputazioni.

senza cicatrici e nemmeno a fare scherma con le gambe». Questa è Bebe. Mai indietreggiare Lei, che ha provato a tirare di fioretto sia con le gambe che su una carrozzina, non ha dubbi: è molto meglio la seconda opzione. «Sei lì, fermo, non puoi indietreggiare e avere paura: devi solo attaccare e essere aggressivo. Mi piace». E i risultati non mancano: campionessa mondiale nel 2015, due volte campionessa europea (2014 e 2016) e il pass staccato per Rio 2016, dove sarà l’atleta da battere. L’oro: ecco il secondo colore dell’arcobaleno Vio. In questo percorso è stata ed è fondamentale la famiglia: su tutti mamma Teresa e papà Ruggero, che la seguono in tutte le gare e che con lei hanno fondato Art4sport (www.art4sport.com), associazione che supporta e aiuta economicamente le famiglie per permettere a bambini e ragazzi portatori di protesi per arto di giocare e divertirsi quotidianamente attraverso l’attività sportiva, la migliore terapia. «Al momento seguiamo 18 ragazzi, ma ne arriveranno a breve altri due: il più piccolo ha 6 anni, il più grande 20. L’obiettivo

è anche far conoscere sempre più lo sport paralimpico e far capire quanto sia bello: non è una cosa da disabili, è solo sport. Lo facciamo creando tante manifestazioni: una di queste è Giochi senza barriere, che quest’anno abbiamo organizzato a Roma il 9 giugno, con 8 squadre provenienti da tutta Italia, all’insegna dell’integrazione tra normodotati e disabili». Quando intervisto Bebe è di ritorno da quattro giorni di allenamenti e terapie nel buon retiro di Abano Terme, in provincia di

luglio 2016 Scarp de’ tenis

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COPERTINA Padova: «Adoro questo posto – confessa – perché qui posso studiare con calma: è quasi un ritiro spirituale». Abano è uno dei luoghi di Beatrice: gli altri, oltre a Mogliano Veneto, sono l’Isola d’Elba, posto caro alla famiglia Vio, e il centro protesi di Budrio, nel Bolognese, dove al tempo Bebe si sottopose a una lunga fase di riabilitazione e dove hanno realizzato le protesi, che vengono continuamente migliorate e adattate alle sue esigenze, di atleta e ragazza. Lo sguardo è sempre proiettato al futuro: quest’estate sarà in bilico tra l’esame di maturità e le Paralimpiadi di Rio, in programma a settembre. All’orizzonte l’ipotesi dell’università, allo Iulm di Milano. Ma prima c’è da pensare al Brasile: l’atmosfera delle olimpiadi Beatrice l’ha già assaggiata quattro anni fa, a Londra, dove fu una dei tedofori. Le atlete da battere? Sempre quelle: cinesi e russe. Ma, vi ricordate? Lei può fare tutto quello che vuole fare. Chiamatela Bebe Rio.

Yusra ha trainato a nuoto il barcone su cui stava viaggiando fino all’isola di Lesbo. Farà parte della squadra dei rifugiati in gara a Rio

I rifugiati alle Olimpiadi: «Un omaggio al coraggio» di Ettore Sutti

Dieci atleti, costretti a lasciare le loro case per sfuggire a guerre e povertà saranno in gara a Rio 2016 24 Scarp de’ tenis luglio 2016

Yusra ha un sorriso che conquista. A vederla sembra una ragazzina di 18 anni come tante altre. Eppure lei è stata quella che, insieme ad altri, nell’agosto del 2015 si è tuffata dal barcone che stava affondando nelle acque del Mare Egeo con 20 migranti a bordo, e per tre ore lo ha trascinato fino a mettere tutti in salvo sulle coste dell’isola di Lesbo. Una storia che non può non far tornare alla mente quella di Samia Yusuf Omar, l’atleta somala che, dopo aver rappresentato il proprio Paese ai giochi olimpici di Pechino nel 2008, è morta annegata nel Mediterraneo nel 2012 cercando di raggiungere Lampedusa. La siriana Yusra Mardini, invece, non solo ha raggiunto Lesbo e poi la Germania ma è stata anche

selezionata per partecipare alle Olimpiadi di Rio. Yusra, che gareggerà nei 100 stile libero, farà parte, insieme ad altri nove atleti selezionati dal Cio, il Comitato olimpico internazionale, del Rot (Refugee olympic team), la squadra olimpica dei rifugiati che, per la prima volta nella storia, gareggerà in un’Olimpiade. Durante la cerimonia inaugurale allo stadio Maracana gli atleti del Rotsfileranno sotto la bandiera olimpica ed entreranno prima della squadra del Paese ospitante. Un grande onore. Messaggio di speranza «Inviare una squadra di rifugiati ai Giochi di Rio – si legge in una nota dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) – significa mandare un messaggio di speranza per i rifugiati in tutto il mondo in un mo-


59,5 milioni 10 popolazione mondiale di rifugiati, sfollati e richiedenti asilo alla fine del 2014 (Unhcr)

Gli atleti che faranno parte del Rot (Refugee olympic team) squadra olimpica dei rifugiati

LA DENUNCIA

Strade “ripulite” dai senza dimora, dove andranno ora a dormire? «Al marzo del 2016, Rio de Janeiro non avrà più persone senza tetto che vivono per la strada». Questa è la dichiarazione della segreteria municipale dello sviluppo sociale (Smds) di Rio de Janeiro pubblicata nell’agosto 2015 sul giornale O Dia, uno dei più diffusi della città carioca. Ci siamo chiesti perché è stato fissato marzo 2016 come termine ultimo per la risoluzione di un fenomeno, come quello dei senza dimora, che viene percepito come un problema dalla maggior parte della popolazione. Con l’approssimarsi dell’appuntamento olimpico sono aumentati in città turisti, atleti e giornalisti e, contemporaneamente, sono di fatto “scomparsi” i numerosi senza tetto che normalmente affollano le zone centrali di Rio. Da tempo sono in atto operazioni di ordine pubblico mirate a colpire le persone che vivono per strada e i rifugi che li accolgono. Operazioni molto criticate da una parte della popolazione anche se è vero che, talvolta, questi luoghi versano in condizioni igieniche pietose, sono sovraffollati e al suo interno spesso vengono commessi abusi e violenze come ha denunciato innumerevoli volte “Il Centro di Difesa dei Diritti Umani”. Anche l’assistenza, normalmente prestata dalle associazioni sia pubbliche che private, ha subito una battuta d’arresto. Ma non è la prima volta che vengono messe in

atto simili operazioni di “pulizia”. Già negli anni sessanta in occasione della visita in Brasile della regina Elisabetta furono fatti “sparire” tutti i mendicanti. Lo stesso fenomeno di “sgombero” si è ripetuto nel 1992 in occasione del Summit della Terra, poi nel 2012 in occasione della Conferenza sullo Sviluppo Sostenibile, ed infine in occasione dei mondiali di calcio del 2014. Per meglio nascondere il problema è stato anche chiuso uno dei più grandi centri di accoglienza comunale e sono state inasprite le azioni repressive delle forze di polizia. Inoltre alcune associazioni di commercianti e di quartiere hanno assunto guardie private affiché presidino i loro quartieri per tenere lontane le persone indesiderate come i senza dimora. In questo modo le persone che vivono per strada dovranno stare attente non solo alle forze dell’ordine, in qualche modo riconoscibili, ma anche ai vigilantes privati. Le Olimpiadi dovrebbero essere l’espressione di valori quali la pace e la solidarietà ma la municipalità, anziché cercare di risolvere i gravi problemi che affligono i numerosi senza tetto della città di Rio, ha pensato bene di allontanarli dai luoghi centrali della città affinché non siano visibili e immortalati dalle televisioni di tutto il mondo. Ma dove andrà questa numerosa popolazione di senza tetto durante i giochi olimpici? Igor Robaina Professore Università Federale Fluminense - Brasile Katharina Schmidt assistente scientifico Università di Amburgo

LA STORIA

mento in cui il numero di persone costrette ad abbandonare la propria casa a causa di conflitti e persecuzioni è senza precedenti». La popolazione mondiale di rifugiati, sfollati e richiedenti asilo ha raggiunto la cifra record di 59,5 milioni alla fine del 2014 ed è in continuo aumento. «Gli atleti rifugiati avranno finalmente la possibilità di perseguire i loro sogni – ha dichiarato Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati–. La loro partecipazione alle Olimpiadi è un omaggio al coraggio e alla perseveranza di tutti i rifugiati nel superare le avversità e a costruire un futuro migliore». Ma c’è anche un pezzettino di Italia in questa avventura. Padre Renato Kizito Sesana, lecchese, è un missionario comboniano che da decenni opera in Africa. Nel 1995 ha

fondato la comunità Koinonia che ha istituito e sostiene, insieme alla ong Amani, case di accoglienza, centri educativi, scolastici e professionali in Kenya, Zambia e Sudan. Tra queste c’è La Casa di Anita, che si trova a Ngong, a circa 25 km dal centro di Nairobi, un centro di accoglienza per ex bambine e ragazze di strada nato in memoria di Anita Pavesi, giudice onorario del Tribunale dei Minori di Milano. I ragazzi di Casa Anita Ed proprio qui che Tegla Loroupe, leggenda mondiale della maratona – è stata la prima donna africana a vincere per due anni consecutivi la maratona di New York –, tramite laTegla Loroupe Peace Foundation, da oltre un anno sta offrendo la possibilià di allenarsi a 24 ragazzi e ragazze originari di Sud Sudan, Somalia e

Gli atleti rifugiati avranno la possibilità di perseguire i loro sogni. La partecipazione alle Olimpiadi è un omaggio al coraggio e alla perseveranza nel superare le avversità e a costruire un futuro migliore

Repubblica Democratica del Congo che vivevano nei campi profughi nel nord del Paese. Tra loro sono stati selezionati cinque corridori del Sud Sudan: Yiech Pur Biel, che gareggerà negli 800 metri maschili, James Nyang Chiengjiek 400 metri maschili, Anjelina Nadai Lohalith 1.500 metri femminili, Rose Nathike Lokonyen 800 metri femminili e Paulo Amotun Lokoro 1.500 metri maschili. Del Rot fanno parte anche due judoka originari della Repubblica Democratica del Congo: Yolande Mabika (70 kg) e Popole Misenga (90 kg), atleti che durante i Mondiali di Rio del 2013 si rifugiarono in Brasile per sfuggire a una vita di violenze, un nuotatore siriano (Rami Anis, rifugiato in Belgio, 100 m farfalla) e il maratoneta etiope Yonas Kinde, che vive in Lussemburgo. luglio 2016 Scarp de’ tenis

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DOSSIER

Quando mettiamo un capo d’abbigliamento in un cassonetto che si trova per strada, non stiamo facendo una donazione ai poveri. Ci stiamo liberando di un rifiuto. Lo stabilisce la legge e lo dichiarano i soggetti impegnati nella raccolta

Per la legge italiana i vestiti che mettiamo nei cassonetti sono semplicemente rifiuti. E come tali devono essere trattati e smaltiti. Un mercato globalizzato che genera milioni di profitti e sul quale si sono buttati anche aziende profit. E dove chi segue le regole è spesso penalizzato. Il sistema Caritas, impegnato in prima linea nella raccolta, chiede che il legislatore prenda atto che questo è un settore, che genera benefici sociali

Non chiamate 26 Scarp de’ tenis luglio 2016


teli rifiuti luglio 2016 Scarp de’ tenis

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di Generoso Simeone

È il grande equivoco della raccolta di indumenti usati. Quando mettiamo un capo d’abbigliamento in un cassonetto che si trova per strada, non stiamo facendo una donazione ai poveri. Ci stiamo semplicemente liberando di un rifiuto. Lo stabilisce la legge e lo dichiarano, più o meno con trasparenza, i soggetti impegnati nella raccolta: talora soggetti sociali e di solidarietà, sovente aziende private. Inserire vecchi vestiti in un cassonetto è quindi cosa ben diversa dal portarli in parrocchia. In quest’ultimo caso si tratta effettivamente di una donazione, perché gli abiti vengono consegnati a chi ne ha bisogno. L’equivoco scaturisce dalla consuetudine per cui spesso sono gli enti caritatevoli o le cooperative

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sociali a occuparsi, in Italia, dell’attività di raccolta tramite cassonetti. Che, per numeri e capillarità, è ormai un settore economico con una sua fisionomia. Gestito, però, con criteri e valori assai diversi, dai differenti soggetti che se ne occupano. La Caritas, intesa come una sorta di “marchio generalizzato”, è riconosciuta come il principale soggetto che, in Italia, fa raccolta di indumenti usati attraverso i cassonetti. Un po’ ovunque, nel paese, le Caritas diocesane, direttamente o attraverso cooperative collegate, smaltiscono, dichiarandolo apertamente, questo particolare tipo di rifiuto. Particolare, in quanto non finisce in discariche, inceneritori o impianti di compostaggio. Pantaloni, maglie, camicie, gonne, cappotti e giacche vengono infatti raccolti per essere recuperati. Circa il 30% ha una destinazione in-

dustriale, per ottenere fibra; la parte restante viene immessa nel circuito dell’usato. Il quantitativo maggiore viene acquistato da imprese specializzate, per lo più tedesche e francesi, che poi rivendono gli abiti in Asia, Africa e America Latina dove i nostri vestiti, anche se di seconda mano, sono molto ambiti. Un vero e proprio mercato, globalizzato, da milioni di euro, che genera profitti. Perché stiamo parlando di più di 110 mila tonnellate di materiale raccolto in Italia in un anno (dato 2013, ultimo disponibile), laddove in un chilo si contano tre capi d’abbigliamento. E il trend è in crescita. Opacità e burocrazia Ma che ci fanno le Caritas diocesane e le cooperative sociali in questo business? Fanno il proprio “mestiere”, cioè portano avanti progetti di solidarietà, dando lavoro (nella raccolta


Vesti Solidale, cooperativa di Caritas Ambrosiana impegnata nella raccolta degli indumenti usati, ha un fatturato di 4,5 milioni di euro, con oltre 300 addetti in 15 anni

degli indumenti e nella gestione dei cassonetti) a persone in difficoltà. Gli (eventuali) utili dell’attività, vengono inoltre destinati ad altri progetti sociali. Sembrerebbe tutto semplice, ma in realtà i problemi sono tanti. Il primo riguarda le cosiddette raccolte “parallele”, cioè non autorizzate. Installare un cassonetto su suolo pubblico è più facile di quanto sembri. Le pubbliche amministrazioni non sempre controllano e proliferano così le raccolte abusive. Che spesso impiegano manodopera a basso costo e non rispettano, prima di rivendere gli indumenti, le norme ambientali sui trattamenti. Ci sono poi le raccolte autorizzate, ma che giocano sulla buona fede dei cittadini, sfruttando l’equivoco della donazione dei capi ai poveri. Alcune cooperative, esterne ai circuiti Caritas, così come aziende,

GENOVA

R. Eco Logica, una rete per la raccolta La casa di Marta: il riciclo entra a scuola Si chiama “R. Eco Logica” ed è la rete che collega le cooperative sociali attive nella raccolta degli indumenti usati in collaborazione con le Caritas Liguri (tra cui rientra anche Tortona) più quella di Acqui Terme. La rete è nata qualche anno fa per affermare i valori del riciclo e apportare migliorie e garanzie al servizio. I valori: rendere più espressive le ricadute benefiche del riciclo dell’abito per l’ambiente, per le persone appartenenti a “fasce deboli” che trovano impiego nella raccolta, per i progetti di solidarietà che vengono sostenuti con i ricavi (a Genova, ad esempio, “Lo Staccapanni” sostiene una mensa per persone nel disagio e altri servizi alle persone senza dimora). Le migliorie e le garanzie: trasparenza di informazione e comunicazione; rappresentanza univoca; consulenza tecnica qualificata; siti autorizzati di stoccaggio e trattamento e parco automezzi certificato; commercializzazione più efficace e soprattutto controllo della filiera attraverso la vendita a impianti autorizzati. R. Eco Logica significa 951 cassonetti posizionati in 171 comuni della Liguria e del Basso Piemonte, 26 lavoratori, 3.400 tonnellate di abiti raccolte in un anno, 109 mila euro devoluti a servizi di solidarietà promossi dalle Caritas (2013). Dal 2001 “Lo Stappacanni” è il progetto di raccolta e riciclo dell’abito usato promosso da Caritas diocesana e Fondazione Auxilium, in collaborazione con Amiu (Azienda multiservizi e d’igiene urbana), e gestito dalla cooperativa Emmaus Genova. Lo Staccapanni ha avviato con alcune scuole primarie il progetto “La casa di Marta” per aiutare i bambini e le loro famiglie a praticare la raccolta differenziata e ad approfondire i temi legati ai rifiuti, all’ambiente, alla sostenibilità e all’impegno sociale. Le scuole sono state dotate di un “contenitore” di abiti usati, per eseguire la raccolta sotto forma di gioco e compiere un gesto pratico in aiuto di chi è meno fortunato, imparando a rispettare l’ambiente. Mirco Mazzoli

Un mercato, globalizzato, da milioni di euro, che genera profitti. Perché stiamo parlando di più di 110 mila tonnellate di materiale raccolto in Italia in un anno (dato 2013), laddove in un chilo si contano tre capi d’abbigliamento

non sempre sono trasparenti nel dichiarare la propria finalità sociale. Un’altra criticità riguarda la complessa filiera del trattamento relativa all’indumento inteso come rifiuto. La legge italiana stabilisce norme fin troppo rigide sui criteri da rispettare prima di poter rivendere un abito usato. Questo spiega perché gran parte del materiale finisca all’estero. Ci sono poi gli ostacoli burocratici. Ad esempio, le cosiddette procedure di igienizzazione, che stabiliscono come va trattato un capo d’abbigliamento prima di essere reimmesso sul mercato, sono diverse da regione a regione e difformi dagli standard degli altri paesi Ue. Ciò genera confusione e penalizza chi rispetta la legalità, dato che certi procedimenti sono molto costosi. Difficile è anche il rapporto con gli enti locali. Dove i comuni non si

disinteressano di quanto accade sulle proprie strade, emanano bandi stabilendo tasse di occupazione del suolo pubblico molto elevate. Anche in questo caso, chi ha personale, impianti e mezzi di trasporto in regola sostiene costi maggiori rispetto a chi vince le gare non rispettando le norme ambientali e del lavoro. Materia prima secondaria I rifiuti generici, di qualsiasi materiale siano composti, sottostanno a regole e codici molto stringenti. Ad esempio, è previsto che ogni trasporto sia tracciato con un documento di accompagnamento. Oppure che gli impianti dove si stoccano i rifiuti non possano essere semplici magazzini, ma luoghi autorizzati dove rispettare norme contro l’inquinamento acustico o delle acque. Nulla di tutto ciò è previsto per i vestiti. Una volta raccolti in quanto rifiuti, essi diventano “materie prime secondarie”. In questo modo acquisiscono valore e generano un mercato. In questa anomalia poco regolamentata proliferano non solo equivoci, ma anche illegalità. Le Caritas diocesane e le cooperative sociali collegate sono impegnate, oltre a creare occasioni di lavoro per soggetti svantaggiati, anche nel non facile compito di portare trasparenza e rispetto delle regole, in un settore con diverse ambiguità e opacità. Don Michele Chiapuzzi, direttore della Caritas diocesana di Tortona, è per esempio convinto che il problema stia a monte. Cioè nel considerare gli indumenti dismessi come qualsiasi altro rifiuto. A Tortona, attraverso la cooperativa Agapedi cui don Chiapuzzi è vicepresidente, viene fatta la raccolta di capi d’abbigliamento usati. «Nei nostri cassonetti – spiega – troviamo vestiti lavati, stirati e ben confezionati, perché il cittadino è convinto di fare una donazione. Non c’è la volontà di disfarsi di un rifiuto, e il legislatore dovrebbe prenderne atto. Oppure, data la fisiologica eccedenza rispetto al fabbisogno, dovrebbe regolamentare meglio il settore, riconoscendo che questo è un mercato che genera benefici sociali. Noi creiamo lavoro per persone svantaggiate e finanziamo progetti di inclusione». Per il direttore della Caritas di Tortona l’ambiguità tra donazione e conferimento di un rifiuto è la vera luglio 2016 Scarp de’ tenis

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fragilità, che genera i problemi che affliggono il settore. «Il rifiuto – osserva don Chiapuzzi – impone una burocrazia amministrativa stringente, che realtà come la nostra faticano a rincorrere. Il paradosso è che ciò che noi raccogliamo diventa poi materia prima secondaria e genera il mercato degli indumenti di seconda mano. Allora io dico che è ora di smettere di distinguere tra profit e non profit. Io parlo di profitto etico. Va riconosciuta la specificità di un bene, che dovrebbe essere acquisito come una donazione e che poi genera un meccanismo virtuoso. Per farlo, arriverei addirittura a chiedere di pagare un’Iva al 4%, dato che sui rifiuti l’imposta non è prevista». Il controllo della filiera «Noi – spiega Carmine Guanci, vicepresidente di Vesti Solidale, cooperativa sociale collegata a Caritas Ambrosiana – dichiariamo apertamente che la nostra finalità non è vestire i poveri, ma utilizzare i capi raccolti come volano di economia sociale. Abbiamo promosso una rete di cooperative (Riuse – Raccolta indumenti usati solidale ed etica), che persegue un elevato livello qualitativo, occupazionale e solidaristico e rispetta in modo rigoroso tutti i dettami normativi. Il vero problema è che i nostri concorrenti non fanno altrettanto. C’è chi posiziona i cassonetti senza avere l’autorizzazione, chi millanta un’attività solidaristica e invece fa solo profitto. Altri non rispettano le norme sul lavoro e sull’ambiente. Stare in questo mercato è sempre più difficile». Guanci scorge un ulteriore problema: il controllo della filiera. «A volte veniamo accusati – sottolinea – di vendere la nostra raccolta a impianti non in regola. Ma tutti quelli che hanno a che fare con noi firmano contratti etici sul rispetto dei diritti dei lavoratori, delle normative ambientali e fiscali. Più di così non possiamo fare: sfido a dirci quali sono gli impianti non in regola, così non instaureremo rapporti con loro».

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L’interno di uno dei tre negozi Share (due a Milano uno a Varese) che propongono vestiti di seconda mano a una clientela attenta alla moda ma anche alla solidarietà

Share, abiti usati che fanno tendenza di Francesco Chiavarini

Tre negozi già aperti e altri due di prossima apertura. La scommessa vinta dalla cooperativa Vesti Solidale

L’abitino a fiori per bambina costa 3 euro. La giacca in velluto 12. Quel paio di jeans 10. L’ambiente è curato: dal soffitto pende un lampadario fatto con i cerchioni di una bicicletta. Alle pareti, le citazioni scritte a grandi caratteri ti ricordano che non sei in una bottega low cost qualunque. Gli abiti di marca, come se fossero nuovi, tutti di grande qualità ma a prezzi stracciati; l’arredamento eco-chic e un’esplicita destinazione sociale dei ricavi sono i punti di forza di Share: tre negozi (due a Milano e uno a Varese) e altri due di prossima apertura (a Lecco e a Napoli) che propongono vestiti di seconda mano a una clientela attenta alla moda ma anche alla solidarietà. Una piccola catena che ha l’ambizione di diventare il primo fran-


ESPERIENZE

Non solo raccolta: Caltanissetta veste, trasforma e… ascolta A Caltanissetta non ci sono cassonetti. Ma gli indumenti usati vengono raccolti lo stesso dalle parrocchie. La particolarità è il modo con cui vengono poi smistati ai più bisognosi. «Ci siamo inventati un emporio solidale – spiega Giuseppe Paruzzo, condirettore della Caritas diocesana nissena –, dove le persone possono venire, scegliersi gli abiti e provarli. Come in un vero negozio. Perché pensiamo sia bello, che ognuno abbia il diritto di vestirsi liberamente e in modo dignitoso». L’emporio è alimentato dalle donazioni dei cittadini, ma anche da capi nuovi regalati dai negozi o dalla merce sequestrata dalla Guardia di finanza. «Riceviamo anche diversi abiti da sposa – continua Paruzzo –: quello che non può essere messo a disposizione lo inviamo al laboratorio di sartoria che abbiamo creato e chiamato “Scaldacuore”, per trasformarlo in borse, portabottiglie, portacellulari, pochette, portapenne e altri oggetti... Tutte cose che poi vendiamo su offerta in appositi mercatini, con il ricavato a favore dell’emporio, nel cui laboratorio, potenziato negli anni con macchinari e attrezzature adeguate, facciamo lavorare persone in difficoltà». L’emporio solidale è diventato, con il tempo, più di un luogo di solidarietà. «Le persone – conclude Paruzzo – vengono inviate dalle parrocchie su appuntamento: quando le riceviamo, le accogliamo, entrando in relazione con loro. Insomma, siamo diventati una sorta di centro di ascolto. Ci sono molti volontari, anche giovani, e si respira un bel clima. Abbiamo persino creato un angolo bambini per le famiglie…».

MILANO

chising sociale italiano di second hand store nel settore dell’abbigliamento. Share sta per second hand reuse. Il nome da solo racconta la filosofia del posto. Riutilizzare, trasformando in valore, quello che per altri è scarto. Qui tutto ha una seconda vita: dagli abiti in vendita, all’arredamento, al capitale umano: chi ci lavora ha spesso una storia complicata alla spalle. L’idea è venuta due anni fa a Carmine Guanci della Vesti Solidale, una cooperativa impegnata nella raccolta degli indumenti usati per conto di Caritas Ambrosiana, una delle realtà non profit più dinamiche del sistema di cooperazione sostenuto dalla Diocesi di Milano, forte di un fatturato di 4,5 milioni di euro, con oltre 300 addetti in 15 anni, per il 40% ex detenuti, alcolisti, disabili. L’intento della nuova avventura

imprenditoriale e sociale era intercettare la domanda crescente in un nuovo settore di mercato. Second hand di tendenza «In questi anni abbiamo viaggiato un po’ per l’Europa e abbiamo visto quello che facevano realtà come la nostra – racconta Guanci -. In Francia, Spagna, Olanda, Danimarca e Germania le imprese no profit sono molto attive nella vendita di abiti usati perché per i cittadini di quei paesi è assolutamente normale comprare parte del proprio abbigliamento nei second hand store. In Italia, invece, ancora due anni fa il consumatore medio guardava ai vestiti di seconda mano con un po’ di distacco se non di ritrosia, temeva di acquistare qualcosa di brutto, fuori moda, era preoccupato di fare una scelta di ripiego che gli facesse perdere status sociale. Tuttavia sa-

Oggi quello che vediamo sugli scaffali dei negozi Share siamo costretti a comprarlo all’estero, in gran parte su quelle piazze commerciali nel Nord Europa dove questo settore è più sviluppato e funziona

pevamo anche che le cose stavano cambiando. Anche da noi stava sorgendo una nuova propensione al consumo, in parte obbligata dalla crisi, in parte motivata dalla ricerca di una maggiore sobrietà. E così ci siamo buttati».

Il primo negozio ad aprire le porte, nel marzo del 2014, è stato in via Padova 36, al primo piano di un edificio storico, recuperato grazie ad un importante progetto di housing sociale, in uno dei quartieri più multietnici di Milano. Poi quest’anno è stata la volta di via Luini, nel salotto buono, di una ricca città di provincia, Varese. Infine, pochi mesi fa, viale Umbria, terza vetrina ad illuminarsi, in una zona di confine tra quartieri popolari e benestanti nel capoluogo lombardo. Tre punti vendita, in luoghi differenti, con pubblico di riferimento diversi. Una sfida vinta Oggi si può dire che la sfida è stata vinta almeno nel primo store. Via Padova ha dato lavoro a 6 persone, ha aumentato in un anno il suo fatturato del 20% e ha anche generato ricchezza per il territorio: i proventi sono stati reinvestiti per acquistare gli arredi di un appartamento sociale destinato a ospitare mamme sole con i loro bambini, a pagare le cure odontoiatriche di famiglie in difficoltà economica, a sostenere un progetto multimediale per gli utenti del centro diurno di neuropsichiatria del Policlinico di Milano. Proprio il riscontro dei consumatori ha incoraggiato anche a programmare le altre due aperture: a Lecco e la prima fuori regione, al Sud, a Napoli. Sta così nascendo una vera e propria catena che potrebbe porsi anche un obiettivo ancora più ambizioso.

«Oggi quello che vediamo sugli scaffali dei nostri negozi siamo costretti a comprarlo all’estero, in gran parte su quelle piazze commerciali nel Nord Europa dove questo settore è più sviluppato e funziona – spiega Guanci –. Ma se riusciremo a sviluppare una rete solo un po’ più ampia, consorziandoci con altre cooperative, potremo raggiungere un volume d’affari tale da giustificare la luglio 2016 Scarp de’ tenis

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creazione di un centro di stoccaggio dove fare la selezione del materiale recuperato sul territorio». Le potenzialità sono enormi. Sono 110 mila le tonnellate di indumenti usati raccolti ogni anno in Italia (erano 72 mila nel 2009). E la Lombardia è al quinto posto tra le regioni più virtuose con una raccolta pari a 1,9 kg per abitante. La Vesti Solidale e la rete di cooperative RIUSE raccolgono da sole all’anno 5 mila indumenti attraverso i 1.400 cassonetti gialli della Caritas Ambrosiana. «Se riuscissimo a fare una cernita di tutto quello che viene buttato via e avessimo un impianto di sanificazione potremmo davvero chiudere il cerchio del riciclo – auspica Guanci –. Senza passaggi intermedi, l’abito scartato sarebbe rimesso in commercio all’interno di un sistema che crea lavoro per persone svantaggiate e produce benessere sociale».

“Girabito” Dagli stracci al vintage di moda di Claudio Thiene

La cooperativa nata per riciclare ferri vecchi e stracci ha saputo trasformarsi, offrendo occasioni di lavoro e spunti di consumo critico e stili di vita 32 Scarp de’ tenis luglio 2016

A Vicenza i “Girabito”, negozi del vestito usato e d’occasione, sono tre, e fanno capo alla cooperativa sociale “Insieme”. Sorta nel 1979, per iniziativa di un gruppo di cittadini che hanno saputo mettersi in discussione sulla qualità della vita e avendo a cuore le persone emarginate e i giovani in situazione di disagio. Il primo negozio è uno spazio ricavato all’interno della sede stessa della cooperativa, in via Dalla Scola, il secondo è un vero e proprio negozio su due piani in via Pecori Giraldi e il terzo, aperto lo scorso anno, è in via Vaccari. C’era una volta don Roberto Reghellin, allora parroco di S. Francesco. Lui, ventisette anni, da poco ordinato sacerdote, cercava di spiegare con santa pazienza, agli adole-

scenti contestatori sessantottini l’importanza di una delle tre virtù teologali: la carità. È quella che ti consente con un atto d’amore di entrare in contatto con le differenti realtà sociali, ed è stata questa la molla che lo spinse a rinunciare alla vita parrocchiale in favore di un’esperienza nuova, fatta di ascolto ai genitori in difficoltà, ascolto ai ragazzi che scappavano di casa (i primi giri di droga a Vicenza, i ragazzi allo sbando, il carcere…). Pensò di rispondere alle loro richieste d’aiuto cercando di fare proposte di vita, di impegno e di possibile lavoro. Una legge del 1978 favorì la nascita di cooperative per l’occupazione giovanile e Roberto (così preferiva essere chiamato) decise di dare vita a una di queste per il reinserimento di giovani che uscivano dal carcere. Dopo mesi di animate riunioni con i cittadini che era riuscito a coinvolgere, nacque


nanza e scambio continuativo con marginalità e disagio). Uno dei settori di maggior impegno della cooperativa è il mercato dell’usato che riguarda vestiario e scarpe.

Sono ben 110 mila le tonnellate di indumenti usati raccolti ogni anno in Italia (erano 72 mila soltanto nel 2009)

Un mercato in crescita Il fatto che si sia da poco inaugurato il terzo punto vendita sta a suggerire un mercato in crescita dell’usato che non può essere spiegato solo con un generalizzato aumento dell’indigenza che costringe al risparmio. Le ragioni che inducono un cliente all’acquisto di abiti usati possono essere diverse e di natura personale. Un sopralluogo in uno dei negozi, confondendosi tra la gente restituisce il comportamento di alcuni clienti e i loro discorsi, per tentare di capire le diverse motivazioni all’acquisto.

Per alcuni avventori l’abito usato è evidentemente l’unica cosa che possono permettersi, visto che pagano con un buono-acquisto elargito dalla Caritas diocesana, e per loro vale un’unica regola: il risparmio.

VICENZA

la cooperativa sociale Insieme. Qualcuno in città credeva che il ricavato del lavoro andasse in opere buone, non capiva che la cosa buona era proprio quella di dare a molti la possibilità di vivere del proprio lavoro. Il gruppo si organizzò in una stalla che fu messa a loro disposizione a Ospedaletto, un quartiere al limite est della città, per gestire un deposito di strasse(stracci) e fero vecio (ferro vecchio). I tredici socilavoratori della prima ora, oggi sono diventati centoventi a cui si aggiungono anche trenta volontari. La cooperativa è cresciuta e si è consolidata nelle sue quattro aree di impegno: accoglienza (occasione di crescita e maturazione di giovani provenienti da situazioni di grave disagio), ambiente (riuso-riciclaggio), autogestione (partecipazione che tutela e promuove diritti e responsabilità), abitare la città (vici-

Con il modo sicuro di muoversi tra gli appendiabiti e i loro commenti, alcune signore lasciano intendere che Armani, Dolce e Gabbana, e quant’altro, sia il loro pane quotidiano. Al Girabito non c’è proprio tutto quello che cercano però qualche modellino sembra rispondere alle loro necessità. La moda del vintage Per fare salva l’ultima forma innocente di vanità loro consentita, bisogna ricordare che l’abito che hanno appena comprato non è un usato, ma un vintage. Nel reparto bambini si sente una mamma mentre spiega al figlio riottoso l’utilità di acquistare l’usato. La signora sembra averne fatto un regola di vita: «Se è giusto dare a un uomo una seconda opportunità, perché questo non può valere anche per le cose? Risparmio non significa solo spendere meno, che già è lodevole, ma anche cercare di non sprecare in modo eccessivo e viziato, come siamo purtroppo abituati». Insomma, per qualcuno almeno il second-hand sembra sia diventato uno stile di vita.

LE CARITAS

Gestione diretta o cooperative, ma anche negozi ed e-commerce Ci sono quelle che hanno scelto di non occuparsene. E altre che ne hanno fatto un’importante attività economica per sostenere iniziative sociali. Tra questi due poli esistono varie gradazioni, che descrivono il coinvolgimento delle Caritas diocesane nel settore della raccolta di indumenti usati. Le realtà territoriali non impegnate con i cassonetti hanno comunque a che fare con la donazione di abiti, attraverso iniziative come l’“armadio del povero”: anche queste Caritas devono confrontarsi con la percezione diffusa sulla titolarità dei cassonetti presenti nella propria diocesi o con la gestione dei quantitativi eccedenti. Altre hanno scelto di promuovere esperienze di inclusione sociale e lavorativa sempre attraverso il meccanismo del riutilizzo di vestiti usati, ma senza fare ricorso alla raccolta tramite cassonetti: puntano su donazioni e merce che arriva dai sequestri della Guardia di finanza. Tra le Caritas che lavorano con i cassonetti gialli, alcune gestiscono, direttamente o attraverso cooperative sociali, la sola attività di raccolta degli indumenti, per poi affidare ad aziende specializzate il resto della filiera (selezione, igienizzazione, vendita dei vestiti). In questi casi, spesso, il conferimento alle ditte private degli indumenti raccolti prevede la corresponsione di royalties periodiche alla Caritas diocesana, da utilizzare per fini sociali, introducendo di conseguenza il legame tra raccolta e corrispettivo, tipico del commercio. Infine, ci sono Caritas che promuovono vere e proprie imprese sociali, per attuare tutti i passaggi della filiera. Le operazioni di raccolta, selezione e vendita aumentano le occasioni di occupazione di soggetti svantaggiati. Tra le esperienze più significative in fatto di raccolta c’è quella di Milano, dove Caritas Ambrosiana non è direttamente coinvolta nell’operatività, affidata a cooperative sociali, ma promuove il progetto e ne assicura le finalità ambientali, occupazionali e solidaristiche. Nella diocesi milanese sono presenti circa 1.400 cassonetti in più di 300 comuni, attraverso cui si raccolgono 8 mila tonnellate annue di indumenti usati. I lavoratori assunti sono 51, nel 2015 sono stati destinati 327 mila euro di ricavi a progetti di solidarietà e assistenza. Una delle cooperative ambrosiane, Vesti Solidale, ha avviato anche tre negozi, due a Milano e uno a Varese, dove vengono venduti capi d’abbigliamento di seconda mano di qualità. Anche questa attività commerciale crea occupazione per giovani disoccupati e soggetti svantaggiati e genera risorse economiche per finanziare progetti di solidarietà. Un’altra realtà importante è Napoli, dove la Caritas diocesana si avvale, come braccio operativo, della cooperativa sociale Ambiente Solidale. I cassonetti, presenti in circa due terzi della città, sono 600 e danno lavoro a 20 persone svantaggiate. Alla Caritas finiscono 50-60 mila euro all’anno, che finanziano progetti sociali. La cooperativa si è inventata anche un sito web dove vende on line, attraverso l’e-commerce, vestiti usati. Da segnalare infine le esperienze emblematiche delle diocesi di Bolzano (247 cassonetti in 84 comuni per 7 mila tonnellate di capi raccolti in un anno) e Bergamo (dove in 18 anni si è dato lavoro a 40 persone): nella città altoatesina la gestione è tutta in capo alla Caritas diocesana, anche proprietaria dei cassonetti; a Bergamo invece l’attività è stata “ceduta” a cooperative sociali collegate, dopo essere stata portata avanti per anni dalla Caritas.

luglio 2016 Scarp de’ tenis

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MILANO

La messa in cinese di don Zhang di Stefania Culurgioni

Un viaggio dentro la comunità cattolica cinese di Paolo Sarpi ospitata dalla parrocchia della SS. Trinità di via Giusti. Un piccolo, sono circa 200 le persone di origine cinese che animano la parrocchia, ma attivo gruppo in cui si registrano diverse conversioni all’anno 34 Scarp de’ tenis luglio 2016

Nonostante un improvviso acquazzone imperversi su Milano, trenta fedeli sono usciti di casa per non mancare l’appuntamento con don Giuseppe Zhang. Sono le quattro di pomeriggio di domenica e la messa in cinese sta per cominciare. Un collaboratore ha preparato il proiettore: sulla parete di fianco all’altare scorre un pentagramma con i canti d’apertura, il testo è tutto in lingua. Difficile, se non la si parla, coglierne il senso, ma ci sono delle parole che restano uguali: Alleluja, per esempio, ma anche Amen. Si prega nello stesso modo, e Dio è lo stesso per tutti, proprio come il sole e anche come questa pioggia possente. Ecco una piccola finestra sulla vivace comunità cinese di Paolo Sarpi. Nella parrocchia della SS. Trinità di via Giusti da tre anni e mezzo don Zhang, parroco cattolico, 40 anni, è il punto di riferimento di un mondo di emigrati (e dei loro figli) che anno per anno popola sempre di più i banchi davanti all’altare. Erano circa 150 nel 2014, quest’anno sono già 200, e crescono anche le conversioni religiose. La comunità cinese è sempre più milanese, e lui è la loro guida spirituale.


DIOCESI

“L’odore della mia terra”, un concorso di scrittura dedicato ai cittadini stranieri

Qui sopra, un momento della celebrazione della messa per la comunità cinese alla parrocchia della SSs Trinità di via Giusti a Miano. A sinistra, un messale in cinese mandarino

Una comunità che cresce «In questi anni abbiamo lavorato tanto – racconta – ho dei nuovi aiutanti, le famiglie che ci raggiungono sono sempre di più, e non ci limitiamo solo alla messa. Ci ritroviamo ogni domenica, prendiamo parte a feste (ndr come la Festa dei Popoli a Rho qualche settimana fa), organizziamo pellegrinaggi, accogliamo gruppi di cinesi che vengono in Italia. La comunità cinese è sempre più vicina a quella italiana, anche se ci vuole ancora tanto tempo. L’amicizia è qualcosa che richiede pazienza».

Tre chierichetti adolescenti lo affiancano nella celebrazione. Facile intuire che sono cinesi milanesi, magari nati proprio qui, oppure arrivati da piccoli. Li si sente spesso, quando escono in gruppo e prendono la metropolitana, scivolare con agilità dalla lingua natia a quella italiana, con una cadenza milanese perfetta. Ma alla Messa ci sono anche tanti anziani: come Giacomo, che ha 84 anni, vive a Milano da cinquant’anni e ha ricevuto il sacramento all’età di 79 anni. «No che non è strano – dice sorridendo don Giuseppe – a volte la fede ci mette anni a maturare nel cuore di una persona. Lui l’ha trovata a quell’età».

Si chiama “L’odore della mia terra – ricordi, tradizioni, leggende di una terra da costruire” l’edizione 2016 del concorso di scrittura Immicreando, riservato ai cittadini di origine straniera che vivono in Italia la loro storia di migrazione, che ha raggiunto il suo 14 esimo compleanno ed è divenuto una tradizione per la città di Milano e la sua Diocesi, sconfinando anche in altre Diocesi Lombarde, come testimonia la provenienza dei lavori. Era la primavera del 2002 quando la pastorale dei migranti dell'Arcidiocesi di Milano - che si cura del vissuto umano e spirituale delle persone immigrate - e la Fondazione Ismu, da anni impegnata con iniziative e studi sulla multietnicità decisero di lanciare un nuovo progetto a sostegno dell'integrazione, che uscisse dai soliti schemi, che sostenesse e valorizzasse i migranti da un diverso punto di vista. Un progetto innovativo, quindi, rispondente al mutamento in atto nella cura pastorale dei migranti che portava dalla risposta all'emergenza sociale alla comprensione che l'integrazione non è solo questione di servizi ma fa appello alle motivazioni di fondo di una civiltà, favorendo la cultura di una società più consapevole di sé, della propria identità, della corresponsabilità verso l'altro, dello sforzo necessario per imparare a convivere e a condividere. Mettere a disposizione risorse per un'azione di solidarietà a persone, considerate non per la loro condizione di “bisogno”, ma secondo un criterio meritocratico, dato dal valore umano, interiore, dalla cifra del pensiero; valorizzando quelle caratteristiche che connotano inequivocabilmente la persona. Questa è l'idea di fondo che ha animato la scelta di premiare gli stranieri che vivono, lavorano, costituiscono e costruiscono la società in cui tutti viviamo, per la loro espressività artistica, intuizioni, creatività. Da qui l’ìdea di lanciare Immicreando, concorso di scrittura aperto esclusivamente a persone immigrate senza limiti di età, appartenenza nazionale, sociale, religiosa per attribuire un riconoscimento alla abilità creativa, attraverso i racconti della propria esperienza di viaggio, di migrazione, di incontro con la nuova realtà per comprendere quanto si sentano e quanto li facciamo sentire un tassello significante del mosaico sociale milanese. Ogni anno, i lavori che arrivano sono sempre più numerosi e la loro qualità crescente. Anche i premiati - che ricevono un attestato di riconoscimento e un premio in denaro - sono ormai numerosi e di varia provenienza: rumena, albanese, ucraina, ecuadoriana, peruviana, filippina, salvadoregna, congolese, cinese, equamente ripartiti tra uomini e donne. Considerata la difficoltà di dovere scrivere in italiano, il concorso ha incontrato la curiosità, l'interesse, l'entusiasmo di molti stranieri, che hanno raccolto l'invito accettando di farci conoscere il loro pensiero, ma anche le loro emozioni, lacrime, orgoglio, nelle parole impresse sulla carta, ma anche sui loro volti, al momento della premiazione. Certo, l'obiettivo è ambizioso e complesso, né lo raggiungeremo in breve tempo. Si tratta, anche attraverso questo strumento, di suscitare - o almeno provarci - un desiderio di vicinanza, empatia, reciproco rispetto tra uomini diversi, destinati a diventare un solo “popolo nuovo” in questa terra. luglio 2016 Scarp de’ tenis

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MILANO Giacomo sorride: capisce l’italiano ma fa fatica a parlarlo perché quando è arrivato non era già più un ragazzino. Racconta che nel sud della Cina faceva il contadino, guadagnava 35 yuan al mese che però sparivano presto per l’affitto e per il cibo. Allora ha deciso di venire in Italia e raggiungere le sue sorelle: «Inizialmente con il pretesto di fare una visita medica – racconta – ma poi loro mi hanno convinto a restare». Ha lavorato in un ristorante, ha conosciuto la parrocchia di via Giusti, ha trovato degli amici e infine ha deciso di farsi cattolico. 30 mila i cinesi meneghini Secondo le ultime statistiche, a Milano vivono circa 30 mila cinesi e ci sono 2.800 aziende concentrate soprattutto tra via Paolo Sarpi, via Padova, via Mac Mahon e nel quartiere Comasina. La comunità cinese più “antica” però è proprio quella di via Sarpi dove i primi asiatici arrivarono quasi cento anni fa, poco dopo la prima guerra mondiale, e dove le conversioni crescono di anno in anno: tre anni fa erano solo quattro, quest’anno sono state dieci (celebrate da don Zhang). Donne e uomini nati in Cina, arrivati quando erano ormai adulti oppure piccolissimi, che ad un certo punto scoprono la fede in Dio e chiedono il battesimo. A parte le classiche gite per i santuari italiani e i pranzi insieme alla domenica (molti cinesi hanno in affitto un posto letto e non hanno la cucina), don Zhang, che si è fatto prete a 25 anni e ha preso due lauree, si è inventano un modo tutto suo per tenere vivi i contatti: «Con le famiglie leggiamo insieme un brano della Bibbia e poi lo commentiamo. Se loro hanno domande, me le possono mandare via mail o su whatsApp, e io rispondo. Oppure, una volta al mese parte il giro dell’adorazione della Madonna: un’icona con la Vergine viene fatta girare di famiglia in famiglia e insieme ci si ritrova a casa di ciascuno per pregarla. È un modo per conoscersi meglio».

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Suor Antonietta missionaria a Milano di Stefania Culurgioni

Nel convento dell’Immacolata opera una piccola scuola in cui si insegna l’italiano ai bimbi cinesi appena arrivati nel nostro Paese

Nel convento delle missionarie dell’Immacolata c’è una scuolina per bambini cinesi. Si, una scuolina. Perché la suora che l’ha avviata lavora nell’ombra e non vuole a farsi pubblicità. «Lo spazio è solo questo – racconta, indicando un tavolo al centro di una stanza – e come insegnanti ci siamo solo io e una professoressa in pensione». Si chiama suor Antonietta D’Onofrio, ha 63 anni, si porta la sua Napoli nel cuore ma è stata per vent’anni ad Hong Kong. Ora che è rientrata non ha saputo resistere: «Ho lavorato negli ospedali e nelle parrocchie, mi sono sempre occupata di poveri e malati e ora che sono in Italia mi sono resa conto che i ragazzini cinesi che arrivano qui hanno bisogno di aiuto». Con la testa china sui libri di antologia, tre ragazzini stanno facendo i compiti. Sbirciano curiosi da sotto in su, tra loro parlano in cinese, capiscono benissimo l’italiano e si burlano della suora quando lei parla il mandarino, perché ha un accento cantonese. Stanno facendo i compiti e hanno a che fare con


Suor Antonietta insieme a uno dei suoI studenti cinesi di seconda generazione che hanno raggiunto da poco i genitori nel nostro Paese

30 mila

2.800

Numero di cinesi residenti a Milano dove i primi immigrati giunsero nel ‘900

Le imprese e le aziende cinesi concentrate nelle vie Sarpi, Mac Mahon e Padova

PROGETTI

La comunità di Sant’Egidio i primi a confrontarsi: «Partire dai bambini per favorire l’integrazione» I primi furono i volontari della Comunità di Sant’Egidio che, più di vent’anni fa, cominciarono ad avvicinarsi agli emigrati arrivati a Milano dalla Cina. Era il 1992, i numeri cominciavano a crescere, sempre più persone avevano bisogno di imparare l’italiano, di colmare un vuoto culturale molto forte, tra il Paese asiatico di provenienza e quello occidentale d’arrivo. Fondata nel capoluogo lombardo dal professore universitario Andrea Riccardi nel 1968, la Comunità cominciò per prima ad organizzare le Scuole della Pace, un’esperienza fatta di incontri bisettimanali animati da giovani volontari liceali o universitari della comunità. Gli incontri, sempre gratuiti, avevano e hanno tuttora lo scopo di educare i bambini e i ragazzi alla pace e alla solidarietà, oltre ad insegnare loro la lingua e la cultura italiane. Molto più

che un semplice doposcuola, insomma, fatto per creare coesione, per far interagire bimbi di culture diverse, ma anche bambini ed anziani, con giochi, canti e lezioni divertenti e costruttive.

LA STORIA

la complicata grammatica nostrana fatta di articoli determinativi e indeterminativi che si burlano a loro volta di chi tenta di impararli. Il convento si trova in via Masaccio, a Milano, e Yang (17), Zing Li (13) e Sisi (14) sono tre dei tanti ragazzini che ogni giorno vanno lì a fare i compiti e a farsi dare una mano. «Molti di loro sono adolescenti nati in Cina che si ricongiungono ai genitori emigrati in Italia – racconta Antonietta –: mamma e papà lavorano, loro sono catapultati sui banchi di scuola. È una cultura che non conoscono, non sanno l’italiano. Da due anni cerchiamo di creare un ambiente ospitale, affinché non si perdano per strada». Yang fa un liceo scientifico ed è una ragazzina che studia con tenacia e costanza. Racconta che le fece molta impressione, appena scesa dall’aereo, sentire che gli italiani si soffiano il naso facendo rumore. In Cina non si fa. E racconta che suo fratello è nato qui, e che praticamente è italiano. Lui ama la pasta, lei no, lui ama il formaggio, lei per niente, lui impazzisce per i dolci, lei li trova troppo zuccherati. Però lei vuole iscriversi a medicina, e quindi ci dà dentro con lo stu-

dio. Sisi e Valentina, quasi sorelle Sisi, che è arrivata da due mesi, non spiccica una parola in italiano ma intuisce il significato di quasi tutto. Ha anche un nome italiano, ma non se lo ricorda, invece sua sorella, che è nata qui, si chiama Valentina e solo in coda ha un nome cinese. E così, tra la prima e la seconda generazione, scopriamo il divario tra fratelli, mondi emotivi di mezzo che cercano di parlarsi. «Io li capisco – dice suor Antonietta – pure io, che sono italiana e che sono stata in Cina vent’anni, mi sento napoletana nel cuore. Certamente, penso che l’integrazione tra cinesi e italiani migliori sempre di più, ma avviene soprattutto nelle seconde generazioni, e soprat-

L’integrazione tra cinesi e italiani sta migliorando sempre di più, nonostante le grandi differenze ma avviene soprattutto nelle seconde generazioni, e soprattutto tra chi è nato qui. Noi dobbiamo essere un ponte

tutto tra chi è nato qui». Nel convento vivono venti suore del Pime. Sono donne che hanno fatto e continuano a fare avanti e indietro per il mondo, e adesso un po’ di mondo va da loro, a cercare una guida per orientarsi meglio. Gli studenti della scuolina, che è gratuita, sono dieci: quattro delle elementari, gli altri di medie e superiori. Tanti mollano il colpo «Però sono tanti quelli che mollano il colpo – continua Antonietta – perché è troppo difficile e vanno a lavorare, nei negozi di telefonini o nei ristoranti dei genitori. Invece ce ne sono molti altri che per lunghi periodi tornano in Cina a studiare il mandarino, perché dai genitori, che spesso non sono andati a scuola imparano solo il dialetto. Per loro è importante tenere viva l’origine e la cultura, con l’idea che un giorno in Cina ci si può tornare». Molti di questi ragazzini non andranno in vacanza perché il concetto di “andare al mare in estate” non appartiene alla loro cultura. Staranno a Milano, a studiare, e Antonietta darà una mano ai genitori. Lei fa da tramite «Perché – dice – per noi italiani l’essere testimoni e ponte tra le culture è essenziale». luglio 2016 Scarp de’ tenis

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Due immagini tratte dal film Cafè Waldluft del regista tedesco Matthias Koßmehl che racconta la storia di Mama Flora e dei suoi tanti ospiti

Cafè Waldluft Si ospitano rifugiati nei luoghi amati da Hitler di Daniela Palumbo

Da oltre due anni nella località turistica che ospitava il Berghof, la residenza estiva del dittatore tedesco, Mama Flora ospita e garantisce un lavoro a decine di rifugiati. Ne è nato un film 38 Scarp de’ tenis luglio 2016

Berchtesgaden è una storica località turistica ai piedi delle alpi salisburghesi, famosa per il paesaggio montano, ma anche per il Berghof, la residenza estiva che Adolf Hitler fece costruire: qui amava rifugiarsi il numero uno della Germania nazista insieme agli alti gradi delle SS. E qui, da oltre due anni, la proprietaria del Cafè Waldluft, Mama Flora ospita rifugiati mediorientali e africani, tutti in attesa di asilo politico. Lo racconta in un film Matthias Koßmehl, regista, nato a Monaco nel 1987. Matthias ha studiato dal 2008 al 2012 alla Libera Università di Bolzano, perfezionando la sua formazione in cinema e fotografia. Dal 2013 lavora a Monaco nel settore della pubblicità. Il suo film, Cafè Waldluft, è stato presentato al Trento Film Festival. «Sono cresciuto in un piccolo paese bavarese – racconta il regista – non lontano da Berchtesga-


LA STORIA

scheda

den. Negli ultimi anni sono arrivate sempre più persone e il governo cercava posti dove ospitarle. Tanti rifugiati sono stati sistemati nei piccoli paesi, in vecchi hotel o ristoranti. È interessante osservare questi luoghi, vedere come cambia la composizione sociale e come si comportano gli autoctoni. Berchtesgaden è un luogo storico, una volta usato per la propaganda ariana del regime nazista. Ma è anche un luogo che rappresenta la Baviera come una specie di piccola Disneyland. Cafè Waldluft è ancora più speciale perché lì si incrociano tutti questi piani. Da un lato i turisti, per i quali è ancora il paradiso, dall’altro ci sono gli abitanti, per i quali Berchtesgaden è la propria “Heimat”, la patria. E poi ci sono i rifugiati che hanno lasciato la propria “Heimat” per trovarne una nuova. Tutti questi destini si incrociano qui. Un mix davvero surreale». Nel film tante persone sole. A cominciare dai rifugiati, ma non solo.

I rifugiati arrivano quasi tutti soli lasciando il resto della famiglia nel paese d’origine nella speranza di ricongiungersi una volta ottenuta una certa stabilità. Poi finiscono in una situazione dove l’attesa sembra eterna. Finché si decide cosa sarà di loro, se la loro richiesta di asilo verrà accettata. Sulla terrazza del Waldluft i vecchi chiacchierano dei rifugiati e nelle loro parole c’è più che altro diffidenza. Tante persone hanno paura di quelli che arrivano. Ma è una cosa abbastanza normale. Ognuno di noi ha paura di quello che non conosce, di ciò che è diverso. I partiti di destra lavorano per provocare questa paura. Io però non volevo idealizzare niente, ho mostrato la realtà così come è. Perché la proprietaria del Café Waldluftospita rifugiati? All’inizio era per i soldi: Flora vedeva i rifugiati come ospiti . Non li differenziava dai turisti provenienti dall’Australia o dal Giappo-

Paolo Valente è il direttore della Caritas diocesana di Bolzano-Bressanone. «Da febbraio si vocifera di un fantomatico “muro del Brennero”. Che non c’è né ci sarà. Tuttavia l’immagine è suggestiva e a suo modo “vera”. Essa descrive bene la realtà di un mondo in cui si erigono barriere e confini – direbbe don Lorenzo Milani – tra diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro». In realtà si tratta della volontà di intensificare i controlli nell’ambito della Convenzione di Dublino (della quale molti, tra cui Caritas Europa, chiedono una revisione). L'Austria, nel 2015, ha visto transitare sul suo territorio centinaia di migliaia di persone dirette verso l’Europa del Nord e ha dato accoglienza a circa 90 mila richiedenti asilo. La pressione sul Brennero è molto calata rispetto all’autunno scorso. A maggio la polizia italiana ha cominciato a trattenere le persone in transito sul territorio nazionale. Ai primi di giugno si parlava ancora di appena due o tre persone che riuscivano a varcare la frontiera. La Provincia di Bolzano, da parte sua, ha un piano di intervento con la protezione civile nell’eventualità (non prevedibile) della presenza improvvisa sul territorio di alcune centinaia di persone. La Caritas di Bolzano-Bressanone assieme alla Caritas austriaca è pronta a monitorare eventuali abusi, legati anche all’inasprimento della legge sul diritto di asilo approvato in Austria alla fine di aprile. Ovvero: asilo a tempo (limite di tre anni). Possibilità di indire lo stato di emergenza bloccando i migranti alle frontiere (da parte della polizia, senza verifica della loro situazione da parte di una commissione). Regolamentazione più severa rispetto ai ricongiungimenti familiari. www.caritas.bz.it Facebook caritas.bz.it

ne. Molto presto ha però realizzato le dimensioni di quello che stava facendo e questo ha cambiato la sua vita. Per lei aiutare questi ragazzi a fare i primi passi in una società nuova è diventato il compito della sua vita. Flora, da tutti i 35 ragazzi chiamata Mama Flora, ha trovato una nuova famiglia. Nel film un ragazzo afgano sfila per la strada con una bandiera tedesca mentre le vie sono affollate di macchine che festeggiano una sfida sportiva. Ma alla fine resta solo. Non basta portare una bandiera per diventare qualcos’altro... Esattamente. E direi che è anche una scena metaforica per la situazione di tanti richiedenti asilo in Europa. Stai provando il tutto per tutto per diventare parte di una società, ma rimani sempre un po’ fuori. Ovunque tu vada. Perché ti mancano le chiavi per entrare in questa creazione astratta chiamata società. Sarà compito delle nostre società includere queste persone e dar loro una prospettiva di futuro nei nostri Paesi. Conosce il destino dei protagonisti del suo film? I rifugiati devono aspettare finché viene presa una decisione sul loro status. E non sempre la risposta è positiva. Come per esempio è successo a Hardy che dopo essersi integrato molto bene ha ricevuto l’espulsione, e ha tentato il suicidio. I primi 9 mesi non si ha il permesso di lavorare. E dopo si fatica a trovare qualcosa, a Berchtesgaden non c’è lavoro, questo rende l’attesa ancora più dura. Mama Flora cerca di dare a ognuno qualche lavoro assicurando anche una paghetta. Jamshid è un caso speciale, lui è diventato il cuoco della casa e braccio destro di Flora e viene pagato come addetto del ristorante. Ma lui è un’eccezione: ha ottenuto il passaporto e potrebbe andarsene. Ma ha comunque deciso di rimanere per aiutare Mama Flora in questa grande missione. luglio 2016 Scarp de’ tenis

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Il mutuo aiuto dei senza dimora in biblioteca di Generoso Simeone

Le biblioteche sono un rifugio perfetto per i senza dimora: calde d’inverno, fresche d’estate offrono una serie di servizi (connessione internet inclusa) indispensabili per chi non ha nulla. C’è chi sta strutturando un progetto 40 Scarp de’ tenis luglio 2016

Le biblioteche di Milano sono luoghi storicamente frequentati da persone senza dimora. D’inverno trovano il caldo, d’estate stanno al fresco. Ci sono i libri, per passare un po’ di tempo leggendo, e ci sono i giornali, per tenersi informati. Ma soprattutto c’è internet: «Per cercare lavoro», come spiega Morisho, un uomo di 43 anni, originario della Repubblica Democratico del Congo, arrivato in Italia nel ’98 come studente universitario. «Vado tutti i giorni in biblioteca – continua –, è l’unico punto da cui posso collegarmi al web e consultare gli annunci». Morisho è una persona colta e parla un ottimo italiano, ma è disoccupato da quasi un anno. Prima era impiegato nel settore marketing e ricerche di mercato. «Ma poi – spiega – hanno spostato le postazioni in Albania e Bulgaria e noi siamo rimasti a casa. Non potendo più pagare l’affitto sono finito prima nei dormitori e ora per strada». Dall’inizio dell’anno Morisho fa parte del gruppo di auto mutuo aiuto per senza dimora che frequentano la Sormani, la biblioteca comunale centrale di Milano ospitata a Palazzo Sormani, edificio di grande valore storico e ar-


MILANO

Le biblioteche sono un luogo protetto in cui molti senza dimora trovano rifugio. Alla Sormani di Milano è nato un gruppo di auto mutuo aiuto

I partecipanti al gruppo formato alla Sormani hanno capito che non sono lì per cercare casa e lavoro, ma per ritrovare serenità, pensare a se stessi e alle proprie possibilità. I senza dimora del gruppo di auto mutuo aiuto si ritrovano ogni 15 giorni e in questi primi mesi di attività le cose stanno andando molto bene

chitettonico, a due passi dal Duomo di Milano. «Un giorno in biblioteca ho trovato un volantino – racconta – dove ci invitavano a partecipare a un incontro nel quale si sarebbe parlato di ricerca di lavoro». Progetto per gli homeless L’annuncio era stato messo dagli assistenti sociali del comune di Milano del Centro di aiuto della stazione Centrale. Silvia Fiore è una di loro. «Noi ci occupiamo di senza dimora e dei loro bisogni – racconta –. Da tempo pensavamo di promuovere un’iniziativa che li rendesse protagonisti della propria vita, qualcosa di diverso dalla mera ricerca di un lavoro. Pensavamo a un progetto che riuscisse a tirare fuori le loro potenzialità, a uscire dalla dinamica della richiesta e dell’assistenzialismo, a valorizzare le loro competenze, a riprendere in mano la loro vita rendendosi motori di un cambiamento. Per questo abbiamo lanciato un gruppo di auto mutuo aiuto». I gruppi di auto mutuo aiuto sono uno strumento che permette alle persone che hanno lo stesso tipo di problema di riunirsi, discutere, confrontarsi, al fine di trovare le risorse e le soluzioni per affrontare insieme le difficoltà comuni. A Milano è presente l’associazione

Amalo, che promuove e organizza i gruppi di auto mutuo aiuto con facilitatori. «Siamo stati contattati – dice Amos Totis, presidente di Amalo – dagli assistenti sociali del Comune per far partire un gruppo di auto mutuo aiuto per i senza dimora che frequentano la Sormani. Lì c’era l’esigenza, espressa anche dagli stessi bibliotecari, di creare un’opportunità per coinvolgere le persone. Abbiamo quindi formato gli assistenti sociali e il gruppo è partito. Le sedute funzionano con un facilitatore che è il garante dell’incontro e fa funzionare la comunicazione. Al primo appuntamento, in cui abbiamo spiegato cosa avremmo fatto, si sono affacciati in venti, poi hanno continuato in una decina, che tra l’altro è il numero ideale per lavorare al meglio. Tutti i partecipanti hanno capito che non sono lì per cercare casa e lavoro, ma per ritrovare serenità, pensare a se stessi e alle proprie possibilità».

I senza dimora del gruppo di aiuto mutuo auto si ritrovano ogni 15 giorni e in questi primi mesi di attività le cose stanno andando bene. «Pensiamo anche – precisa Silvia Fiore – che si tratta di un’esperienza unica nel suo genere. È la

prima volta che in Italia si forma un gruppo di auto mutuo aiuto per persone senza dimora che frequentano le biblioteche. E consideriamo anche che si tratta di un’iniziativa a costo zero perché la biblioteca dove facciamo gli incontri è comunale. Ogni seduta dura un’ora e mezza, ognuno ha il proprio spazio per esprimersi e i riscontri sono positivi. Ora l’idea è portare il progetto anche in altre biblioteche». Sempre presente Morisho è sempre stato presente a tutti gli incontri. «Le prime volte – racconta –non capivamo bene cosa stessimo facendo. E anche adesso non saprei dire cosa siamo. Nelle prime sedute parlavamo un po’ di tutto, ma soprattutto dei nostri problemi, la casa, il lavoro, i documenti. Poi ci siamo messi a pensare di voler fare dei progetti insieme. Ne stiamo ancora discutendo, ma quello che sta emergendo è che vogliamo essere utili a quelli come noi. Ad esempio, non tutti sanno che possono farsi la doccia tutti i giorni in strutture diverse. Ecco, noi potremmo essere quelli che vanno a spiegare che ci si può lavare un giorno dai frati di San Francesco e l’altro nelle docce comunali».

IL PROGETTO

Gruppi di sostegno reciproco: insieme per sconfiggere le difficoltà I gruppi di auto mutuo aiuto sono formati da persone che condividono uno stesso problema o una medesima situazione, ad esempio una malattia, una condizione sociale, degli stati personali di disagio. I membri provvedono a darsi un supporto psicologico uno con l’altro, ad apprendere modalità per fronteggiare le difficoltà, scoprire strategie per migliorare la loro condizione e aiutare gli altri mentre aiutano loro stessi. Si acquisiscono così specifiche informazioni riguardanti soluzioni pratiche apprese dall’esperienza diretta, che di solito non sono ricavabili né dai libri, né dal sapere professionale. I membri del gruppo si ritrovano quindi inseriti in una sorta di piccolo sistema sociale in cui smettono di essere dei portatori di criticità e diventano invece soggetti attivi e portatori di risorse. L’associazione Amalo stima che in Italia siano attivi oltre 8 mila gruppi, di cui 900 nella sola Lombardia. luglio 2016 Scarp de’ tenis

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La violenza sulle donne si può battere di Vito Sciacca e Cristina Cellamare

Nel 2014 sono state ben 600 le richieste di aiuto ricevute nei centri di ascolto sul territorio della città di Torino, una delle città più attive su questo fronte e in cui, fin dal 2000, opera il coordinamento cittadino contro la violenza sulle donne 42 Scarp de’ tenis luglio 2016

La cronaca recente ha nuovamente portato alla ribalta la piaga del “femminicidio”. Oltre a questi casi eclatanti, però, centinaia di gesti di sopraffazione e di violenza domestica sfuggono alla conoscenza dei non addetti ai lavori. Per contrastare questo fenomeno, a Torino è stato istituito, già nel 2000 dalla giunta comunale, il Coordinamento cittadino contro la violenza sulle donne, rete di enti e associazioni che collaborano per rispondere a tutte le forme di violenza nei confronti delle donne. Dal 2003 il Coordinamento comprende tre gruppi operativi: un gruppo informazione, comunicazione e formazione per attivare iniziative di sensibilizzazione, percorsi di prevenzione e formazione nelle scuole sull’educazione alla non violenza; un gruppo emergenza abitativa finalizzato a risolvere il problema dell’accoglienza in emergenza delle donne maltrattate e vittime di abusi; un osservatorio legale e sociale volto ad attivare modalità di osservazione sull’incidenza dell’applicazione delle norme esistenti in tema di violenza sessuale. Il 16 febbraio 2016, poi, il consiglio regio-


TORINO lenza: «Spesso queste donne hanno un atteggiamento autocolpevolizzante, tendono a considerare loro stesse la causa dell’accaduto. Molte credono di poter cambiare in meglio i loro persecutori. Si tratta d’atteggiamenti sbagliati, ed è fondamentale mettere le vittime in condizione di riconoscerli e correggerli».

Grazie a servizi più mirati sono in aumento le denunce. Qui sopra un’opera di LadyBe in questi giorni in mostra alla triennale di Verona

Grazie alla creazione dei centri d’ascolto le donne vittime di violenza hanno più propensione a parlare. Le donne hanno maturato una maggiore consapevolezza di sé, imparando a non accettare più soprusi. Anche l’offerta di servizi adeguati e personalizzati ha influito sull’emersione del fenomeno

nale ha approvato una nuova legge che fa del Piemonte la prima regione italiana a introdurre il “codice rosa”: ogni volta che in un pronto soccorso si presenta una donna vittima di violenza si attiva un’équipe multidisciplinare che si occupa del caso. Alla base dell’impegno istituzionale c’è stato l’importante lavoro delle associazioni cittadine, come ScambiaIdee (www.scambiaidee.info), nata nel 2000 e tra i promotori del coordinamento cittadino, impegnata ad affermare la cultura delle pari opportunità, la sensibilizzazione contro la violenza domestica e la lotta agli stereotipi di genere. Si denuncia di più «Negli ultimi anni è mutato l’atteggiamento da parte dell’opinione pubblica, delle istituzioni e delle stesse vittime – dice Carla Napoli, presidente di ScambiaIdee –. Abbiamo caldeggiato nel 2007 la creazione dei centri d’ascolto e, rispetto ad allora, le donne vittime di violenza hanno maggior propensione a parlare. In questi anni le donne hanno maturato una maggiore consapevolezza di sé, imparando a non accettare più soprusi». L’offerta di servizi adeguati ha influito sull’emersione del fenomeno: oggi nei centri antiviolenza sono presenti specialisti, sia in campo psicologico che legale, con il compito di supportare le vittime. «La denuncia di una violenza è particolarmente gravosa per le vittime, dalla difficoltà di raccontare a terze persone vicende private a problemi pratici, quali il cambio d’abitazione o l’eventuale cura dei figli» spiega Napoli, soffermandosi su alcuni tratti comuni alle vittime di vio-

Lavorare sugli aggressori Certo non si può contrastare la violenza sulle donne senza occuparsi anche degli uomini violenti, come osserva Adriana Ansaldi, anch’essa

di ScambiaIdee e membro del comitato di raccordo con il coordinamento regionale: «Come donna sono la prima a desiderare che un aggressore paghi per i suoi comportamenti, ma il carcere non può essere l’unica risposta: occorre aiutare queste persone a lavorare su se stesse e sul loro vissuto. Se è vero che la violenza è anche una malattia, la semplice sanzione non può impedire che costoro, una volta scontata la pena, ripetano i loro comportamenti violenti». www.irma-torino.it

LA SCHEDA

Mariti, ex, fidanzati e conviventi: se il pericolo è tra le mura di casa A Torino il Coordinamento cittadino e provinciale contro la violenza alle donne (Ccpcvd) svolge dal 2007 attività di monitoraggio. Nel 2015 è stata attivata una formazione specifica sulla modalità di raccolta dati, che ha coinvolto gli 11 centri già impegnati nel monitoraggio e 9 nuovi centri diventati operativi tra il 2015 e il 2016. I centri di raccolta dati vanno dal Centro antiviolenza del Comune, a quelli attivi nei principali ospedali cittadini fino a quelli attivati da gruppi e associazioni in difesa delle donne. L’ultimo Report, pubblicato nel dicembre 2015, ha analizzato i 600 casi raccolti nel 2014. Le vittime – Il 70% delle donne che compongono il campione ha subito 2 o 3 diversi tipi di violenza: psicologica (86%), fisica (76%), economica (30%), sessuale (30%), stalking (23%). Tutte le tipologie di violenza avvengono prevalentemente in casa. Per il 75% delle donne si sono verificati fatti analoghi precedenti a quello per cui si è richiesto aiuto, ad opera dello stesso o di altri autori. La fascia d’età prevalente delle donne che si rivolgono ai centri è 31-40 anni, tuttavia sono in aumento i casi nella fascia 41-50 e tra le over 60. In maggioranza italiane e in oltre il 60% dei casi con figli (prevalentemente minorenni), le donne monitorate dal Report hanno in maggioranza un titolo di studio medio-basso e sono disoccupate in percentuale rilevante (quasi un terzo), condizione di fragilità economica che rende più difficile affrancarsi dalla violenza. In forte diminuzione la percentuale di donne che ritirano la denuncia fatta. Gli aggressori – In oltre il 90% dei casi gli autori delle violenze subite dalle donne sono persone singole, conosciute alle loro vittime. Si tratta soprattutto di partner o ex partner (oltre il 70% dei casi), in prevalenza attuale marito o convivente della vittima (53,4%); in alcuni casi l’aggressore è un parente, prevalentemente il padre (6%). Solo nel caso delle violenza sessuale si rileva una percentuale abbastanza elevata di aggressori anche tra gli amici/conoscenti (26,3%); gli ex fidanzati sono invece spesso autori di stalking (quasi 40% dei casi). In genere gli aggressori italiani agiscono su vittime italiane e gli stranieri su vittime straniere, ma circa un terzo degli aggressori italiani agisce anche su donne straniere (coppie miste). luglio 2016 Scarp de’ tenis

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IL RACCONTO

Quando finisci in strada le persone ti schivano. Guardano a terra per paura di diventare poveri. Scappano da te

Il senso della vita Le regole da seguire in strada di Aurelio Bonazza

Qual è il senso della vita? Non lo so. L’importante è superare una notte dopo l’altra e, per farlo, bastano 3 regole: mai dormire isolati dagli altri; il cartone con cui ti copri deve essere asciutto; i vestiti che possiedi, li devi portare addosso. Semplice, no? Essere un barbone mica è un mestiere che si eredita di padre in figlio. È uno dei modi possibili di stare al mondo. Ce l’avevo anch’io una casa, una famiglia, una macchina, un bel lavoro, frigo pieno tutti i giorni e un sacco di altre cose, tutte indispensabili, almeno così credevo all’epoca. Poi, una sera, arriva una mail che parla di un licenziamento collettivo. 9 dipendenti su 30. Pensi che non toccherà a te, perché sei uno che vale, cazzo. E invece tocca proprio a te.

Pensi che non toccherà mai a te di essere licenziato, perché sei uno che vale. E invece tocca te. E finisce tutto 44 Scarp de’ tenis luglio 2016

Dopo vent’anni sei fuori: una mano davanti e una dietro. La famiglia ti molla, vendi casa, fatichi a pagare l’affitto, poi non lo paghi più. Un mese, due, poi arriva lo sfratto. Bussi alla Caritas, cerchi un pasto, anche non caldo, basta mangiare. Vedi i tuoi 90 chili diventare invisibili: le persone ti schivano, come fanno con le merde dei cani. Camminano guardando a terra, come se vedendoti potessero diventar povere pure loro. Scappano da te perché la povertà non deve esistere. Quindi nemmeno tu esisti. Non imploro più E così abiti l’androne di un portone, alla stazione delle corriere che partono verso Sud, che mi fanno pensare al caldo, malgrado i piedi gelati. Una vaschetta di plastica, a terra davanti al mio giaciglio, raccoglie i pochi euro che mi bastano a campare. Non mi sforzo neanche più di implorare, ché tanto tutti passano veloci, senza vedermi, anche quando mi vedono. Raramente qualcuno si ferma a chiedere se ho bisogno di una mano.

Però stamattina, un tizio si è accovacciato e mi ha messo in mano dieci euro per attirare la mia attenzione. Si trattava di “un’occasione”. Niente di illegale, sia chiaro. Ero semplicemente l’inconsapevole vincitore di un casting. «Si tratta di costruire uno scoop– mi ha detto –. Il pubblico vuole esserci mentre accadono i fatti. Il barbone che trova un portafoglio con 2.500 euro dentro e lo restituisce al proprietario è un eroe da trafiletto. Dura al massimo due giorni. Il pubblico vuole eroi per sempre. E allora glielo diamo noi, in diretta. Capisce? Riprendiamo tutto, lo spariamo al tg della sera e poi su Youtube. Una bomba». La mia parte: 150 euro. «Che dice ci sta?». Certo che ci sto. Mi hanno fatto memorizzare tutto in un bar, seduto al tavolino con il regista e l’anziano che interpreta il pensionato che perde il portafogli. La scena è semplice: io in piedi chiedo l’elemosina. Il pensionato mi passa davanti, cade il portafoglio pieno di banconote, io me ne accorgo. Scatta l’effetto video “eravamo lì per caso”, raccolgo il portafogli, inseguo il vecchio e glielo riconsegno. Abbracci. Applausi. La Statale corre veloce sotto un sole freddo. La corriera va a Sud, ha il riscaldamento acceso. Ho il fiatone e sonno. Io ho bisogno di soldi, ho pensato quando ho raccolto il portafoglio. Io ho bisogno di soldi, ho pensato avvicinandomi al vecchio, ho un bisogno disperato di soldi. Tenersi in allenamento Ho iniziato a correre oltre le decine di corriere parcheggiate, ho fatto un biglietto e sono salito sulla prima in partenza. Col mio stile di vita, con questi 2.500 euro, ci vivo un anno da signore. Molto meglio di qualche settimana da eroe. Il fiatone pian piano mi passa, un crampo mi morde una coscia, mi tira un polpaccio. Da oggi le regole da seguire sono quattro: mai dormire isolati dagli altri; il cartone con cui ti copri deve essere asciutto; i vestiti che possiedi, li devi portare addosso; mantieniti in allenamento. Non si sa mai.


GENOVA

Scarp de’ tenis tra i protagonisti della “Festa della cittadinanza attiva in Valbisagno” curata dall’Agesci

Una giornata per conoscere i senza dimora di Stefano Neri

“Gli Invisibili – Quanto ne sai sulla realtà dei senza tetto?”. Questo l’invito-provocazione dell’evento organizzato lo scorso maggio dal gruppo Agesci della Valbisagno sul tema delle persone senza dimora, inserito nell’ambito della più ampia “Festa della cittadinanza attiva in Valbisagno”: un insieme armonico di giornate, dedicate a vari argomenti, con il patrocinio per l’appunto del municipio Bassa Valbisagno. Lo scopo è “invitare la popolazione a stare insieme scoprendo il valore della solidarietà e le realtà del territorio che promuovono sport, volontariato e partecipazione sociale”. Le giornate hanno trovato ospitalità all’interno dell’ex mercato ortofrutticolo di corso Sardegna, area in attesa da anni di

Un appuntamento pensato per far scoprire alla cittadinanza le realtà solidali che operano sul territorio

una riconversione urbanistica e assegnata alla gestione del Municipio che, in attesa del suo recupero, ne prevede un utilizzo limitato come spazio per la collettività, aprendo solo occasionalmente l’area per ospitare manifestazioni ed eventi. In tale ottica si inserisce l’attività ideata dagli scout, nella quale sono state coinvolte alcune realtà presenti sul territorio che lavorano con la povertà estrema, offrono risposte concrete a bisogni primari e si impegnano per restituire dignità e diritti. Giornata senza dimora Entrata libera, con la richiesta di portare un indumento o del cibo

non deperibile, da devolvere alle persone senza dimora tramite gli enti che le seguono. Una giornata di musica, poesia, giochi (per piccoli e non) che ha visto la partecipazione di Fondazione Auxilium e Caritas Diocesana (e di Scarp de’ tenis insieme a loro), società di San Vincenzo De Paoli, associazione Banco Alimentare e Acat gruppo Valbisagno. Ogni ente, presente con uno stand, ha raccontato alla cittadinanza le proprie attività e ha spiegato come vi si può contribuire concretamente. Sul palco principale, ai brani proposti da alcune band musicali si sono alternate letture di poesie scritte da persone senza dimora. Ai lati del palco la mostra fotografica sul tema degli “ultimi” e dell’emarginazione nella città di Genova e la proiezione di “Nessun fuoco, nessun luogo”, documentario sulle persone senza dimora girato a Genova da Carla Grippa e Marco Bertora e promosso da Caritas Italiana e Caritas Diocesana di Genova. Il finale è stato affidato ad una tavola rotonda, condotta dagli scout, alla quale hanno partecipato i referenti delle realtà aderenti all’iniziativa. Oltre al focus sulle singole attività degli enti la discussione si è incentrata sulle modalità di partecipazione alla vita sociale della città, con particolare attenzione alle persone senza dimora e al riconoscimento di diritti fondamentali che, ancor oggi, sembrano spesso essere negati. Una musica per l’anima Concludo con una poesia, tramandata da una persona senza dimora, scomparsa anni fa. Qualcuno disse che la poesia è la “musica dell’anima”, un modo per far risuonare armonie e disarmonie provenienti dalla parte più intima e profonda di sé. Un moto interiore da non arrestare, da non rinchiudere in un cassetto ma da valorizzare e condividere. Da promuovere. Non per far mostra di sé, ma per liberare certi spiriti incatenati. “Io sto bene con lei. / Lei sta bene con me. / Siamo un sistema chiuso. / Riviera dei fiori, clima temperato. / Coltivo l’incertezza”. luglio 2016 Scarp de’ tenis

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Esecuzione: il Kanun colpisce a Rimini di Angela De Rubeis

Il sistema albanese di regole non scritte che risale al ’400 continua a sopravvivere e a mietere vittime. La comunità Papa Giovanni XXIII sta lavorando in Albania per contrastare un fenomeno che costringe a vivere rinchiusi in casa centinaia di uomini e bambini 46 Scarp de’ tenis luglio 2016

Notte del 25 maggio 2016: intorno alle 23, dopo un cruento diverbio, in via Toscanelli sul lungomare di Rivabella è stato ucciso Petrit Nikolli di nazionalità albanese. Un “banale” fattaccio di cronaca? O qualcosa di diverso? Nelle ore successive è emerso un quadro molto più complesso e sconcertante. Petrit, infatti è stato vittima del Kanun, sistema albanese che regola le controversie e i delitti d’onore, qualcosa di simile alla regola dell’occhio per occhio. Quella di Petrit Nikolli è stata una vera e propria esecuzione. Nei giorni precedenti, infatti, aveva aiutato la nipote a lasciare la Lombardia, dove viveva con un marito violento. La cosa non è andata giù al padre e ai fratelli del coniuge abbandonato che si sono messi in macchina per raggiungere Rimini e lavare col sangue l’onta del disonore. È stato il padre famiglia Lek Preci, 48 anni a compiere la vendetta. «Il Kanun – spiega Fabrizio Bettin della comunità Papa Giovanni XXIII –è un sistema di regole che risale al ’400 e che è sopravvissuto nonostante la società albanese sia cambiata profondamente. Dopo il domi-


RIMINI delitto d’onore è stato abrogato nel 1981, non parliamo di secoli fa.

Un momento della marcia contro le vendette di sangue organizzata dalla Papa Giovanni XXIII. Sopra il primo murales contro il Kanun

L’onore per un albanese è un elemento importantissimo. Questo comportamento non è sfociato in un’organizzazione delinquenziale, come è accaduto, alla mafia ma regola i rapporti tra famiglie. Se parli di Kanun in Albania ti dicono che è diffuso solo al nord, ma è un po’ come dire che in Italia la mafia è solo al sud

nio degli ottomani ci sono stati 50 anni di comunismo particolarmente feroce, che ha fondato il proprio potere sulle punizioni, e poi un improvviso liberismo sfrenato ed una democrazia molto debole. Bisogna immaginare, quando si parla di Albania che a metà anni ’90 c’è stato un fortissimo shock culturale, e inoltre che, soprattutto al nord, ci sono zone completamente isolate, che si raggiungono solo dopo molte ore di cammino. In pratica alcune parti della popolazione per decenni sono state abbandonate a loro stesse senza la presenza dello Stato. In molti casi il recupero del Kanun è stato un mezzo per dotarsi di regole». Quanto è radicato in Albania il Kanun? L’onore per un albanese è un elemento importantissimo. Questo comportamento non è sfociato in un’organizzazione delinquenziale, come è accaduto, ad esempio, alla mafia ma, nel complesso, regola i rapporti tra famiglie. Se parli di Kanun in Albania ti dicono che è diffuso solo al nord, ma è un po’ come dire che in Italia la mafia è solo al sud. La mentalità è comune, riguarda tutta la popolazione. Parlando del caso di Rimini, magari chi ha subito il torto è stato aizzato da parenti e amici che gli hanno fatto notare la perdita di onore. In generale si può dire che il fenomeno è un retaggio che vive dove lo stato non arriva o non è arrivato per decenni. Non dobbiamo pensare che tutti gli albanesi siano pazzi, pronti ad uccidere. È vero, c’è un problema, ma tanto è stato fatto e tanto si sta facendo. E poi, giusto per fare qualche confronto, ricordiamoci che in Italia il

Come si articola la vendetta secondo il Kanun? L’omicidio per hakmarrje, letteralmente presa della vendetta, indica, da parte dell’assassino, la volontà di vendicarsi da uno sgarbo o una grave offesa che mina profondamente l’onore e la credibilità della persona. A questa può seguire la pratica della gjakmarrje, la presa del sangue, che è la vendetta per un omicidio compiuto per la hakmarrje. In altre parole, la famiglia che ha subito una perdita si ritiene in diritto di recuperare, prendere il sangue. Così si aprono faide che possono andare avanti all’infinito, finché non interviene la pajtimi, riconciliazione. Come funziona il vostro lavoro in Albania? Noi cerchiamo di coinvolgere tutti gli attori: le famiglie, la società civile e le istituzioni. Ci rechiamo dalle famiglie: andiamo da quelle che temono il Kanune vivono chiuse e isolate nella paura di essere colpite, ma andiamo anche da chi ha già avuto il lutto e vorrebbe la vendetta. Gli albanesi come guardano al vostro lavoro? Il primo sentimento che si manifesta è quello della diffidenza. Nel Kanun, infatti, è presente la figura del

riconciliatore, ma capita che chiedano soldi per il loro lavoro e speculino su queste faide. Noi no. Quando si accorgono che li ascoltiamo e non siamo lì per soldi allora si aprono. Gli albanesi sono tra i popoli più ospitali: per loro l’ospite è sacro. Allo stesso modo anche le famiglie che prima volevano ricorrere alla vendetta di sangue accettano l’idea della riconciliazione, magari non pubblica, non ancora, ma privata sì. Quando si parla dell’alternativa, si fa presente quest’altro aspetto del Kanun, quello della riconciliazione, pian piano le famiglie lo accettano. Vedete i frutti del lavoro? Qualcosa sta cambiando? Lavoriamo a tutti i livelli. Ogni anno facciamo diverse campagne di sensibilizzazione che coinvolgono le istituzioni e l’avvocato del popolo e che riguardano il perdono e riconciliazione. Abbiamo anche creato il primo luogo in Albania dedicato alle vittime delle vendette di sangue. Lentamente la società accetta questa visione. Dobbiamo sempre ricordare che tutto quello che ha fatto l’Albania per la democrazia e la modernizzazione lo ha fatto dal 1999, non da prima. Guardando da questa prospettiva ci si accorge che stanno correndo e bruciando le tappe, ma la strada è ancora lunga.

LA SCHEDA

Operazione Colomba in Albania: progetti contro le vendette di sangue Operazione Colomba è il corpo nonviolento di pace dell’Associazione Papa Giovanni XXIII. Dal 2010 ha un presidio fisso in Albania, nella Provincia di Scutari e Lezha e a nord, nella zona montana di Tropoja. Fabrizio Bettin, è responsabile del progetto “Un popolo contro le vendette di sangue”, in Albania. «Il Kanun – spiega Bettin – è un codice che regola il comportamento delle comunità tra i clan familiari. Ovviamente, con famiglia intendo un contesto allargato che comprende fratelli e cugini. La cosa che può capitare è che non sempre chi viene colpito dalla vendetta è il colpevole, spesso è solo un componente della famiglia». luglio 2016 Scarp de’ tenis

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Roscigno: rifugiati al lavoro per la comunità di Stefania Marino

Da qualche settimana alcuni ospiti della struttura Sprar stanno curando la manutenzione del verde pubblico e la manutenzione delle strade del piccolo centro campano, grazie all’attivazione di alcuni tirocini formativi. Una grande vittoria 48 Scarp de’ tenis luglio 2016

Armati di piccone, pala e carriola, tolgono le erbacce dal ciglio delle strade. Diaby, Boubacar, Idrissa, Chamel sono giovani migranti, ospiti della struttura Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) di Roscigno, un comune di appena 800 abitanti, nel parco nazionale del Cilento, degli Alburni e del Vallo di Diano. Da qualche settimana hanno avuto la possibilità di svolgere con il comune di Roscigno, guidato dal sindaco Pino Palmieri, dei tirocini formativi finalizzati alla manutenzione del verde pubblico e alla pulizia delle strade del paese. Sono figli dell’Africa. I loro nomi e i loro volti provengono da molto lontano, dal Senegal, dalla Nigeria, dal Mali, dalla Guinea. Ognuno ha una storia da raccontare, tutti hanno in comune l’aver lasciato la propria famiglia e la propria terra. Si scappa da pericoli, dall’assenza di diritti, da condizioni di indigenza, da privazioni materiali e immateriali alla ricerca


SALERNO

di una salvezza, di un’opportunità di vita che consenta la sopravvivenza propria e quella della propria famiglia.

Ospiti del centro Sprar al lavoro per le vie di Roscigno. Qui sopra uno dei disegni di Irigo, uno degli ospiti della struttura

Roscigno, in 5 anni tra Emergenza NordAfrica e Progetto Sprar, ha accolto oltre cento migranti. Nel 2014, quando i beneficiari erano principalmente nuclei familiari, nacque un bambino figlio di una coppia nigeriana, il quale fu battezzato con il nome di Rocco, il santo protettore di Roscigno

Ospitati oltre 100 migranti Il progetto Sprar in questo piccolo comune a circa 80 chilometri da Salerno è iniziato nel marzo del 2014. In un primo momento, i beneficiari erano nuclei familiari, poi dal 2015 sono stati esclusivamente singoli. Alcuni appena neomaggiorenni, provenienti da case famiglie sparse per l’Italia, ex minori stranieri non accompagnati. Oggi, qualcuno di loro va a scuola. A Roscigno, fino a pochi anni fa, nessuno avrebbe mai immaginato forse che qui sarebbero arrivati immigrati. Un piccolo paese con la sua piazza, la sua chiesa, il campo sportivo, dove la presenza di migranti e nello specifico di richiedenti asilo e rifugiati è diventata non solo realtà ma parte integrante della comunità.

Una storia di accoglienza che, come ci dice Clementina Vecchio, coordinatrice della struttura Sprar, inizia da lontano 2011, dal periodo dell’Emergenza NordAfrica, quando in Italia e precisamente a Lampedusa arrivarono migliaia di persone in fuga dalla Libia.

Fu allora che l’allora Caritas diocesana di Teggiano-Policastro avviò l’accoglienza di richiedenti asilo sul territorio del Cilento e del Vallo di Diano. A Roscigno, in una sera d’agosto arrivarono 25 ragazzi del Ciad. Nessuno qui ha mai alzato muri di intolleranza. Molti di loro durante quell’inverno aiutarono i contadini nella raccolta delle olive. Un evento straordinario, una cartolina di antropologia mai vista prima, una forma di incontro dialogo e parte-

cipazione avvenuta spontaneamente con la gente del posto, una convivenza straordinaria di credi religiosi diversi vissuti con naturalezza umana sotto la stessa pianta di ulivo. Roscigno, in 5 anni tra Emergenza NordAfrica e Progetto Sprar, ha accolto oltre cento migranti. Nel 2014, quando i beneficiari erano nuclei familiari, nacque un bambino figlio di una coppia nigeriana, il quale fu battezzato con il nome di Rocco, il santo protettore di Roscigno. L’ente gestore del progetto è l’associazione Il Sentiero Onlus. Il 22 giugno scorso, insieme alla cooperativa Tertium Millennium, hanno promosso sul territorio la giornata mondiale del rifugiato.

L’evento ha visto un triangolare di calcio tra la squadra di Roscigno, beneficiari dello Sprar e un’altra squadra di ospiti Sprarprovenienti dal Comune di Polla. Un momento di sport per spe-

rimentare sul campo la convivenza e il dialogo. Nella stessa

giornata, Roscigno Vecchia, l’antico borgo oggi non più abitato ma divenuto gioiello architettonico del luogo, definito la “Pompei del 900”, spesso location di set cinematografici, ha visto lo svolgersi di un breve dibattito sull’accoglienza integrata con testimonianze di alcuni ragazzi migranti. A far da cornice alla manifestazione, l’esposizione di oggetti realizzati dagli operatori e dai beneficiari con la tecnica del découpage. I disegni di Irigo E poi ci sono stati i disegni di Irigo. Lui è un ragazzo nigeriano. Ogni giorno scende al pianterreno dalla sua stanza e porta dei disegni: volti di uomini e donne, la cartina dell’Africa. Fin quando non esprime quel bisogno di amicizia, di legame e non disegna delle dita, dalla pelle bianca e nera, che a mo’ di anello si intrecciano. Un intrecciarsi di mani e di culture, ma anche di vita. Sopra ha scritto “Grazie al ministero del Welfare per la solidarietà a tutti i bambini rifugiati”.

LA SCHEDA

Continuare a crescere goccia dopo goccia: serve una sede più grande accessibile Pubblicata la nuova graduatoria dei Progetti Sprar (2016/2017). I progetti di accoglienza sono stati presentati dagli enti locali e finanziati con il Fondo Nazionale per le Politiche e i Servizi per l’Asilo. Per l’accoglienza ordinaria ai primi posti della valutazione ci sono la Provincia di Brescia, il Comune di Levate, il Comune di Cadoneghe in associazione con il Comune di Vigodarzere in provincia di Padova, i Comuni di Spinea, Fermo, Campobasso, Legnano, il Consorzio intercomunale di servizi CIdiS, il comune di Argenta, il Nuovo Circondario Imolese. Attualmente lo Sprar accoglie 22 mila persone, 434 i progetti in essere e ben 382 gli enti locali coinvolti. luglio 2016 Scarp de’ tenis

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aforismi

POESIE

di Emanuele Merafina

Fine delle trasmissioni Scrivimi, perché qui il tempo non passa mai. Scrivimi, almeno per sognare che ci sei. Così, anche per sapere se tu mi pensi ancora. Se dentro la tua mente, esisto almeno per un’ora. Ormai, io mendicante di amore e di parole, aspetto che la notte, sfiori mille volte il sole. Perché ancora mille volte il cuore solo dovrà stare. E solo con il vento i miei baci potrà portare. Nei soffi rumorosi della notte spenta. Scrivimi, perché è grande la tristezza. Del tempo che si prova, stando assai lontani. Dei miei occhi lucidi, offuscati dalle mani. Scrivimi, per sentirmi amico, se ti senti tradita dal destino. Basta un foglio, e una penna, e la complicità di un’ora. In modo che io rispondo, quando tu ti senti sola. Anche se per te sarò solo un foglio da sfogare, scrivimi lo stesso, per me sarà del bene. Anche se il sole ti riscalda tanto, scrivimi perché, il freddo io lo sento. Di due tue parole, io ne farò un romanzo, romantico, intrigante, un po’ fantasticato. Scrivimi, perché, io sono innamorato. Per me pure un postino, e ragion d’amore. Scrivimi ti prego risponderò col cuore. Fabio Schioppa

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Indiscriminazione La pelle di Dio non ha colore Lui ci ha regalato il suo simile cuore ma l’uomo non ha ancora capito cos’è l’amore.

Due vite L’amore è una cerniera lampo che si ritrova in salita Sorridere Dobbiamo sempre sorridere perché le lacrime non ci mancano

Quando si nasce si nasce bambini abbiamo il cuore incontaminato come la neve quando tutti ancora dormono e se la neve cade d’inverno da grandi il cuore può diventare cupo e tetro come l’inferno ma il pane ed il riso da tutti condiviso darà al cuore dell’uomo un nuovo sorriso per la conquista del Paradiso e razzismo sarà soltanto una parola inventata dall’egoismo. Ferdinando Garaffa

Ogni giorno Ogni giorno è speciale sia di pioggia e tempesta o di dolor lancinante e col caos nella testa è una vita imprevista

da vivere appieno L’idea di un giovane volontario col maltempo della Ronda della carità di Milano:o il sereno Mino Beltrami una App contro lo spreco alimentare 50


VOCI DALL’AFRICA

Inga Gubeka, dalle strade di Durban a imprenditore di grande successo

di Davide Maggiore

scheda Davide Maggiore, nato nel 1983, una laurea in filosofia già vecchia di anni. È stato viaggiatore prima di diventare giornalista e ha incontrato l’Africa grazie a chi da lì è arrivato in Italia: ne ha fatto un lavoro senza perdere la passione. Nel cuore gli è rimasta soprattutto la Tanzania, negli occhi e nella testa il Sudafrica.

Camicia azzurra e pantaloni di buon taglio, sguardo vivo. A guardare la fotografia di Inga Gubeka sulle colonne della rivista Forbes, famosa per le sue liste di super-ricchi e imprenditori, non si direbbe che questo ventottenne sudafricano sappia cosa vuol dire vivere alla giornata. Eppure, proprio la mancanza di un lavoro fisso, qualche anno fa, stava per impedirgli di realizzare l’intuizione destinata a cambiargli la vita. La stessa che ha convinto la prestigiosa testata statunitense a inserirlo nella lista dei 30 imprenditori africani under 30 più promettenti del 2016. Oggi Inga Gubeka è a capo di Indalo décor, azienda sudafricana che produce accessori esclusivi completamente fatti di listelli di balsa. Particolarmente richieste sono le borse, al punto che anche la nota modella Candice Swanepoel è stata fotografata mentre ne sfoggia una. Ma i negozi che espongono i suoi prodotti sul prestigioso Waterfront, il lungomare di Città del Capo, e nel quartiere “bene’” di Braamfontein a Johannesburg non somigliano all’ambiente in cui il giovane Inga è cresciuto. Voglia di rivincita Nato nella regione di Eastern Cape, ha passato l’infanzia a Durban, dove la sua figura di riferimento era il nonno e l’intera famiglia (cinque persone) dormiva in una sola stanza presa in affitto. Le sue speranze, come per molti sudafricani della stessa generazio-

Nato nella regione di Eastern Cape, Inga ha passato l’infanzia a Durban, dove la sua figura di riferimento era il nonno e l’intera famiglia (cinque persone) dormiva in una sola stanza presa in affitto. Oggi è a capo di Indalo décor, azienda sudafricana che produce accessori esclusivi completamente fatti di listelli di balsa

Inga Gubeka con alcune delle creazioni che lo hanno reso famoso

ne, erano affidate allo studio. Crearsi delle competenze specializzate per poi trasformarle in un lavoro è stato uno dei motivi che lo hanno spinto a frequentare una scuola di design. Dalla strada alla ricchezza La povertà, però, ha costretto Gubeka a improvvisare anche nel momento in cui ha tentato di avviare la sua attività. Tutte le banche a cui si era rivolto gli rifiutarono il prestito su cui contava per avere un capitale iniziale. «Aprire un’azienda è stata la cosa più difficile che io abbia fatto in vita mia», ricorda oggi il giovane imprenditore. Che, di conseguenza, ha cominciato a realizzare personalmente e a vendere uno a uno i primi articoli della futura linea Indalo. Un nome che, oltre ad essere quello di suo figlio, riflette la filosofia della sua azienda. Significa infatti “creazione”, in linea con la convinzione di Gubeka, secondo cui “i potenziali imprenditori spesso passano troppo tempo a pensare e poco a fare”.

Per lo stesso motivo, anche ora che gli ordini annuali di nuovi pezzi sono arrivati a un valore di quasi 80 mila dollari l’anno, il ragazzo arrivato dall’Eastern Cape punta già a un nuovo obiettivo: lanciare il suo marchio sul mercato internazionale della moda. Mentre aspetta l’arrivo dei prossimi risultati di vendita, però, potrà festeggiare i traguardi già raggiunti con un brindisi assolutamente personalizzato. All’inizio dell’anno, infatti, il produttore di whisky Glenfiddich ha battezzato con il suo nome una bottiglia unica, del valore di 8 mila dollari: nessun africano, prima di lui, aveva avuto questo riconoscimento. luglio 2016 Scarp de’ tenis

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VENTUNO

Le armi nelle mani dell’Isis arrivano da 25 Paesi diversi Armi di fabbricazione irachena, americana, tedesca. Lasciate sul campo, tra il 1980 e il 1988 quando l’esercito iracheno – impegnato nella guerra contro l’Iran – venne foraggiato dall’Occidente. E intanto l’Italia ha venduto 30 mila pistole all’Egitto di Andrea Barolini

scheda

Ventuno come il secolo nel quale viviamo, come l’agenda per il buon vivere, come l’articolo della Costituzione sulla libertà di espressione. Ventuno è la nostra idea di economia. Con qualche proposta per agire contro l’ingiustizia e l’esclusione sociale nelle scelte di ogni giorno.

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Armi leggere e pesanti, munizioni, bombe, mine. I militanti dello Stato Islamico sono dotati di ordigni di ogni genere. Armati fino ai denti, hanno potuto mettere le mani su ampie porzioni del territorio iracheno e di quello siriano. Così come di zone di particolare interesse in Libia. Al contempo, in Europa i terroristi riescono ad entrare in possesso di fucili da guerra, come nel caso di quelli utilizzati nell’attentato al teatro Bataclan, a Parigi, nel novembre dello scorso anno. Di recente, il portavoce del ministero della Difesa russo, Serguei Kouralenko ha denunciato che «quasi 24 ore su 24, convogli di camion colmi di materiali e di armi si muovono dalla Turchia verso le regioni controllate dai gruppi terroristi Fronte al-Nosra e Ahrar alSham». Secondo il governo di Mosca le prove del sostegno (o della tolleranza) di Ankara di fronte al traffico che porta ordigni e munizioni verso la Siria sarebbero state ottenute da un’équipe di giornali-

sti del canale RT. La Turchia, ovviamente, ha smentito in più di un’occasione.

E allora la domanda è: da dove vengono tutte queste armi? E come hanno fatto i guerriglieri islamici ad impadronirsene? Armi fabbricate in Serbia Per rispondere occorre fare un passo indietro. Dopo gli attentati di Parigi, i media francesi hanno dedicato ampio spazio alla questione. Quelli ritrovati in

mano ai terroristi che hanno colpito la capitale transalpina sono infatti fucili molto simili agli AK47, me-

Bambini curiosi vicini alla fermata dell’autobus nella città siriana di Jableh colpita dalle bombe dell’Isis il 23 maggio scorso

glio noti con il nome di Kalashnikov: si tratta in particolare di un lotto di M70, una copia migliorata dell’arma di concezione sovietica. La radio France Info ha fatto così un’inchiesta, risalendo alla provenienza dei fucili d’assalto: un cammino che ha portato i giornalisti dell’emittente francese in Serbia. È praticamente certo, ora, che le armi in questione siano state fabbricate in quella che allora era la Jugoslavia, tra il 1987 e il 1988. A confermare la notizia è stato Milojko Brzakovic, direttore della fabbrica Zavasta Arms, un’industria pubblica che, all’epoca, riforniva l’esercito e le forze dell’ordine. In un’intervista rilasciata all’agenzia Reuters il dirigente ha spiegato: «Abbiamo verificato otto numeri di serie, tra quelli che sono stati rinvenuti, nei nostri database e abbiamo scoperto che le armi fanno effettivamente parte di un carico che fu inviato a dei depositi militari in Slovenia, Bosnia e Macedonia».


REUTERS/Omar Sanadiki - courtesy of INSP

Di qui la certezza: «Non c’è dubbio – ha osservato Brzakovic – che a produrle siamo stati noi, anche perché all’epoca eravamo il solo fabbricante».

È risaputo che, negli anni della guerra, i Balcani sono stati a lungo una terra di nessuno. E di numerose partite di armi si è persa ogni traccia. Così, vent’anni

dopo, sono finite nelle mani degli integralisti. Ma fin qui si tratta di strumenti utilizzati sul suolo europeo. In Siria, Iraq e Libia, i militanti dello Stato Islamico hanno utilizzato altre strategie per i loro rifornimenti.

Una fotografia accurata dei traffici di armi confluiti nelle mani dell’Isis è stata scattata dal rapporto Taking Stock: The Arming of Islamic State, di Amnesty International. Il risultato delle in-

dagini dell’associazione umanitaria è stato inquietante: le “im-

portazioni” arrivano da ben 25 Paesi diversi.

Di tale immensa mole di armi,

Quando i pick-up dell’Isis hanno invaso la città di Mosul, i guerriglieri hanno potuto fare incetta degli enormi quantitativi di ordigni e munizioni nascosti negli anni precedenti

una buona parte sarebbe fornita da trafficanti russi (in particolare carichi di AK47), ma lo Stato Islamico può contare anche su fucili Tabuk di fabbricazione irachena, su Bushmaster E2S di fabbricazione americana, e ancora su CQ cinesi, G36 tedeschi e FAL di origine belga. Un vero e proprio arsenale, che è confluito nell’area soprattutto tra il 1980 e il 1988 quando l’esercito iracheno – impegnato nella guerra contro l’Iran – venne foraggiato in modo massiccio dall’Occidente. Nel suo rapporto, Amnesty descrive il periodo come «il momento di maggiore sviluppo del mercato globale delle armi moderne». Una seconda ondata è arrivata poi in Iraq, prosegue l’associazione, «dopo l’invasione americana del 2003. E il flusso non si è arrestato dopo il ritiro dell’esercito Usa, nel 2011». Un campo stracolmo di armi Il “campo”, dunque, era stracolmo di armi. Bastava andarsele a prendere. Così, quando i pick-

up dell’Isis hanno invaso la città irachena di Mosul, nel giugno del 2014, i guerriglieri hanno potuto fare incetta degli enormi quantitativi di ordigni e munizioni che vi erano stati nascosti negli anni precedenti. Grazie a tali armi, i miliziani hanno potuto invadere e conquistare altri territori (nonché commettere numerosi crimini nei confronti della popolazione civile). In altre parole, buona

parte dell’avanzata dei combattenti islamici è “merito” della quantità gigantesca di armi – per la maggior parte di produzione occidentale – presente nell’area da tempo.

«Si tratta del filone più importante, quello delle armi dapprima esportate legalmente e poi saccheggiate sul posto – spiega Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio permanente sulle Armi leggere –. Basti pensare che solamente nello Yemen il Pentagono ammette ormai di non sapere più dove luglio 2016 Scarp de’ tenis

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Sul muro di un edificio distrutto e bombardato a al-Alam la bandiera nera dello Stato Islamico dell’Isis

VENTUNO

Nel 2009 furono vendute a Gheddafi 11 mila Beretta, poi saccheggiate dai ribelli con la caduta del regime. Numerose carabine di fabbricazione italiana sarebbero in vendita sul mercato nero di Bengasi

siano finite le armi inviate sul posto. In Libia, c’è poi il caso eclatante delle 11 mila Beretta che furono vendute a Gheddafi nel 2009 e che sono state poi saccheggiate dai ribelli con la caduta del regime. Oggi, inoltre, giungono notizie del fatto che numerose carabine CX4 Storm di fabbricazione italiana sarebbero in vendita sul mercato nero di Bengasi».

Non a caso, l’Isis è riuscito ad approvvigionarsi di fucili, bombe e mitra anche a Falluja, Saqlawiya e Ramadi (nell’Ovest iracheno), a Tikrit (nel Nord) così come sul territorio della Siria. Senza dimenticare, prosegue Amnesty International, che «tra il 2011 e il 2013 gli Usa hanno firmato contratti per svariati miliardi di dollari per la cessione, tra gli altri, di 140 carri armati M1A1 Abrams,

di caccia da combattimento F-16, di missili 681 Stinger e di batterie anti-aeree Hawk. Mentre nel 2014 hanno consegnato 500 milioni di dollari di armi leggere e munizioni al governo iracheno».

In altre parole, la lotta alla produzione di armi e alla loro commercializzazione rappresenta la vera (e forse unica) possibilità concreta che abbiamo per evitare che esse finiscano in mani sbagliate.

«L’Italia – conclude Beretta – ha venduto 30 mila pistole all’Egitto. In pratica ora riforniamo il regime di al-Sisi. La verità è che ogni volta che si vendono armi ad un governo, in caso di cambiamenti al potere diventa impossibile controllarne i flussi. Ciò su cui occorre agire, perciò, è prima di tutto il traffico lecito». REUTERS/Thaier Al-Sudani - courtesy of INSP

La “Fortezza Europa” sceglie la strada dei muri

Prima la decisione dell’Italia di abbandonare il programma Mare Nostrum di pattugliamento del Mediterraneo alla ricerca di imbarcazioni cariche di migranti in difficoltà (che permise di salvare migliaia di vite umane). Quindi la scelta europea di dare vita all’operazione Triton, che ha come primo obiettivo non più quello di aiutare i naufraghi ma di sorvegliare le frontiere marittime dell’Ue. Infine, la decisione di alcuni governi di bloccare il flusso di profughi in arrivo principalmente da Siria, Libia, Iraq e Afghanistan, tramite la costruzione di nuovi muri, recinzioni reticolari, barriere controllate da

Sembra di essere tornati indietro di 50 anni, ai tempi della Guerra Fredda e delle cortine di ferro: oggi i muri respingono i disperati 54 Scarp de’ tenis luglio 2016

polizia ed eserciti. L’Europa

sembra così essere tornata improvvisamente indietro di 50 anni, ai tempi della Guerra Fredda e delle cortine di ferro. L’ultima nazione in ordine di

tempo ad aver avanzato la proposta di militarizzare la propria frontiera è l’Austria, che ha suscitato ampie polemiche (e forti proteste) per aver dichiarato di voler chiudere il valico del Brennero, punto d’arrivo del lungo viaggio dei migranti lungo la penisola. Le nuove elezioni hanno rappresentato in questo senso uno spartiacque per la nazione europea: a vincere è stato Alexander Van Der Bellen, ecologista che ha proposto un programma fondato sull’accoglienza e la solidarietà. L’ha spuntata per un pugno di voti sull’estrema destra di Norbert Hofer, che invece avrebbe proseguito la politica di chiusura. Ma se il Brennero non sarà a que-


http://www.express.co.uk/news/world/624488/Europe-border-fences-migrant-crisis

IL PUNTO

1 Estonia 2 Russia 3 Austria 4 Ucraina 5 Slovenia 6 Ungheria 7 Croazia 8 Serbia 9 Bulgaria 10 Macedonia 11 Grecia 12 Turchia 13 Spagna 14 Ceuta 15 Melilla 16 Marocco confini - nuovi muri

sto punto equipaggiato di torri e filo spinato, ai confini tra la Croazia e la Slovenia, tra la Macedonia e la Grecia, tra la Bulgaria e la Turchia o ancora tra l’Ungheria e la Serbia, l’Europa pare voler rispondere all’ondata di disperati in fuga dalla guerra unicamente con la ragione della forza. Il caso del campo di Idomeni, nel nord della Grecia, è emblematico: da poco sgomberato dalle autorità, per mesi e mesi ha accolto in condizioni devastanti migliaia di profughi, ai quali la strada verso nord era stata sbarrata dalla polizia macedone. Qui, come altrove, muri alti da 2 a 5 metri, reticolati, e fucili impediscono di proseguire il viaggio. Eppure, come spiegato da Scarp ai propri lettori, un rapporto pubblicato dalla ong Oxfam alla fine di marzo ha spiegato che finora solamente 67 mila persone hanno ricevuto asilo nelle nazioni più agiate del mondo, su un totale di quasi 5 milioni di si-

riani che hanno abbandonato la loro terra, rifugiandosi per la maggior parte nelle nazioni limitrofe. Studi universitari – come quello del gruppo MobGlob di Parigi – spiegano, tra l’altro, che l’apertura delle frontiere potrebbe generare enormi vantaggi economici per i Paesi di arrivo. I livelli di preparazione dei profughi siriani, tra l’altro, sono particolarmente alti: molti di loro sono ingegneri, fisici, farmacisti, medici che si sono visti costretti ad abbandonare le loro case. Senza di-

menticare che la militarizzazione della “fortezza Europa” ha un costo: per le nuove infrastrutture sono stati spesi già centinaia di milioni di euro dai governi. Inoltre l’Ue, per le politiche di Difesa, spende circa 11 miliardi di dollari all’anno. Una cui parte non indifferente serve proprio per finanziare muri, controlli, check point e hot spot. luglio 2016 Scarp de’ tenis

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INCONTRI

LABORATORI

AUTOBIOGRAFIE

CALEIDOSCOPIO

Albino, milanese doc, impegnato a suonare i suoi handpan la “musica degli angeli”. Dopo aver svolto vari lavori ora suona in strada. Ed è felice

Albino che suona la musica degli angeli Albino, milanese trentenne, lo si trova spesso in via dei Mercanti con il suo handpan, una sorta di enorme “padella” in metallo. «È stato creato intorno al 2000 in Svizzera – spiega Albino – ed è costituito da lamine di ferro temprato, poi trattate termicamente in modo che l’accordatura renda al meglio. Nell’handpan sono accordate sia le note fondamentali che gli armonici di quinta e ottava. All’inizio mi ha fatto pensare agli angeli per il suono alto intriso di armonici. Poi, ascoltandolo meglio, ho trovato un’intera orchestra: arpa, violino, pianoforte». Albino ha alle spalle diverse attività lavorative nel settore spedizioni, assicurativo e bancario. «Sono sceso in strada un po’ per gioco, poi mi è piaciuto davvero tanto: il contatto con la gente, i bambini che rimangono con gli occhi sgranati e pure gli adulti restano catturati da questo dolce suono. Nessuno dei lavori svolti in precedenza mi ha dato così tanta gioia e soddisfazione come questo. Così ho deciso di Antonio Vanzillotta non tornare più in ufficio a lavorare. Certo guadagno molto meno. Ma non mi lamento. Sto bene. Sono felice». luglio 2016 Scarp de’ tenis

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PAROLE

Luce alla Sanità: un murale per i bambini di Napoli

L’opera sul tetto del museo Madre a Napoli. A fianco il murale realizzato da Blu sul muro dell’ex Opg a Materdei

Il mare non bagna Napoli il richiamo dell’arte alla città Giovanna Bianco e Pino Valente sono due artisti napoletani che si occupano di arte contemporanea . Per realizzare la loro opera si sono fatti ispirare da un libro di Annamaria Ortese “Il mare non bagna Napoli”, una raccolta di storie che racconta realisticamente la vita a Napoli nel dopoguerra. “Il mare non bagna Napoli” è il titolo di una delle loro opere, in ferro battuto bianco, che fa parte della collezione permanente del Museo Madre. Si trova sulla terrazza. È suggestiva, intensa. Fa pensare a tante cose, a tante possibili interpretazioni.

PAROLE

All’inferno vo?

Mi ha trasmesso subito un significato di mancanza. Come un fiume che attraversa un campo ma che non riesce ad irrigarlo. Il risultato è che il campo inaridisce e quindi muore. Perché il mare non bagna Napoli? C’è il rischio che Napoli possa essere come erba arsa dal sole? Il significato emblematico secondo me è questo: la mia città ha bisogno di ben altro. Di tanto altro. Le bellezze naturali ci sono. E come. Servono però a portare turisti e non è poco. Poi c’è il folklore: la pizza, il mandolino, il calcio e tante altre cose belle. Ma Napoli ha bisogno ed esige di più. Molto di più. Ha bisogno di crescere, di migliorare, soprattutto nella mentalità dei suoi abitanti. C’è cultura, c’è ignoranza, c’è fantasia , c’è delinquenza. E tanto altro ancora. Napoli ha bisogno di tirare fuori da ognuno dei suoi abitanti le migliori risorse. Un patrimonio immenso, soffocato inutilmente. Se prenderà consapevolezza di questo e si adopererà per concretizzare le idee, allora la città si approprierà di quello che gli spetta di diritto. Una vita di ben altra qualità.

Quando andrò all’inferno sarò felice perché non dovrò sopportar più il freddo. Però con lui chissà le pene che devo subire, saltar le cene, l’afa, e le sue ire, le fatiche. Sicchè tutto sommato è meglio dove son adesso pur se ho un processo dei dolori ci son tanti orrori. Preferisco (re)star con i piedi per terra perché la verità sta nel mezzo e la vedo e la sento da un pezzo.

Giuseppe Del Giudice

Giovanni Ricciardi

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Di fronte alla chiesa di San Vincenzo alla Sanità c’è un murale che si intitola “Luce”, realizzato da Tono Cruz. Tono Cruz è un artista spagnolo che ha voluto rappresentare proprio i bambini di Napoli, anzi i bambini del quartiere. Ha fatto una cosa bella dove tutti i bambini di quella zona sono stati protagonisti: prima li ha fatti partecipare a dei laboratori di disegno e poi lui ha riportato sulla facciata di un vecchio palazzo, usando la tecnica stencil e solo il colore bianco, i disegni che i bambini hanno fatto trasformando i sogni in disegni. Quando l’ho visto mi è piaciuto tanto perché ha dato vita e luce ad un vecchio palazzo, alla piazza stessa dove c’è anche la camionetta dell’esercito con i soldati che fanno la guardia. Secondo me quelle sei facce danno una scossa, danno vitalità, e danno un messaggio che dice “Il nostro quartiere è vivo”. Il punto “Luce” porta allegria ed energia buona per tutti i bambini della Sanità, di Napoli e di tutto il mondo. Giuseppe Scognamiglio


NAPOLI

L’urlo firmato da Blu sui muri all’ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario Un’opera ricca di suggestioni per abbellire la facciata di un luogo terribile di detenzione. Così cambia il volto della città Quartiere Materdei. Piccola borghesia, qualche nobiltà. Proletari, professionisti, un “microcosmo” alquanto vago così come in tutte le grandi città. Gente che va, gente che viene. Gioie e dolori si intrecciano. Ricordo con piacere una scena di un film ambientata in questo quartiere: l’oro di Napoli. Diretto da Vittorio De Sica. Sofia era una pizzaiola alquanto bella e traditrice forse, voglio sperarlo, oggi ci sarà ancora una pizzaiola che tradisce il marito stupidamente assente. Negli ultimi mesi Napoli è abbellita da vari murale; recentemente ho visto quello dipinto a Forcella: rappresenta San Gennaro. È bello ed è rassicurante. Questo che ho davanti esteticamente lo si può definire alquanto brutto; certo, è stato dipinto sulla facciata dell’ex manicomio criminale, luogo di sofferenze ed attese spesso sfumate, vane. In quelle stanze sono transitati pazzi “sinceri” e “falsi”. Il palazzo di un grigio aspro triste come a dire a chi ne è ospite: non devi vedere colori allegri, la tua pena deve essere grigia perchè un colore più tenue potrebbe lenire le tue sofferenze e, invece, sei qui in un posto di assoluto dolore. Un dolore che ti appartiene visto il male che hai fatto. Si vedono delle finestre chiuse – forse il pazzo di turno ha capito che non serve affacciarsi –l’altezza gli farà paura, forse potrebbe pensare di tentare un salto. Il murale è terribilmente vivo: grandi occhi, bocca enorme e mano sinistra poggiata sul muscolo più nobile, il cuore. Il cuore, spezzato ad altri e da se stessi. Quanti pensieri ci sono in

quella bocca spalancata. Il pazzo sta gridando la propria rabbia oppure maledice, bestemmia. Sta implorando Dio oppure Satana. In alto, per rasserenare il proprio dolore un cielo azzurro, un po’ di colore in tutto questo grigiore. Ma lui, lo vedrà azzurro così com’è oppure avrà occhi insensibili? Occhi che non vogliono vedere, occhi che forse lacrimeranno per quel dolore regalato ad altri? In cuor mio lo spero “beati voi che le miserie vostre non sapete” (Leopardi). Anche queste sono miserie, le più cupe quelle che non ti vengono perdonate neppure da coloro che ogni giorni si battono il petto pregando e ripregando. Già pregando, ma per chi? Aldo Cascella

VICENZA

Il lungo viaggio di Hamidi vero la salvezza: «Ringrazio Dio e la guardia costiera per essere vivo» Mi chiamo Hamidi (nome di fantasia), e vengo dalla Somalia. Sono arrivato in Italia lo scorso 24 dicembre. Non sono venuto qui per turismo, ma per salvarmi. Ogni giorno le persone muoiono in strada perché da quando le milizie di Al Shabaab hanno attaccato il Governo nessuno protegge le nostre vite: entrambe le parti stanno sterminando persone. Questa è la situazione in Somalia e questo è il motivo per cui avevo paura. Vivevo a Buulaburto con i miei genitori, mia moglie, i miei 3 fratelli e mia sorella. La mia città si trova al centro della Somalia, lungo il fiume Shabele. Qui la vita delle persone dipende dall’agricoltura. Mio papà aveva una fattoria e lavorava anche con la comunità della città, aiutando nella distribuzione del cibo e dei medicinali. I miliziani di Al Shabaab lo chiamavano e gli mandavano messaggi. Era il 18-20 aprile del 2015, la mattina presto mio padre e mia madre stavano lavorando con me nella fattoria. Le milizie di Al Shabaab arrivarono e uccisero mio padre davanti a noi. Poi si rivolsero a me: «Quando finirai il lutto e il suo funerale ti verremo a chiamare e farai tutto ciò che ci serve. Se provi a denunciarci per l’omicidio di tuo padre alla comunità o alla polizia, lo seguirai». Sono andato immediatamente alla comunità e alla polizia a chiedere aiuto. Ho riferito cos’era successo a mio padre e ho chiesto protezione. Ma nessuno mi ha aiutato. Poi è arrivata mia madre dicendomi che erano andati da lei minacciando di uccidermi perché li avevo denunciati. Mia madre ha venduto la fattoria e, con la metà del ricavato, ho cominciato il mio viaggio verso l’Italia. Non è stato facile: viaggiavo a piedi o in in macchina. Eravamo in 30 su un’auto in mezzo al Sahara. Troppi. Infatti sono morte 3 persone. In Libia ci hanno messo in prigione: 140 persone in un’unica stanza. Ho visto morire tanti. Morivano di stenti una o due persone al giorno. In quell’incubo sono rimasto due mesi. Alla fine mi hanno lasciato andare in cambio del poco denaro che avevo. In mare non potevo credere che sarei arrivato in Italia, vivo. Ringrazio molto Dio e voglio ringraziare la Guardia costiera italiana e tutti i volontari che ci hanno aiutato. luglio 2016 Scarp de’ tenis

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CALEIDOSCOPIO

Primavera gol Giocano a palla i grilli e non lasciano tranquilli i fiori circostanti. Han scelto come palla una mimosa gialla. Il grillo centravanti la passa ad un terzino che, con uno zampino, le fa fare un volo ad un palmo dal suolo. Vicino a un paracarro ci sta compar ramarro che segue la partita a bocca spalancata. Compiuto il suo tragitto la palla poco esperta finisce a capofitto dentro alla bocca aperta del ramarro che dice: “Gol” e tutto felice per l’improvvisa pappa, ingoia il fiore e scappa.. Gaetano Toni Grieco

Metempsicosi Dopo la morte mi reincarnerò in una lontra e nuoterò per le vie d’acqua dell’al di là, immergendomi ed emergendo di gioia e scuoterò il mio pelo lucente inzuppato, asciugandolo al vento. Silvia Giavarotti

Stazione chiusa ai senza dimora: «Così si sposta il problema altrove» di Salvatore Couchoud

Tanto tuonò che piovve, verrebbe da dire, e infatti dai primi di giugno è entrata in vigore la chiusura notturna della stazione S. Giovanni di Como, che da tempo offriva riparo a una trentina di senza dimora che non erano riusciti ad accedere ai servizi forniti dalla città. Come si temeva e nel rispetto di un copione forse già scritto. Anche se, a dire il vero, lo scenario non è poi mutato granché, dato che una quindicina di persone continuano a dormire su coperte e cartoni nel portico d’ingresso avvalendosi anche delle miti temperature del periodo: ma cosa avverrà quando si tratterà di fare i conti con il ritorno del gelo invernale? «Il problema è reale – ammette il direttore della Caritas, Roberto Bernasconi – anche se la stazione deve fare la stazione e non fungere da dormitorio. Questo significa che la città deve attivarsi per trovare soluzioni credibili per coloro che ancora trovano rifugio in quel contesto. Alcuni sono “irregolari” e, quindi, impossibiitati ad accedere al dormitorio comunale. Altri, in-

Scarpe magiche Parto da Mestre per la mia strada con lo scopo di definire un futuro migliore. E comincia una nuova storia. Io e il mio violino, signori miei, arriviamo in una città meravigliosa che si chiama... Vicenza!!!. È marzo e con un paio di scarpe, ormai da buttare, cammino sotto la pioggia per le vie. I miei piedi sono sempre bagnati. Quando arriva l’estate cominciano anche a gonfiarsi. Queste scarpe che con la pioggia si riempiono d’acqua non sono adatte nemmeno al caldo. Ormai sono troppo vecchie e trascurate e decido di metterle da parte. Non penso a buttarle ma a tenerle per ricordo. Un giorno vado in Caritas (alla sede di contra’ Torretti a Vicenza), e chiedo un paio di scarpe. La signora che incontro si chiama Grazia, e mi dice: “Si accomodi e scelga pure”. Ah, le ho individuate subito in mezzo a tutte le altre, usate, ma perfette! Con queste scarpe sento dentro di me un’energia nuova e mi viene da pensare che non ne troverò mai più di simili. E in realtà le scarpe della signora Grazia sono ancora oggi validissime e in grado di … portarmi ovunque! È un anno che le uso e sono ancora come nuove, per questo io le considero magiche. Federica Tescaro

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vece, sono italiani ma sono nella medesima condizione per svariati problemi. Ed è indubbio che di tutte queste situazioni la comunità nel suo insieme è chiamata a farsi carico». Tra i volontari che negli ultimi mesi si sono attivati per sostenere gli ospiti della stazione serpeggia la convinzione che si sia trattato di un provvedimento di pura facciata, che si limita a spostare il problema anziché risolverlo. «Si è agito avendo a cuore l’immagine della città agli occhi di turisti e pendolari – conclude Bernasconi – ed è ovvio che non è su queste basi che sarà possibile individuare una soluzione duratura al problema della grave marginalità e costruire un progetto in grado di assicurare i frutti sperati. Occorre certamente evitare il degrado, ma non è montando le saracinesche a impedire l’accesso agli atri e alle scale che si può immaginare di risolvere i problemi dell’accoglienza e dell’integrazione, a S. Giovanni come altrove. Abbiamo qualche mese di tempo prima del prossimo inverno: di questo dovremo approfittare per non spargere in futuro le rituali lacrime di coccodrillo, che lasciano il tempo che trovano e non modificano la gravità del problema».

Superficie Io, pedina dozzinale, omologa di tanti, vago muta qua e là per la scacchiera regalando ciò che nessuno ascolta. Ciò che non appartiene allo scontato del grigio quotidiano, di drammi, grandi, piccoli e irrisolti. Non uno che osi scendere nell’anima, avventurarsi al dentro del dolore, ai margini spinosi della pena. Sola comunque, sempre con tenacia, rigenero me stessa tra le lacrime. Propino all’io, placebi di speranza, mendichi di un affetto che non menta.

Aida Odoardi


SCIENZE

CURIOSITÀ

Un mostra per dimostrare che vengono colpite anche le macchine

Il “famoso” volto sulla superfice di Marte. La pareidolia ha fatto credere a molti all’esistenza degli extraterrestri

La pareidolia colpisce anche le macchine? Stando al progetto dei coreani Shin Seung Back and Kim Yong Hun, parrebbe proprio di sì. I due hanno infatti messo in piedi una mostra con fotografie di nuvole rassomiglianti a volti, ripresi con una fotocamera dotata di face detection. La presenza di alcuni elementi a ricordare occhi, naso e bocca ha tratto in inganno anche il sistema di rilevazione automatico dei volti. Il lavoro dei due mira proprio a valutare le relazioni tra la visione umana e quella dei computer. Prese singolarmente e guardate da vicino alcune immagini sembrano non aver nulla a che fare con volti, ma una visione più distaccata permette di apprezzare la somiglianza delle nuvole con volti umani. Nel loro progetto di ricerca i coreani hanno inserito anche una parte relativa al riconoscimento come umano da parte di fotocamere con Face/Pet Detection di musi di gatto e viceversa. Info http://ssbkyh.com/works/cloud_face

Pareidolia, perché vediamo volti e animali nelle nuvole? di Federico Baglioni

scheda Federico Baglioni Biotecnologo, divulgatore e animatore scientifico, scrive sia su testate di settore (Le Scienze, Oggi Scienza), che su quelle generaliste (Today, Wired, Il Fatto Quotidiano). Ha fatto parte del programma RAI Nautilus ed è coordinatore nazionale del movimento culturale “Italia Unita Per La Scienza”, con il quale organizza eventi contro la disinformazione scientifica.

Quante volte avete guardato le nuvole nel cielo e avete riconosciuto il volto di un familiare, di un animale o altri oggetti? Questo fenomeno si chiama pareidolia ed è un’illusione molto frequente. Il nostro cervello non è una macchina e tende a semplificare e trovare ordine anche in cose disordinate. Ecco perché riconosciamo volti in qualsiasi tipo di oggetto, sia esso un lavandino o nelle venature di qualche muro di marmo. Quest’illusione non riguarda solo le immagini, ma anche la musica: pensate alle storpiature delle canzoni o ai versi satanici delle musiche riprodotte al rovescio.

Perché esiste la pareidolia? Probabilmente è un meccanismo evolutivo che in passato ci ha permesso di riconoscere velocemente, anche con pochi indizi, un predatore o in generale un pericolo. Il fenomeno è così interessante che è da tempo studiato dagli scienziati e si è scoperto recentemente che le donne sono più propense a riconoscere volti negli oggetti. Le conseguenze di questa illusione sono molteplici, a cominciare dal valore spirituale (e a volte economico) dato a oggetti dalle sembianze di personaggi famosi. Il “successo” degli Ufo, ad esempio, deriva dalle rilevazioni nell’Ottocento dell’astronomo Schiapparelli che vide dei canali naturali sulla superficie di Marte. I canali naturali erano il frutto di una ri-

cerca che utilizzava strumenti a bassa risoluzione, ma complice una traduzione sbagliata, i canali naturali divennero canali artificiali, moltiplicando così le teorie sugli alieni. Negli anni Settanta, addirittura, su Marte venne rilevata una roccia enorme a forma di faccia: anche in questo caso era un’illusione dovuta alla scarsa qualità dell’immagine (oltre a un’illuminazione particolare), ma per molti diventò la dimostrazione della presenza aliena su Marte. In conclusione, la pareidolia è un fenomeno illusorio molto comune che il nostro cervello opera in continuazione e che, stimolando la nostra fantasia, ci può anche trarre in inganno. Pensateci la prossima volta che vedrete il volto di vostro zio in un pezzo di pane. luglio 2016 Scarp de’ tenis

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Le persone in stato di difficoltà a cui Scarp de’ tenis ha dato lavoro nel 2015 (venditori-disegnatori-collaboratori). In 20 anni di storia ha aiutato oltre 800 persone a ritrovare la propria dignità

IL VENDITORE DEL MESE

Moctar, venditore filosofo che sogna di tornare al suo Paese. Con Scarp riesce ad avere un po’ di autonomia

Moctar Dal Senegal alla strada: «Mi aiuta Scarp e la filosofia» di Elisa Rossignoli

info A Verona Scarp è presente come vendite dal 2011 e come redazione dal 2013. Venditori e redazione fanno capo alla casa di accoglienza Il Samaritano (Caritas diocesana veronese). È in vendita in una decina di parrocchie della città, ma talvolta anche in provincia e in eventi locali.

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VERONA

Moctar ha quasi 46 anni ed è Senegalese, ma prima di tutto, come lui stesso ama dire, è africano. Vive in Italia da quindici anni, e da alcuni mesi abita nella casa di accoglienza “Il Samaritano” (Caritas diocesana di Verona). Non sa per quanto tempo resterà nel nostro Paese, perché il suo progetto è di tornare prima o poi nel luogo in cui è nato. Ma finché è qui, bisogna dirlo, Moctar non si risparmia. Una volta arrivato al Samaritano si è coinvolto nel laboratorio di falegnameria, collaborando alla costruzione di piccoli oggetti. Ci sono poche cose uscite dal laboratorio che le sue mani non abbiano toccato: dipingendo, levigando, assemblando, verniciando. Per lui ha sempre una grande importanza la relazione con gli altri, il dialogo, lo stare insieme, e lavorando insieme si parla, ci si racconta. A Moctar piace la filosofia, che ha studiato nel suo Paese e che ancora ricorda come una parte importante della sua vita. In particolare

sente sua la frase di Cartesio, che cita in francese: “Je pense, j’existe”. La sua esperienza con Scarp è iniziata cinque mesi fa. Moctar ne è contento, non soltanto perché gli dà un po’ di autonomia, ma anche per il piacere dell’esperienza, dell’incontro con la gente. Inizialmente ha portato la rivista nelle parrocchie, accompagnato dalla presentazione del parroco. Ma da qualche tempo a Verona Scarp viene proposto anche in altri contesti. E anche per Moctar è venuto quel momento. «Una serata in fiera, dove eravamo presenti con i prodotti della falegnameria ed io con la rivista. Ma non c’era nessuno a presentarla, e ad introdurre la mia presenza. Ho raccolto la sfida e sono andato, da solo. Le persone mi hanno ascoltato, erano interessate. Poi c’era la mia foto sull’articolo della nostra redazione di Verona sul numero che proponevo. La vedevano e si interessavano anche di più. Quella sera ho venduto 33 copie, ed è stata un’esperienza bellissima». A volte la filosofia aiuta. Anche a vincere le sfide.




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