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Foto Mariangela Marseglia - Spedizione in abbonamento postale 45% articolo 2, comma 20/B, legge 662/96, Milano

L’INTERVISTA

YANIS VAROUFAKIS: «ECCO LA MIA IDEA DI EUROPA»

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strada

ESCLUSIVO L’AMERICANO UN RACCONTO DI GIOVANNINO GUARESCHI PER I NOSTRI LETTORI

www.scarpdetenis.it

agosto/settembre 2016 anno 21 numero 204

François Il circo, la mia vita L’INCREDIBILE STORIA DEL CIRCO BIDON CHE ATTRAVERSA ANCORA OGGI L’EUROPA SU CARROZZONI TRAINATI DA CAVALLI. UNO SPETTACOLO DI STRADA STRAORDINARIO IN CUI SI RACCONTA AGLI SPETTATORI QUANTO SIA IMPORTANTE SOGNARE



EDITORIALE

Il vescovo Donald e l’uomo vulnerabile

LA PROVOCAZIONE

Sostegno e lavoro per contrastare la povertà in Italia di Luciano Gualzetti direttore Caritas Ambrosiana

di Stefano Lampertico [

@stefanolamp ]

Prima che Papa Francesco lo promuovesse alla sede arcivescovile di Regina, nella stessa provincia del Saskatchewan, fino a poche settimane fa, Donald Bolen era il Vescovo di Saskatoon, nel cuore del Canada. Ecco, questo vescovo, per un giorno e una notte intera, ha chiesto l’elemosina sulla strada per poter mangiare, ha dormito in un dormitorio pubblico, ha sperimentato sulla propria pelle quanto sia difficile, per un homeless, trovare un posto dove lavarsi, sistemarsi, poter comperare un medicinale o racimolare qualche quattrino. Il vescovo Donald, anzi, l’arcivescovo Donald, che ha alle sua spalle anche qualche anno di permanenza in Vaticano, al Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, ha aderito a una campagna di sensibilizzazione sugli homeless promossa da una organizzazione locale, il Sanctum Care Group, che si occupa in quelle zone di assistenza ai bisognosi, e in special modo ai malati di Aids. Insieme ad altri im-

portanti testimonial locali, Donald ha vissuto così sul-

la strada per un giorno e mezzo, senza soldi in tasca. In una sorta di reality show benefico che si è concluso, come spesso avviene oltreoceano, con una cerimonia di raccolta fondi, da destinare a un nuovo centro per la cura prenatale dei figli di madri sieropositive. A chi gli ha chiesto cosa avesse provato, l’arcivescovo non ha esitato a riportare le proprie sensazioni di vulnerabilità. Su questo concetto di vulnerabilità vorrei soffermarmi, collegandomi a un terribile recente fatto di cronaca accaduto sul litorale toscano. La cronaca, appunto, riferisce che alcuni giovani, di ritorno da una notte brava, avrebbero costretto un senza dimora del luogo a salire su un pattìno – avete presente quelle leggere imbarcazioni usate dai bagnini per soccorrere chi chiede aiuto in mare – e l’avrebbero spinto in mare, alla deriva. Soccorso, dopo ore da una imbarcazione della Capitaneria di porto, l’uomo è stato salvato e portato in ospedale per le cure.

L’uomo vulnerabile. L’uomo incapace, da solo, di difendersi. E per questo, debole. Noi di Scarp non abbiamo dubbi. Noi stiamo con chi, spesso, ha già pagato, e a caro prezzo, la dura legge della vita.

L’uomo vulnerabile è incapace, da solo, di difendersi. E per questo, debole. Noi di Scarp non abbiamo dubbi. Noi stiamo con chi ha già pagato, e a caro prezzo, la dura legge della vita

contatti Per commenti, idee, opinioni e proposte: mail scarp@coopoltre.it facebook scarp de tenis twitter @scarpdetenis www.scarpdetenis.it instagram scarpdetenis

I recenti dati diffusi dall’Istat confermano la fotografia di un Paese che ha urgenza di misure contro la povertà. Nel 2014, 1 milione e 470 mila famiglie era in condizione di povertà assoluta, per un totale superiore ai 4 milioni di persone. L’unica nota positiva è relativa al fatto che, dopo due anni di aumento, l'incidenza della povertà assoluta si mantiene stabile. Sul tema è intervenuto recentemente anche il Parlamento con l’approvazione della delega sulla povertà denominato Sostegno per l’inclusione attiva, che accoglie il progetto del Reddito di inclusione, così come sollecitato dall’Alleanza contro la povertà che vede Caritas protagonista tra le sue fila. Il legislatore ha cominciato un percorso che ha l’obiettivo di trovare, finalmente, misure concrete di lotta alla povertà. Ma è solo il primo passo. Sono tante le integrazioni che il mondo del volontariato chiede come l’estensione universale delle misure adottate contro la povertà, superando un carattere di categorialità e soprattutto con una adeguata copertura finanziaria. Inoltre è necessario pensare, come parte integrante del Reddito di inclusione, a uno sviluppo significativo dei servizi necessari a sostenere i percorsi d’inclusione socio-lavorativa di chi si trova in difficoltà. Perché sappiamo che il rischio di povertà è oltre tre volte maggiore tra chi non ha lavoro, ma persiste anche tra chi ha un lavoro precario e saltuario. Mettere nell’agenda politica la lotta alla povertà e l’accompagnamento alla ricerca di un lavoro sono azioni coordinate che oggi chi ha responsabilità deve assumere. Sostegno da una parte, lavoro dall’altro. La diocesi Ambrosiana, con il Fondo Famiglia e Lavoro, da questo punto di vista è stata lungimirante. agosto-settembre 2016 Scarp de’ tenis

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SOMMARIO

Il circo Bidon, la faccia di François, il racconto di Guareschi. Buona estate ai lettori. Numero doppio, questo, che state leggendo. Ci accompagnerà per tutto il mese di agosto e di settembre e per molti lettori sarà una lettura estiva. Anche per questo motivo, in redazione, abbiamo pensato a uno Scarp forse un filo più “leggero” del solito. C’è una storia in copertina che ha

dell’incredibile. La storia del circo Bidon e del suo fondatore François. Un circo di strada che si muove per l’Europa - a tratti ovviamente - su carrozzoni trainati da cavalli. Con un ritmo slow, verrebbe da dire. Un circo, antico e moderno allo stesso tempo, che non utilizza gli animali per i suoi spettacoli, ma che gioca tutto il suo show sul filo dell’allegria e dell’ironia. Allegra e ironica è anche la faccia di François, il fondatore, in copertina. Parlavamo di letture estive. Ecco, dunque, un bel regalo per noi e per i

nostri lettori. Gli eredi di Giovannino Guareschi – che ringraziamo di cuore – ci hanno concesso di pubblicare un racconto del grande scrittore italiano, uno dei più tradotti e popolari anche all’estero, del 1958 dal titolo L’americano. Ovviamente non vogliamo togliervi il gusto della lettura e delle tante sorprese che il racconto contiene. Diciamo solo che è un racconto incentrato su un “migrante di ritorno”. E per illustrarlo, non potevamo che utilizzare la splendida matita di Andrea Bianchi Carnevale. Buona estate a tutti.

Una vita difficile, come fosse dipinta tutta negli occhi di un sul ciglio di una strada e questa è la mia vita, è la nostra vita,

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rubriche

servizi

PAG.7 (IN)VISIBILI di Paolo Lambruschi PAG.9 IL TAGLIO di Piero Colaprico PAG.11 PIANI BASSI di Paolo Brivio PAG.12 LA FOTO PAG.18 LE DRITTE di Yamada PAG.19 VISIONI di Sandro Paté PAG.55 VOCI DALL’EUROPA di Mauro Meggiolaro PAG.65 SCIENZE di Federico Baglioni PAG.61 CALEIDOSCOPIO PAG.66 IL VENDITORE DEL MESE

PAG.20 L’INTERVISTA Varoufakis: «Comprare un giornale di strada? Un dono» PAG.22 COPERTINA Circo di strada, scuola di vita PAG.30 DOSSIER Curarsi dentro: le pratiche del ben-essere PAG.33 IL RACCONTO L’americano, di Giovannino Guareschi PAG.38 LA STORIA A Pettinengo l’accoglienza è un’opportunità PAG.40 L’EVENTO Wikimania 2016: Esino Lario caput mundi PAG.42 MILANO In viaggio sul ponte degli annunci PAG.43 GENOVA Il cielo in una stampa, la tipografia dentro il carcere PAG.44 TORINO Un museo per conoscere altre culture PAG.46 LA STORIA Qui casca l’asino, i matti si curano in fattoria PAG.48 VICENZA Vicenza addio, i giovani cambiano Paese PAG.50 RIMINI Il fascino oltre le sbarre. Detenute modelle PAG.52 SUD Sprar, modello di accoglienza PAG.56 VENTUNO La strage silenziosa delle vittime innocenti PAG.62 NAPOLI Alfredo Giraldi, uomo di teatro

Scarp de’ tenis Redazione di strada e giornalistica via degli Olivetani 3, 20123 Milano tel. 02.67.47.90.17 fax 02.67.38.91.12 scarp@coopoltre.it

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Scarp de’ tenis agosto-settembre 2016

Direttore responsabile Stefano Lampertico Redazione Ettore Sutti, Francesco Chiavarini, Paolo Brivio

Segretaria di redazione Sabrina Montanarella Responsabile commerciale Max Montecorboli

Redazione di strada Roberto Guaglianone, Antonio Mininni, Lorenzo De Angelis, Alessandro Pezzoni

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Foto Insp, Reuters, Mariangela Marseglia, Marta Capuozzo Disegni Sergio Gerasi, Gianfranco Florio, Luca Usai, Loris Mazzetti, Andrea Bianchi Carnevale


da

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Il men

aforisma di Merafina La magia di Eva Eva la prima donna ha avuto un momento magico. Ha mangiato la foglia… e la mela Il tweet di Aurelio [Il bonazza

@aure1970 ]

(Il Secolo XIX) - Genova - Scompare Roberto Maini, l’artista clochard che partecipò alla Biennale

Cos’è

«Nell’arte voglio parlare dell’amore e della vita». Ciao a Roberto Maini. Artista.

n bambino bellissimo che chiede l’elemosina, a, buona per nessuno. Una vita difficile - tributo a Enzo Jannacci

Scarp de’ tenis è un giornale di strada noprofit nato da un’idea di Pietro Greppi e da un paio di scarpe. È un’impresa sociale che dà voce e opportunità di reinserimento a persone senza dimora o emarginate. È un’occasione di lavoro e un progetto di comunicazione.

Dove vanno i vostri 3,50 euro Vendere il giornale significa lavorare, non fare accattonaggio. Il venditore trattiene una quota sul prezzo di copertina. Contributi e ritenute fiscali li prende in carico l’editore. Quanto resta è destinato a progetti di solidarietà.

Per contattarci

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TOP 15

Beneficenza: atleti generosi 1 2 3 Fonte: www.athletesgonegood.com 2015

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33 Progetto grafico Francesco Camagna Sito web Roberto Monevi Editore Oltre Soc. Coop. via S. Bernardino 4, 20122 Milano Presidente Luciano Gualzetti

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Cristiano Ronaldo (Portogallo, calcio) John Cena (Usa, wrestling) Serena Williams (Usa, tennis) Yu-Na Kim (Corea del Sud, pattinaggio) Neymar (Brasile, calcio) LeBron James (Usa, basket) Heather O'Reilly (Usa, calcio) Maria Sharapova (Russia, tennis) Mo'ne Davis (Usa, baseball) Richard Sherman (Usa, football) C.White/M. Davis (Usa, pattinaggio) Dan Carter (Nuova Zelanda, rugby) Roman Reigns (Usa, football e wrestilng) Ronda Rousey (Usa, arti marziali) Lindsey Vonn (Stati Uniti, sci)

Registrazione Tribunale di Milano n. 177 del 16 marzo 1996 Stampa Elcograf Spa Verona Arretrati Su richiesta al doppio del prezzo di copertina

Direzione e redazione centrale - Milano Cooperativa Oltre, via degli Olivetani 3 tel. 02.67479017 scarp@coopoltre.it Redazione Torino Via San Massimo 31/C, presso Spazio Laboratorio tel. 3200454758 scarptorino@gmail.com Redazione Genova Fondazione Auxilium, via Bozzano 12 tel. 010.5299528/544 comunicazione@fondazioneauxilium.it Redazione Verona Il Samaritano, via dell’Artigianato 21 tel. 045.8250384 segreteria@ilsamaritanovr.it Redazione Vicenza Caritas Vicenza, Contrà Torretti 38 tel. 0444.304986 scarp@caritas.vicenza.it Redazione Venezia Caritas Venezia, Santa Croce 495/a tel. 041.5289888 info@caritasveneziana.it Redazione Rimini Settimanale Il Ponte, via Cairoli 69 tel 0541.780666 rimini@scarpdetenis.net Redazione Firenze Il Samaritano, via Baracca 150/e tel. 055.3438680 samaritano@caritasfirenze.it Redazione Napoli Cooperativa sociale La Locomotiva via Pietro Trinchera 7, tel. 081.446862 scarp@lalocomotivaonlus.org Redazione Sud Caritas diocesana, Salita Corpo di Cristo, Teggiano (Sa) tel.0975 79578 info@caritasteggianopolicastro.it

Consentita la riproduzione di testi, foto e grafici citando la fonte e inviandoci copia. Questo numero è in vendita dal 1 agosto al 23 settembre

www.insp.ngo agosto-settembre 2016 Scarp de’ tenis

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(IN)VISIBILI

Accoglienza e solidarietà corrono lungo i binari del treno

di Paolo Lambruschi

Siamo ancora sotto choc per il disastro ferroviario di metà luglio in Puglia, ma l’estate resta comunque il tempo dei viaggi in treno. E una buona notizia, per una volta, arriva dalle ferrovie. Dal 2014 ad oggi sono arrivati in Italia, passando per le stazioni, oltre 380 mila profughi che fanno un altro tipo di viaggio. Sono soprattutto famiglie, bambini e minori non accompagnati (in forte crescita, un autentico dramma nel dramma delle vite in cammino verso l’Europa) che hanno trovato accoglienza nella rete messa in campo dalle Fs. Lo rivela il rapporto an-

Per i migranti stazioni ferroviarie, soprattutto quelle dei centri più grandi, sono il primo salvagente cui aggrapparsi per recuperare terra. E gli Help Center delle ferrovie, per migliaia di senza dimora, rappresentano la prima tappa nel percorso di reinserimento sociale

nuale curato dall’Osservatorio nazionale sul disagio e la solidarietà nelle stazioni (Onds). Accanto a loro il po-

polo anche questo sempre più multietnico e numeroso dei clochard. I tredici Help Center

aperti nelle principali stazioni d’Italia sono per molti senza dimora la prima tappa di avvio di percorsi di reinserimento. Nel 2015 sono stati registrati 21.292 utenti, 9.135 dei quali nuovi, cioè mai passati prima per uno sportello di stazio-

scheda

Paolo Lambruschi è nato a Milano nel 1966. Lavora ad Avvenire, come capo degli interni, dopo essere stato per tanti anni inviato. Ha diretto Scarp de’ tenis e il mensile di finanza etica Valori. Nel 2011 ha vinto il prestigioso premio giornalistico “Premiolino” per le inchieste sul traffico di esseri umani nel Sinai.

ne. «In media – dice il rapporto – ciascuna persona si è recata negli Help Center della rete più di cinque volte. Tra i nuovi ingressi aumentano donne, giovani e immigrati». Il quadro della disperazione si può intuire dai dati. Si rivolgono agli Help Center soprattutto uomini (73%) di età compresa tra i 30 e i 49 anni. Solo a Firenze la percentuale di donne è superiore. I dati sulla provenienza degli utenti mostrano una netta prevalenza di stranieri, i quali, nel 2015, corrispondono al 69% del totale, con una diminuzione di circa quattro punti percentuali rispetto al 2014. Una percentuale superiore di quella che chiede aiuto ai centri di ascolto delle Caritas in parrocchia dove occorre venire indirizzati, mentre la stazione è spesso il primo salvagente cui aggrapparsi per recuperare terra. Gli italiani sono circa il 25%, seguono gli utenti provenienti dalla Romania (pari all’11,2%), dal Marocco (9,9%), dalla Tunisia (3,9%), dall’Egitto (3,1%), da Pakistan (3%), Senegal (2,2%), Ucraina (2%) e Nigeria (1,9%).

Negli ultimi due anni sono state registrate, solo nei centri realizzati nelle grandi stazioni, oltre 50 mila persone senza dimora. Circa 90 mila profughi, per lo più d’origine siriana ed eritrea, sono passati per l’hub migranti di Milano Centrale dove gli ultimi dati parlano del passaggio di 200 profughi al giorno. Si può parlare per una volta di modello tutto italia-

no di solidarietà anche per le stazioni europee: Help Center e poli di riferimento sociale stanno arrivando in Francia, Lussemburgo, Belgio e in Bulgaria. Una vittoria anche del volontariato delle stazioni, che per anni ha lottato per non fare scacciare dalle stazioni gli ultimi che vi si rifugiavano e ora, in accordo con chi le gestisce, è riuscito a organizzare la solidarietà coinvolgendo anche le amministrazioni comunali.

Un mondo complesso di disagio, ma anche di grande solidarietà e speranza accanto ai binari.

Solidarietà come quella di quel bambino di 9 anni di Castelfranco, provincia di Modena, che ha regalato i 50 euro della sua paghetta con i quali doveva comperarsi un giocattolo a un senza dimora. L’uomo ha poi restituito i soldi alla famiglia del piccolo, proprietari di un negozio. La madre ha fatto pulire per castigo il negozio al piccolo perché imparasse il valore dei soldi, perché con quei soldi la famiglia ci mangia due giorni. Poi ci ha ripensato quando il bimbo ha motivato il suo gesto dicendo: ne aveva bisogno più lui di me. Ha capito soprattutto che il figlio e, con la sua rinuncia anche il clochard, avevano fatto una cosa straordinaria.

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IL TAGLIO

Il denaro che muove le campagne innocentiste in tv Il processo per l’omicidio di Yara Gambirasio è finito, Massimo Giuseppe Bossetti è stato condannato all’ergastolo e, spesso, mi capita di trovare qualcuno che mi conosce e chiede: «Allora Bossetti è veramente colpevole?». Vorrei poter far rispondere al di Piero Colaprico

posto mio un lettore, il quale mi ha inviato una lunga lettera, con questo passaggio: «Siamo d’accordo che gli avvocati difensori, come tutti, si debbono guadagnare il pane, ma dire che il processo è stata “una tortura per Bossetti” è considerarci tutti degli imbecilli, magari analfabeti e magari appassionati di certe trasmissioni Pro mostria diffusione regionale».

Provo a riassumere qualche concetto minimo. Sino al

scheda

Piero Colaprico (Putignano 1957), giornalista e scrittore, vive a Milano dal 1976. È inviato speciale di Repubblica, si occupa di giustizia e di cronaca nera. Ha scritto alcuni romanzi, tra cui Trilogia della città di M. (2004), vincitore del Premio Scerbanenco. Una penna tagliente. Come questa rubrica che cura per Scarp.

secolo scorso non esistevano le “impronte digitali”: una persona veniva identificata dalle orecchie, dalla fronte, dagli occhi, dai tatuaggi. Poi c’è stata la dattiloscopia: le creste e i solchi dell’ultima falange identificano gli esseri umani, sinora non sono state trovate due dita “uguali”. Adesso l’identificazione è ancora più precisa, in assenza di impronte digitali, grazie al Dna: la sua struttura è simile a un libro scritto in un’unica copia. Non esistono due libri uguali. Quindi, tornando a

Yara, l’inconfondibile Dna di Bossetti, carpentiere con vita e lavoro nella zona di Brembate di Sopra, è stato trovato su slip e legginsdella bambina di terza media: come c’è finito, se Bossetti ha detto di non averla mai vista? Ma, Dna a parte, le trasmissioni che il lettore definisce Pro mostri hanno omesso moltissimi dettagli. Per esempio, una buccia di pisello è stata trovata, durante l’autopsia,

tativi di allontanarlo dalla scena del crimine sono naufragati. Qual è

Il processo per l’omicidio di Yara è finito. Qualche riflessione va fatta intorno a quanto si è mosso intorno. Partendo dalle trasmissioni Pro mostro che hanno invaso le tv nello stomaco della vittima. Era parte del pranzo di fine scuola. Residuo della digestione. È questo dettaglio scientifico a far dire a chi non vuole imbrogliare le carte che la povera Yara è morta lo stesso giorno in cui è scomparsa, il 26 novembre 2010. Un altro giorno, e la buccia sarebbe sparita per l’azione dei succhi gastrici. Quindi, affermare che Yara è stata presa, segregata, poi portata in quel posto già morta, è un assurdo. Questo assurdo, però, non viene tenuto nella minima considerazione da chi, in ogni modo, nasconde i fatti per far vincere l’idea che magistrati e investigatori abbiano messo in galera un innocente. Meglio

dieci colpevoli liberi che un innocente in galera, si dice. Ed

è un principio al quale attenersi. Ma innocente Bossetti, Dna a parte, non sembra proprio. Il 26 novembre era nelle stesse zone dove la tredicenne camminava. Dov’era? Che faceva? Non ha saputo spiegarlo. Tutti i ten-

dunque il segreto di queste campagne innocentiste, sacrosante in caso di dubbio, ma un bel po’ sorprendenti quando gli indizi sono pesanti come macigni? È il denaro. Il denaro spiega molte cose. Un programma tv vende gli spazi pubblicitari. Più il programma è seguito, più gli spazi costano. Durante il Super Bowl, la finale del campionato di Football americano gli spot costavano 5 milioni di dollari per 30 secondi. Costosi anche gli spot durante gli Europei. Ma durante questi eventi nessuno chiede ai giocatori di farsi male o eseguire azioni spettacolari a comando. Invece, nei talkgialli, il

conduttore giornalista difficilmente sbugiarda un avvocato o un consulente. Ognuno dice la sua. Al giornalista – domanda cruciale –non spetta però la «verifica dei fatti»?

Sospendiamo dunque la verifica e la deontologia in nome dell’audience e quindi del quattrino? E lo facciamo letteralmente sulle pelle delle bambine ammazzate? È una questione sulla quale, prima o poi, dovrebbe intervenire l’Ordine dei giornalisti.

Perché noi giornalisti non abbiamo la verità in tasca, ma spesso sappiamo dove stanno le bugie: e Bossetti, soprannominato «il Favola» anche dai compagni di cantiere, bugie ne ha dette tante, troppe. Anche queste sue «balle» a ruota libera hanno pesato nel giudizio di condanna. E gli innocentisti, per altro, sono improvvisamente scomparsi: tanto ci saranno altri morti di cui occuparsi, altri soldi da incassare, altri spot da lanciare.

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PIANI BASSI

Splendori e violenze, non è un gioco da signorine

di Paolo Brivio

Dicevano i cronisti d’antan, parlando del pallone: «Non è sport da signorine». Neanche la vita di strada lo è. E mica solo perché, in Italia, meno del 15%, sul totale degli homeless, sono le donne senza dimora... L’analogia è tornata d’attualità a inizio luglio, in seguito all’omicidio di Beau Solomon, universitario Usa, derubato, picchiato

e spinto nel Tevere da Massimo Galioto, homeless di lunga da-

ta, storico abitatore del lungofiume romano, spirito vagabondo, uso a campare di elemosina e della vendita di papillon ricavati dalle camere d’aria delle biciclette. Fino al giorno in cui l’ha fatta grossa. Anzi, tragica e irrimediabile. Falciando una vita innocente. E guadagnandosi

l’autore Paolo Brivio, 49 anni, si è appassionato ai giornali ai tempi dell’università. E ha coniugato questa passione-professione con l’esplorazione dei “piani bassi” della nostra società. Direttore di Scarp dal 2005 al 2014, oggi fa il sindaco: pro tempore, perché rimane “giornalista sociale” in servizio permanente effettivo

sione che nutre l’aggressività, e ne viene amplificata. Un circolo vizioso e spietato: tutt’altro, davvero, che uno sport da signorine. Né eroi né criminali Mentre dunque è vietato sostenere che tra vita di strada e attitudine alla violenza non vi sia relazione, è però altrettanto doveroso stigmatizzare le voci (che non sono mancate neppure dopo i fatti di Roma) pronte a fissare nel gi-

rone dei violenti ogni uomo e ogni donna che finiscono

L’omicidio una dimora meritata, che re- di un giovane sterà fissa per un bel po’: una statunitense, cella a Regina Coeli. gettato nel Tevere L’aggressione a Beau è l’ultima conferma del fatto che ogni anfrat- da un homeless, to di città popolato da persone sen- ripropone il nesso za dimora non è luogo da anime tra vita di strada belle. C’è ben poco da minimizzare, men che meno da e inclinazione idealizzare: la strada è anche rin- alla violenza. ghio, sputo, sangue; è spranga e colVietato tello; arraffamento dell’arraffabile e diffidenza digrignante; difesa del minimizzare. territorio a unghie spianate e offesa Ma anche folle, imprevedibile e imprevenibile. L’invisibilità sociale che incorni- generalizzare. cia la deprivazione materiale, la Perché le persone marginalizzazione estrema che cor- senza dimora rode la capacità di relazione, l’antisocialità cronicizzata che imbastar- sono vittime, disce i caratteri: sintomi di un’esclu- prima che attori

nel gorgo dell’homelessness. Generalizzare, e poi colpevolizzare in massa, significa anzitutto ignorare che le persone senza

dimora sono vittime, prima che attori di violenza: quella la-

ta della società che li marginalizza, quella tangibilissima delle tante minacce che piombano loro addosso. Sulla strada si è esposti (a malattie, fame, clima, umiliazioni, angherie) e naturalmente ci si corazza e ci si arma (per paura, debolezza, necessità, spirito di sopravvivenza). Arduo, da uno status che inclina al pericoloso e al crudele, ottenere inclinazioni all’urbanità e alla gentilezza. In secondo luogo, generalizzare è fingere di ignorare che, anche sulla strada, molte persone manifestano tratti di autenticità, di calore, di generosità, di abnegazione. Miraco-

lo dell’umano, che sa conservarsi nello splendore, pur circondato da antri di tenebra.

Che non cede deterministicamente alla desolazione dell’ambiente. Che riesce a sorprendere e commuovere, anche quando ci sarebbe da rabbrividire. Come spiegare, altrimenti, che sempre nello stesso Tevere, un anno fa, un giovane senza dimora trovò, solo tra tanti che assistevano, il coraggio di buttarsi per salvare una donna che stava annegando?

Né eroi, insomma, né criminali a prescindere. Ma uomi-

ni. Donne. Persino signorine. Da decifrare nella loro unicità e complessità. Che restano tali, e recuperabili, anche nel più sordido sottoscala sociale ed esistenziale. agosto-settembre 2016 Scarp de’ tenis

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Nella favela di Maré, non lontano dall’Aeroporto di Rio de Janeiro, vivono 140 mila persone. La favela è controllata da bande, dedite al traffico di stupefacenti. Lo sport, qui, è il modo per tenere lontani i giovani dalla malavita 12 Scarp de’ tenis agosto-settembre 2016


LA FOTO

di Nacho Doce | REUTERS

scheda Un giovane si allena alla sbarra, all’esterno dell’Accademia Luta pela Paz (Fight for Peace), nella favela di Maré a Rio de Janiero, la città che sta ospitando i giochi Olimpici e Paralimpici. Credit: REUTERS/Nacho Doce courtesy Reuters/INSP

«Boxare è fantastico» dice un giovanissimo - ha solo 9 anni - allievo della Scuola di boxe e arti marziali Fight for Peace. All’Accademia i ragazzi e le ragazze praticano queste discipline per evitare di essere trascinati in una vita di criminalità agosto-settembre 2016 Scarp de’ tenis

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IN BREVE

europa Brexit Campanello d’allarme di Enrico Panero Al di là del significato storico e politico dell’esito del referendum svoltosi il 23 giugno scorso, che ha sancito l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, è importante comprenderne le motivazioni. Perché è indubbio che si è trattato di un voto contro le istituzioni politiche del Paese ed europee, tutte schierate per il “remain”, poco credibili agli occhi di cittadini che non riescono più a vedere i benefici di un’Unione europea. Le politiche di austerità, i tagli alla spesa pubblica e ai sistemi di welfare, la disoccupazione, gli aumentati rischi di povertà, il fallimento dei governi nel soddisfare le esigenze delle persone, i fallimenti dell’Ue nella sua azione comune stanno infatti alimentando delusione e contrarietà da parte di un numero crescente di cittadini, oltre a rinvigorire le posizioni populiste centrifughe euroscettiche. Per evitare che questo sia l’inizio della sua disgregazione, l’Ue deve allora agire bene e in fretta, dimostrando l’importanza della sua esistenza per la salvaguardia di quel “modello sociale” che l’ha contraddistinta nel mondo ma che ora è in forte crisi. Come ha ben sintetizzato la ministra olandese Hennis-Plasschaert intervenendo al Parlamento europeo il 28 giugno, «allo stato attuale la risposta non è più o meno Europa, ma un’Europa migliore. È chiaro che dobbiamo agire. La nostra Unione esiste solo se sostenuta dai milioni di cittadini e questo sostegno non può essere dato per scontato. Le sfide comuni che tutti noi affrontiamo non spariranno e nessun Paese sulla faccia della terra è in grado di affrontarle da solo».

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Londra Le panchine letterarie per l'alfabetizzazione Il progetto si chiama Books about Town ed è un’iniziativa della National Literacy Trust (un ente di beneficenza del Regno Unito che lavora per incrementare la lettura e l’alfabetizzazione) per celebrare le storie legate alla capitale inglese e promuovere la lettura. In 50 diverse località di Londra sono state installate delle panchine letterarie, a forma di libro aperto, decorate con i personaggi classici come Peter Pan,

Sherlock Holmes, James Bond, Hercules Poirot e molti altri. Vere e proprie opere d’arte. Le panchine sono tutte progettate da un artista “diverso”, ad esempio la panchina dedicata ad Alice nel Paese delle Meraviglie è stata “illustrata” da Ralph Steadman. Le sculture resteranno a cielo aperto nella città fino alla fine dell’estate, poi il 7 ottobre 2016 saranno messe all’asta, al Southbank Centre, per raccogliere fondi a favore del National Literacy Trust. Si potranno cercare aiutandosi con le apposite mappe che sono a disposizione di tutti i curiosi. Info www.literacytrust.org.uk

street art India. Strisce pedonali o opere d’arte? La street art al servizio dell’educazione civica e dell’educazione stradale? È quanto è successo ad Ahmedabad, in India. Due artiste, madre e figlia, Saumya Pandya Thakkar e sua figlia Shakuntala Pandya hanno realizzato un disegno tridimensionale creando delle strisce pedonali che sembrano emergere dal manto stradale. L’illusione ottica fa rallentare l’automobilista che crede di vedere davanti a sé dei dossi. Invece si tratta di un gioco di prospettiva dato dal disegno con effetto 3D che è visibile solo da una certa distanza: man mano che l’auto si avvicina, infatti, il guidatore scoprirà che si tratta di un gioco ottico, ma nel frattempo avrà rallentato. L’idea del 3D nelle strisce pedonali era stata già sperimentata da altri street artist, ad esempio in Cina. E prima ancora negli Usa, e precisamente nello Stato dell’Oklahoma e a Chicago.

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Un nuovo portale su opportunità di finanziamento

La ricerca Parole d’odio crescono online

Infobandi CSVnet è il nuovo portale web dedicato alle opportunità di finanziamento nazionali, europee ed internazionali realizzato dal Coordinamento Nazionale dei Centri di Servizio per il Volontariato. La nuova piattaforma web nasce per favorire la diffusione, all’interno del mondo del non profit, delle informazioni sui finanziamenti che è possibile ottenere dalle istituzioni europee o da fondazioni ed enti privati italiani e stranieri in base all’ambito di intervento in cui si opera. Gli utenti hanno la possibilità di visualizzare gratuitamente i bandi attivi sui Programmi Ue 2014-2020, i Programmi Operativi Nazionali (Pon), i Programmi di Cooperazione Territoriale Europea (Cte) ed effettuare ricerche avanzate grazie alla funzione Cerca bandi. Il portale è inoltre mobile responsive, ovvero è ottimizzato per la navigazione tramite smartphone e tablet.

Hate speech, ovvero discorsi d’odio. Insulti e offese legati all’origine etnica di una persona, alla sua fede religiosa, al genere o all’orientamento sessuale o ancora alla sua condizione di disabilità. Un male diffuso nel nostro Paese ma non solo, come dimostra la Mappa dell’intolleranza, la ricerca curata da Vox - Osservatorio italiano sui diritti, su un campione di 2,6 milioni di Tweet. Il 15,8% contiene parole d’odio. Il bersaglio preferito sono le donne che compaiono nel 63% dei contenuti offensivi. Seguono con il 10,8% gli insulti verso la comunità Lgbt (la sigla utilizzata per riferirsi a persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender), i migranti (10%), i musulmani (6,6%), le persone con disabilità (6,4%) e infine le persone di origine ebraica (6,2%). Twitter, però, rappresenta un campione non esaustivo di una realtà più estesa e complessa. A mapparla in modo più assennato ci sta provando il Centro Studi e Ricerche IDOS con una indagine online che sta conducendo in tutta Italia.


[ pagine a cura di Daniela Palumbo ]

Genova. Memorie e migrazioni al Museo del Mare

Sottoterra nelle miniere del Belgio Sottoterra. È il titolo della mostra che sarà visitabile in provincia di Trento, fino al 25 settembre, nel museo Le Gallerie, a Piedicastello.

La Fondazione Museo storico del Trentino con la Provincia autonoma di Trento, il Centro di documentazione sulla storia dell'emigrazione trentina, in collaborazione con il museo Blegny-Mine sono lieti di invitarLa all’inaugurazione della mostra

IL LAVORO DEI MINATORI TRENTINI IN BELGIO E L'OPERA DI CALISTO PERETTI VENERDI’ 11 MARZO ore 18.00 Le Gallerie, Piedicastello, Trento In collaborazione con: PA T

Info 0461 0461 230484 +39230484 w.museostorico.it www.museostorico.it

A Napoli aumentano i poveri ma cresce anche la solidarietà: pubblicata la guida Dove 2016, a cura della comunità di Sant’Egidio. Dove mangiare, dormire, lavarsi a Napoli e in Campania. Uno strumento importante per i poveri e per tutti coloro che cercano risposte utili per aiutare chi è in difficoltà. Grazie al contributo del Pio Monte della Misericordia sono state pubblicate 3.500 copie che sono distribuite gratuitamente non solo ai poveri, ma anche ai servizi e alle associazioni a loro dedicati. Alcuni dati tratti dalla guida: oltre 500 luoghi di aiuto censiti in 130 pagine; 22 sezioni contenenti: 51 mense, 27 dormitori, 27 centri docce e guardaroba, 25 ambulatori medici, 16 centri ascolto, 10 sportelli legali, 42 comunità e centri per le dipendenze da droga, alcol e gioco, 20 centri per immigrati, 13 scuole d’italiano, le biblioteche, oltre i servizi socio sanitari pubblici e le modalità di accesso. Info www.santegidio.org

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Sognano di diventare rappers e hanno inscenato la loro fuga e il dramma del viaggio nel deserto: due migranti ospitati a Firenze dalla cooperativa Il Cenacolo, raccontano col rap i drammi vissuti durante la traversata del deserto e del mare. E infine l’arrivo in Italia e la speranza di restare. I due artisti si chiamano Balde Bassi dal Senegal e Culibaly Makamba dal Mali. Mettendo in musica il terribile viaggio in qualche modo lo hanno esorcizzato, insieme alla paura e alle ferite che si portano sul corpo. «Un viaggio – hanno detto i due giovanissimi ragazzi – che si può affrontare solo grazie al coraggio dato dal ricordo e dalle promesse fatte a chi si è lasciato a casa». «Attraverso le canzoni - raccontano - riusciamo a dire cose che altrimenti non riusciremmo ad esprimere. Possiamo condividere la storia di un viaggio difficile che resterà per sempre scolpito nella nostra memoria. Attraverso le canzoni anche la rabbia può diventare "gentile", accogliente e la gente è più disposta ad ascoltarci e forse a capirci».

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Napoli Guida ai servizi per chi non ha la casa

Profughi diventano rapper e musicano il viaggio della speranza

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pillole homeless mi riguarda

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La mostra racconta la drammatica vita in miniera di cui migliaia di emigrati furono protagonisti in Belgio nell’immediato secondo dopoguerra. Grazie a una ricca ed eterogenea documentazione fotografica e filmica, a testimonianze dirette, ai preziosi oggetti provenienti dal Museo di Blegny-Mine, oltre che alla ricostruzione sonora e visiva di ambientazioni tipiche del lavoro in miniera, il visitatore vivrà un’esperienza non solo intellettuale ma anche sensoriale dal forte impatto emotivo. Info: info@museostorico.it

Italiano anch’io. L’immigrazione nell’Italia che cambia. Dal 30 giugno c’è un nuovo allestimento permanente all’interno del padiglione Mem Memoria e Migrazioni. Costituita nel 2011, questa sezione è stata rivista nel tempo alla luce della maturazione del dibattito politico e sociale, dei cambiamenti in atto nella nostra società e soprattutto alla luce del fenomeno migrazioni che continua a crescere. Il nuovo concept pone l’attenzione sulla percezione del fenomeno della migrazione da parte degli italiani e sull’auto percezione degli immigrati nel contesto della società italiana. In particolare la nuova Area Immigrazione presenta differenti percorsi tematici. Info www.galatamuseodelmare.it

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Sites miniers majeurs de Wallonie inscrits sur la Liste du patrimoine mondial en 2012

In città la solidarietà si fa “sospesa” Con la crisi si sospende tutto ma non la solidarietà. L’ultima città ad adottare il ticket crossing è Torino, dopo Milano, Genova, Roma, Treviso e Bologna. A Torino sono comparsi alle fermate i raccoglitori e cartelli che invitano i viaggiatori a lasciare i biglietti ancora validi per i prossimi passeggeri. I poveri non fanno prevenzione e non possono curarsi: per questo ha fatto capolino anche la visita medica "sospesa" per chi non può pagare. ll poliambulatorio non profit, Medici in famiglia, ha lanciato a Milano l’iniziativa: prezzi calmierati con specialisti per tutta la famiglia. In particolare ci sono professionisti in disturbi dell’apprendimento e gioco d’azzardo patologico. Arriva anche il libro “sospeso”. L’idea parte da Salerno ma si è diffusa anche a Milano. I clienti acquistano due libri, uno dei quali da destinare a un adolescente, o a chi è in difficoltà. E non poteva mancare il pane. L’idea è dell’associazione Invisibili onlus di Messina e nasce sulla scia del caffè “sospeso” di Napoli. agosto-settembre 2016 Scarp de’ tenis

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IN BREVE

Dove abiti o dove vivi?

Con-tatto, è il progetto di integrazione e accoglienza che ha coinvolto i migranti da una parte e gli studenti dell’Istituto di Galbiate dall’altra

Marco Iazzolino Dal 29 giugno al 2 luglio 2016 si è tenuta a Verona la Summer school 2016 del network housing first Italia. Hanno partecipato 90 persone, 40 enti in rappresentanza di 9 regioni e 27 città dove l’housing first si sta concretizzando in servizio. I lavori del primo giorno sono iniziati con l’intervento del prof. Massimo Santinello, dell’Università di Padova, che ha presentato i risultati della fidelity scale che hanno dimostrato la validità dello strumento e la sua efficacia nel misurare punti di forza e punti di debolezza dei progetti pilota. Alessandro Carta, responsabile in fio.PSD della formazione, ha quindi presentato e introdotto al gruppo dei partecipanti l’Open Space Technology, metodologia basata su gruppi di discussione aperti e mutevoli e su alcuni semplici principi, capisaldi della libertà di movimento di ciascuno dei partecipanti a sancire l’assoluta mancanza di formalità all’interno dei gruppi e la libertà di ciascuno di muoversi da un gruppo a un altro. Carta ha invitato i partecipanti a scegliere argomenti di discussione che poi sono diventati i sette gruppi dell’Ost. La terza giornata è stata caratterizzata dalla presenza di Sam Tsemberis che ha riflettuto insieme agli operatori sui temi della libertà di scelta, della centralità della persona, del lavoro, dell’importanza fondamentale dell’équipe, del successo di un progetto di housing first. Prossimo appuntamento all’inizio di ottobre l’incontro con Peter Cockersell; il 5 e 6 dicembre tutto il network si ritroverà a Torino per la conferenza finale del biennio di sperimentazione. Info www.fiopsd.org/reportsummer-school-2016/

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TRE DOMANDE

Incontri e migranti Una scuola lecchese si racconta di Daniela Palumbo

Si chiama Con-tatto il progetto di integrazione e accoglienza che si è svolto all’Istituto Comprensivo di Galbiate, in provincia di Lecco. A tirare le fila del programma è stata l’insegnante di scuola media Maria Luigia Longo, originaria di Stigliano (Matera), nonché poetessa: il suo ultimo lavoro è Contare le Parole, Transeuropa Edizioni. Più di duecento ragazzi (ovvero tutta la scuola: prime, seconde e terze medie) sono stati accompagnati dalle insegnanti a incontrare e intervistare i ragazzi richiedenti asilo ospitati a Lecco, presso l’hub del Bione. Come nasce Con-tatto? «L’accoglienza è un diritto/dovere – ci dice Maria Luigia Longo che, insieme alle colleghe, spesso leggono le storie di Scarp in classe – perché ogni individuo ha diritto ad avere spazi e opportunità ovunque si trovi e la comunità ha il dovere di proporne. Nell’ottica di una società che rispecchi il principio dell’accoglienza i progetti didattici non possono che rispondere a finalità precise: educare alla cultura dell’altro attraverso la conoscenza e la valorizzazione delle diverse identità e radici culturali; conoscere le cause dei processi migratori; promuovere l’eliminazione o almeno la riduzione dell’emarginazione culturale. Il nostro Istituto ha alla base questi valori, e tutti noi insegnanti ci siamo trovati d’accordo a preparare Con-tatto».

Come sono avvenuti gli incontri fra i ragazzi profughi e gli studenti? Sono stati coinvolti 15 ragazzi migranti fra i 17 e i 21 anni, con storie difficili, anche se diverse. Gli incontri sono stati due, uno a dicembre e l’altro a febbraio. Loro sono stati felici dello scambio con gli studenti che, a loro volta, erano emozionati. Li avevamo preparati e accompagnati per far sì che si avvicinassero alle vite dei migranti “con tatto”, appunto. Con delicatezza. Avevano preparato una quindicina di domande, poi tradotte in francese e inglese. Il progetto si è svolto, nel corso dell’anno scolastico, anche su altri piani: con letture, studio e riflessione, sul tema migrazione. Cosa è emerso? Tutto il materiale e i testi delle interviste è finito nel libro Con-tatto-Storie migranti che con le sue quasi 200 pagine illustrate oltre che fumetti, ricette, fiabe, piatti etnici, racchiude sensazioni, riflessioni, scambio di parole, speranze e sogni di tutti i ragazzi. Il costo della stampa è stato sostenuto dalla scuola, dagli alunni, dai docenti, Comune e Comitato dei Genitori. E ai ragazzi, cosa è rimasto? Stupore nell’incontrare ragazzi pieni di voglia di vivere ed allegria, nonostante le loro tristi storie. Anche gli studenti spesso hanno spontaneamente raccontato qualcosa di sé e della propria famiglia o dei sogni per il futuro. Speriamo che sia servito anche a scardinare stereotipi e pregiudizi.


IN BREVE

A Milano lo spettacolo della natura si mette in mostra

In 25 anni di attività filantropica a favore delle comunità, Fondazione Cariplo ha sostenuto oltre 30 mila progetti di utilità sociale. Raccontarli tutti è impossibile: sono state scelte alcune storie particolarmente significative per realizzare un film in 25 episodi. Una playlist che raccoglie progetti finanziati nel tempo da Fondazione Cariplo

Un appuntamento atteso con la grande fotografia della Natura. Dal primo ottobre al 4 dicembre torna Wildlife Photographer of the Yearalla Fondazione Luciana Matalon di Milano, grazie all’associazione culturale Radicediunopercento, presieduta da Roberto Di Leo, che ogni anno porta nel capoluogo lombardo le immagini premiate al prestigioso concorso di fotografia naturalistica, nato nel 1965 e indetto dal Natural History Museum di Londra. La mostra

accoglie 100 immagini da tutto il mondo,

premiate al concorso londinese. La competizione è giunta alla 51a edizione, segno di una tradizione che non perde colpi con i 42 mila scatti realizzati da fotografi professionisti e amatoriali, provenienti da 96 paesi, che sono stati selezionati da una giuria di esperti internazionali, in base alla creatività, al valore artistico e alla complessità tecnica. L’esposizione è un viaggio per immagini che racconta il nostro pianeta in costante evoluzione; dai paesaggi incontaminati, al mondo animale, al regno botanico. Le meraviglie della natura si presentano agli spettatori però non solo con punti di vista emozionanti ma, doverosamente, anche con uno sguardo consapevole che diventa testimonianza visiva di un ambiente a rischio, da salvaguardare e da preservare nella

Video Di libri viventi e altre storie #Cariplo25

sua ricchezza e nella sua straordinaria diversità. L’esposizione presenta le immagini premiate nelle 20 categorie in gara, a partire dal massimo riconoscimento, il Wildlife Photographer of the Year, assegnato a A tale of two foxes di Don Gutoski (Canada) nella categoria Mammiferi. Lo scatto ritrae una volpe rossa mentre trascina la carcassa di una volpe artica, nel Wapusk National Park in Canada. La foto vincitrice della sezione junior, la Young Wildlife Photographer of the Year, è di Ondrej Pelánek (foto sopra), della Repubblica Ceca. La foto, Ruffs on display, mostra la lotta fra due uccelli maschi per l’accoppiamento e in difesa del territorio. Tra i premiati c’è l’italiano Ugo Mellone, vincitore nella categoria Invertebrati con la foto Butterfly in Crystal. Info: www.radicediunopercento.it

per la coesione sociale, il welfare e per il bene comune nel territorio della Lombardia, e di Novara. Il sostegno di Fondazione Cariplo, come emerge dal video, ha un unico obiettivo di fondo: il benessere delle persone, nel senso di impegno a migliorarne la qualità della vita. Youtube Fondazione Cariplo

LA STRISCIA

agosto-settembre 2016 Scarp de’ tenis

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LE DRITTE DI YAMADA

Ove, l’uomo che metteva in ordine il mondo

Devo dirvi che davvero mi ricordo l’istante in cui questo libro ha smesso di essere “il libro che portavo nella borsa” ed è diventato “il passaggio segreto” che mi calava nella sua storia avvolgente: era giovedì sera e tornavo col metrò dal lavoro; leggevo, e arrivata a pagina 30 la coprotagonista di origini iraniane, Parvaneh, mette in mano all’indiscusso protagonista di origini svedesi, Ove, un contenitore bello caldo con dentro pollo e riso al curry. Ore prima, al mercato, avevo comprato mezzo pollo arrosto. Ragionando, mi sono detta che in frigo avevo l’occorrente per abbinare quel pollo a un curry cui avrei aggiunto del riso. Parvaneh aveva dunque allungato il suo curry anche a me, e io lo avevo preso: ecco l’istante in cui mi sono addentrata senza riserve dalla storia di Ove.

La dolorosa solitudine di Ove in un libro che esonda materiale umano favoloso, che strappa risate e commuove

Tentando di non sgazzettare troppo la trama, dirovvi (solo) che Ove ha 59 anni, è vedovo da pochissimo della sua amata Sonja, ed è stato licenziato dalla sua azienda un lunedì, per

non rovinargli il fine settimana(!); lui, il giorno dopo, si ritrova a oliare il ripiano di legno della cucina escogitando come uscire definitivamente di scena per essere seppellito di fianco alla moglie. Vive nella periferia di una città svedese in un quartiere di villette a schiera, in lotta perenne coi suoi sconclusionati vicini di casa. Beh, avremo (avuto) tutti a che fare

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il libro L’uomo che metteva in ordine il mondo di Fredrik Backman

Novecento autoritratti di ragazzi e ragazze di oggi, senza filtri né moralismi, che si raccontano esplorando i loro stati d'animo, il loro modo di amare, di sognare, di avere paura, di misurarsi con il futuro. Il curatore Stefano Laffi, ricercatore sociale, ha fatto un lavoro approfondito di raccolta e analisi del materiale. Emergono la fatica e le ansie del nostro tempo che passano ai nostri giovani e si fermano fra le pieghe della giovinezza.

con un condomino cui dà fastidio tutto, e l’esplosivo mix simpaticoparanoide di Ove in questo senso è da specialista in psichiatria: le sue ispezioni nel quartiere, che da 40 anni compie ogni mattina alle 6.30, sono da letteratura medica e oltremodo esaltate dalla nonchalance dei suoi comari nella trasgressione anche minima dei diritti/doveri sulle parti comuni.

La dolorosa solitudine di Ove è lenita dalle foto di Sonja, appese in ogni punto della

Stefano Laffi Quello che dovete sapere di me Feltrinelli, euro 14

casa in modo da incrociare molte e molte volte il suo sguardo. In una di queste, lei sorride radiosa con indosso un abito rosso: sono questi i semi fatati dell’amore di Sonja nella vita di Ove, uomo in bianco e nero, solitario, amante dei numeri e delle Saab, dotato di un forte senso etico e di un’anacronistica manualità. Di talenti ne ha, sotto la ruvidezza. E ben li nota Parvaneh, giovane e minuta sposa di uno spilungone biondissimo, Patrick: ecco l’altra famiglia multietnica sua vicina di villetta. E poi ci sono Anita e Rune, Lena e Anders, Adrian, Jimmy e Mirsal. Ove, con malcelata riluttanza, è di aiuto a tutte queste persone che rammendano la sua tristezza cucendo una rete diversamente affettiva tra loro.

Un amore d’altri tempi Una storia d'amore francese che ricorda atmosfere di altri tempi. Un uomo che chiama la moglie ogni mattina con un nome diverso e lei è felice di essere un giorno Renée e il giorno dopo Joséphine. E un bambino in mezzo che racconta, con la leggerezza dei bambini felici, una casa particolare, dove tutti almeno un giorno vorremmo vivere. Olivier Bourdeaut Aspettando Bojangles Neri Pozza, euro 15

Non è scritto da dieci e lode, ma le righe della storia esondano materiale umano favoloso che mi ha strappato ri-

sate e oltremodo commosso (nel finale). A impreziosire il tutto svelo la presenza di un gatto spelacchiato, capace di seguire Ove e di mettere il crapino nella sua mano, dove un tempo c’era quella di Sonja.

Il paradosso dei diritti umani

[ a cura di Daniela Palumbo ]

testo di Yamada

Autoritratti di ragazze e ragazzi

La tesi di fondo dei due autori consiste nello svelare il paradosso dei diritti umani che oggi possono essere sbandierati come strumento di giustizia da quegli stessi organismi conservatori che spesso rientrano in un’ottica di dominio e non di emancipazione. Nicola Perugini e Neve Gordon The human right to dominate NotteTempo, euro 16


VISIONI

La colonna sonora affidata al disneyano John Debney e a Nick Urata è un capolavoro di jazz tradizionale e ritmi klezmer

Come salvare i nostri figli Il documentario Tomorrow racconta i pionieri del nostro Pianeta che reinventano l’agricoltura, l’energia, l’economia, la democrazia e l’istruzione: dal loro lavoro e dalla loro opera di oggi si comincia a vedere la nascita di quello che potrebbe essere il mondo di domani. Risposta francese a uno studio che annuncia il crollo degli ecosistemi nel 2100.

Mr. Cobbler e la bottega magica Un calzolaio, una piccola bottega e tanta voglia di cambiare vita. La storia di Max Simkin (Adam Il cast è d’eccezione: Adam SanSandler) insegna dler finalmente lontano dai soliti film romantici in cui recita, Du- che cosa succede stin Hoffman, un sempre convin- quando si cente Steve Buscemi e una mai cammina nelle così spietata Ellen Barkin. Due anni di ritardo rispetto all’uscita scarpe di altre in molti altri paesi, ma per fortu- persone. Arriva na ora si può recuperare questo in Italia il nuovo piccolo grande film. Non la solita film di Tom commedia americana. Tutto avviene in un an- McCarthy Grazie al successo de Il caso Spotlight, arriva nelle sale cinematografiche italiane la divertente commedia scritta e diretta da Tom McCarthy un paio d’anni prima del suo primo Oscar.

golo di New York City da troppi anni uguale a se stesso. Max Simkin è un calzolaio che

tutti i giorni apre la sua bottega e passa le giornate a sistemare scarpe. Pur di aggiustare tacchi, suole, plantari e riconsegnare scarpe ai legittimi proprietari nei tempi previsti lavora senza sosta. Una notte, per un inconveniente tecnico, è costretto a rispolverare un vecchio macchinario abbandonato nel retro del negozio per ultimare l’ultimo paio. L’uso della vecchia risuolatrice meccanica,

il film Mr. Cobbler e la bottega magica Genere: Commedia, Drammatico, Fantasy Anno: 2014 Regia: Thomas McCarthy Con: Adam Sandler, Dan Stevens, Steve Buscemi, Dustin Hoffman, Ellen Barkin, Musiche: John Debney

L’opera seconda di Pif

«È un privilegio mettersi nelle scarpe di un altro, ma anche una responsabilità».

Il suggerimento del padre di Adam, la magia dell’antica macchina lasciata a impolverarsi in cantina o lo spirito di Manhattan o come cantava in milanese Enzo Jannacci, maestro nel calarsi nei panni degli altri, un poeu de tuss coss, e così il protagonista di questa storia proverà letteralmente che cosa si prova a camminare in scarpe differenti delle proprie. Si troverà invischiato nella vita di un travestito, di un ragazzino, di un uomo di bell’aspetto, di un morto, di un delinquente e di tanti altri abitanti del quartiere come vivendoci per generazioni. Un po’ film di super-eroi, un po’ storia di disgraziati alla Zavattini. Tra un racconto di Paul Auster e uno di Bernard Malamud. Doppiaggio italiano non certo eccezionale per un film in cui tanti bravi caratteristi recitano la parte dello sfigato Adam Sandler che improvvisa tutti i ruoli disponibili. Da non perdere.

In guerra per amore è il secondo film di Pierfrancesco Diliberto che torna dietro la macchina da presa, di nuovo in Sicilia con una complicata storia d’amore. Arturo e Flora però non vivono nel nostro tempo ma cambia l’ambientazione storica. Nel nuovo film non più Cosa Nostra degli Anni ‘80-’90 ma lo sbarco degli alleati. Luglio 1943.

L’identità cilena dentro l’opera di Neruda [ a cura di Daniela Palumbo ]

di Sandro Paté

niente di paragonabile agli aggeggi moderni che si attaccano alla corrente, è l’unico modo per rispettare le consegne. Dopo l’ultima cucitura, gesto istintivo a fine giornata lavorativa, calza l’elegante scarpa in pelle appena sistemata.

Pablo Larrain, il giovane regista e produttore cileno racconta la vita di Pablo Neruda, il poeta cileno premio Nobel nel 1971. Un film che ripercorre la vita della repubblica cilena insieme a quella del poeta. Nel ‘48 il governo cileno decide di seguire la politica statunitense e rinnegare la sinistra. Neruda va in esilio. Lo perseguiteranno. agosto-settembre 2016 Scarp de’ tenis

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Yanis Varoufakis ha incontrato i delegati del Global Summit dei giornali di strada che si è tenuto di recente ad Atene. In questa foto con alcuni degli streetmagazine rappresentati, tra i quali il nostro Scarp de’ tenis

Yanis Varoufakis « Chi compra un giornale di strada riceve un dono» di Laura Kelly foto di Dimitri Koutsomytis

Abbiamo incontrato, a giugno, prima di Brexit, l’ex Ministro delle Finanze greco. Varoufakis racconta a Scarp la “sua” Europa, le sue idee per uscire dalla crisi e le sue passioni 20 Scarp de’ tenis agosto-settembre 2016

La recessione e la grave crisi economica che ha colpito la Grecia negli ultimi anni ha trasformato l’assetto politico del paese ellenico. Syriza, il partito politico di sinistra, salito al potere nel 2015 ha governato, e sta governando, con un programma anti-austerity che l’ha portato in conflitto con la Commissione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca centrale europea. Yanis Varou-

fakis, nel primo governo di Syriza, era il Ministro delle Finanze. Paladino di una politi-

ca anti austerità, capace di lasciare il suo incarico –prestigioso –in segno di protesta per l’accordo di salvataggio accettato dal Primo ministro greco Alexis Tsipras. Nonostante abbia lasciato il governo lo scorso luglio, Varoufakis non ha lasciato la politica


attiva, promuovendo in tutta Europa un nuovo movimento politico, il Diem (Democracy in Europe Movement 2025). Yanis Varoufakis, a giugno, ad Atene, ha incontrato i delegati dei giornali di strada appartenenti alla rete mondiale di Insp (International network of street papers). Varoufakis, cosa ne pensa di questo Summit che vede qui ad Atene i rappresentanti dei giornali di strada di tutto il mondo? Il dialogo, lo scambio di informazioni e l’atmosfera generale sono eccellenti. Credo che vi sia un paradosso incredibile in giornali come The Big Issue o Shedia, o in una qualsiasi di queste pubblicazioni. Se riesci ad affrontare il problema delle numerose persone che vivono per la strada, di fatto nel tempo il tuo lavoro diventerebbe inutile. Mi sentivo esattamente così quando sono stato per un breve periodo Ministro delle Finanze. Il mio lavoro era quello di apportare cambiamenti e renderli efficaci, così da non essere più, nel tempo, “necessario”. Per questo penso che i giornali di strada siano importanti. L’acquisto di una copia non è esattamente un atto di filantropia, non è un regalo, bensì ottieni qualcosa. E dopo aver letto diverse copie di questi giornali, posso tranquillamente dire che sono pubblicazioni di ottima qualità. Oltre ad occuparsi dei senza dimora, il Summit di Insp è anche un raduno di mediaindipendenti. Cosa ne pensa? Penso che possono iniettare un po’ di linfa vitale nella società, perché i media non indipendenti a volte succhiano il sangue dalla stessa democrazia. Specialmente qui in Grecia. È lampante. Ci sono banche fallite che possie-

Brexit accelererà il processo di disgregazione dell’Europa. E questo peggiorerà la crisi economica e travolgerà la Gran Bretagna in una nuova recessione

dono media falliti a loro volta. L’unico modo che hanno per andare avanti è ottenere finanziamenti o prestiti che non saranno mai in grado di ripagare. Prestiti ottenuti dalle banche in fallimento le quali si affidano alla Troika per mantenersi in vita. Una catena di comando che va dai creditori a ciò che ci dicono i media. Questa è la fine della democrazia. Lei si è opposto alle condizioni per la rinegoziazione del debito per la Grecia, in termini piuttosto drastici. Per esempio ha accusato i creditori greci di waterboarding fiscale. Sono possibili dei cambiamenti? Diciamolo chiaramente. A Mykonos nessuno paga le tasse. Su di un’isola dove circola così tanto denaro contante, ogni volta che l’ispettore fiscale arriva tutti lo sanno e sanno anche chi è. Ovunque egli vada vengono emesse ricevute e poi, quando se ne va, nessuno le fa più. L’unico modo per risolvere la questione è quello di controllare che il cliente abbia una ricevuta fiscale. Sono stato diffamato per averlo suggerito. Ovviamente penso che questa sia la strada da percorrere e che dovremmo fare qualcosa. Sta sostenendo la campagna per il referendum nel Regno Unito. Pensa che sia la scelta giusta? Ho sostenuto e sto sostenendo la

L’INTERVISTA campagna per restare nell’Ue. I peggiori nemici della campagna sono persone come David Cameron e Tony Blair. Anche se non credo che Brexitsignifichi qualcosa di tremendo. Le mie ragioni per cui la Gran Bretagna dovrebbe rimanere in Europa non sono le ragioni di Cameron. Tuttavia credo che la Brexit racchiuda un’ottima argomentazione per quanto riguarda la sovranità democratica che è stata ceduta in gran parte a una cricca di burocrati e istituzioni non-democratiche, anzi, antidemocratiche. Sono contro la Brexit per due ragioni. La prima: anche se si vota per l’uscita dalla Ue, di fatto sarà difficile uscirne. Si è bloccati nel mercato unico che non è solo una zona di libero scambio, è molto più di questo. Vi sono standard comuni, ogni ser-

scheda Yanis Varoufakis (Atene, 24 marzo 1961) è un economista e politico greco. È professore di teoria economica all’università di Atene. Dopo la laurea in Statistica Matematica consegue il dottorato in Economia all’Università dell’Essex. Alle elezioni greche del 2015 si è candidato con Syriza. Eletto al parlamento ellenico è stato Ministro delle Finanze nel primo governo Tsipras, dimettendosi dopo il referendum del 5 luglio 2015 in Grecia, per favorire il dialogo del suo governo con l’Eurogruppo

vizio deve essere controllato secondo le norme imposte da Bruxelles; standard di protezione ambientale, di legalità del mercato, tutte varate da Bruxelles. Ci sarebbero anche difficoltà quando si tratterà di scrivere il “libro delle regole” per le attività economiche e sociali. La seconda ragione è che Brexit accelererà il processo politico di disintegrazione dell’Europa. E questo, naturalmente, peggiorerà la crisi economica in Europa e travolgerà la Gran Bretagna in una nuova recessione. Nonostante la sua avversione per alcune delle istituzioni di Bruxelles, in fondo si sente europeo? Non condurrei la campagna contro Brexit e Grexit se non lo fossi. Sono un europeista convinto. Cosa avrebbe fatto un buon europeista negli anni ’20 e ’30? Credo che si sarebbe opposto ai poteri forti in Europa. Perché un europeista è anche un umanista e vuole che l’Europa non si laceri. Se sei un vero europeista, devi “combattere” contro Bruxelles, contro Francoforte, contro i poteri forti. Ma non si può farlo accelerando la disgregazione dell’unione che già abbiamo. Fino ad ora abbiamo affrontato temi importanti, ma cosa fa Yanis Varoufakis nel tempo libero? Vado in palestra, nuoto, ascolto musica … Che musica vorrebbe sentire se accendesse lo stereo adesso? Vorrei ritornare agli anni della mia gioventù per ascoltare ancora gli album degli Stones di metà anni sessanta. Courtesy of the INSP News Service, insp.ngo

agosto-settembre 2016 Scarp de’ tenis

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COPERTINA

La preparazione della pista prima dello spettacolo. Il circo Bidon si sposta ancora oggi su carrozzoni trainati da cavalli. Un elogio alla lentezza in un mondo sempre più veloce e meno attento a quello che corre accanto

Circo di strada È il circo alternativo più vecchio che ci sia, esiste da quarant’anni e sta tornando in Italia dopo quindici anni di assenza, viaggiando come ha sempre fatto, trainato da cavalli. Si chiama Bidon (Bidone) 22 Scarp de’ tenis agosto-settembre 2016


scuola di vita perché i suoi fondatori non erano tanto capaci di fare gli acrobati. Però fanno ridere e regalano sogni. Spazio Bizzarro, invece, è un tendone in un parco delle Brianza: un luogo dove si insegna a sbagliare agosto-settembre 2016 Scarp de’ tenis

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COPERTINA

di Stefania Culurgioni foto Mariangela Marseglia

Un convoglio di carrozzoni trainati da cavalli procede in fila indiana sulla strada. Vanno a cinque all’ora e stranamente nessuna delle auto in coda protesta. Tutt’altro. C’è qualcosa di curioso in questa sfilata di rimorchi di legno: panzuti purosangue dalla criniera giallastra pestano gli zoccoli sull’asfalto, in testa uno strano vecchio col barbone bianco e un berretto afflosciato su una crespa zazzera, le ruote gommate delle roulotte trotterellano sulle buche come se non ci fosse alcuna fretta, e sulla fiancata c’è scritto chiaramente di cosa si tratta. È il Cirque Bidon, in trasferta direttamente dalla Francia all’Italia, meta: Rezzato, in provincia di Bre-

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scia, in un parcheggio assolato ai margini della cittadina dove per tre sere di fila si farà lo spettacolo. In pochi lo sanno ma è un evento. Bidon vuol proprio dire letteralmente “bidone”, ma in francese è usato per indicare una cosa un po’ scarsa. C’est du bidon, e cioè: è una farsa, una sola, una fregatura. Insomma, una cosa un po’ meno forte di “fa un po’ schifo” ma che gli si avvicina parecchio. Eppure è il circo alternativo più vecchio che ci sia, esiste da quarant’anni e sta tornando in Italia dopo quindici anni di assenza. E infatti sarà un successo: 450 persone la prima sera, tutto esaurito anche quelle dopo. Le cirque c’est chic. Il capomastro del baraccone è proprio quel signore col basco calcato sulla fronte. È un omone grande, con le mani grandi, gli occhi az-

zurro ghiaccio, l’accento parigino. Sembra un Babbo Natale, e in effetti ha vissuto in diversi boschi, e ha alle spalle una storia di vagabondaggio che starebbe bene in un libro della Beat Generation. Si chiama François, ha 70 anni, e questo circo d’altri tempi se l’è inventato lui quando aveva trent’anni. «Erano gli anni ’70 e lavoravo a Parigi come scultore e cesellatore del bronzo – racconta – ma mi annoiavo. Fare sempre le stesse cose, nello stesso posto, volevo andar via. Fu un periodo molto bello. C’era appena stato il maggio francese, speravo che nel mondo cambiassero un po’ le cose. Sognavo che le persone imparassero ad avere rapporti più umani tra loro, che non esistesse più lo sfruttamento, che la società funzionasse in modo più libero e anarchico. E invece dopo poco tem-


IL FESTIVAL

Raccolta fondi per farli tornare in Italia: Bidon in scena a “Tutti matti per Colorno”

Uno dei carri del circo Bidon. A destra Laura, una delle acrobate del circo francese in tournée in Italia. Sotto i cavalli utilizzati per trainare i carrozzoni

Erano 15 anni che il Cirque Bidon non tornava in Italia. A permettere la realizzazione di questo grande retour de scène è stato Leonardo Adorni, direttore artistico del Festival “Tutti matti per Colorno”. Una kermesse da non perdere e che porterà in provincia di Parma dal 2 al 6 settembre prossimi, il miglior circo e teatro di strada, tra cui appunto anche il mitico Cirque Bidon. «Per farlo tornare in Italia abbiamo avviato una raccolta fondi con il crowfunding – racconta Leonardo – ci hanno aiutato molto anche i circuiti teatrali Ater (dell’Emilia Romagna) e Claps (della Lombardia): quando abbiamo raggiunto il 75% del budget che ci eravamo prefissati, Banca Etica ha aggiunto il restante 25% – i soldi sono serviti al trasporto. Dalla Francia all’Italia non era possibile arrivare a cavallo, in mezzo ci sono le Alpi, così abbiamo organizzato sei Tir. Una cosa quasi da matti, ma ce l’abbiamo fatta e adesso ogni volta è sempre il tutto esaurito». (A proposito di matti, il primo manicomio criminale nacque proprio a Colorno, e Franco Basaglia ne fu il direttore). «La diversità di Bidon non consiste solo nel non avere animali – continua Leonardo – ma anche nelle esibizioni. Questo è un racconto teatrale circense, fatto di danza e musica, non più di numeri di grande tecnicismo tutti spezzettati tra di loro, in cui il pubblico è puro spettatore». Qui si ascolta una narrazione, ci si commuove, si sogna, si immagina. La troupe è composta da donne e uomini, tra loro anche una ragazza italiana. Si chiama Laura Bernocchi, ha 32 anni e fa l’acrobata. Si è formata in una scuola di Mosca e vive col circo da quattro anni. Lavora a piedi nudi, sia col freddo che col caldo, si allena ogni giorno e per casa ha una roulotte. Info: www.tuttimattipercolorno.it/

po tutto tornò esattamente come prima. Restai molto deluso. Dissi a me stesso: eh bien, non è facile cambiare la società ma posso almeno cambiare la mia vita». Una vita nei boschi Poi la storia si colora un po’ di romanticismo. François vende tutto quello che ha e comincia a viaggiare. Si porta dietro i libri di Kerouac e Jack London e si immagina una vita diversa. Percorre l’Europa a piedi, in autostop e in bicicletta e si ritrova in un bosco a nord della Francia dove incontra una giovane donna che vive nella natura, nuda, con due bambine. «La sua casa sembrava un pollaio, mangiava minestra di ortiche e patate dell’orto, non avevano acqua – racconta – era una trapezzista che aveva lavorato nei grandi circhi francesi, ma aveva mollato

Noi eravamo incapaci, e per questo ci chiamammo Bidon, un modo per dirlo prima alla gente, così non si potevano lamentare. Però facevamo ridere, raccontavamo storie, facevamo e continuiamo a far sognare

tutto perché voleva fare qualcosa di diverso, un circo più poetico, familiare, con carrozzoni trainati da cavalli. Ah oui, ci siamo innamorati». Insieme cominciano ad allenarsi: lei minuta, 42 chili, lui gigante (antenati vichinghi). Piroettano tra gli alberi del bosco ma dopo due anni l’amore finisce. François torna alla civiltà ma quell’idea del circo coi cavalli l’ha contagiato e in breve diventa il suo sogno. Ma il cammino è appena cominciato. «Qualche tempo dopo mi trovo in Normandia ad aiutare un amico che faceva il fabbro – racconta – quando a un certo punto vedo arrivare una carovana di zingari. Non li avevo mai visti prima: è il destino, pensai. Uno di loro mi dice che aveva appena preso la patente e voleva vendere tutto. Ci mettiamo d’accordo. Dovevamo incontrarci dopo

15 giorni, io nel frattempo mi do da fare per racimolare i soldi che mi servono, vado all’appuntamento ma lo zingaro non si presenta. Già mi vedevo per strada con le loro roulotte. Mi arrabbio e mi dico: vorrà dire che questi carrozzoni me li costruisco io». Il primo lo completa nel 1973. È una baracca con le ruote, due volte bidon. Ma l’avventura comincia. François trova un cavallo «e meno male che era bravo – dice – perché ha avuto pazienza. Non avevo mai posseduto un cavallo, non sapevo neanche cosa doveva mangiare. Andai nella regione della Champagne a fare la vendemmia, avevo bisogno di soldi. Poi finalmente riuscii a mettere insieme otto amici, il cirque Bidon nacque così. Fu tremendo. Fu davvero duro. Non eravamo abituati a quella difficile vita, dopo due settimane eravamo rimasti in tre. Io facevo il mangiafuoco, ma mi faceva schifo, mi ripromisi di imparare almeno a fare il giocoliere. Dicevo a me stesso: tieni duro, piano piano andrà meglio. Così attraversammo la Francia e voilà... eccoci qui».

Loro lo hanno fatto quasi per caso e sicuramente per necessità ma quello che hanno inventato è stato innovativo. Quello che esisteva a quei tempi era solo il circo dei professionisti.

Non c’erano scuole dove imparare il mestiere, il sapere era tramandato di padre in figlio. «Invece noi eravamo incapaci, e per questo ci chiamammo Bidon, un modo per dirlo prima alla gente, così non si potevano lamentare – continua François – però facevamo ridere, raccontavamo storie, facevamo sognare». Oggi, soprattutto in Francia, non esiste più una distinzione tra circo tradizionale e alternativo: le due cose si sono fuse insieme, Bidon ha ispirato tantissimi artisti, ha contribuito a modificare lo spettacolo. Il loro modo di fare circo è un misto di recitazione, canti, musica, balli, acrobazie, arte di strada. A volte coinvolgono qualche cavallo e qualche gallina, ma sempre fanno

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COPERTINA ridere e sognare chi assiste. «Seguiamo una storia – dice il fondatore – ma cerchiamo sempre di lanciare un messaggio: sognate, perché sognare è bello. Ma non limitatevi a questo: i vostri sogni realizzateli».

Tutto, dentro quei sei carrozzoni, nell’organizzazione delle 16 persone che ci lavorano, rispecchia quel sogno del maggio francese che ancora alimenta il cuore di François: non esistono capi, tutti fanno tutto, il guadagno si divide in parti uguali.

Il ritmo che scandisce i giorni è quello della lentezza: si fa tanta ironia su come corre la società, spingendoci a lavorare e lavorare per comprare e comprare ancora, buttando quello che si ha dopo poco tempo per ripartire di nuovo in una folle corsa al possesso. E invece Bidon si sposta di venti chilometri alla volta, coi cavalli. Durante lo spettacolo le persone si emozionano tanto, a fine spettacolo si alzano e applaudono per dieci minuti di fila e poi portano alla truppa vino e formaggio.

Spazio Bizzarro luogo di cultura di Generoso Simeone

Dal sogno di Nicola e Cecilia è nato un tendone in cui, tramite, le arti circensi, si insegna che si può sbagliare 26 Scarp de’ tenis agosto-settembre 2016

Nicola aveva un sogno. Un sogno che non si poteva tanto raccontare in giro. Perché la gente potrebbe guardarti male e pensare che tu non sia tanto a posto. Specie se sei nato e cresciuto in Brianza, dove bisogna laurà, laurà, laurà. Ma i sogni viaggiano veloci quando il carburante che li alimenta è la passione. E se la persona che sposi li condivide e ti aiuta a realizzarli allora la distanza dalla realtà diventa ancora più breve. «Il mio sogno è sempre stato avere un tendone da circo –ammette Nicola Bruni, 33 anni, di Barzanò, paesino brianzolo tutto villette e fabbrichette –. Sono cresciuto come qualsiasi ragazzo della mia zona tra scuola, scout e oratorio. Dopo il diploma di perito meccanico, all’uni-

versità ho scelto scienze dell’educazione e ho trovato lavoro in un centro per disabili con un contratto a tempo indeterminato». È stato a questo punto che la vita di Nicola ha imboccato un’altra strada. «Sentivo che quello che facevo non mi bastava. Ho sempre avuto una grande attrazione per le arti circensi e una passione speciale per le attività di animazione. Da sempre praticavo giocoleria e avvertivo forte il bisogno di fare qualcosa di più. Allora un bel giorno ho mollato tutto e mi sono iscritto alla Scuola di circo contemporaneo e professionale di Torino». Cecilia, la ragazza diventata sua moglie, sarà stata forse l’unica a pensare che quella non fosse una scelta estrema o, addirittura, folle. «Dopo la scuola – racconta Nicola – siamo andati insieme in Francia. Lì abbia-


IL TENDONE

Un centro culturale aperto: spazio a progetti socio-educativi Spazio Bizzarro è un centro culturale attivo, che propone corsi, stage, formazione artistica propedeutica e professionale ed eventi di circo contemporaneo e di altre arti ad esso affini (arti di strada, musica, teatro, danza). È uno spazio aperto a tutti: bambini, adolescenti, adulti, famiglie, professionisti del settore, amatori e diversamente abili. È un luogo di spettacoli, eventi e residenze di compagnie da tutto il mondo; di incontro e di scambio tra persone e associazioni presenti nel territorio; inoltre ospita scuole in gita, organizza momenti di gioco e laboratori dedicati alla famiglia e centri estivi. Nella sua proposta di formazione artistica, lo staff di Spazio Bizzarro è particolarmente attento agli aspetti socio-educativi e alla creatività, soprattutto legati all’infanzia e alla prima adolescenza.

LA STORIA

mo vissuto qualche anno con altri artisti facendo spettacoli, imparando e migliorandoci sul campo». Cecilia Fumanelli, 35 anni, è di Merate, altra cittadina brianzola. Lei nasce come musicoterapeuta e poi cresce come artista tra teatro, danza e abilità tecniche di vario tipo. Di sé dice: «Non sono una circense, ma nel circo ho sempre trovato il mio posto». Un sogno che si realizza Nicola e Cecilia viaggiano molto, arrivano a esibirsi persino in Sudamerica. Lui diventa uno dei pochi specialisti di un particolare attrezzo, la Roue Cyr, un grande anello di due metri di diametro con il quale si fanno, manovrandolo con mani e piedi, evoluzioni sorprendenti e acrobazie spettacolari. Ed è stata proprio questa abilità ad aiutare Nicola a realizzare il suo sogno, come

se la sua vita a un certo punto fosse diventata la trama di un libro o di un film. Perché è solo lì, nella fantasia, che succedono certe cose.

«Un po’ tutti mi hanno spinto a fare una cosa che non è che avessi molta voglia di fare. E cioè partecipare a una popolare trasmissione televisiva dove portare la mia esibizione. Fatto sta che sono arrivato in finale, non ho vinto, ma con quello che ho guadagnato ho potuto comprare il tendone che avevo sempre desiderato».

Realizzare i propri sogni non è facile, ma quando diventano realtà inizia una fase ancora più difficile. Non hai più l’obiettivo che avevi sempre avuto: finito un viaggio, ne devi cominciare un altro. Per Nicola il tendone non era un sogno fine

Il circo ha tanto da insegnare, non è competitivo, non ci sono vincitori né vinti, non c’è quello più bravo e quello meno bravo. Se sbagli non importa, anzi, l’errore è una risorsa. Aiuta ad avvicinarti alla perfezione

a se stesso, bensì uno strumento, cioè il mezzo per poter fare ciò che più ama e desidera: realizzare la sua visione di circo. Ed è nato così lo Spazio Bizzarro. Un luogo di cultura «Spazio Bizzarro non è un circo né una scuola di circo –spiega Nicola –. Mi piace piuttosto parlare di un luogo di cultura dove utilizziamo le arti circensi come strumento educativo. Il circo ha tanto da insegnare, non è competitivo, non ci sono vincitori né vinti, non c’è quello più bravo e quello meno bravo. Non vogliamo strappare applausi. Chi segue le nostre attività, dai bambini delle scuole a quelli dei centri estivi, dagli adulti ai dipendenti delle aziende impegnati in formazione e team building, tutti imparano che nel circo c’è spazio per chiunque. Ognuno ha delle agosto-settembre 2016 Scarp de’ tenis

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COPERTINA qualità che può esibire. C’è chi è più abile fisicamente, chi con gli attrezzi, chi ha una vena comica. Il nostro compito è mettere tutti alla prova, spingere ognuno a cimentarsi con i propri limiti e andare oltre. Se sbagli non importa, anzi, l’errore nel circo è una risorsa. Aiuta ad avvicinarti alla perfezione. E nessuno si mette a ridere o ti prende in giro. Nel circo gli altri sono lì ad aiutarti e a incoraggiarti. Perché sanno che dopo toccherà a loro».

Il tendone che accoglie in quel di Casatenovo, lo Spazio Bizzarro. In soli quattro anni di attività è diventato un luogo di incontro per moltissimi

Spazio Bizzarro è un tendone da circo stabile in un parco di Casatenovo, altro paesino tutto villette e fabbrichette della Brianza lecchese. Da quattro anni Nicola e Ce-

cilia mandano avanti quella che è diventata una vera e propria impresa sociale con corsi, spettacoli e attività varie. Hanno sette dipendenti e nonostante non abbiano finanziamenti pubblici, riescono a rendere sostenibile il loro sogno. «All’inizio non è stato facile – ammette Nicola – nessun comune della zona ci voleva. Casatenovo ci ha messo a disposizione un parco che era luogo di spaccio e vandalismi. Ora è un piccolo gioiello». Allo Spazio Bizzarro ci sono anche attività di stampo sociale. «Lavoriamo molto con i servizi sociali dei comuni della zona, che ci mandano bambini di famiglie difficili. Facciamo prevenzione del disagio giovanile e accogliamo ospiti di centri per disabili. Uno dei nostri obiettivi è creare uno spettacolo portando in scena persone con disabilità». È uno spazio aperto tutto l’anno e sono ormai migliaia le persone transitate da qui. Cecilia sorride nel ripercorrere questi quattro anni e spiega perché è bello realizzare i propri sogni: «Imporsi in Brianza non è facile. Dicono che la gente non esca di casa se non le proponi birra, salamelle e ballo liscio. Noi abbiamo dimostrato che non è così. Esistono persone curiose e interessate ad altro. E la gente qui ci viene perché sta bene. Questa per noi è la soddisfazione più grande».

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NAPOLI

Scarp in scena nella metropolitana: se il teatro è senza dimora Per un pomeriggio la Stazione Municipio della Metropolitana dell’Arte si è trasformata in palcoscenico per la performance di teatro di strada ScarpNoStop organizzata dalla cooperativa La Locomotiva nell’ambito del Sistema Integrato per persone senza dimora sostenuto del Comune di Napoli. Attori per un giorno i giornalisti di strada napoletani di Scarp (foto sotto di Marta Capuozzo). Hanno vestito i panni del PresentaAttore, della Romantica, del Poeta, del TuttoFare, del Cantastorie, dell’Equilibrista, del Mimo sotto la stazione firmata dagli architetti Alvaro Siza ed Edoardo Souto de Moura.

Protagonisti assoluti dell’evento i venditori del giornale che hanno interpretato in prosa, canzoni e musiche i testi scritti nei corsi di scrittura da tutti i partecipanti al progetto. Il risultato è stato un lavoro, firmato dal regista e attore Alfredo Giraldi che cucendo le loro parole, assegnando i ruoli secondo l’indole di ognuno è riuscito a creare una performance alternando efficacemente siparietti allegri ed ironici a momenti di recitazione più intimista e poetica. Diffondere il nome del giornale di strada, come avviene in altre città europee nelle stazioni della metropolitana, e rinforzare il rapporto di fiducia fra venditori e lettori è stato uno degli obiettivi centrati dallo spettacolo per il calore con cui il pubblico ha accolto l’esibizione. Mena Severino, coordinatrice del servizio spiega il valore dell’iniziativa: «ScarpNoStop nasce dall’intenzione di far vivere un’esperienza completamente nuova che mettesse in gioco la creatività e le risorse dei nostri venditori, la loro voglia di comunicare e di entrare in relazione con il pubblico». Molto soddisfatto anche il regista, Alfredo Giraldi raccontato ampiamente nelle pagine di Napoli dai red-attori. La performance è stata possibile grazie alla disponibilità e alla collaborazione della Azienda Napoletana Mobilità che l’ha accolta alla fermata Municipio, offrendo lo spazio e garantendo la logistica. [Laura Guerra]



Curarsi dentro: le pratiche del ben-essere di Daniela Palumbo illustrazioni Claudia Ferraris

La ricerca spasmodica del benessere ha contagiato anche la sfera psicologica. Oggi siamo tutti afflitti da stress e ansia, vuoi per la vita multitasking, vuoi perché la vita multitasking la vorresti e non ce l’hai. Il risultato non cambia. Acne? Depressione? Vuoto cosmico? Sempre lo stress. In questo contesto le cosiddette terapie alternative proliferano. E spesso funzionano perché vanno a coprire spazi di sostegno terapeutico ignorati dalla medicina ufficiale. Nella maggioranza dei casi, puntano sull’elaborazione della sofferenza psicologica generata da contesti di disagio interiore anche molto differenti fra loro: superlavoro, disabilità, emarginazione, malattie croniche.

Curare la sofferenza psicologica per guarire da stress e malattie psicosomatiche tramite terapie alternative. Spazio quindi ad arteterapia, gruppi teatrali, yoga, arti marziali ma anche gruppi di cammino e meditazione. L’obiettivo è uno solo: ritrovare la propria serenità 30 Scarp de’ tenis agosto-settembre 2016

Scarti? No, opere d’arte Leonardo Maralla ha fatto degli scarti la sua missione, come spiega nel libro Il cercatore di scartini (ed. Erikson). «Esiste il pericolo però di considerare patologico ogni tipo di sofferenza e quindi il volerla curare, eliminarla. Ritengo invece che una


DOSSIER

Il cammino è un modo semplice per cercare di ritrovare se stessi. Lo yoga può essere “adattato” in base alle esigenze delle persone che lo praticano

L’arteterapia è una prassi di intervento relazionale e terapeutico che presta particolare attenzione a ciò o a chi viene considerato scarto: frammento inutile, rotto, senza valore. Lavorare con gli scarti è un tentativo di ridare dignità. In tutto e tutti esistono qualità che se “curate” fanno nascere opere d’arte

dose di sofferenza e frustrazione siano, oltre che inevitabili, quasi indispensabili per una armonica formazione dell’individuo. La cura risulta efficace quando apporta consapevolezza». Leonardo Maralla ha fuso i suoi studi in psichiatria e psicoterapia con la sua passione di sempre: l’arte. È diventato un arteterapeuta (www.leonardomaralla.it) che propone da oltre dieci anni laboratori di gruppo ma anche percorsi individuali di cura. «La mia è una prassi di intervento relazionale e terapeutico che presta particolare attenzione a ciò/chi viene considerato scarto: piccolo frammento inutile, rotto, senza valore. In aperta antitesi a ciò che viene considerato “valore” nella società attuale, basata sulla meritocrazia e il potere, regolata da leggi economiche che dimenticano chi/cosa non è (più) funzionale a questi interessi. Come pure significa porre attenzione a quelle parti di noi stessi che non coltiviamo perché da noi o da altri considerate inutili e improduttive. Allora, per il tossicodipendente antisociale o lo psicotico che crea disagi vengono allestite comunità o reparti psichiatrici ospedalieri: luoghi dove segregare gli scarti».

Significativo il suo lavoro dal titolo Individui, una serie di semplici fondi di cassetta da frutta, frammentati, ripuliti e incorniciati per valorizzare la loro bellezza e unicità. «Fondi perfetti, appena usciti dalla fabbrica, se ne trovano a centi-

naia – racconta Leonardo – tutti identici tra loro. Sono le frammentazioni, le abrasioni, le macchie e le ferite che possono renderli unici e irripetibili. Evidente il parallelismo con le persone. Il mio lavorare con gli scarti è un tentativo di ridare dignità a coloro che incontro. In tutto e in tutti esistono delle qualità e delle potenzialità che se colte e curate rendono possibile la nascita, o la rinascita, di opere d’arte». Prossimo appuntamento con Leonardo Maralla l’8 ottobre a Milano, all’università Cattolica, in un convegno dal titolo Tessitrici di storie: narrare e narrarsi nelle scuole dell’infanzia di ispirazione cristiana. La forza del palcoscenico «Le storie “risolte” dalla drammatizzazione? Ho in mente diversi casi. Il gangstalatino, storia di vita difficile la sua, all’inizio il rifiuto di entrare nel cerchio di lavoro; guardava il gruppo da lontano, con una buona dose di sarcasmo. Alla fine è diventato il braccio destro alla regia. Oppure la ragazza che non guardava ne-

gli occhi nessuno, stava a testa bassa, parlava con un filo di voce. Sembrava aver paura di tutto. E poi è diventata l’organizzatrice. Oppure chi, emarginato dal gruppo classe e magari vittima di bullismo, trova nel recitare la forza di non sentirsi più inferiore . E anche i super timidi pian piano cominciano a far sentire la loro voce, a prendere coscienza del proprio valore, dimostrando potenze vocali e desiderio di affermare la propria presenza in scena». A raccontare il teatro che cura è Enza Pippia, attrice di palcoscenico, da 11 anni lavora nelle scuole. Anche in contesti difficili. Se le chiedi se il teatro è terapeutico per gli adolescenti, non ha dubbi: «In una sessione di prove è necessario mettere in gioco totalmente se stessi. Èincredibile la potenza emotiva che si scatena in quei frangenti. A volte sono emozioni così forti che spaventano. La forza del lavoro teatrale è il gruppo: il confronto con gli altri ci fa capire che non siamo i soli ad avere paura. Prendiamo coscienza di noi stessi e della paura che ab-

INIZIATIVE

Parte l’Italian Wonder Ways: dopo il cammino, tutti da Papa Francesco La pratica del camminare e i suoi benefici è racchiusa nelle parole di David Le Breton, docente all’Università di Strasburgo, antropologo: «Camminare è inutile come tutte le attività essenziali. Atto superfluo e gratuito, non porta a niente se non a se stessi, dopo innumerevoli deviazioni». Anche le deviazioni portano a Roma: ed è lì che convergerà l'iniziativa voluta dal consorzio Francesco's Ways e sostenuta dal Ministero dei Beni Culturali e del Turismo, che ha decretato il 2016, Anno Nazionale dei Cammini. Si chiama Italian Wonder Ways il progetto nato in occasione del Giubileo di Papa Francesco: cinque percorsi sulle antiche vie di pellegrinaggio spirituale unite idealmente fino a giungere a Roma per raccontare la storia, l'arte, la spiritualità e la cultura del nostro Paese. La Via di Francesco, legata ad Assisi, il Cammino di Benedetto, che parte da Norcia dove nasce l'ordine benedettino, il Cammino Francescano della Marca e via Lauretana, la Via Amerina che unisce Perugia a Roma e la Via Francigena. Per promuovere i tracciati all'estero il consorzio ha organizzato un educational: blogger e giornalisti di tutto il mondo percorreranno 4 tappe di ogni cammino e, infine, convergeranno insieme a Roma dove li aspetta, per l'udienza, Papa Francesco. Dal 21 al 28 settembre. www.gofundme.com agosto-settembre 2016 Scarp de’ tenis

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biamo dentro, ma anche delle nostre capacità. Fare gruppo nel teatro salva dall’isolamento e dal pensare che il cambiamento non sia possibile. Il momento magico nel quale un adolescente decide che meriti la sua fiducia e inizia a seguirti nel percorso teatrale è meraviglioso». Corpo e disciplina Marta Magi è un’insegnante di yoga da 10 anni, per tre anni ha insegnato “yoga adattato” a persone con disabilità mentale. «Lo yoga risveglia e rimette in circolo movimenti e respiri che sono naturali per l’uomo, ancestrali. Basti pensare alla posizione fetale. I ragazzi e le ragazze disabili si lasciano andare più facilmente. Erano loro che inventavano posizioni. Una era bellissima: la tartaruga rovesciata nell’oceano! Mi ero tenuta uno spazio per dare libero sfogo alla loro creatività. La pratica yoga dona la possibilità di esprimersi con le proprie modalità di relazione: aperte, affettive, creative. Si lavora anche sul controllo di sé perché lo yoga è relazione consapevole fra il sé e il corpo». Interessante è lo yoga integrato. «È praticato con ragazzi disabili e i loro genitori. Conosco tante situazioni difficili, di genitori che non hanno accettato la disabilità del proprio figlio. Ci sono tante implicazioni, dal senso di colpa latente alla sensazione di essere lasciati soli. La pratica yoga mette genitori e figli in ascolto reciproco. Si ritrovano, si ri-conoscono, non per necessità, ma per amore». Alessandra Viganò è istruttrice di judo e coordinatore dei corsi sportivi dell’associazione La Comune. «Lavoriamo da anni sulla disabilità cognitiva. Lo judo è una disciplina con funzioni educative e di controllo di sé e del corpo. Per le persone disabili significa molto lavorare sull’autonomia e il ripetersi nella lezione di momenti sempre uguali è fondamentale. Dà sicurezza e fa sì che la persona riesca a sviluppare più consapevolezza del proprio corpo, da cui ne deriva un accrescimento dell’autostima e uno sviluppo delle proprie capacità, oltre ad accrescere la voglia di socializzare».

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DOSSIER

Leonardo Maralla ha fuso i suoi studi in psichiatria e psicoterapia con la sua passione: l'arte. È diventato un arteterapeuta

LA PRATICA

Mindfulness, meditazione contro lo stress «Così si puo ritrovare la pace interiore» La dottoressa Stefania Rotondo è psicologa e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale. Membro direttivo Is.I.Mind (Istituto Italiano per la Mindfulness), con sede a Vicenza. È lei a introdurci alla mindfulness: una meditazione terapeutica le cui tecniche affondano le radici nella pratica buddista. Questa tecnica di meditazione insegna a servirsi della propria autoconsapevolezza e dei punti di forza di ogni individuo per contrastare lo stress. «La costante pratica della meditazione mindfulness è associata all'incremento di emozioni positive e a una capacità di provare emozioni negative senza farsene coinvolgere. C'è accordo in campo scientifico rispetto al fatto che praticare regolarmente la mindfulness – ha spiegato la psicoterapeuta - apporti cambiamenti cerebrali duraturi, associati a benefici cognitivi ed emotivi. I meditatori, raffrontati ai non meditatori, si sono rivelati meno ansiosi, registrano minori disturbi psicosomatici, sono meno nevrotici. I meditatori, inoltre, possiedono una zona interiore di controllo; sono più spontanei, hanno una maggiore capacità di manifestare empatia, si accettano di

più, hanno una più alta considerazione di sé; mostrano meno paura della morte». Il padre fondatore, riconosciuto dall'Istituto Italiano di mindfulness, è Jon Kabat Zinn autore del testo: Vivere momento per momento (edizioni Tea). Oggi la mindfulness trova applicazione in diversi contesti sociali, educativi e sanitari, anche come pratica terapeutica integrativa alle cure di natura specialistica. Questo tipo di meditazione è usata in ambito medico per aumentare il benessere psicologico in pazienti affetti da cancro, malattie cardiache, stress da lavoro, forme di dolore cronico. «Io pratico la mindfulness nell’età evolutiva – ha detto Rotondo –. Diversi i contesti di intervento: dal borderline a quello scolastico dove la pratica permette di imparare come prestare attenzione, incrementando le abilità socio-emotive. La mindfulness viene integrata nella pratica clinica con i bambini e gli adolescenti per rafforzare diversi approcci che promuovono la regolazione delle emozioni, la riduzione dello stress e lo sviluppo dell’attenzione».


IL RACCONTO

L’americano di Giovannino Guareschi illustrazioni di Andrea Bianchi Carnevale

Un racconto per Scarp de’ tenis di Giovannino Guareschi su un tema ancora molto attuale agosto-settembre 2016 Scarp de’ tenis

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IL RACCONTO

info L’americano di Giovannino Guareschi fonte primaria: (Candido n.28, 13 luglio 1958) inserito nel volume Baffo racconta pubblicato da RCS Libri nel 2006 © Eredi di Giovannino Guareschi

Voleva tornare così, com’era partito e, appena sbarcato a Genova, salì su un tassì e si fece portare alla stazione. Aveva con sé una borsa di pelle col necessario per la notte e un po’ di biancheria. Alla macchina e ai bagagli avrebbe pensato il segretario. Arrivò a P. alle sette, con le ossa ammaccate perché aveva dormito poco e malamente, rannicchiato in un angolo dello scompartimento ma, sceso dal treno, l’aria fresca e il sole smagliante della limpida giornata di giugno gli tolsero di dosso ogni stanchezza. Uscito dalla stazione, si guardò attorno spaesato: il grande monumento col porticato semicircolare non c’era più. Al suo posto sorgevano squallidi palazzoni moderni. Dietro i palazzoni, l’aerea impalcatura di un orrendo grattacielo in costruzione. Ma, fra gli alberi al centro del piazzale, il monumento al celebre esploratore africano esisteva ancora, intatto, e fu come se Davide avesse scorto tra cento volti stranieri e ostili un volto amico. Stentava a orientarsi e si rivolse a un vigile: «La stazione del tram, per favore?». L’altro lo guardò stupito: «La stazione ferroviaria è quella dietro di lei» rispose. «Lo so» spiegò Davide. «Ne esco adesso. Io cerco la stazione del tram a vapore. Del tram che va alla Bassa». La guardia ridacchiò: «È un secolo che il tram a vapore è stato eliminato. Qui siamo in una città civile». «Manco da trent’anni» si giustificò Davide. «Sono arrivato poche ore fa dall’America». «Il progresso cammina anche fuori dall’America» affermò la guardia. «La stazione dei pullman è lì a destra. Troverà anche il pullman che le serve». Da trent’anni precisi, Davide pensava al momento del ritorno: aveva incominciato a pensarci il giorno stesso in cui era salito sul tram a vapore che, dal paese, doveva portarlo fino alla città dove lo attendeva il treno per Genova. Per i primi quindici anni era stato semplicemente un sogno e, come tale, qualcosa di generico, di impreciso. Una gioiosa e confusa visione piena di sole sfolgorante, di volti cari, di voci note, di dolci luoghi familiari. Poi, agguantata la fortuna per la coda, Davide aveva pensato al ritorno tenendo i piedi ben piantati sul solido terreno della realtà: egli aveva vinto una dura battaglia e intendeva ripresentarsi al paese da vincitore. Voleva che la gente del paese si rendesse conto della sua potenza. La gente che l’aveva visto partire strapelato, con una misera valigia di fibra, doveva vederlo tornare trionfante su una sbalorditiva «Chrysler» con autista e segretaria. In seguito, Davide ritoccò il programma e, così, rinunciò alla segretaria e, poi, anche all’autista. Alla fine, rinunciò anche alla «Chrysler». L’euforia della vittoria era oramai passata da un pezzo e Davide, da un pezzo, aveva stabilito:

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«Voglio tornare non per farmi vedere ma per vedere». L’incontro fra lui e il paese doveva essere semplice, affettuoso. Perciò, quando decise di prendersi una vacanza, imbarcò bauli, macchina e segretario ma lasciò tutta questa mercanzia a Genova. Al paese voleva arrivarci solo e umilmente come solo e umilmente ne era partito. Non prese neppure in considerazione l’idea di servirsi del pullman e domandò dove si potesse trovare una carrozza. Gli risposero che l’ultimo vetturale della città era morto due anni prima e, allora, Davide ripiegò sul tassì. Dopo due chilometri di strada provinciale, Davide ordinò all’autista di procedere per vie secondarie. «La allungheremo di molti chilometri» obiettò l’autista. «Inoltre si tratta di strade non asfaltate e mal tenute». «Mi piacciono di più» rispose. «Pagherò tutto quello che c’è da pagare e le darò anche una buona mancia». Nelle polverose stradette che serpeggiavano fra alte siepi, Davide ritrovò l’aria della lontana giovinezza e il cuore gli si riempì di gioia. Quando scoprì, dietro una fila di pioppi, la guglia della torre del paese, ebbe un sussulto. Fece fermare circa un chilometro prima di arrivare al piccolo borgo e si mise in cammino soltanto allorché, rispedito a casa il tassì, Davide si trovò solo. Entrò in paese con le scarpe bianche di polvere e ritrovò il paese press’a poco come l’aveva lasciato. La gente stava tutta lavorando e il borgo pareva disabitato. Entrò nell’osteria del Molinetto. Lo stanzone era lo stesso di trent’anni prima ma le sedie, i tavolini e il banco erano moderni e, sopra il banco, troneggiava una luccicante macchina per caffè espresso. In un angolo della stanza, su un alto trespolo, un televisore. Davide si sedette e, poco dopo, apparve l’oste. Dimostrava di aver abbondantemente passati i sessantacinque e non era più il bullo di un tempo, ma Davide non ebbe un istante di esitazione e un nome gli squillò dentro la testa: Giacomone. Attese che Giacomone lo riconoscesse ma negli occhi dell’omaccio nessun lampo si accese. «Birra» disse deluso Davide. Giacomone gli portò la birra e si sedette al suo tavolo. «Se il tempo non fa il matto» disse Giacomone «quest’anno avremo dei buoni raccolti». Aveva voglia di chiacchierare e Davide gli diede spago. Esauriti gli argomenti generici, Davide osservò: «Era un pezzo che non vedevo il paese, ma mi pare che non ci siano stati molti cambiamenti». «Sempre il solito schifoso paese» borbottò annoiato Giacomone. «Sempre la solita schifosa gente». «C’è ancora quel tale che chiamavano Gigio e faceva il falegname?» s’informò Davide. «Morto» rispose sbadigliando Giacomone. «Morta anche sua moglie». «E Tonino Bighetti?» «Morto». «E il biciclista Alcibiade, quello che chiamavano Cibìa?» «Morto».


«E Dario Filotti?» «Morto». «Accidenti!» esclamò Davide. «Era tutta gente giovane. Abbiamo fatto la scuola elementare assieme». «Di che classe è, lei?» domandò Giacomone. «Del 1912». «Allora sono morti anche Luigi Tacconi, Mariolino del Prato e Mino Solini. Chi in Africa, chi in Russia, chi a casa di Dio. Tre guerre, una dopo l’altra, e il ’12 ha dovuto sciropparsele tutt’e tre». Davide scosse tristemente il capo. «Ricordo che c’era anche un certo Giulio Lotti che chiamavano Regolizia» continuò dopo aver mandato giù un sorso di birra. «Morto» spiegò Giacomone. «Piombato nello Stivone con la motocicletta». Davide esitò un istante e poi sparò: «E quel magrolino, quel certo Davide?». «Davide Robotti?» «No, Davide Carra. Se non sbaglio, suo padre faceva il fabbro e abitava appena fuori dal paese, alla Casa Rossa». «Ho capito» rispose Giacomone. «Suo padre era della mia classe e morì quando il ragazzo aveva sei o sette anni. Sì, sì: Davide. Mi pare proprio che il ragazzo si chiamasse Davide». «E com’è finito?» domandò Davide col batticuore. Giacomone scosse il capo: «Morto» disse. «Morto anche lui. Gli morì la madre e lui andò a raggiungere un suo zio che lavorava in America, credo. Famiglia sfortunata. Buona gente tutti, ma senza nervo. Di quella gente che lavora e lavora e non riesce a concludere niente. Pace all’anima sua». Davide pagò la birra e uscì sulla strada piena di sole. Subito fuori dal paese c’era il cimitero e Davide sentì il desiderio d’andare a far visita ai suoi vecchi. Il muraglione esisteva ancora ma, dentro il camposanto, si vedeva soltanto erba. Passò un vecchio prete in bicicletta e Davide lo pregò di fermarsi: «Sono qui per incarico di un mio amico che vorrebbe costruire una cappelletta per i suoi genitori morti; non è questo il cimitero?». «È il vecchio cimitero» spiegò il parroco. «Il nuovo è laggiù, dall’altra parte dell’argine. L’accompagno». Fecero la strada assieme e furono ben presto dentro il nuovo camposanto. Davide si guardò smarrito attorno e il parroco capì il suo imbarazzo. «Qui nella casetta del custode c’è la pianta del cimitero con tutte le indicazioni. Non stia a preoccuparsi: troveremo subito». «I nomi, per favore?» domandò poi quando ebbe trovato lo scartafaccio. «Carra. Giuseppe Carra e Felicita Gisotti, vedova Carra». Nell’elenco alfabetico allegato alla pianta, i due nomi non figuravano e il parroco consultò un altro elenco. Qui li trovò subito. «Fossa comune B» spiegò. «Proprio lì, dietro a lei». Davide si volse e vide soltanto un quadrato verde con

una pietra che recava incisa una «B». «Prima di fare la traslazione» disse il parroco «abbiamo avvertito i parenti. Quando i parenti non si sono presentati e per i defunti non era stata acquistata la concessione del lotto di terreno nel quale erano sepolti abbiamo raccolto le spoglie in fosse comuni. E i Carra, poi, non avevano neppure la lapide di marmo, ma semplici croci di legno che, in trenta e passa anni, erano finite in polvere e s’è dovuto faticare per l’identificazione». «Capisco» esclamò Davide guardando con angoscia la pietra piantata in mezzo al triangolo erboso. Trasse di tasca del danaro che porse al parroco: «Dica qualche Messa per l’anima di quei poveretti». «Le serve una ricevuta per chi le ha dato l’incarico?» domandò il parroco. «Non mi serve niente» rispose Davide. «Chi mi ha dato l’incarico è morto anche lui». Si ritrovò a camminare per le strade bombardate dal sole di mezzogiorno. Era tornato, dunque, ma era come se si fosse recato in un paese che mai aveva visto prima. In un paese straniero. Nessuno si ricordava più del Davide Carra che era partito sedicenne e ora tornava a quarantasei anni suonati. Non se ne ricordava neppure Giacomone che pure aveva una memoria formidabile e che era la gazzetta del paese. Quel vecchio prete col quale aveva a lungo parlato poco prima, lo aveva battezzato, gli aveva fatto la scuola di dottrina. Per tre anni era stato chierichetto di quel vecchio prete che aveva parlato con lui come un estraneo visto per la prima volta. «Davide Carra: morto. Morto anche lui...». Giacomone aveva ragione e Davide, privato della sua giovinezza, si sentì improvvisamente vecchio. Cercò una sigaretta e non la trovò, ma proprio lì, a due passi, c’era una botteguccia con l’insegna del tabaccaio. Spinse la vecchia porta a vetri e lo squillo del campanello lo fece sussultare. Aveva un timbro speciale, quel campanello, e Davide lo ricordava perfettamente. Quando i suoi occhi si furono abituati alla penombra, si guardò attorno: tutto era come prima. Nessuna innovazione nella bottega di Meroni: i tabacchi erano al solito posto nella scansia e, al solito posto, erano le scatole di conserva e di sardine, i pezzi di sapone, la fettuccia, le scatole di lucido. Ogni cosa come prima: salami e coppe pendevano dal tubo di ferro fissato ai travetti del soffitto, sopra il banco. Appeso al muro, sopra la cassettiera della pasta, il quadretto con l’oleografia del grassone e dello striminzito: «Io vendevo a contanti – Io vendevo a credito». Davide adesso ricordava ogni parti-

Si ritrovò a camminare per le strade bombardate dal sole di mezzogiorno. Era tornato, dunque, ma era come se si fosse recato in un paese che mai aveva visto prima. In un paese straniero.

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IL RACCONTO

«Potrei avere un’altra bottiglia come questa?» domandò. «È un vino meraviglioso, un vino che fa resuscitare i morti». «No» rispose la donna senza levare il capo. «E perché?» «Appunto perché fa resuscitare i morti. È meglio che i morti dormano in pace»

scheda L’illustratore Andrea Bianchi Carnevale Vive e lavora in una cittadina della Lomellina a pochi chilometri dal Grande Fiume, tra pioppi, risaie e zanzare. Una zona che può essere considerata cugina, sorella o addirittura la stessa della Bassa raccontata da Guareschi nel suo Mondo Piccolo. Disegnatore e illustratore professionista fin dai primi anni ’90, si alterna tra editoria, fumetto, pubblicità e cinema d’animazione. Interista, appassionato di cinema e di Sergio Leone in particolare, non si è ancora del tutto ripreso dalla fine di Breaking Bad.

colare e attendeva con ansia che qualcuno apparisse. Apparve una donna ed era lei. Era l’Antonietta, tale e quale come allora, come la quindicenne ragazzina di trent’anni fa. Lo guardò con indifferenza e, con indifferenza, gli diede le sigarette e il resto. Non rimaneva a Davide che andarsene ma, in quell’istante, squillò la campana del mezzogiorno. Trent’anni prima, da Meroni, si poteva mangiare il miglior salume del paese e innaffiarlo con un miracoloso vino bianco secco e pulito: Davide si aggrappò a quel ricordo. «Potrei mangiare qualcosa?». «Si accomodi di là» rispose con voce incolore la donna. Anche di là niente era cambiato: la solita saletta col solito buffet e le solite tavole di rovere col tappeto verde a rabeschi neri. Davide si sedette a una tavola d’angolo e appeso al muro alla sua sinistra vide il quadretto col gruppo fotografico e la scritta sbiadita in corsivo: «Quarta elementare – 10 giugno 1922». Lui era il secondo da sinistra, in piedi sulla panca di seconda fila, e l’Antonietta era al pianterreno, in prima fila, proprio davanti a lui. Si trovò davanti un tovagliolo odoroso di bucato, una bottiglia di vino, un bicchiere, una michetta di pane e le fette di salame distese su un foglio di carta oleata. Incominciò a mangiare e risentì sapori che aveva dimenticato. Levando gli occhi, vide che la donna, seduta vicino alla finestra, stava facendo l’orlo a giorno a una federa. Al terzo bicchiere di vino bianco frizzante, Davide ritrovò la sua voce: «Signora...». «Signorina» precisò la donna come se parlasse alla federa. «Scusi» balbettò Davide. «Volevo chiederle a che ora passa la corriera per la città». «Alle cinque e venti» rispose la donna. Davide guardò ancora la foto appesa al muro. Quando era partito aveva sedici anni e l’Antonietta quindici: «Tornerò, te lo giuro» le aveva detto l’ultima volta che s’erano visti, lui sulla strada e lei in casa dietro l’inferriata proprio di quella finestra presso la quale ora stava seduta la ancora giovanile ma non più giovane signorina. Le aveva anche scritto dall’America e lei gli aveva risposto mandando una fotografia «formato gabinetto». Poi la lotta per la vita l’aveva preso alla gola e non gli aveva dato più respiro, e l’Antonietta era stata dimenticata. “Dimenticata” non è la parola giusta perché mille volte Davide si era ricordato dell’Antonietta e sempre aveva concluso: “Ho fatto bene a toglierle ogni illusione. Adesso lei sarebbe ancora là ad aspettarmi”. Al quinto bicchiere Davide fece appello a tutto il suo coraggio:

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«Signorina» disse, indicando il quadretto appeso alla parete «non è forse lei la seconda bambina da sinistra?» La donna scosse il capo: «No» rispose. «Quella è morta tanti anni fa. Morta come il ragazzino che le sta alle spalle». Davide mandò giù il sesto bicchiere. «Potrei avere un’altra bottiglia come questa?» domandò. «È un vino meraviglioso, un vino che fa resuscitare i morti». «No» rispose la donna senza levare il capo. «E perché?» «Appunto perché fa resuscitare i morti. È meglio che i morti dormano in pace». Davide scolò la bottiglia riuscendo a riempire ancora un bicchiere che mandò giù di colpo. «Io» disse «quella ragazzina lì della foto la conoscevo. Mi ricordo che voleva studiare da maestra». «Difatti ha studiato da maestra» rispose indifferente la donna. «Poi, avuto il diploma, è rimasta senza madre e ha dovuto aiutare il padre. Morto anche il padre. Tutti morti». «Una bottiglia, per favore!» esclamò Davide. «Ho bisogno di ricordarmi che io sono ancora vivo. Me ne sto dimenticando». La donna si alzò e ritornò di lì a poco con una bottiglia già stappata. Era un vino straordinario e Davide arrivò ben presto alla metà della nuova bottiglia. «Però» disse a un tratto indicando la bambina della foto «se quella bambina lì avesse aspettato, si sarebbe trovata meglio». «Ho aspettato» rispose la donna. «E che utile ne ho avuto?» «L’utile che io sono tornato come avevo promesso». La donna si volse e guardò negli occhi Davide: «Davide, se mettiamo assieme i nostri anni, arriviamo al secolo. Certe sciocchezze non si possono dire neppure per scherzo». «Quarantasei e quarantacinque fanno novantuno e, per arrivare al secolo, mancano nove anni» replicò Davide. «Nove anni sono una vita intera». La donna riprese il suo lavoro: «Come vuoi tu» disse con voce lontana. Davide finì la bottiglia e poi chiese il conto. «Quattrocentosettanta» rispose la donna arrossendo. Davide pagò il conto con un biglietto da mille dollari e si alzò esclamando: «Il resto mancia». Quando uscì, il campanello della porta squillò e Davide richiuse e riaperse Dio sa quante volte la porta perché quel suono gli piaceva sempre di più. L’Antonietta lo lasciò sbizzarrirsi perché, adesso, la ragazzina della foto era resuscitata e l’Antonietta aveva il suo da fare per tenerla tranquilla e per impedirle di mettersi a urlare.


MILANO

Pietro sulla “sua” panchina dove, ormai, lo conoscono tutti ed è benvoluto. Quello che manca è un lavoro e la casa

Storia di Pietro, vivere in strada a sessant’anni di Antonio Vanzillotta

Trovarsi disoccupati e senza una casa a quasi 60 anni è dura. Ancora più dura se questo accade in una grande città come Milano e se non puoi contare su una rete di parenti e amici. Questa è la storia di Pietro. Una storia come tante in questi anni di crisi. «Ho cominciato a lavorare a 12 anni come macellaio in Sardegna – racconta –, poi mi sono trasferito a Roma dove le cose hanno comin-

Pietro, dopo una vita piena di traversie, oggi vive su una panchina di via Caneva a Milano. E sogna una casa tutta sua

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ciato ad andare bene. Ho conosciuto una ragazza, mi sono sposato e abbiamo avuto tre figli. Col tempo e con tanti sacrifici sono riuscito ad aprire una macelleria tutta mia a Castel Gandolfo. Stavo benone, avevo anche dei dipendenti, il mio era un negozio molto rinomato. Poi, però, è successo quello che non pensavo sarebbe mai potuto accadere». Dopo 30 anni di matrimonio la moglie di Pietro ha perso la testa per un uomo che ha conosciuto su internet. «La mia famiglia si è frantumata – dice Pietro – insieme a me. Alla fine ho perso tutto quello che avevo costruito con tanti sacrifici. Ho dovuto lasciare il lavoro e i miei figli. Per un po’ ho girato per Roma facendo lavoretti qua e là e sopravvivendo come capitava. Poi, tramite alcuni conoscenti, ho trovato lavoro come macellaio a Sant’Angelo Lodigiano. Mi avevano promesso un lavoro a tempo indeterminato, ma dopo aver insegnato tutti i trucchi del mestiere ad altri ragazzi, non hanno mantenuto la promessa e non mi hanno più rinnovato il contratto».

Il trasferimento a Milano Rimasto nuovamente disoccupato, Pietro non è rimasto con le mani in mano trovando però solo lavoretti a giornata e malpagati. «Ho deciso di trasferirmi a Milano – dice ancora Pietro – pensando che in una grande città avrei potuto trovare lavoro, vista la mia esperienza. Ma nel capoluogo meneghino ad attendermi c’era la strada; per un po’ sono stato uno dei residenti di piazzale Lotto. Dopo essere stato ripetutamente derubato la notte ho cominciato a viaggiare sulla 9091, ed ora sono qui, in piazza Caneva. Dormo su una panchina, anche d’inverno perché nei dormitori non c’è posto». Nonostante la brutta situazione in cui si trova, Pietro non ha perso la dignità, si presenta sempre pulito e in ordine. Lo aiutano molto e gli vogliono bene alcune persone che abitano lì attorno, come il proprietario di una vicina trattoria che gli porta piatti caldi, il farmacista che gli tiene sotto controllo la pressione, o altri ancora che lo ospitano per una doccia calda. La sua postazione Pietro non vuole lasciare la sua postazione, ha paura di essere derubato di nuovo: «Non voglio allontanarmi per nessun motivo – racconta –: mi ruberebbero le poche cose che ho». Per soli 6 mesi non ha potuto avere accesso alla pensione, dovrà aspettare ancora per via delle novità introdotte dalla legge Fornero. Pietro avrebbe soprattutto bisogno di una casa e di trovare qualche lavoretto così da rimettersi “in pista”, ma non è facile. Cavilli e lungaggini burocratiche non lo aiutano, né per la casa, né per il lavoro. Racconta che qualche giorno fa in zona è arrivato un politico e lui non ha perso l’occasione ed è andato a presentarsi: «Gli ho detto che dormo su questa panchina da circa 2 anni e che non volevo nulla in regalo. Mi ha risposto che non può fare nulla per me perché dovrei essere residente a Milano da almeno cinque anni».


A Pettinengo l’accoglienza è un’opportunità di Francesco Chiavarini

Una grande villa donata dal proprietario della Liabel è diventato luogo di accoglienza per richiedenti asilo. Oggi è la più grande azienda del paese che produce 100 mila euro di fatturato al mese di cui 65 mila ricadono sul territorio 38 Scarp de’ tenis agosto-settembre 2016

Una sera di marzo del 2014, una camionetta della polizia scarica 15 giovani maliani a Pettinengo, 1.500 anime, sulle colline sopra Biella. Il giorno dopo le mamme tengono in casa i figli. Nella villa in cima al paese erano arrivati i neri e alle famiglie del posto, timorate di Dio, non sembrava prudente mandarci a giocare i bambini. Da allora sono passati due anni, Mamadou che faceva parte di quel gruppo di richiedenti asilo, oggi è amico di tutti. Il mestiere per il quale è apprezzato anche dai vecchi è quello di apicultore e glielo ha insegnato Massimo Capellupo, 43 anni, che grazie agli stranieri si è reiventato un lavoro. Mamadou, che oggi ha 34 anni, e che nel frattempo ha ottenuto il permesso di soggiorno come rifugiato politico, sorride a tutti: «Quando sono partito sognavo di vivere in una


LA STORIA grande città, non certo in un paese di montagna. Ma qui ho imparato a curare le arnie, a indovinare il momento esatto in cui raccogliere il miele e nel tempo che mi avanza posso fare anche qualche lavoretto extra: rovesciare il fieno, sistemare l’orto per i contadini. Ho trovato nuovi amici. E sto benone». Massimo, invece, ha ripreso in mano la sua vita: «Senza lavoro, con un divorzio alla spalle e tre figli da mantenere non era difficile uscire di brocca. Mamadou mi ha aiutato a rimanere in carreggiata».

Philip, 27 anni, nigeriano, è alle prese con un vecchio telaio in legno dono di un artigiano del paese: realizza sciarpe disegnate da artisti

Siano partiti dall’analisi dei bisogni e dal censimento delle risorse. Oggi diamo ospitalità a 100 profughi, abbiamo 40 dipendenti, 35 dei quali di Pettinengo, ex operai che avevano perso il lavoro o giovani che non lo trovavano

Una formula semplice Il segreto del successo di Pettinengo sta in una semplice formula: utilizzare i soldi pubblici per l’accoglienza dei profughi per un intervento sociale a vantaggio della comunità, conciliando gli interessi apparentemente opposti dei disperati senza speranza, gli italiani impauriti che non ci credono più, e i disperati per troppa speranza, gli stranieri spinti dall’illusione di trovare un paradiso in Europa. Oggi anche il sindaco, Ermanno Masserano, è ottimista. «La crisi qui ha fatto piazza pulita anche di ciò che ancora rimaneva dell’industria tessile. Ma il peggio sembra essere passato: gli stranieri non solo hanno rimesso in moto l’economia locale, ma hanno portato nuove energie», spiega mentre nella frazione di Veglia sistema le sedie insieme a dieci giovani africani ospiti nella canonica per lo spettacolo in piazza che si svolgerà la sera.

L’inventore del modello Pettinengo è Andrea Trivero, direttore di PaceFuturo, l’associazione che gestisce l’accoglienza dei richiedenti asilo e rifugiati nel territorio. Ingegnere, dopo anni in Sahel, ha trovato il modo di fare il cooperante a casa sua, applicando gli insegnamenti del suo ex capoprogetto in Africa, Paolo Ferraris, «lo nomini, ci tengo», sottolinea. «Ci siamo comportati come se avessimo dovuto stendere un piano di sviluppo per un villaggio africano: analisi dei bisogni, censimento delle risorse. Oggi diamo ospitalità a 100

profughi, abbiamo 40 dipendenti, 35 dei quali di Pettinengo, ex operai che avevano perso il lavoro, o giovani che non lo trovavano, tutti riconvertiti in educatori, custodi nelle strutture di accoglienza, operatori sociali. Siamo la più grande azienda del paese: produciamo 100 mila euro di fatturato al mese e 65 mila ricadono sul territorio, in stipendi e acquisto di beni». Philip, 27 anni, nigeriano, è alle prese con un vecchio telaio in legno dono di un artigiano del paese: alla fine realizzerà una sciarpa secondo il disegno di un’artista di Asti. Elena, 42 anni, che abita nel paese accanto, sceglie l’impasto per il suo prossimo benedetin, il recipiente che nelle case di un tempo si appendeva accanto al letto per raccogliere l’acqua benedetta con cui ci si segnava prima di coricarsi. «Per il momento nei laboratori facciamo formazione e socialità. Condividiamo competenze e saperi e favoriamo l’incontro tre le due comunità, quella degli ospiti e quella dei residenti. Ma in futuro stiamo pensando di produrre per la vendita.

Abbiamo già iniziato a farlo e la risposta è stata positiva anche se ancora insufficiente», spiega Mirna Irene Colpo, architetto di professione e coordinatrice dei laboratori. Pensare al futuro Il punto, infatti, è questo: cosa accadrà a Pettinengo quando il Ministero degli Interni insieme ai profughi smetterà di inviare anche i finanziamenti per il sistema di accoglienza? «Sappiamo – ammette Trivero – che questo intervento avrà una fine. Se saremo in grado di reggerci sulle nostre solo gambe, dipenderà da che uso avremo fatto di questo investimento». Finora tutto procede per il meglio. Anche il parroco, don Ferdinando Gallu, è contento. «Amministro una parrocchia estesa e povera. Qui c’è gente che non riesce più a pagare l’affitto. Ci sarebbero tutte le premesse per una guerra tra poveri, prima gli italiani poi gli immigrati, noi contro loro. Ed invece facciamo quello che è scritto nel Vangelo: ero straniero e mi avete accolto. E la gente è più contenta».

LA SCHEDA

Un caso unico in Italia, storia di un intero paese che accoglie La storia della “Pettinengo che accoglie” inizia nei primi anni del 2000. Angelo Pavia, proprietario della maglificio Liabel che dava lavoro a mezzo paese, dopo la chiusura dell’azienda, decide di ristrutturare la villa ottocentesca di proprietà del Comune, Villa Piazzo, per restituirla alla comunità. La villa diventa la sede dell’associazione PaceFuturo, un cenacolo di uomini di cultura tra i quali il priore di Bose, Enzo Bianchi, il pittore e scultore Michelangelo Pistoletto. Poi una sera, nel marzo del 2014, il prefetto di Biella in cerca di strutture dove ospitare richiedenti asilo, si ricorda di questo paese e soprattutto della sua bellissima magione. Arrivano i primi 15 ospiti. Poi nei mesi successivi altri ancora. Il Cenacolo dei pacifici diventa il principale gestore dell’accoglienza non solo a Pettinengo ma nei diversi comuni sparsi sulla collina. Ottiene in comodato gratuito dalla curia di Biella un’ex casa di preghiera, prende in affitto o compra appartamenti. Al centro del progetto di accoglienza si mette il lavoro. Nascono così i laboratori per il recupero degli antichi mestieri: ceramica, tessitura, maglieria, cosmesi, apicultura. A frequentare i corsi vengono non solo i richiedenti asilo ma anche gli abitanti del posto. agosto-settembre 2016 Scarp de’ tenis

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Wikimania 2016, Esino Lario caput mundi

Questa è una di quelle storie che sembra uscire direttamente da un film della Disney. Avete presente no? Quei film dove alla fine i buoni sentimenti prevalgono. Gli ingredienti ci sono tutti: il piccolo paesino sulle montagne, il sindaco che è pronto a dare una mano a tutti, una comunità unita e capace di mettersi in gioco. Ma questo non è un film. Èuna storia vera. E racconta di come Esino La-

di Ettore Sutti

rio, piccolo comune lecchese di appena 761 abitanti, per una settimana sia diventato la capitale mondiale del web. Dal 21 al 28 giugno scorsi, infatti, il piccolo paesino arroccato sulle montagne lecchesi ha ospitato Wikimania 2016, il raduno internazionale di Wikipedia. Sì, avete capito bene. Wikipedia la più famosa enciclopedia online del pianeta dopo Taipei, Washington, Hong Kong, Londra e Città del

Per una settimana il piccolo paese di 761 anime sulle montagne lecchesi è diventato la capitale mondiale di internet. Gli abitanti hanno aperto le loro case e il loro cuore agli oltre 1.300 delegati di Wikimania 2016. Quando piccolo vuol dire bello 40 Scarp de’ tenis agosto-settembre 2016


La tradizionale foto finale dei raduni di Wikipedia con tutti i delegati e i volontari riuniti in piazza. Presenti oltre 1.300 delegati da 70 nazioni

1.368

73 anni

Totale registrati a Wikimania 2016 compresi 168 volontari

Età della persona più anziana presente Tre anni quella del “volontario” più piccolo

Messico ha scelto Esino Lario come luogo in cui far convergere più di mille delegati provenienti da oltre trenta Paesi per il raduno annuale. Un piccolo miracolo. Che parte da lontano. Dalla “pazza” idea lanciata più di due anni fa da Iolanda Pensa, ricercatrice all’università di Lugano, contributor (cioè autrice di contenuti) di Wikimaniae, cosa fondamentale, originaria di Esino Lario. Il piccolo gruppo da lei guidato e subito supportato da Pietro Pensa, primo cittadino del piccolo comune lecchese, è riuscita a mettere in rete referenti istituzionali e politici (Regione Lombardia su tutte) che ha stanziato i fondi necessari a migliorare le strade, associazioni di categoria e sponsor tecnici che hanno portato la banda larga in paese a tempo di record.

Quando è arrivato il primo pullman di ospiti mi sono commossa: vedere scendere questi ragazzi con le valigie era un po’ come far entrare il mondo nel tuo cuore. Vedere tutto il paese e i tanti giovani volontari lavorare insieme è uno spettacolo che ci regala fiducia nel futuro

La commozione di Maura I veri protagonisti di questa piccola grande storia sono però loro, i 760 abitanti di Esino Lario che hanno aperto le loro case ai wikipediani. Cuore pulsante dell’evento è stato Italia Square, il vecchio Albergo Italia, centro di accoglienza per i partecipanti all’evento, che Maura Nasazzi e il fratello Roberto hanno riaperto e messo a disposizione a titolo gratuito per l’evento. «Sembra di essere tornata ai fasti del passato – dice Maura – quando a Esino si contavano fino a 12 mila presenze in estate. Quando è arrivato il primo pullman di ospiti mi sono commossa: vedere scendere questi ragazzi con le valigie era un po’ come far entrare il mondo nel tuo cuore. Il nostro hotel fino dal 1929 è sempre stato un luogo di incontro per chi veniva ad Esino e quando ci hanno chiesto di metterlo a disposizione nonostante sia chiuso da una dozzina d’anni non abbiamo potuto rifiutare. Siamo contenti e non siamo sorpresi che il raduno si sia tenuto qui: la comunità è forte e coesa. Forse il fatto che sopra di noi non c’è più nessuno, solo la cima delle montagne, ha fatto si che le persone siano più legate che altrove. Vedere tutto il paese e i tanti giovani volontari lavorare insieme è uno spettacolo che ci regala fiducia e speranza per il fu-

turo. Speranza perché questo nostro paese ritorni ad essere un luogo capace di promuovere accoglienza e cultura». Girando per il paese non puoi non notarli. Sono gli angeli in maglietta azzurra sempre pronti a dare un mano dando indicazioni o offrendosi come traduttori in una delle tante lingue del popolo dei wikipediani. Sono un’ottantina di studenti delle scuole superiori di Lecco che accumulano ore di esperienza grazie al progetto di alternanza scuola/lavoro. Martina incontra il mondo Martina Lombardo frequenta la terza liceo scientifico al “Grassi” di Lecco e per una settimana è andata avanti e indietro da Lecco due volte al giorno pur di essere qui a fare la volontaria. «Mi piace – racconta –: ogni giorno è come fare un viaggio diverso. Parli con persone che arrivano dal Sudafrica, dal Giappone, dalla Norvegia, dal Vietnam. In un ambiente rilassato e senza barriere. Abbiamo accompagnato alcuni di loro a fare delle escursioni in montagna ed è stato bello condividere

L’EVENTO esperienze con persone che, pur arrivando da culture molto distanti, non sono così diverse da noi. Sono esperienze che non si dimenticano». Maria Pia e i “suoi” ragazzi Maria Pia è la classica milanese col coeur in man. Ha sempre fatto l’architetto. Comprava, ristrutturava e rivendeva. Voleva fare lo stesso con un vecchio hotel di Esino Lario. Ma dopo averlo comprato e risistemato non ce l’ha fatta a venderlo. Se l’è tenuto. E appena può viene a respirare l’aria buona. In questi giorni anche Maria Pia ha aperto le porte di casa ai wikipediani. Ne ospita otto. «Quando sono venuti a chiedermi se volevo collaborare; non li ho fatti nemmeno finire – racconta –. Perché no? Mi sono detta. Almeno questo vecchio albergo tornerà ai fasti del passato. Sono contenta: i “miei” ragazzi sono gentilissimi. È bello, per una volta, avere il mondo in casa. C’è anche un ragazzo di New York. Gli dico sempre “fai il pieno di verde e di aria buona per quando torni a casa”».

L’INTERVISTA

Mahmoud che viene da Baghdad: «La bellezza di Esino non la dimentichi» Mahmoud Al-Rawi (nella foto) viene da Baghdad. Ha studiato farmacia in India e su Wikipedia cura la pubblicazione e il controllo dell’esattezza dei dati per tutto ciò che riguarda le materie che ha studiato. «È la prima volta che vengo in Europa ed Esino Lario è stata una bellissima scoperta. Sono stato diverse volte all’estero – a Istanbul e lo scorso anno a Monastir in Tunisia per il raduno di Wiki-Arabia ma il calore che ho trovato qui, da parte delle persone è stato unico. All’inizio ero molto curioso di conoscere questa piccola realtà (il compound dove abito a Baghdad ha 25 mila abitanti) ed ero anche un po’ teso, lo ammetto. Ma l’accoglienza è stata ottima. Quando dico che vego dall’Iraq prima le persone mi guardano un po’ di traverso ma poi, subito, iniziano a voler sapere, a conoscere. Questa è la bellezza di fare un raduno in un piccolo centro: non importa da dove vieni, fai comunque parte di qualcosa». agosto-settembre 2016 Scarp de’ tenis

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MILANO

Alcuni dei pali tazebao usati dagli immigrati per cercare e offrire posti letti, passaggi in auto e lavoro

In viaggio sul ponte degli annunci di Stefania Culurgioni

È tutto finito. È finita l’epoca delle lettere scritte a penna, è tramontata l’epoca delle cartoline, è sbiadita l’epoca delle pubblicità sui giornali, le cartine stradali non le usa più nessuno e anche le signorine buonasera se ne sono andate la scorsa primavera, con l’ultima annunciatrice che a maggio ha illustrato a mezzobusto i programmi della Rai e poi puf, dissolta per sempre. Che mondo, dove andremo a finire? Poi, un giorno, percorri per caso viale Puglie a Milano e sei in coda e ti guardi intorno. Ti casca l’occhio tra le lattine vuote e i fazzoletti sporchi sul ciglio della strada, e sulla recinzione strappata e sui pali della luce scopri tutta una realtà che non immaginavi. Strati su strati, su altri strati di foglietti di carta con tanto di

Tra piazzale Cuoco e Piazzale Bologna duecento metri di strada ricoperti di annunci cartacei. In tutte le lingue 42 Scarp de’ tenis agosto-settembre 2016

linguette tagliate di lato, dove c’è scritto il numero di cellulare di chi offre qualcosa. Che cosa offre? Postiletto, per lo più, e appartamenti in condivisione. E poi chi lo sa, ci sono talmente tante lingue che non si capisce. Il ponte degli annunci Da piazzale Cuoco a Piazzale Bologna c’è un ponte che oltrepassa la ferrovia. Sì e no ottocento metri, due minuti in macchina se non c’è traffico, ma di traffico ce n’è sempre, tranne la domenica. Ci sono 35 lampioni e pali della luce, da un lato e dall’altro, ma quelli tappezzati sono da un lato. Quello dove c’è il mercato delle Pulci, ex mercato di San Donato, oggi trasferito in una spianata di ghiaia sotto il livello della strada, alla quale si accede da una stradina che affianca il teatro Ciak. È per questo che quel sovrappasso è diventata la bacheca degli annunci di Milano. A seguirli tutti viene fuori un racconto. Artur dice: «Dau camera in chirie, pentu cuplu sau». Google dice che si tratta di rumeno. Poi ci sono caratteri in cirillico,

ma un autista dell’Atm che sta iniziando il turno dice che non è cirillico, ma qualcosa che gli assomiglia. Passano due autobus, l’84 e la 93. Durante la settimana passano anche migliaia di macchine e motorini e non si ferma nessuno, tutt’altro. Marciano almeno a 80 all’ora, perché lì non ci sono semafori né strisce pedonali. Nessun pedone, tre biciclette che tirano dritte sotto l’afa. «Ma di domenica è tutta un’altra storia – rivela il conducente – è per via del mercatino delle pulci. Ci vengono soprattutto stranieri, e soprattutto padri con figli, e sul pullman caricano di tutto, materassi, pentole, tutte cose che comprano a pochi centesimi alle bancarelle». Quasi tutti stranieri Sono loro che mettono gli annunci scritti a penna o pennarello. Qualcuno anche al computer. Sono loro che arrivano muniti di rotoli di scotch e imballano il palo per difendere le loro speranze dalla pioggia e dal vento. È la gente che si affida alla strada per parlarsi, non di certo allo schermo. È la gente che le cose prima di comprarle le va ancora a toccare, a rigirarsele tra le mani, e non usa la carta di credito. È il popolo dei nuovi arrivati che trasforma un cavalcavia ignoto e insignificante di una frenetica città in una finestra da cui puoi guardare la vita, da cui puoi accorgerti di quello che succede e di come le cose, pur restando antiche come gli annunci su carta, stanno cambiando.

«Inchiriez posto letto», dice Marius. Una nuova lingua si stiracchia le braccia tra le lettere slavate del suo annuncio, frammista di italiano e rumeno. Oppure: «Chirie o

camera», dice un altro. Sono stanze di periferia, Certosa, Cimiano, Gorla, Precotto, all’estremo della rossa o della verde, dove costano meno. Per tutti loro il centro città non è Duomo, ma sono i pali di una strada. Sono gratis, sono ben piantati, li consulta chi li deve consultare e quando l’affare è fatto non c’è bisogno di pulire: le stagioni ci pensano loro, oppure il prossimo che arriva col suo ritaglio di carta.


GENOVA

Operatori all’opera su una delle macchine da stampa installate nel carcere di Pontedecimo

Il cielo in una stampa Tipografia ecologica dentro il carcere di Mirco Mazzoli

Pomeriggio d’estate. Entriamo nella casa circondariale di Genova Pontedecimo. Andiamo all’inaugurazione della prima tipografia ecologica e on line in un carcere italiano. È un ramo d’azienda della Ecoprintweb di Genova, che occuperà due persone. In un ampio stanzone trovano alloggio diversi macchinari nuovi per un’ampia gamma di prodotti, dépliant, manifesti, riviste. I lavori prendono forma qui ma raggiungono tutta Italia (a Milano e a Roma è possibile ritirare le stampe nei negozi di Altromercato, evitando le spese di spedizione). Il titolo del progetto da cui nasce la tipografia – ideato dallo Studio Firma – si lascia guardare da dentro e da fuori: “Il cielo in una stampa”. La Casa Circondariale di Pontede-

Aperta la prima tipografia online in un carcere europeo. Un’occasione di riscatto per i detenuti di Pontedecimo

cimo è uno strano impasto di regime carcerario e gentilezze della natura, con la sua cinta muraria eretta ad anello sulla cima di un poggio: dentro, uomini e pini marittimi, bracci di detenzione e piccoli capanni agricoli. Nasce come carcere femminile, poi diventa anche maschile. Se un carcere può essere buono, questo sembra averne le potenzialità. La direzione ha moltiplicato le occasioni di recupero dei detenuti e le interazioni con il territorio: qui esistono un laboratorio di bigiotteria e uno di borse composte con materiali di riciclo, un laboratorio teatrale, vari corsi, alcune attività esterne. La tipografia è l’ultima nata. Progetto con il Vangelo Giacomo Chiarella è il giovane imprenditore che l’ha proposta al Ministero di Giustizia. È un imprenditore cattolico e non lo ritiene un dettaglio. «È un progetto nato con il Vangelo in mano, da un’esigenza spirituale. Per storia familiare sono sempre stato impegnato nell’assistenza alle persone disabili ma ad un

certo punto realizzai che non avevo la stessa propensione verso le persone detenute. Eppure Gesù ci dice: “ero carcerato e siete venuti a trovarmi”. Così iniziai a prestare servizio in carcere il sabato mattina, proprio a Pontedecimo, grazie alla Veneranda Compagnia della Misericordia». Che è una delle più antiche espressioni di carità e volontariato carcerario ante litteram nella storia di Genova, sorta nel XV secolo. «Dopo qualche anno però mi resi conto che il mio aiuto era utile ma poteva essere più specifico. C’era bisogno di offrire lavoro e io potevo farlo. Rieducare al lavoro. Rieducare alla socialità che attende a fine pena. Era circa 6 anni fa». Investire in ecologia Inizia così una lenta maturazione del progetto che prende corpo mentre Giacomo trasforma la sede storica della tipografia, fondata da papà Enrico oltre 30 anni prima, nella prima tipografia ecologica della Liguria certificata Ecoprint: uso di energie rinnovabili, stampa con inchiostri a base vegetale, ad acqua e a cera, carta certificata Fsc (cioè proveniente da foreste gestite in maniera responsabile), imballaggi di carta, mezzi di trasporto a metano.

Investire in ecologia e sociale in tempo di crisi e contro un mercato dominato dai colossi della stampa on line e da processi sempre più al ribasso. Rischio imprenditoriale. «Abbiamo deciso come famiglia di rendere il nostro lavoro più benefico per noi stessi, per gli altri, per il mondo in cui viviamo. Sono convinto che sia questo il futuro, anche se oggi dobbiamo lanciare lo sguardo oltre l’ostacolo. Sentivo l’esigenza di non vivere il lavoro come un elemento a prescindere. In carcere bisogna lavorare in rete con molti soggetti che ci sostengono per la parte trattamentale, essere capaci nel dare fiducia senza generare false aspettative. A fine giornata torno a casa contento. In fondo siamo la seconda tipografia on linein carcere in Europa. Anzi la prima: l’altra è in Gran Bretagna». agosto-settembre 2016 Scarp de’ tenis

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TORINO

Un museo per conoscere altre culture di Giovanni Catanzaro

Viaggio alla scoperta delle migliaia di reperti del Museo Etnografico della Consolata, un patrimonio inestimabile per la conoscenza di culture lontane. L’associazione Tamburi parlanti sta cercando di renderli fruibili a un pubblico sempre più vasto 44 Scarp de’ tenis agosto-settembre 2016

Nel cuore di Torino ci sono dei tesori straordinari e semisconosciuti, che vengono da lontano. In Corso Ferrucci, all’interno dell’Istituto dei Missionari della Consolata, sono custoditi infatti migliaia di oggetti, provenienti perlopiù dall’Africa sub-sahariana e dall’area amazzonica, che raccontano di una lunga e interessante storia di connessioni che legano il nostro territorio a luoghi lontani. Il Museo Etnografico della Consolata è stato voluto già nei primi anni del secolo scorso dal fondatore dell’ordine Giuseppe Allamano e nasce dalla raccolta, da parte dei missionari, di testimonianze materiali e fotografiche legate all’ambiente e alle culture delle popolazioni con le quali entravano in contatto durante l’attività di evangelizzazione. Lo scopo di questa raccolta era sia di tipo propagandistico e divulgativo che a sostegno della formazione dei nuovi missionari. Con il passare del tempo, la raccolta di oggetti e testimonianze si è configu-


Alcuni dei manufatti tra le migliaia raccolti nel corso degli anni dai missionari della Consolata ed esposti al museo Etnografico

rata come vera e propria opera di salvataggio e di preservazione dei patrimoni culturali delle popolazioni incontrate. Agli oggetti raccolti sul campo si sono poi aggiunte le donazioni e gli acquisti da altri territori non interessati dalle missioni. Da molto tempo il museo non è purtroppo aperto permanentemente al pubblico, e già da anni si parla di un nuovo riallestimento. Patrimonio da valorizzare All’interno di questo spazio è nata e si sono sviluppate le attività dell’associazione culturale Tamburi Parlanti. Patrimoni in Dialogo. L’associazione nasce nel 2015 dall’incontro fra Annalisa, Giulia, Rosina e Silvia, tre antropologhe e un’archeologa che si sono ritrovate a lavorare allo studio delle collezioni del Museo. Man mano che il lavoro di catalogazione proseguiva, si è iniziato ad avere un quadro più ampio e completo di quella che era la portata, tanto numerica quanto qualitativa, degli oggetti presenti.

Il confronto con alcuni missionari impegnati nel lavoro di conservazione e valorizzazione delle collezioni, in particolare con il responsabile padre Quattrocchio, e l’interesse che le stesse hanno suscitato tra chi ha avuto occasione di visitarle, hanno quindi spinto le studiose ad organizzarsi per far conoscere queste collezioni ad un pubblico più ampio. «L’associazione – sottolineano – nasce dall’idea che i patrimoni culturali antropologici, come quelli

custoditi all’interno della Consolata, rappresentino una risorsa ed uno strumento di conoscenza e dialogo interculturale importante, da valorizzare e rendere fruibili. Questo museo etnografico raccoglie oggetti di epoche diverse, che ci parlano della vita sociale, rituale e quotidiana di numerose popolazioni e di come questa sia mutata nel corso del tempo, ma non solo: questi oggetti, la loro storia, le modalità con i quali sono stati acquisiti e sono arrivati al museo, ci raccontano anche di relazioni e di connessioni complesse, che si sono evolute nel tempo, costruite in decenni di contatti fra il mondo cosiddetto occidentale e missionario e culture considerate “altre”». Strumento di dialogo Durante il primo anno di attività l’associazione ha organizzato diverse visite tematiche all’interno

degli spazi allestiti del Museo, e inoltre, in collaborazione con altre associazioni, ha contribuito a realizzare una mostra fotografica ed una serata dedicate ai diritti delle popolazioni indigene dell’amazzonia. Gli itinerari proposti hanno permesso di soffermarsi non solo sulla storia e i sistemi sociali e culturali delle popolazioni da cui provengono gli oggetti, ma anche di sollevare tematiche legate all’attualità. «Ci siamo interrogate su quale possa essere ora il ruolo di queste collezioni presenti sul nostro territorio; pensiamo che lo spazio museale possa essere un contesto di riflessione sulle relazioni fra mondo occidentale e non occidentale, relazioni che sappiamo essere storicamente di dominio e di subordinazione, ma dove hanno trovato spazio anche il dialogo e lo scambio reciproco. Si tratta anche di riflettere sulle rappresentazioni, a volte semplicistiche ed “esotizzanti”, della diversità culturale negli spazi museali così come più in generale nelle società occidentali. Questo patrimonio può diventare uno strumento di educazione e di dialogo interculturale, essere uno stimolo non solo per entrare in contatto con culture e società differenti ma anche per confrontarsi con la pluralità culturale all’interno della “nostra” società».

LA SCHEDA

Tamburi parlanti, associazione nata per far dialogare culture diverse L’associazione culturale Tamburi Parlanti. Patrimoni in Dialogo, nata nel 2015, ha come obiettivo lo studio e la promozione dei patrimoni culturali materiali e immateriali, in particolare antropologici, e la promozione di progetti di ricerca e di cittadinanza attiva a partire dai patrimoni culturali. mail – info.tamburiparlanti@gmail.com facebook – Tamburi Parlanti. Patrimoni in Dialogo Il Museo Etnografico della Consolata si trova in Corso Ferrucci 14 a Torino. La collezione, stimata in circa cinquemila unità, può essere suddivisa in quattro macroaree: Africa sub-sahariana; Area amazzonica; Arte Africana; Strumenti musicali. Telefono 011-4400400. agosto-settembre 2016 Scarp de’ tenis

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Qui casca l’asino I matti si curano anche in fattoria di Carlotta Peviani

Si chiama Qui casca l’asino il progetto messo a punto dal Cps 4 di Milano in favore di pazienti psichiatrici. Una pet therapy basata sulla cura e la conoscenza degli asini. Ottima la risposta degli utenti che imparano a gestire le emozioni 46 Scarp de’ tenis agosto-settembre 2016

Chi di noi non ha mai sentito parlare di pet therapy alias i benefici psicologici derivanti dal contatto con cani e gatti o di ippoterapia? Perché allora non pensare anche all’asino, animale tanto docile e tanto tenace, per aiutare chi soffre di disturbi psichici a uscire dal proprio “guscio”? Ci ha pensato il centro psico sociale di zona 4 di Milano che, dallo scorso febbraio, due volte al mese accompagna cinque pazienti nella fattoria didattica di Castellazzo di Basiano alle porte di Milano, dell’associazione Mondo Comunità e Famiglia. «Qui casca l’asino – spiega il dottor Carlo Scovino, responsabile del progetto e co-responsabile attività di riabilitazione dell’ Uop 55 –, è il nome del progetto che ha l’obiettivo di sviluppare la componente affettiva in pazienti con patologie psichiatriche». Alcuni di loro vivono soli o comunque non hanno una rete sociale molto solida. «Il contatto con la natura e, soprattutto, –racconta Giulia Gogna co-responsabile del progetto


LA STORIA pace e rispetto –dice con convinzione Giovanni –. Ognuno di noi aveva il proprio asino: Cesare, Lotus, Idelle, Danielle». Ma gestire un animale, mi spiegano, è anche saper gestire le proprie emozioni in un contesto nuovo e diverso dal solito.

«L’asino è un animale che richiede anche la capacità di sviluppare la pazienza, di imparare a rispettare i suoi tempi», spiega Giulia. «Per me – dice Giovanni – il momento più difficile è stato mandare avanti l’asino, quando non voleva più camminare». Alcuni utenti del Cps di zona 4 di Milano impegnati nell’accudire i loro amici a quattro zampe. Un progetto che è piaciuto molto

I “nostri” asini ci hanno trasmesso un senso di amicizia, fiducia, pace e rispetto anche se non è stato semplice all’inizio perché sono animali che richiedono anche la capacità di sviluppare la pazienza, di imparare a rispettare i loro tempi. È l’ennesima dimostrazione che con la patologia psichiatrica si può fare di tutto

– con un animale si trasforma in un’esperienza benefica per la socializzazione, favorendo i legami all’interno del gruppo grazie proprio alla mediazione dell’asino». Esperienza indimenticabile Siamo seduti intorno ad un grande tavolo nella sede del Cps insieme ai protagonisti di questa esperienza: Andrea, Giovanni, Michele e Natalina. Sono tutti vogliosi di intervenire e dire la loro. «Io all’inizio sono stato stupito, avevo un po’ di paura a pulire l’asino. Lo abbiamo poi accompagnato intorno al recinto. Èstata un’esperienza intensa», spiega con entusiasmo Giovanni. Durante gli incontri in fattoria, della durata di un’ora, è prevista una prima fase in cui il paziente entra in relazione con l’asino, accudendolo al meglio, e una fase in cui si svolgono esercizi di conduzione a mano lungo percorsi prestabiliti. «È da quando ero ragazzo che non vedevo da vicino un asino –racconta Michele – è stato come entrare in un altro mondo. Se mi piacerebbe vivere in una fattoria? Perché no, mio padre era un contadino». Di tutt’altro parere è, invece, Andrea. «Io non vivrei mai in una fattoria. Lì, sei completamente isolato, se non hai la macchina sei perso». La campagna, la natura, gli animali, su di loro hanno effetti diversi, tutti comunque stimolanti. Dopo tutti questi mesi l’esperienza con gli asini ha lasciato tracce importanti. «I “nostri” asini ci hanno terasmesso un senso di amicizia, fiducia,

Michele non ha dubbi: «Per me invece è stato quando ha tentato di darmi un calcio mentre lo pulivo. Mi sono spaventato, ma poi ho capito che bisognava lasciarlo stare, che era solo un momento di nervosismo, come capita a noi. Ho così aspettato e ci siamo poi riappacificati». Dunque l’asino si trasforma, da animale un po’ bistrattato nella

storia, in una figura rassicurante ed educativa, in grado di aiutare a ribadire ancora una volta che con la patologia psichiatrica si può vivere, anche in mezzo alla natura e agli animali. «Il nostro Cps con il dipartimento di salute mentale e neuroscienze del Fatebenefratelli diretto dal professor Claudio Mencacci – conclude il dottor Scovino – ritiene di fondamentale importanza promuovere iniziative che possono avere un impatto di tipo mediatico. L’obiettivo è quello di combattere la stigmatizzazione della psichiatria. L’idea è quella di far apparire i pazienti psichiatrici non come un fenomeno di cui aver timore. Il progetto prevedere anche di amplificare la rete di collaborazioni per garantire una qualità sempre più alta delle iniziative e dei progetti messi in campo per le persone che seguiamo grazie anche alle collaborazioni con i servizi del territorio».

LA SCHEDA

Un Cps attento e all’avanguardia: «Sempre pronti a progetti innovativi» Non tutti sanno quanto sia importante nella gestione delle malattie mentali un centro psicosociale, ossia quel presidio territoriale, punto di riferimento per la prevenzione, cura e riabilitazione dei pazienti psichiatrici. In particolare il Cps di zona 4 in viale Puglie 33 a Milano, da anni ha sviluppato una speciale vocazione: proporre ai propri utenti – sono circa mille i pazienti che vi afferiscono – progetti riabilitativi innovativi e fuori dagli schemi, con l’obbiettivo di migliorare la loro qualità di vita e sostenere le famiglie nel percorso di inserimento sociale. «Qui casca l’asino è solo uno dei tanti progetti del centro – dice il dottor Carlo Scovino –. Il nostro Cps ha cercato di amplificare sempre più il legame con il territorio, riuscendo a creare, in anni di lavoro e impegno quotidiano, una rete fittissima di collaborazioni con le associazioni pubbliche, private, laiche e cattoliche. In questo modo abbiamo reso concreti progetti un po’ fuori dagli schemi, con il risultato non solo di favorire l’ inserimento sociale dei nostri utenti ma anche di combattere il pregiudizio che ancora avvolge la malattia mentale». I prossimi progetti? Tantissimi. «L’estate si avvicina conclude Scovino – ed agosto è un mese particolarmente critico. Noi non solo non chiudiamo garantendo il servizio consueto ma proponiamo un calendario fitto di iniziative ed eventi pomeridiani e serali in città. E poi a fine settembre un nostro gruppo di pazienti volerà a Palermo. Ma di questo vi racconteremo...». agosto-settembre 2016 Scarp de’ tenis

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Vicenza addio, i giovani cambiano Paese di Cristina Salviati

In provincia di Vicenza il “saldo” tra immigrazione ed emigrazione si avvicina allo zero, e ad andarsene sono soprattutto i giovani. Ne parlano alla Cisl di Vicenza dove l’ufficio studi in collaborazione con Vicentini nel Mondoe con l’associazione Benetti, interna al sindacato stesso e formata da giovani, ha intrapreso una ricerca, un approfondimento del fenomeno migratorio in senso generale.

La provincia di Vicenza è sempre meno attrattiva, secondo una rielaborazione dei dati Istat realizzata dalla Cisl di Vicenza. Fino a dieci anni fa l’immigrazione era molto superiore all’emigrazione. Oggi il gap si è quasi colmato: partono i giovani italiani. Ma anche gli immigrati

«Stiamo analizzando e studiando – racconta Renato Riva della segreteria Cisl – la prospettiva culturale dei movimenti di migranti. Siamo abituati, purtroppo, a ragionare per luoghi comuni. Con quest’analisi approfondiremo alcune questioni partendo dal presupposto che sia necessario conoscere il fenomeno nella sua complessità prima di poterne parlare. Altrimenti si rischia di dire banalità e di scaricare colpe e responsabilità senza rendersi conto che invece di carenze, magari stiamo parlando di ricchezze». Immigrazione come risorsa, e in quest’ottica a Vicenza si è partiti dai

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VICENZA

A destra Diletta Pegoraro, di Pove sul Grappa, 26 anni, ricercatrice sui tessuti denim per i colossi dei jeans americani insieme al presidente Sergio Mattarella

Gli immigrati che se ne vanno sono persone che lavoravano qui da una ventina d’anni, che avevano imparato il mestiere, fondato una famiglia e cresciuto i figli. Viene da pensare che fossero italiani ormai, sicuramente lo erano i loro figli. E infatti più che tornare nel Paese di origine sono emigrati in Europa

numeri, sfruttando Demo.Istat, un sito di informazione e analisi demografiche, da cui si possono estrapolare tutti i trasferimenti di residenza all’estero, comune per comune. Una cambio radicale «Dieci anni fa – racconta Francesco Peron, consulente per Lan Servizi e appartenente all’associazione Benetti – l’immigrazione nella nostra provincia era di molto superiore all’emigrazione. Da lì in poi, a causa della crisi, il nostro territorio ha perso attrattività. Quindi non solo sono aumentati gli italiani emigranti, ma anche gli stranieri che hanno lasciato l’Italia per trovare lavoro in altri Paesi dell’Europa».

Agli inizi della crisi finanziaria in zone industrializzate come l’area della concia ad Arzignano, dal 2008 al 2012 erano in maggioranza stranieri a lasciare la propria casa, 70% contro il 30%. Oggi invece siamo in situazione di parità, 50 e 50. Francesco Peron sorride nel pensare agli stranieri che emigrano: «Stiamo parlando di persone che lavoravano qui da quindici o vent’anni, che avevano imparato il mestiere, fondato una famiglia e cresciuto i propri figli. Viene da pensare che fossero italiani ormai, sicuramente lo erano i loro figli». E infatti più che tornare nel Paese di origine sono emigrati restando però in Europa. La ricerca ancora non dà dati precisi sull’età degli emigranti italiani o stranieri, ma è sotto gli occhi di tutti che i giovani italiani tendono a cambiare Paese e i vicentini non sono da meno. Sul periodico di Vicentini nel Mondo si leggono costantemente storie di giovani emigranti di talento. In Europa capita sovente di essere chiamati per lavori qualificati, inerenti al proprio corso di studi, e poi, grazie a Erasmus e alle diverse esperienze all’estero i ragazzi, oggi, sono

pronti a muoversi. Anche verso Paesi che non sono immediatamente ricettivi come l’Australia o gli Stati Uniti, sono molti quelli che partono con consapevolezza dei passi che si devono fare, della burocrazia e delle difficoltà che bisogna affrontare. «Oggi non si parte a caso per l’estero –dichiara Francesco –. Di recente ho conosciuto un ragazzo che si occupa di distribuzione di acqua in bottiglia per conto di una grossa azienda. La sua area di lavoro è l’Est asiatico, il che significa partire ogni due settimane per il Giappone o la Thailandia. Per lui questa vita è normale. Oggi spostarsi è più facile, meno costoso e consente di mantenere rapporti con la famiglia e con gli

amici via internet. Lo stesso trasferimento di denaro è molto più semplice. L’altra sera ero a cena con un amico che studia e lavora in Inghilterra. Ogni tanto torna a casa ed è l’occasione per rivedersi con un amico a Padova o a Firenze». Questi sono solo due esempi, con i quali ormai abbiamo tutti a che fare, e che dimostrano come i giovani d’oggi percepiscano l’Unione europea come casa propria, ma anche il resto del mondo a portata di mano. «Stiamo passando – conclude Renato Riva – dall’idea di nazione a quella di continente e sono proprio i giovani a dimostrarci che cambiare Paese contribuisce ad arricchire il proprio bagaglio di competenze».

LA SCHEDA

Tutti all’estero, italiani e immigrati Nella serie storica rappresentata nella scheda sotto, si evince la differenza tra iscritti dall’estero e cancellati per l’estero totali. Non c'è quindi distinzione tra residenti italiani e stranieri. Questa tabella mette bene in evidenza il problema della crisi economica che si riflette nella diminuzione di capacità di attrazione del territorio vicentino. La curva tende sempre più a zero aiutata anche dall'aumento di persone che lasciano il nostro territorio in cerca di fortuna all'estero (sia italiani che stranieri già inseriti nella vita di tutti i giorni). L'impennata di curva nel 2008 è dovuta all'entrata dei paesi dell'Est Europa all'interno dell'Unione europea. (fonte Centro Studi Cisl su dati Demo.Istat) Saldo migratorio provincia di Vicenza

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Il fascino oltre le sbarre Detenute modelle di Angela De Rubeis

Diciotto ragazze protagoniste di una mostra fotografica e di due calendari. Fin qui nulla di nuovo se non fosse che tutte le modelle vengono dalla casa circondariale femminile di Rebibbia. L’idea è quella di mostrarle per ciò che sono, senza stereotipi 50 Scarp de’ tenis agosto-settembre 2016

Ci sono delle foto appese al muro. Sono foto di donne. Diciotto ragazze dallo sguardo intenso che guardano l’obiettivo e seguono con gli occhi lo spettatore che si sposta da un pannello all’altro per osservare da vicino le luci calde che le avvolgono, il tocco del trucco attorno all’occhio, la piega della bocca o il colore dei capelli. Hanno tutte una bellezza fuori dai canoni. Si percepisce che non sono modelle, ma solo perché la moda ci ha abituato a volti e corpi irreali, scavati dal trucco e dalle luci per creare un’apparenza poco carnale. Ironia, stanchezza, timore, malizia, da questi sguardi emergono sentimenti potenti e forti, che trascinano e ipnotizzano chi si sofferma anche solo per un attimo a guardare. Chi sono? I nomi non li so, così come le età, né le professioni. L’unico elemento che le accomuna tutte è il carcere. Queste diciotto donne sono tutte carcerate. Non tutte, in realtà: da quando il progetto è stato realizzato ad oggi, otto di loro sono uscite di prigione. Eppure, l’idea di Mauro Rosatelli e Claudio Laconi è, nella sua semplicità, rivoluzionaria e meritevole: mostrare queste donne per la loro femminilità, per il loro essere donne, e non per l’accessorietà di essere carcerate. L’abito fa il monaco Idea rivoluzionaria perché, alla fine, è più forte di noi: l’abito fa il monaco. Se vediamo una persona inserita


RIMINI

IL PROGETTO

Un’oasi padre-figli dentro il carcere: dal Soroptimist un supporto all’affettività Le modelle, tutte ospiti del carcere romano di Rebibbia, sono qui ritratte per quello che sono: donne

Fotografo ed ideatore hanno pensato che fosse giusto mostrare queste donne per quello che sono, per la loro femminilità prima di tutto. Per questo è stato allestite un set teatrale e le ragazze si sono vestite con abiti creati da loro. Si è voluto ricreare una vera e propria sfilata di moda

in un particolare ambiente, in questo caso il carcere, ecco che questo diventa determinante. La donna ritratta diventa subito carcerata, galeotta, magari anche infame e sicuramente meno bella di quanto appare così. Soprattutto se chi guarda le foto, ad un primo sguardo, non conosce nulla della mostra. Così sono solo donne, belle, meno belle, femminili o dai tratti più duri, ma sempre e solo donne. Nient’altro. «Perché umiliarle ancora? – dice Mauro Rosatelli, fotografo e uno dei due ideatori della mostra presentata a Rimini lo scorso 3 luglio al club nautico –. Abbiamo pensato fosse giusto mostrarle per quello che sono, per la loro femminilità prima di tutto. Per questo abbiamo allestito un set teatrale e le ragazze si sono vestite con abiti creati da loro. Noi abbiamo voluto fare una vera e propria sfilata di moda». Tutte le modelle vengono dalla casa circondariale femminile di Rebibbia. «L’iniziativa è stata approvata dall’amministrazione penitenziaria e dalla stessa casa circondariale, oltre che dal Ministero di Giustizia – continua Rosatelli –. Quando abbiamo avuto l’idea e abbiamo scritto alla direzione del carcere inviando il nostro progetto non sapevamo cosa avrebbero risposto, e invece sono stati subito interessati e anche veloci nelle risposte, tempi burocratici a parte». Oltre alla mostra i due fotografi hanno realizzato un calendario per gli anni 2016 e 2017. «Due anni, sì, perché le modelle erano 18 e le foto tante, e non volevamo lasciare fuori nessuna».

La presentazione de “Il fascino oltre le sbarre”, mostra curata dal Soroptimist International club di Rimini, è stata anche l’occasione per inaugurare il progetto “Uno spazio tutto per sé nel carcere della nostra città. Un’oasi di verde e giochi per l’incontro padre – figlio”. «Ci abbiamo messo tutto un inverno per realizzare il progetto», spiega Giorgia Micheli che con il Soroptimist International club di Rimini, ha seguito da vicino la realizzazione di uno spazio giochi all’interno del carcere Casetti, pensato per bimbi tra i 6 e i 10 anni. Un piccolo grande miracolo anche perché l’area era all’abbandono da tempo, ed era stata una delle motivazioni che avevano spinto - lo scorso luglio - l’avvocato riminese Davide Grassi a dimettersi dal suo ruolo di Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Grazie all’intervento del club riminese – che ha aderito ad un progetto nazionale nell’ambito dei diritti dei minori – ora, il carcere della città è dotato di uno spazio esterno con tre gazebo, un’area giochi e uno spazio verde tutto dedicato ai bambini e ai loro genitori. «È un impegno verso i più giovani – continua Giorgia Micheli, socia del club che ha seguito più da vicino il progetto – che sono coinvolti direttamente o indirettamente nelle tematiche giudiziarie. Questi spazi servono proprio a vivere momenti difficili con maggiore serenità, per salvaguardare il più possibile la dimensione umana anche in un contesto come quello del carcere». Circa un anno fa era stato inaugurato uno spazio ludoteca interno affinché i bambini potessero incontrare i loro genitori in un ambiente a loro misura. La ludoteca è una stanza adiacente alla sala dei colloqui in cui i bambini possono giocare e avere un momento di svago quando vengono a trovare i loro papà in carcere. Questa ludoteca – realizzata grazie al contributo del progetto “Generazioni Solidali” del centro di servizio di Volontariato della Provincia di Rimini, in collaborazione col centro di ascolto Caritas – è stata il punto di partenza. «Il momento dell’affettività, in carcere, è fondamentale - ha commentato il direttore dell’istituto riminese Paolo Madonna, inaugurando la ludoteca –. Il rafforzamento del rapporto coi figli aiuta il riscatto delle persone. Capita che all’esterno molti si estranino dal loro ruolo, soprattutto se hanno dipendenze. Ma se c’è un dato trasversale qui all’interno del carcere, è che l’affettività familiare è il traino per il riscatto e il cambiamento. E il carcere deve fare di tutto per aiutare e accompagnare questa tendenza, deve creare le sinergie per permettere a questo sentimento di svilupparsi e germogliare. Ora, con quest’altro nuovo intervento, i padri e i figli potranno vedersi anche all’aria aperta, e potranno giocare insieme per alcuni momenti belli e preziosi per entrambi. agosto-settembre 2016 Scarp de’ tenis

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Rifugiati, modello di accoglienza di Stefania Marino

Sono state quasi 30 mila le persone accolte lo scorso anno nel sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Un modello che funziona e bene. Grazie ai Comuni e alle tante risorse messe in campo dal terzo settore. E che diventerà punto di forza dell’accoglienza 52 Scarp de’ tenis agosto-settembre 2016

Sono 29.762 le persone che sono state accolte durante il 2015 nel Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), la rete degli enti locali che insieme al terzo settore si occupa in Italia di accoglienza integrata. È quanto emerge dal rapporto annuale Sprar 2015 presentato il 13 luglio a Roma. Nel sistema coinvolti 376 enti locali, con 21.613 posti di accoglienza attraverso 430 progetti, di cui 348 destinati alle categorie ordinarie di richiedenti asilo e rifugiati, 52 destinati a minori stranieri non accompagnati e 31 a persone con disagio mentale e disabilità fisica. Dati, numeri e storie. Centonove pagine in cui viene analizzata l’accoglienza in Italia, a partire dalla distribuzione territoriale che vede oltre il 40% delle presenze nel Lazio, in Sicilia, Puglia e Calabria. Maria Silvia Olivieri del servizio centrale dello Sprar fornisce alcuni elementi contenuti nel rapporto. «Le persone ospitate nel 2015 sono state richiedenti asilo nel


SUD

IL 75% delle persone presenti negli Sprar è arrivato tramite uno sbarco. I corsi di italiano sono uno delle maggiori attività per i rifugiati Sprar

Lo Sprar è il futuro dell’accoglienza in Italia: appare ormai necessario trovare un equilibrio, che permetta di andare verso il superamento del circuito straordinario di accoglienza, attraverso un aumento del circuito ordinario che può essere attivato dai Comuni tramite lo Sprar

58% dei casi – racconta –. Il 10% aveva lo status di rifugiato, il 13% era titolare di protezione sussidiaria e il 19% di protezione umanitaria. Prevalentemente maschi. Per quanto concerne le nazionalità, la maggior parte arriva da Nigeria, Pakistan e Gambia». Il quadro dell’analisi sviscera anche la presenza dei minori stranieri non accompagnati. Negli Sprar dedicati ne sono stati accolti 1.640. Il futuro dell’accoglienza La presentazione dell’Atlante Sprar 2015 ha visto la presenza di Mario Morcone, capo dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione del Ministero dell’Interno. «Lo Sprar è il futuro dell’accoglienza in Italia – dice –. Stiamo lavorando ad un decreto che ponga i comuni davanti ad un sistema che lasci alle spalle la logica dei bandi e che guardi ad un accreditamento immediato e permanente per poter far parte dello Sprar. Capiamo le difficoltà dei sindaci per l’accoglienza straordinaria ma va compresa anche quella dei Prefetti, che non possono esimersi

dal trovare una collocazione alle persone in arrivo. È necessario trovare un equilibrio, che permetta di andare verso il superamento del circuito straordinario, attraverso un aumento del circuito ordinario di accoglienza dei Comuni tramite lo Sprar». Presenti anche Domenico Manzione, sottosegretario di Stato del Ministero dell’Interno, Leonardo Domenici presidente della Fondazione Cittalia. «L’accoglienza dei migranti in Italia – dice Piero Fassino, presidente dell’Anci – è più umana e solidale di quella di tanti Paesi europei. La forza dello Sprar risiede nel fatto di essere un modello diffuso in cui operano i comuni ma anche un sistema di sussidiarietà sociale straordinario».

Sono ben 8.291 le figure professionali impegnate quotidianamente nel sistema Sprar, operatori impegnati a costruire per i migranti quei percorsi di costruzione della propria vita. «Un piccolo esercito pacifico – lo ha definito Daniela Di Capua, direttrice del servizio centrale, nella sua introduzione–. Sono operatori di accoglienza, mediatori culturali, operatori legali, insegnanti di

italiano, coordinatori di equipe che hanno contribuito ad erogare 260 mila servizi tra assistenza sanitaria, inserimento scolastico dei minori, inserimento socio-lavorativo e corsi di formazione». Questa è dunque la rete Sprar. Una rete che ha visto negli ultimi mesi aggiungere nuovi quattromila posti che fanno balzare i progetti a quota 674 per un totale di 26.701 posti e la partecipazione di 574 enti locali. In testa la Sicilia (5.223) e il Lazio (4.877). Seguono la Calabria (3.022) e la Puglia (2.761), la Campania (1.496) e la Lombardia (1459). Non solo numeri Nel rapporto Sprar ci sono numeri e statistiche ma anche stralci di vita vissuta all’interno delle strutture, progetti con i territori, con le comunità, che vedono avvicinare i rifugiati al mondo dell’istruzione e del lavoro. Come a Capua, in provincia di Caserta, dove i beneficiari del progetto sono coinvolti in un laboratorio per imparare le tecniche di restauro dei mobili antichi. O come a Caltanissetta, in Sicilia, dove un rifugiato del Pakistan dà lezioni di inglese ai membri della Polizia Municipale.

LA SCHEDA

In Campania 1.184 posti a disposizione L’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati in Campania nel 2015 ha visto 1.184 posti. Sono 5 gli Sprar in provincia di Avellino, 3 nel beneventano, 7 nel casertano, 5 nel napoletano. Nel salernitano lo Sprar è presente nello stesso capoluogo di provincia con 25 posti e a Caggiano. Dal 2014 sono titolari di progetti Sprar anche i comuni di Eboli, Pontecagnano Faiano, Padula, Polla, Roscigno, Santa Marina per un totale di 243 posti gestiti dall’Associazione Il Sentiero e dalla Cooperativa Tertium Millennium. A Policastro Bussentino, frazione di Santa Marina, sin da maggio 2014 sono ospitati nuclei familiari, con famiglie egiziane e nigeriane. Sono 4 i bambini che hanno frequentato la scuola dell’infanzia e primaria di Santa Marina. L’istruzione ha riguardato anche gli adulti. Alcuni beneficiari dello Sprar hanno conseguito la licenza media. Nella struttura sono presenti 2 piccoli ospiti, nati in Italia. In tutta la rete Sprar nazionale, l’1,5% corrisponde a bambini e bambine venuti alla luce nel nostro Paese. agosto-settembre 2016 Scarp de’ tenis

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VERONA

Foto di gruppo per i partecipanti alla Summer school organizzata dalla fio.PSD in quel di Verona

Housing first: la Summer school targata fio.PSD di Elisa Rossignoli

Dal 29 giugno al 2 luglio Verona ha ospitato la summer school 2016 del network housing first Italia. L’evento ha visto coinvolti 90 partecipanti, rappresentanti di 40 enti associati a fio.PSD, provenienti da 9 regioni e 27 città italiane. Si è valso della collaborazione delle Università di Padova, Catania, Torino e di un istituto di ricerca (Ires fvg). Ma a rendere questa edizione speciale è stata la presenza di un ospite d’eccezione: Sam Tsemberis, l’ideatore ed iniziatore del metodo housing first. Il network, promosso da fio.PSD (Federazione italiana organismi per le persone senza dimora), coinvolge più di 40 enti che lavorano nel campo della grave marginalità e la homelessness, e dal 2013 lavora attivamente per l’implementazione del meto-

Bisogna lavorare sui reali bisogni delle persone e non su quello che spesso gli operatori credono sia meglio per loro 54 Scarp de’ tenis agosto-settembre 2016

do housing first nel nostro paese, avendo ora oltrepassato la fase di sperimentazione e si sta inoltrando in una fase successiva. Tale passaggio è stato il tema centrale della summer school. Homelessness nei giovani Nei tre giorni veronesi si è quindi parlato di accompagnamento, di priorità o meno dell’inserimento lavorativo, di coinvolgimento del territorio, lavoro di équipe, sostenibilità, diritto alla casa e last but not least, un tema particolarmente attuale e sempre più emergente in Italia: l’homelessness dei giovani. Il tutto è avvenuto con il costante focus sulla “persona al centro”, pietra miliare dell’approccio housing first, e con l’aiuto della Ost (Open space technology), metodologia di discussione partecipativa che conferisce agilità e concretezza all’interazione fra i partecipanti. I protagonisti della summer school si sono poi confrontati sui risultati emersi dalle discussioni con Sam Tsemberis. Un dialogo, non una conferenza, secondo lo stile di Sam.

Molte suggestioni emerse, tutte radicate nell’esperienza quotidiana. Come la riflessione sui tempi della persona. Quanto è necessario rispettarli, se la persona si dimostra passiva e rischia di lasciarsi andare? Quanto è lecito e doveroso per l’operatore aspettare o intervenire? «Il viaggio della recovery – spiega Tsemberis –, è lungo e personalizzato e rispetta i tempi della persona, della quale ci interessiamo in tutta la sua complessità. Ciò che è fondamentale è accompagnarla a riappropriarsi della sua possibilità di scegliere. Chi si “lascia morire” raramente sceglie di farlo. Ciò è spesso solo una conseguenza dell’essere ai margini, nell’abbandono. Lavorare per recuperare la capacità di scelta mira a riportare la persona in una relazione». Come lavorare in équipe In questo è compreso il fare dell’operatore, ma si tratta di un fare con la persona che esce dagli schemi tradizionali del welfare. «È un programma rischioso –ribadisce Tsemberis –, in cui ciascuno è chiamato ad assumersi un pezzo di rischio. Ricordando che il centro non è la casa in sé, ma la relazione tra la persona e l’operatore, perché è nella relazione che vi può essere l’attivazione delle risorse della persona». Il ruolo dell’operatore è invece chiedere alla persona come può essere aiutata, non portarla a fare ciò che lui vuole. E che dire del lavoro di équipe? «È la parte migliore e peggiore di housing first – dice ancora Tsemberis –. La condivisione del lavoro che facciamo è essenziale. Nel gruppo di lavoro ci sono competenze che vanno condivise tra operatori e messe a disposizione alle persone: il cardine di tutto è la condivisione. Il Grande Carro è fatto di 7 stelle. Ma non è soltanto la loro somma: viste in quanto costellazione sono molte di più. Così le nostre équipe non sono soltanto la somma delle nostre competenze o il luogo dello sfogo: se c’è vera condivisione i valori del gruppo, di cui l’équipe è custode, continuano a nutrirci. È essenziale farci guidare da questo. Crederci e avere fiducia».


VOCI DALL’EUROPA

Berlino: l’università per homeless, tornare a scuola per sentirsi vivi

scheda Mauro Meggiolaro, nato a Verona nel 1976. Ha lavorato per banche e finanziarie etiche in Germania e a Milano (Etica Sgr, Banca Etica). Azionista critico alle assemblee di Enel ed Eni, nel 2009 ha creato la società di ricerca Merian Research. Scrive anche per “Valori” e “Il Fatto Quotidiano”. Nel 2013 è tornato a vivere a Berlino.

Sembra il programma di una delle decine di università popolari frequentate in tutta Italia da pensionati, casalinghe, disoccupati. Ma qui il profilo degli studenti è diverso. I corsi sono infatti destinati alle persone senza dimora. «Abbiamo iniziato nel 2012 – spiega Maik Eimertenbrink, che ha lanciato il progetto ispirandosi a un modello già sperimentato a Graz, in Austria –. Il nostro scopo è risvegliare l’interesse per l’arte, la musica, la conoscenza in persone che spesso sono demoralizzate e sfiduciate. In alcuni casi le lezioni sono riuscite a trasmettere la voglia di ripartire, frequentando un corso di formazione o rimettendosi in gioco nel mondo del lavoro». Insegnanti volontari Eimertenbrink, classe 1975, ha studiato comunicazione. È un consulente in campo sociale, blogger, attivista e volontario alla “Haus Schöneweide”, un centro di residenza per alcolisti cronici nel sud-est di Berlino, al quale si appoggia l’università dei senza dimora. «Gli insegnanti mettono a di-

sposizione il loro tempo gratuitamente – continua Eimertenbrink – e spesso succede che siano gli stessi studenti a salire in cattedra. C’è chi prima di finire sulla strada è stato falegname o guida turistica in Egitto e quindi insegna a lavorare il legno o racconta la storia delle piramidi».

Lo scopo delle lezioni è risvegliare l’interesse per l’arte, la musica, la conoscenza in persone sfiduciate. In alcuni casi le lezioni sono riuscite a trasmettere la voglia di ripartire, frequentando un corso di formazione o rimettendosi in gioco nel mondo del lavoro. «Con i senza dimora i ragionamenti filosofici sono molto più vicini alla realtà che non all’università»

Gestire la classe non è sempre facile. «All’inizio i partecipanti non riuscivano ad interagire tra di loro. Quando qualcuno prendeva la parola veniva costantemente interrotto – spiega l’insegnante di filosofia Anke Schönebeck, che tiene il proprio corso fin da quando era ancora una studentessa della Technische Universität –. Ora tutti hanno imparato ad aspettare il loro turno e il livello delle discussioni è molto migliorato. Alla fine con i senza dimora i ragionamenti filosofici sono molto più vicini alla realtà rispetto a quanto si discetta all’università».

Foto: dpa/Handelsblatt

di Mauro Meggiolaro

Giovedì mattina tocca a "Che cos’è l’uomo?", due ore di filosofia con la professoressa Schönebeck, venerdì corso di storia con il professor Wildt, che parla della rivoluzione a Berlino nel 19181919. Ma ci sono anche corsi di inglese, chitarra, pittura, la lettura della Bibbia il mercoledì sera e i gruppi dei camminatori, divisi tra “principianti” e “avanzati”, che si danno appuntamento il fine settimana.

Klaus e Mandy con l'insegnante di filosofia Anke Schönebeck (al centro)

La vittoria di Klaus Klaus, 57 anni, di cui dieci vissuti in strada, è un frequentatore assiduo del corso di filosofia. «Sento di avere bisogno di formazione», spiega alla fine di una lezione sul ruolo dello Stato nel garantire i diritti e la giustizia. Klaus, che dal 2010 non vive più per strada e dal 2011 ha smesso con l’alcool, è anche insegnante. Il suo corso ha un titolo che parla da solo: “Come lasciare la strada e ricominciare a vivere”. Lui l’ha fatto, con molto coraggio. Ora vive in un monolocale, riceve il sussidio sociale e accompagna i turisti in giro per la città con il progetto querstadtein:la capitale tedesca vista dal basso. Dalla strada. agosto-settembre 2016 Scarp de’ tenis

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VENTUNO

I dati dell’ultimo rapporto Unicef sono agghiaccianti: quasi 70 milioni di bambini moriranno di qui al 2030 per cause evitabili. L’agenzia dell’Onu lancia un appello ai governi di tutto il mondo per salvarli di Andrea Barolini

scheda

Ventuno come il secolo nel quale viviamo, come l’agenda per il buon vivere, come l’articolo della Costituzione sulla libertà di espressione. Ventuno è la nostra idea di economia. Con qualche proposta per agire contro l’ingiustizia e l’esclusione sociale nelle scelte di ogni giorno.

«Al giorno d’oggi, se ci guardiamo intorno, ci troviamo di fronte a una verità scomoda ma innegabile: la sorte di milioni di bambini dipende semplicemente dal paese, dalla comunità, dal genere o dalle circostanze in cui sono nati. E come dimostrano i dati contenuti in questo rapporto, se non accelereremo i ritmi dei nostri progressi nel raggiungere questi milioni di piccoli svantaggiati e vulnerabili, il loro futuro, e pertanto anche quello delle loro società, sarà in pericolo». È con queste parole che il direttore generale dell’Unicef, Anthony Lake, ha introdotto l’ultimo rapporto dell’agenzia delle Nazioni Unite, intitolato “La condizione dell’infanzia nel mondo - La giusta opportunità per ogni bambino”. Un documento agghiacciante, pubblicato alla fine dello scorso mese di giugno, nel quale si tracciano i contorni drammatici della vita che aspetta decine di milioni di esseri umani in tutto il mondo.

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Malattie curabili, malnutrizione, stenti che si riveleranno insormontabili se il mondo non sarà in grado di porre in atto politiche capaci di aiutare i più piccoli e le loro Le cifre parlano infatti di famiglie

© UNICEF/UNI181411/Esiebo2015

La strage silenziosa delle vittime innocenti

un vero e proprio sterminio silenzioso, che colpirà 69 milioni di bambini in tutto il mondo, di qui al 2030 (ovvero quando scadrà il termine indicato negli ultimi Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile, vedi box a pagina 59: la “fase due” degli Obiettivi del Millennio, entrata in vigore il 1 gennaio 2016).

Si tratta di piccoli che non avranno superato neppure i cinque anni di età, e che moriranno per cause che si potrebbero evitare facilmente.

Malattie curabili, malnutrizione, stenti che si riveleranno ostacoli insormontabili se il mondo non sarà in grado di porre in atto politiche capaci di aiutare chi ha la sola colpa di essere stato meno fortunato di altri. Il rapporto Unicef sottolinea poi come circa 167 milioni di bambini vivranno ancora in condizioni di povertà, e che la cifra incredibile di 750 milioni corrisponde

al numero di bambine che saranno costrette a sposar-


Lydia James seduta su un letto a castello nel dormitorio che condivide con 78 altre donne e bambini in un campo per sfollati a Yola, la capitale di Adamawa, stato situato a nord-est della Nigeria. Alcuni mesi prima, membri di Boko Haram sono arrivati nella sua città mentre il marito stava partendo per far visita alla madre e portarle del cibo. Lo hanno legato, trascinato sotto un albero e gli hanno sparato. Lydia e i suoi nove figli sono scappati per sopravvivere. «Chiedo a Dio di aiutarmi per poter prendermi cura dei bambini», ha detto la signora James. La Nigeria’s National Emergency Management Agency sta fornendo aiuti al campo, mentre l'Unicef ha provveduto a forniture mediche e scolastiche, nonché a quattro pozzi per l’acqua potabile.

si durante l’infanzia. Mentre altri 60 milioni non potranno frequentare neppure la scuola primaria.

riguarda la scolarizzazione, in 129 nazioni di tutto il mondo è stata raggiunta la “pari opportunità” nella scuola primaria. Infine, il numero delle persone che vivono in povertà estrema si è ridotto quasi della metà nell’ultimo quarto di secolo.

L’analisi dell’agenzia delle Nazioni Unite spiega, tuttavia, che

alcuni progressi sono stati compiuti negli ultimi venticinque anni. Il tasso di mortalità infantile al di sotto dei 5 anni, dal 1990 a oggi, risulta più che dimezzato a livello globale. E in Paesi “a rischio” come Etiopia, Liberia, Malawi e Niger, è sceso di oltre due terzi. Inoltre, il numero di decessi per malattie come polmonite, diarrea, malaria, sepsi, pertosse, tetano, meningite e aids è diminuito da 5,4 milioni nel 2000 a 2,5 milioni nel 2015. Mentre i programmi di vaccinazione sono stati in grado di ridurre di quasi l’80% il numero di decessi per morbillo nel periodo compreso tra il 2000 e il 2014. Il che ha significato salvare circa 1,7 milioni di vite umane. E anche la mortalità delle mamme è diminuita drasticamente, facendo segnare un -43% rispetto al 1990. Mentre per quanto

I figli di donne non istruite in Asia del Sud hanno il triplo delle probabilità di morire da piccoli rispetto a quelli i cui genitori hanno potuto seguire la scuola primaria

Il dramma nei Paesi poveri Ciò nonostante, la strada da percorrere per un mondo più giusto, ed in particolare per garantire a tutti i bambini del pianeta un’esistenza dignitosa, è ancora molto lunga. Ancora oggi, infatti, i più poveri hanno il doppio delle probabilità di morire prima del loro quinto compleanno e di soffrire di malnutrizione cronica, rispetto ai coetanei nati in famiglie benestanti. Basti pensare che un

bambino nato in Sierra Leone rischia trenta volte di più di non superare i primi 60 mesi di vita rispetto ad un coetaneo nato nel Regno Unito. Ma le speranze di vita sono legate anche al grado di istruzione delle mamme: i figli di

donne non istruite in Asia del Sud e nell’Africa subsahariana hanno il triplo delle probabilità di morire da piccoli rispetto a quelli i cui genitori hanno potuto seguire la scuola primaria. Più in generale, è proprio nei Paesi poveri africani che la situazione risulta più drammatica: qui, oggi, almeno 247 milioni di bambini vivono in condizioni di povertà. Due su tre. E chi sopravvive, non riesce a sviluppare la propria esistenza come potrebbe: attualmente il 60% dei giovani tra i 20 e i 24 anni di età che appartiene al quinto più povero della popolazione non ha seguito più di quattro anni di corsi a scuola. Le previsioni al 2030 dell’Unicef indicano poi che il 90% dei bambini poveri si troverà proprio in Africa. «Non garantire eque opportunità a centinaia di milioni di bambini – ha aggiunto Lake – significa ben più che mettere a rischio il loro futuro. Significa alimentare i cicli di svantaggio intergenerazionale, mettendo in pericolo il futuro di intere società. Oggi siamo di agosto-settembre 2016 Scarp de’ tenis

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VENTUNO

ropa la percentuale dei bambini indigenti è supe-

Bambini kamikaze, arma degli integralisti

più marginalizzati sono i piccoli della popolazione rom in Europa centrale e orientale: un bambino rom ogni cinque in Bosnia-Erzegovina, e uno ogni quattro in Serbia, presenta ritardi moderati o gravi nella crescita. In tutto il mondo, infine, moltissimi bambini si ritrovano a confrontarsi con una realtà drammatica e capace di segnare per sempre un’esistenza: la guerra. Le realtà più catastrofiche, ricorda l’Unicef, sono quelle dello Yemen, della Siria, dell’Afghanistan, della Repubblica Centrafricana e dell’Iraq. Senza dimenticare i rapimenti effettuati dal gruppo di integralisti islamici Boko Haram in Nigeria e il ricorso sempre più frequente a bambini soldato (e kamikaze) da parte dei combattenti dell’Isis.

Quattro casi nel 2014, diventati 44 nel 2015. I combattenti del gruppo radicale Boko Haram, attivo in Nigeria, Camerun, Ciad e Niger, utilizzano sempre più i bambini kamikaze come arma per la loro guerra santa. A lanciare l’allarme è un rapporto Unicef pubblicato nello scorso mese di aprile, che spiega come i piccoli siano diventanti a tutti gli effetti parte dell’arsenale dei militanti islamici. Vittime innocenti convinte o costrette a farsi saltare in aria in nome della jihad. «Ma occorre essere chiari – ha ammonito Manuel Fontaine, direttore regionale dell’agenzia delle Nazioni Unite per l’Africa centrale e occidentale –, lo-

Nel 2015, 44 casi. I combattenti di Boko Haram, attivo in Nigeria, Camerun, Ciad, utilizzano sempre più i bambini come arma per la loro guerra 58 Scarp de’ tenis agosto-settembre 2016

© UNICEF/UN03392/Fleury

riore a quella degli adulti. I

© UNICEF/UNI184725/Le Du2015

In Europa la percentuale dei bambini indigenti è superiore a quella degli adulti. Nei 41 Paesi più agiati del mondo, 77 milioni di bambini vivono in condizioni di povertà monetaria

fronte a un bivio: o investiamo per questi bambini adesso, oppure contribuiremo a rendere il nostro mondo ancora più diseguale e diviso». È proprio questa la parola chiave: investire. Investire soprattutto nel capitale umano: in media, ogni anno di scuola in più per un bambino si traduce, da adulto, in un incremento di circa il 10% della propria retribuzione. E, in media, per ogni anno di scuola in più completato dai suoi giovani, il tasso di povertà di quel paese diminuisce del 9%. Ma, fatte le dovute proporzioni, anche nel mondo ricco un numero non indifferente di bambini ha bisogno di aiuto. Nei 41 Paesi più agiati, ancora oggi 77 milioni di minorenni versa in condizioni di povertà monetaria. E in Eu-

ro sono le vittime, non certo gli autori degli attacchi». Gli islamisti hanno d’altra parte ampia “scelta”: basti pensare ai milioni di bambini costretti ad abbandonare le loro case in varie parti del mondo per via dei conflitti armati.

In Siria, ad esempio, si registra un aumento del reclutamento di ragazzini sempre più giovani da parte dei combattenti dello Stato Islamico. «All’inizio – si legge nel rappor-

to – si trattava soprattutto di adolescenti. Ma nel 2015 più della metà


© UNICEF/UN03392/Fleury

In alto. Due giovani ragazze frequentano le lezioni nelle scuole allestite nel campo profughi di Sayam Forage e di Assaga, in Niger A fianco: Bambari, Repubblica Centrafricana, si distribuiscono armi ai bambini

IL PUNTO

Gli Obiettivi per lo Sviluppo sostenibile dell’Onu

dei bambini soldato mandati al fronte ha meno di 15 anni». I militanti dell’Isis insegnano loro a combattere, sparare, trasportare armi. L’Unicef ha raccontato la storia di Houda, appena quattordicenne, obbligata a combattere: «Ero terrorizzata. Il comandante mi ha dato un’arma e mi ha detto di tenermi pronta». È riuscita a fuggire in un campo profughi in Giordania: come altri 15 mila bambini siriani che hanno varcato le frontiere del loro paese soli, senza genitori né familiari, dall’inizio della guerra.

In Siria si registra un aumento del reclutamento di ragazzini sempre più giovani da parte dei combattenti dello Stato Islamico

Alla fine del scorso mese di settembre 2015, le Nazioni Unite hanno approvato a New York i nuovi “Obiettivi per lo Sviluppo sostenibile”. Come riportato da Scarp ai propri lettori in un dossier ad hoc, si tratta della riedizione degli otto “Obiettivi del Millennio per lo sviluppo”, lanciati nel 2000: con il nuovo programma si vuole cercare di garantire un futuro migliore agli 8,5 miliardi di persone che abiteranno la Terra nel 2030. L’iniziativa assunta dai 193 Paesi che compongono le Nazioni Unite appare particolarmente ambiziosa. «I nuovi obiettivi sono stati fissati dai Paesi membri assieme a numerosi attori della società civile, al contrario di quelli del 2000, che erano stati approvati solamente dai governi», aveva spiegato al quotidiano francese Le Monde Anne-Laure Jeanvoine, consigliera del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (Pnud). Tra gli obiettivi fissati dalla comunità internazionale, c’è quello che prevede di «eliminare la povertà in tutte le sue forme», partendo dall’assunto che 800 milioni di persone vivono ancora con meno di 1,25 dollari al giorno. Quindi, si punta a lottare contro fame e disuguaglianze, a migliorare l’accesso ai servizi sanitari, all’acqua potabile e all’istruzione.

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aforismi

POESIE

di Emanuele Merafina

Sentieri Percorriamo i sentieri delle antiche terre, dove innesti di alabastro fanno da sponda alle fiumane di ricordi ancestrali. Da che è la vita, da quel primo pensiero, la nebbia fa da cornice a tonalità di canti magistrali. Ed ora è dato a noi lasciare il segno, un prezioso tocco, distendendo con amore le nostre originali ali. Mino Beltrami

A contatto con la scure Sentire in ogni momento sempre lo stesso lamento finché non sale lo sgomento tornare a casa con un treno che sferraglia lento e il giorno dopo ti svegli con la testa di cemento e sopporti ancora lo stesso tomento. Ma chi te lo fa fare di stare ad ascoltare chi non sa nemmeno parlare sanno solo gridare e non se ne vogliono andare nemmeno quando le parole diventano come il canto delle zanzare e solo di una cosa t’accorgi che nella loro stessa melma sanno remare e questo dovrebbe farli tremare. Ma se c’è qualcuno che una poesia ti sa sussurrare corri da lui non farlo aspettare. Ferdinando Garaffa

L’amore costa caro C’è un prezzo a tutto. Ma quando tu sei povero, e tutto costa caro, cosa fai? Niente! La povertà oggi è niente. Quando incominci ad abituarti alla puzza del cemento. Al rumor speranza di chiavi titillanti, che dall’aprir e chiudere di cancelli, danno ogni giorno un’occasione di riscatto al tuo cuore. Anche se ogni giorno è una lotta continua. Sembra di star in un mercato, e trattar con mercenari. Che rilanciano di prezzo in prezzo. Il chiaror della luna, e il baglior del sole. La libertà è di costo pesante. Ma ciò che fa paura è che qui anche l’amore costa caro. Fabio Schioppa

Felicità La felicità è stare in buona salute sempre e avere cattiva memoria

L’anima si rivela felice L’immagine che ho cuore innamorato che come una cerbiatta impaurita sfugge all’amore. Nel segreto di una poesia dove ripongo tutte le mie speranze di gioia interiore. In una magia di un grande mago l’anima si rivela felice. E vola in un vortice di note stupende in una sinfonia meravigliosa. Dove la vita esprime un gran sentimento. Armando Marchesi

Nuvola Corso Palladio, un violino suona. Il suo suonatore segue l’onda della musica. Mi fermo, lo osservo, il suo corpo ondeggia, sembra voglia dare voce alla musica. Mi avvicino e chiedo il suo nome: Nebojsha o Nuvola. Lo trovo una persona vissuta e molto particolare. Così ci lasciamo da buoni amici. È passato qualche giorno. Ed ora Nuvola fa parte del gruppo di Scarp. L’idea di un giovane volontario Nuvola col suo violino allieta il gruppo, però per vivere continua a suonare in strada. della Ronda della carità di Milano: Un vero artista. Carlo Mantoan una App contro lo spreco alimentare

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INCONTRI

LABORATORI

AUTOBIOGRAFIE

CALEIDOSCOPIO

Babu viene dal Bangladesh e spera di diventare artista a tempo pieno. Lavora in un ristorante e propone la sua arte in strada

Babu che sogna di vivere della sua arte Babu arriva dal Bangladesh e, come diversi suoi connazionali, ha iniziato a vivere nella nostra penisola con lavori di fortuna, dal vendere fiori e souvenir ai turisti, a qualche impiego saltuario nel commercio, nel settore edile e nella ristorazione. Da quattro anni è diventato un artista di strada e, dopo aver girato lo stivale in lungo e in largo, si è stabilito a Milano. La sua specialità è la painting art con bombolette di colore a spruzzo, una tecnica di pittura imparata all’accademia d’arte di Dacca. «Mi piace lavorare qui in mezzo alla gente – racconta – ma quello che raccolgo non basta per vivere. Nei week end mi dedico all’arte ma durante la settimana, per vivere, lavoro in un ristorante. Oggi va così, ma spero un giorno di riuscire a vivere della mia arte». Incontriamo Babu in corso Vittorio Emanuele, circondato dai colori sgargianti dei suoi attrezzi da lavoro e accompagnato dalle note di musica pop indiana. I disegni che realizza sono spesso ispirati dai suoi sogni e dalle visioni: «Ogni tanto qualcuno mi Antonio Vanzillotta chiama per decorare muri o pareti con la mia arte. È un inizio. Sono contento». agosto-settembre 2016 Scarp de’ tenis

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NAPOLI

PAROLE

Un attore dal cuore grande per lo spettacolo ScarpNoStop

Un momento dello spettacolo realizzato dai venditori di Scarp Napoli nella metro cittadina grazie alla collaborazione di Alfredo Giraldi

Alfredo Giraldi, uomo di teatro Alfredo Giraldi è un attore e burattinaio nato a Napoli nel 1972. Nel 2002 si diploma alla scuola delle Guarattelle di Napoli diretta da Bruno Leone seguendo dei corsi sul teatro di figura con Salvatore Gatto, Mimmo Cuticchio, Roman Paska e Roberto Vernetti. Il teatro di figura, cioè raccontare le storie per strada

La bellezza del teatro di strada: non è elemosina

con burattini, marionette che a Napoli si chiamano guarrattelle, gli piace molto, in particolare ama il “cunto siciliano” che si basa sui combattimenti di cavalieri medievali. Per Alfredo, il teatro, non fa distinzione fra quello di strada e quello di palcoscenico. Come attore ha iniziato con Corrado Taranto, nipote del grande Nino e alterna il teatro di strada con quello classico lavorando con diverse compagnie. In particolare con la cooperativa teatrale Magazzini di Fine Millennio di Napoli ha partecipato a numerosi spettacoli tra i quali Semafori Blu di Michele Monetta, vincitore del premio come miglior spettacolo al 26° Festival del teatro per i ragazzi di Padova. Nel 2011 fonda la compagnia La Carrozza d’oro con Pasquale Napolitano e Luana Martucci e con il lavoro “Ogni immagine di questa terra” vengono premiati come spettacolo più innovativo alla rassegna In mota manens di Salerno. Le strade che gli piace ricordare sono due: una gliela hanno raccontata ed è o vico d’e Munacelle, piccolo vicolo in salita che sua madre percorse a piedi per andare a farlo nascere all’ospedale degli Incurabili. L’altra è via Acton, strada con dei giardini affacciati sul golfo con vista sul mare e sul Vesuvio dove si fermava a scrivere poesie e appunti per i suoi lavori teatrali. Alfredo ha sempre lavorato nel sociale, è sempre stato vicino ai più deboli. Come non ricordare l’esperienza con i ragazzi del carcere minorile di Nisida o il suo impegno con lo spettacolo Questioni di Lunadove recitano un gruppo di persone con sindrome di down. Alfredo vive a Caivano, una delle periferie napoletane. Luciano D’Aniello

Napoli è una città teatro. Basta camminare per le sue strade ed assistere a veri e propri sketch. Viene naturale, d’istinto e senza scopi ai miei concittadini. C’è poi il teatro vero, quello che si esibisce su un palco all’apertura di un sipario. E c’è un terzo teatro: il teatro di strada. Esibire in pubblico le proprie doti è un piacere da provare, anche se lo scopo principale era e rimane quello di guadagnare offerte. Ma non bisogna confonderlo con la richiesta di elemosina. Si tratti di mimi, di cantanti, di musicisti; sono artisti che danno qualcosa agli spettatori che partecipano, sorridono, applaudono . Il teatro di strada fa parte di Napoli e dei napoletani. È un cuore che pulsa. Persone che non si conoscono ma in quel momento si sentono accomunati da una stessa emozione. Giuseppe Del Giudice

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PAROLE

Lo spettacolo di strada ScarpNoStop è nato grazie a un percorso fatto insieme al regista Alfredo Giraldi. Scopo dello spettacolo era di recitare poesie, battute e canzoni scritte da tutti noi per far conoscere il nostro giornale. Alfredo è uno che la strada la conosce e la frequenta. Conosce tanta gente. Non è tanto alto ed è paffutello. Vive a Caivano, provincia di Napoli, al parco verde zona non proprio residenziale. Da ragazzo era catechista e dovevano andare in seminario lui e il fratello ma capì che non era la sua strada. Il fratello è diventato sacerdote ma la sua strada era l’artista di strada di burattini. Ama molto i bambini, e il suo lavoro lo ha portato in giro per le città. Ha finito da poco uno spettacolo con delle persone con la sindrome di down a Marigliano insieme all’associazione Luoghi Comuni. La cosa che mi ha fatto immenso piacere è che Alfredo ha preso degli articoli di Scarp e ha creato uno spettacolo sugli immigrati. Anche noi abbiamo preso i nostri racconti e gli abbiamo dato vita ed emozione. Alfredo è una persona dal cuore grande e vuole bene alle persone. Con noi venditori di Scarp ha avuto una pazienza infinita e, grazie a lui, abbiamo creato un bel gruppo. All’inizio per me è stato un gioco. Mettermi in gioco, però, alla fine mi è piaciuto e spero che ci porterà grandi cose. Maria Esposito


CALEIDOSCOPIO

Vincenzo (seduto, il primo da destra) insieme agli ospiti della So-Stare

Vincenzo ha un rifugio, dopo 9 anni di accoglienza di Paolo Riva

Il nonno è entrato in casa di riposo. Può sembrare il finale triste della vita di un anziano. E, invece, è la conclusione positiva di un percorso di accoglienza importante, uno di quelli che hanno segnato l’esistenza della Casa della carità.

scheda Fondazione Casa della carità Via Francesco Brambilla 10 Milano Centralino 02.25.935.201 - 337 Fax 02.25.935.235 Il centro d'ascolto è aperto dal lunedì al venerdì, dalle 9.30 alle 12.30.

Già perché Vincenzo, il protagonista di questa bella storia, è stato ospite in via Brambilla per ben 9 anni, dal 2006 a poche settimane fa. «La sua è un’eccezione, certo, ma un’eccezione significativa, che ben spiega il nostro stile di accoglienza – dice Iole Romano, una delle operatrici della Fondazione che più ha seguito Vincenzo –. Anche se è difficile fare una media, le persone vengono solitamente ospitate alla

Casa per alcuni mesi, al massimo uno o due anni. Con tutti però si cerca di costruire percorsi di autonomia personalizzati, adatti alla storia e alle risorse di ciascuno. E anche ai tempi». Un percorso articolato Per Vincenzo ci è voluto un po’ più del solito. Prima, è stato seguito dal nostro progetto Diogene, che con la sua unità di strada incontra homeless con problemi psichici direttamente in strada e propone loro di venire ospitati dalla Casa della carità. Quindi, è stato accolto nelle stanze da sei dell’accoglienza uomini e, infine, si è spostato al secondo piano, alla comunità So-Stare, per persone con problemi di salute mentale. «La prima volta che l’ho

Dopo nove anni di permanenza alla Casa della carità Vincenzo ha oggi un posto tutto suo in una casa di riposo. Un piccolo grande successo

incontrato, era arrivato da poco – ricorda Iole –. Era schivo, aveva il broncio e, se devo essere sincera, aveva anche un cattivo odore. Il suo è stato un percorso lungo, ma costante. È iniziato con la cura dell’igiene personale, è proseguito con l’assistenza legale per rifare i documenti smarriti e ottenere la pensione di invalidità. Quando è arrivato a So-Stare è stato ben accolto dagli altri ospiti, che in lui hanno visto la figura del nonno da rispettare. Lui stesso ha instaurato buone relazioni con tutti, compresi operatori e volontari». Con uno di questi, Lino, in particolare, Vincenzo ha stretto un legame speciale, al punto che andava spesso a trovarlo per le vacanze in Toscana, in autunno e primavera. Con gli altri ospiti, invece, il passatempo preferito erano le carte: il gioco di scala 40 è stato un appuntamento fisso di ogni sabato pomeriggio, per Vincenzo. Vincenzo ora è sereno «La cosa più bella è stata sentire che Vincenzo, col passare del tempo, ha iniziato a fidarsi davvero di noi operatori», riflette Iole. E così anche la proposta di pensare ad un’uscita dalla Casa della carità è stata accolta positivamente. «All’inizio, era sorpreso: “Pensavo di morire qui”», ci ha detto. Poi, piano piano, si è messo nell’ottica di trasferirsi in una residenza per anziani». Fatte tutte le pratiche burocratiche e attesi alcuni mesi, alla fine è arrivata la notizia che si era liberato un posto in una casa di riposo fuori Milano. Il trasferimento, però, è stato programmato subito dopo un ultimo importante momento: le vacanze al mare con la comunità SoStare al completo. Per tre giorni, a Rimini, Vincenzo si è goduto la compagnia di quella che in questi anni è stata la sua famiglia, sfoderando anche una certa maestria nel gioco delle bocce. Non solo. È stato così bene che è riuscito a vincere anche la sua consueta ritrosia nei confronti delle foto e si è lasciato immortalare in uno scatto di gruppo. Che ora fa bella mostra di sé nella sua nuova stanza». agosto-settembre 2016 Scarp de’ tenis

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COMO

ArteAparte, in mostra anche artisti senza dimora Nato come semplice corso di pittura si è poi trasformato in uno strumento capace di abbattere molti pregiudizi sugli homeless Cos’hanno in comune il centro diurno della Caritas di Como, l’Accademia di Belle Arti e una serie di microrealtà locali a cominciare dai bambini e dai catechisti dell’oratorio di Breccia? Almeno due cose: inquadrare la figura del senza dimora nell’ottica delle risorse e delle opportunità anche “culturali” e sociali e l’idea che l’arte possa in tal senso prestarsi al recupero di potenzialità in soggetti classificati come “svantaggiati”. Trascorso un anno dal varo del corso di pittura tenuto nei locali del chiostrino di Sant’Eufemia dall’architetto Doriam Battaglia a beneficio di una trentina di partecipanti, dei quali il 40% rientrava nella famigerata categoria dei senza dimora, è venuto il momento di affilare le armi in vista di un potenziamento dell’iniziativa, nata nel circuito messo in azione dai progetti “Vicini di strada” e “S-coinvolgimenti Sociali”, a cura della Rete degli enti e servizi per la grave marginalità, e finanziati attraverso i Bandi Volontariato 2014 (Regione Lombardia e Fondazione Cariplo/CSV). Un successo insperato «Il buon successo riscosso in occasione della mostra dei lavori dello scorso anno, ribattezzata “ArteAparte” –racconta Battaglia –, è stato per noi uno stimolo a proseguire una collaborazione che ha incontrato consenso da parte della cittadinanza. Se il consuntivo del primo anno è positivo sia per il numero di partecipato, sia per la qualità dei lavori realizzati, speriamo per il prossimo anno di ripetere il successo. A fun64 Scarp de’ tenis agosto-settembre 2016

Il corso di pittura per persone con e senza dimora. La mostra delle opere è servita ad abbattere alcuni stereotipi

gere da trait-d’uniontra il laboratorio concluso e quello che ripartirà in settembre, dal 14 al 18 giugno le opere sono andate in mostra nel chiostrino di Sant’Eufemia. Speriamo che il buon riscontro della manifestazione possa aprire nuove relazioni con la città ». A battere la grancassa su questo punto è l’operatrice Viviana Rovi. «Il laboratorio è andato evolvendosi nel tempo non solo per il livello qualitativo delle opere, sensibilmente cresciuto rispetto alle esitanti prove iniziali ma, soprattut-

to, per la complessiva esternalizzazione che lo ha portato ad “aprirsi” alla città: nato per le persone senza dimora, il progetto si è reso visibile certificando l’assunto di base secondo cui i cittadini senza tetto possono mettere in gioco una vera e propria fucina di competenze e risorse che abbattono lo stereotipo abituale, che li vorrebbe poveri, emarginati, ignoranti e incapaci di provvedere a loro stessi. L’obiettivo era di trasferire un corso partito dal centro diurno in un ambiente più bello, in cui chiunque potesse operare senza essere giudicato per la propria realtà di normalità o di disagio. Ciò ha richiamato l’attenzione dei cittadini “normalizzati”, che si sono a tal punto appassionati al corso di pittura da rappresentarne alla fine la componente più numerosa. Ora è giunto il momento di mutare l’ottica e le strategie per approfondire e valorizzare le risorse che i cittadini con e senza dimora hanno scoperto di possedere, mettendo a frutto l’impegno assicurato da Doriam Battaglia che, tengo a sottolineare, non ha accettato un solo centesimo di rimborso per sue prestazioni». La mostra è servita anche come spunto di riflessione per annotare su uno specialissimo “Diario” qualche pensiero dei protagonisti sul significato dell’esperienza vissuta. Artisti con e senza dimora Carlo, pensionato solitario, dice di aver riscoperto la voglia di andare incontro ad amici che ti «fanno sentire vivo, semplicemente accolto e coccolato, nel dare e ricevere piacere attraverso il gesto e il colore». Antonella ne ha ricavato un’occasione «di crescita personale in cui socializzare e sentirsi realizzata». Carmen ha «sentito il suo cuore depositarsi in uno spazio di quiete e di benessere». Tra le opere maggiormente apprezzate, sia dal pubblico “comune” che dagli stessi addetti ai lavori quelle del 33enne eritreo Kibrom Gebregrubhey e quelle di Oscar Gherardi, Emanuele Mazzetto e Samuel Keita, senza dimenticare i lavori su temi arboricolo-floreali di Rita Frigerio, cittadina “con” dimora. Salvatore Couchod


SCIENZE

scientifici e riviste o siti come Le Scienze e Italia Unita per la Scienza. Diffidate di blogger improvvisati e presunti esperti: molte di queste persone, infatti, pur essendo in buona fede, non riportano notizie accurate a livello scientifico, ma si fanno guidare a loro volta da sentimenti, pregiudizi e bufale che possono diventare molto pericolose. I motivi trainanti delle bufale sono i complotti di lobbies e di multinazionali di vario tipo che vogliono nasconderci la verità . Molte di queste osservazioni hanno dei piccoli fondi di verità, ma servono in realtà per rendere verosimile un allarme o un’accusa indimostrabile.

Difendersi dalle bufale con un’informazione corretta di Federico Baglioni

scheda Federico Baglioni Biotecnologo, divulgatore e animatore scientifico, scrive sia su testate di settore (Le Scienze, Oggi Scienza), che su quelle generaliste (Today, Wired, Il Fatto Quotidiano). Ha fatto parte del programma RAI Nautilus ed è coordinatore nazionale del movimento culturale “Italia Unita Per La Scienza”, con il quale organizza eventi contro la disinformazione scientifica.

Informarsi correttamente è un compito davvero difficile, specie se si parla di argomenti fondamentali in cui non abbiamo grandi conoscenze. Come fare a capire allora se ci stanno dicendo la verità?

Dove si trovano i dati scientifici? Nelle riviste di settore (come Nature), che pubblicano solo gli articoli scientifici di qualità: i dati devono essere infatti chiari, completi e l’esperimento dev’essere scritto in modo che uno scienziato dall’altra parte del mondo possa riprodurlo.

Ipotizziamo che si senta dire in giro che un determinato prodotto fa male alla salute. Partiamo dal presupposto che il nostro cervello è abituato a essere diffidente e semplificare: è il motivo per cui siamo spaventati da tutto ciò che è “moderno” e ci viene naturale accusare qualsiasi sostanza, specie se relativamente nuova, di essere la causa di malattie e altre cose terribili. Purtroppo (o per fortuna) le cose sono spesso molto diverse e sono i dati scientifici disponibili a parlare. Chiedetevi quindi chi vi sta dicendo la notizia: un medico o uno scienziato saranno molto più competenti di un opinionista o un personaggio dello spettacolo.

Attenti alle fonti Se non si ottiene lo stesso risultato probabilmente c’è qualcosa che non va. Fare esperimenti richiede tempo e non sempre l’interpretazione è così facile, a maggior ragione per chi non è del settore; ecco perché su temi delicati come la possibile relazione di sostanze con il cancro bisogna fare numerosi studi, al termine dei quali si può dare un parere veramente attendibile. Sarà quindi la comunità scientifica, ovvero l’insieme di esperti su un determinato tema, a esprimere un parere in base ai dati. Questi pareri sono spiegati al grande pubblico anche da divulgatori, giornalisti

Uno studio non basta A volte vengono citati scienziati che “dimostrerebbero” la dannosità di qualche prodotto: spesso però questi non sono veri scienziati e chi li cita ha copiato frasi da siti di dubbia affidabilità o li ha volutamente mal interpretati. Vale comunque la regola che non è il singolo scienziato a contare, ma i dati portati dall’insieme degli scienziati; è infatti molto più probabile che sia il singolo a sbagliarsi piuttosto che ricercatori sparsi in tutto il mondo. In conclusione, molte affermazioni non hanno alcun dato a supporto, ma diventano virali per il loro coinvolgimento emotivo, la presenza di complotti e perfino la sua apparente sensatezza. Bisogna invece affidarsi sempre a persone competenti che a loro volta si devono affidare a dati scientifici solidi. Perché la scienza ha un carattere bello e al tempo stesso irritante: a volte è assolutamente logica, altre volte è totalmente controintuitiva. Per questo motivo dobbiamo stare attenti a non cadere nelle trappole, a cominciare da quelle del nostro cervello.

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Le persone in stato di difficoltà a cui Scarp de’ tenis ha dato lavoro nel 2015 (venditori-disegnatori-collaboratori). In 20 anni di storia ha aiutato oltre 800 persone a ritrovare la propria dignità

IL VENDITORE DEL MESE

Mimmo ha ripreso in mano la propria vita e quella della sua famiglia. Ha voglia di rimettersi in gioco, grazie a Scarp

Mimmo Dopo il carcere una nuova vita: «Scarp è stato una via d’uscita» di Marta Capuozzo

info La redazione di Scarp Napoli garantisce lavoro a una quindina di venditori che operano in 72 parrocchie cittadine. Ogni settimana c’è un laboratorio di scrittura (giornalistica, narrativa e di poesia) e uno formativo.

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NAPOLI

Mimmo Capuozzo è uno dei volti storici di Scarp Napoli: ha 49 anni, è un redattore e venditore che partecipa, ama essere sempre in prima linea nelle attività di gruppo, dalla cucina ai laboratori creativi fino ai workshop di scrittura. Ha conosciuto il progetto per la prima volta nel 2001 e ci è rimasto per un bel po’, con un’interruzione di un anno dovuta a problemi con la giustizia: dal 2005 al 2006, infatti, Mimmo ha trascorso un anno nel carcere di Poggioreale. Uscito di lì ha poi deciso di tornare nel posto in cui, secondo le sue stesse parole, aveva «sentito qualcosa di buono». Una sensazione, un richiamo che lo ha spinto a tornare ad impegnarsi con l’équipe di Scarp ed il gruppo di altri ex senza dimora. Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti, e Mimmo non potrebbe sentirsi più diverso rispetto ai suoi primissimi anni da redattore di strada: «Dieci anni fa mi sentivo smarrito, era come se navigassi sempre in circolo – racconta –. Cercavo una via di uscita ma ricadevo sempre in quella stessa traiettoria circolare».

Sono molti i momenti cruciali di questi anni che hanno cambiato il destino di Mimmo e gli hanno dato una nuova rotta: più di tutti, a lui piace ricordare un insegnamento che viene dallo scrittore Herman Hesse e dal suo capolavoro Siddharta, una delle letture che più lo ha appassionato, reperito nella biblioteca di Scarp: «Una volta gli chiesero cosa sapesse fare e lui rispose “Non so fare niente: so solo digiunare e aspettare”. È una cosa che mi ha fatto riflettere e mi è servita molto: imparare ad avere pazienza e conquistarsi le cose le fa assaporare molto di più. Questa pazienza mi è servita e mi serve tutt’ora per dare il buon esempio alla mia famiglia, per permettermi di esserci davvero e di non fargli perdere la rotta insieme a me». Oggi infatti, anche grazie a Scarp, che gli ha fatto incontrare la sua attuale compagna Maria, madre di due figli, Mimmo vive con la sua nuova famiglia e guarda dritto davanti a sé con una nuova, rinnovata speranza e consapevolezza: «Ho voglia di rimettermi in gioco. Mi piacerebbe dedicarmi al prossimo, lavorare con le persone».




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