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numero 166 anno 17 novembre 2012

3 00€

Spedizione in abbonamento postale 45% articolo 2, comma 20/B, legge 662/96, Milano

il mensile della strada

de’tenis www.scarpdetenis.it

ventuno Coopero, e reggo alla crisi

Torno in Cina?

Ragazzi contesi tra due mondi

L’Italia è in crisi, la loro terra d’origine ormai un gigante economico. I figli dell’immigrazione cinese si interrogano: alcuni tentano la fortuna in patria, altri sfruttano i vantaggi della doppia identità Milano Tempio delle bici Como Bassone in rivolta Torino Dorme dove lavora Genova Ripara e Impara Vicenza Notte di emozioni Modena Bene o meglio? Rimini Il rischio attrae Firenze Scambi europei Napoli Esordiente e veterano Salerno Giovani al buio Catania L’altra città in piazza


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editoriali

Pregiudizi senza più scuse, ora passiamo all’azione Paolo Brivio

N

e sappiamo di più. Molto di più. Meglio: ne sappiamo in modo molto più sistematico. E, soprattutto, comprovato da un metodo scientifico di rilevazione. Cognizioni e convinzioni che molti soggetti (tra i quali Scarp) avevano sin qui fondato sulla propria esperienza (di condivisione, lavoro e servizio), ora trovano eco in una ricerca statisticamente attendibile. Se in questo numero torniamo sull’indagine condotta da Istat e Fio.psd, e finanziata da ministero del welfare e Caritas, relativa alla realtà vissuta, oggi, in Italia, dalle persone senza dimora, è perché – per la prima volta – ci consegna un panorama di conoscenze vasto, artiRoberto Davanzo colato, incontestabile, condiviso tra soggetti pubblici e privati. Solo la direttore Caritas Ambrosiana pigrizia, mentale e culturale, di chi preferisce attenersi ai propri pregiudizi, piuttosto che ai dati di realtà, potrà consentire di affermare, d’ora in poi, che il problema riguarda poche persone, concentrate n queste settimane la questione migranelle grandi città, incapaci di mantenere un aspetto decoroso e retoria è tornata alla ribalta. Si è chiusa da lazioni “urbane”, impossibilitate a tornare a una vita normale, sopoco la “finestra” utile per accedere alla sastanzialmente pigre e svogliate e comunque refrattarie al lavoro, natoria, finalizzata a far emergere quanti lavobeneficiate da servizi sufficienti. Il “barbone metropolitano vorano “in nero” almeno dal 31 dicembre scorso. È lontario”, e se non felice di esserlo quantomeno convinto di ristato appena presentato a livello nazionale e remanerlo, cede la scena ad altre rappresentazioni: le quali racgionale il 22° Dossier statistico immigrazione Cacontano dei meccanismi di esclusione in atto nel nostro siritas-Migrantes, dal titolo eloquente Non sono nustema sociale ed economico, della vulnerabilità e dell’immeri. Ci avviciniamo infine alla conclusione di quelpoverimento sperimentati – in ultima analisi – da un’ampia la che è stata definita l’ “emergenza Nord Africa” e dei porzione della popolazione, delle inadempienze delle poprogetti e finanziamenti attivati dal governo italiano litiche di prevenzione e di lotta alla povertà e all’emargidopo gli sbarchi del 2011, senza però che quanti sono nazione. La scelta romantica della strada come luogo stati ospitati – anche in strutture legate al mondo Caritas della libertà personale e dell’irresponsabilità sociale è – abbiano trovato un adeguato riconoscimento delle louna bufala definitivamente svelata come tale. Non varo richieste di asilo, se non in minima percentuale. le nemmeno più la pena di soffermarvisi. Dunque, il fenomeno migratorio mantiene in Italia, ma Questo risultato, però, non basta di per sé a giunon solo, il suo carattere di fenomeno strutturale e insieme stificare il grande e prolungato sforzo prodotto per reaemergenziale. Basti pensare che si stima che nel 2065 la polizzare l’indagine. Certo, oggi ne sappiamo di più. Ma polazione italiana sarà grossomodo pari all’attuale, e gli ora dobbiamo fare di più. Se non contribuiscono a instranieri però quattro volte più numerosi di adesso, con un ruolo sempre più organico nell’assistenza agli anziani e nel nescare (o correggere, calibrare, rafforzare) scelte, insistema produttivo. Malgrado ciò, non ci pare di assistere terventi, servizi e politiche, i dati servono a ben poco. a decisioni strategiche e lungimiranti. Ancora girano le Reddito minimo, residenza anagrafica come “diritto preleggende metropolitane secondo cui gli immigrati sotliminare” (e non benevola concessione amministrativa), trarrebbero risorse agli italiani e solo il 2% delle notizie iniziative di housing, integrazione tra interventi sociali e presenta l’immigrazione in una luce positiva. Si tace ad sanitari, risposte non solo di bassa soglia ai bisogni priesempio sul fatto che gli immigrati sono più giovani e mari (vanno bene dormitori e mense, ma forse adesso dal tasso di attività più elevato, più disponibili a ogni serve altro), percorsi di inserimento lavorativo o di occutipo di lavoro, pronti a spostarsi, più intraprendenti a pazione “dotata di senso” (per la persona e la comunità), livello imprenditoriale, mentre risulta positiva la biriconoscimento dei diritti di cittadinanza agli stranieri: Paolancia tra costi e benefici dell’immigrazione per le caslo Pezzana, presidente Fio.psd, ha puntualmente elencato, se statali (la stima è di 1,7 miliardi di euro). nell’intervento condotto in occasione della presentazione Trattarli bene, modificare norme vessatorie e lendella ricerca, gli ambiti di lavoro su cui istituzioni (in pritezze burocratiche che rendono umilianti le richieste di mis) e privato sociale si devono concentrare. Finita la permessi, certificati, documenti... non è umanitarismo stagione dell’approssimazione statistica, battiamoci buonista! Èuna scelta di buon senso, se si ha a cuore il fuinsieme perché declini anche il tempo della neglituro dell’Italia, e di tutti coloro che vi abiteranno. genza (in senso lato) politica.

Una scelta di buon senso

I

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sommario Fotoreportage

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Wabi-Sabi, bellezza di vite imperfette p.6

Scarp Italia La ricerca

Cos’è È un giornale di strada non profit. È un’impresa sociale che vuole dar voce e opportunità di reinserimento a persone senza dimora o emarginate. È un’occasione di lavoro e un progetto di comunicazione. È il primo passo per recuperare la dignità. In vendita agli inizi del mese. Scarp de’ tenis è una tribuna per i pensieri e i racconti di chi vive sulla strada. È uno strumento di analisi delle questioni sociali e dei fenomeni di povertà. Nella prima parte, articoli e storie di portata nazionale. Nella sezione Scarp città, spazio alle redazioni locali. Ventuno si occupa di economia solidale, stili di vita e globalizzazione. Infine, Caleidoscopio: vetrina di appuntamenti, recensioni e rubriche... di strada!

dove vanno i vostri 3 euro Vendere il giornale significa lavorare, non fare accattonaggio. Il venditore trattiene una quota sul prezzo di copertina. Contributi e ritenute fiscali li prende in carico l’editore. Quanto resta è destinato a progetti di solidarietà.

Redazione centrale - milano cooperativa Oltre, via Copernico 1, tel. 02.67.47.90.17 fax 02.67.38.91.12 scarp@coopoltre.it Redazione torino associazione Opportunanda via Sant’Anselmo 21, tel. 011.65.07.306 opportunanda@interfree.it Redazione Genova Fondazione Auxilium, via Bozzano 12, tel. 010.52.99.528/544 comunicazione@fondazioneauxilium.it Redazione Vicenza Caritas Vicenza, Contrà Torretti 38, tel. 0444.304986 - vicenza@scarpdetenis.net Redazione rimini Settimanale Il Ponte, via Cairoli 69, tel 0541.780666 - rimini@scarpdetenis.net Redazione Firenze Caritas Firenze, via De Pucci 2, tel.055.267701 addettostampa@caritasfirenze.it Redazione napoli cooperativa sociale La Locomotiva largo Donnaregina 12, tel. 081.44.15.07 scarpdenapoli@virgilio.it Redazione Catania Help center Caritas Catania piazza Giovanni XXIII, tel. 095.434495 redazione@telestrada.it

L’inchiesta/1 Salmoni e surfisti, figli di due mondi p.20

L’inchiesta/2 Sanatoria: Ahmed l’emerso, uno tra pochi p.24

Come leggerci

Per contattarci e chiedere di vendere

Homeless in Italy: il popolo dei quasi 50mila p.12

L’esperienza Teatro e carcere: filo di speranza p.26

Scarp città Milano Ciclofficina, tempio delle bici in città p.30 Mattina al mercato: tanti frugano tra i rifiuti p.36

Como Giromobili, perchè non basta avere una casa p.39

Torino Il comune non paga, welfare allo stremo p.40

Firenze Scambi europei, pensieri in moschea p.43

Genova Volante alcolico? Ripara e impara p.44

Vicenza Notte senza dimora, tra canzoni ed emozioni p.46

Modena Bene o meglio? La vita non è uno spreco p.48

Rimini Pericolo o sfida? Il rischio che attrae p.50

Napoli Antonio e Umberto, consigli da venditori p.52

Salerno Luci d’artista, giovani al buio p.54

Catania Parole in piazza per l’altra città p.56

Scarp ventuno Dossier Coopero, dunque reggo p.60

Stili Donne in campo, agricoltura in rosa p.64

Caleidoscopio Rubriche e notizie in breve p.69

scarp de’ tenis

Il mensile della strada Da un’idea di Pietro Greppi e da un paio di scarpe - anno 17 n. 166 novembre 2012 - costo di una copia: 3 euro

Per abbonarsi a un anno di Scarp: versamento di 30 € c/c postale 37696200 (causale AbbonAmento SCArP de’ tenIS) Redazione di strada e giornalistica via Copernico 1, 20125 Milano (lunedì-giovedì 8-12.30 e 14-16.30, venerdì 8-12.30), tel. 02.67.47.90.17, fax 02.67.38.91.12 Direttore responsabile Paolo Brivio Redazione Stefano Lampertico, Ettore Sutti, Francesco Chiavarini Segretaria di redazione Sabrina Montanarella Responsabile commerciale Max Montecorboli Redazione di strada Antonio Mininni, Lorenzo De Angelis, Tiziana Boniforti, Roberto Guaglianone, Alessandro Pezzoni Sito web Roberto Monevi, Paolo Riva Hanno collaborato Aghios, Ambrogio, Mr. Armonica, Andrea Barolini, Damiano Beltrami, Tony Bergarelli, Simona Brambilla, Domenico Capuozzo, Elisa Cappelli, Giovanni Catanzaro, Domenico Casale, Antonio Casella, Salvatore Couchoud, Ausilia Costanzo, Stefania Culurgioni, Umberto D'Amico, Roberto De Cervo, Giuseppe del Giudice, Maria Di Dato, Marilena Drogeanu, Franck, Sissi Geraci, Massimiliano Giaconella, Silvia Giavarotti, Gaetano “Toni” Grieco, Bruno Limone, Paola Malaspina, Mary, Mirco Mazzoli, Mister X, Emanuele Merafina, Nemesi, Stefano Neri, Aida Odoardi, Daniela Palumbo, Michele Piastrella, Angelo Pierri, Cinzia Rasi, Paolo Riva, Mario Martin Diaz Rodriguez, Letizia Rossi, Cristina Salviati, Laura Solieri, Sandra Tognarini, Yamada Foto di copertina Ap images Foto Renato Dalla Vecchia, Piero Martinello, Stefano Merlini, Vito Sciacca, Archivio Associato Scarp Disegni Silva Nesi, Luigi Zetti Progetto grafico Francesco Camagna e Simona Corvaia Editore Oltre Società Cooperativa, via S. Bernardino 4, all’Unione Stampa 20122 Milano Presidente Luciano Gualzetti Registrazione Tribunale di Milano n. 177 del 16 marzo 1996 Stampa Tiber, via della Volta 179, 24124 Brescia. Periodica Consentita la riproduzione di testi, foto e grafici citando la fonte e inviandoci copia. Questo numero è in vendita dall’11 novembre al 15 dicembre 2012. Italiana


Bellezza di vite imperfette Wabi-Sabi è la bellezza delle cose imperfette, temporanee e incompiute. Wabi-Sabi è (secondo una visione estetica che viene dal Giappone) la bellezza delle cose umili. Wabi-Sabi è la bellezza delle cose insolite. È la bellezza delle cose appassite, erose, ossidate, graffiate, intime, ruvide, terrose, evanescenti, incerte, transitorie. Ma esistenti e resistenti. Come le vite di molti uomini e donne, che camminano tra noi. “Wabi-Sabi. 12 Variazioni sul tema” è il titolo dell’annuale calendario della Rete provinciale di inclusione sociale, che opera nel territorio di Vicenza. La creatività, con il calendario 2013, è sfociata nella stesura di testi poetici ispirati alla tradizione degli haiku giapponesi: brevi composizioni, quotidiane e sapienziali, che si affiancano agli eleganti, densi ritratti in posa degli ospiti delle strutture

Salvatore, 40 anni, Italia

L’iniziativa e il calendario Wabi-Sabi nasce da un’iniziativa di cooperativa Samarcanda, che ha coinvolto in una serie di laboratori sensoriali, fotografici e poetici, più di trenta ospiti dei centri di accoglienza per senza dimora e persone in stato di grave emarginazione di Vicenza (Casa San Martino della Caritas diocesana, Albergo cittadino), Arzignano (Casa Alice Dalli Cani), Bassano del Grappa (Casa San Francesco), Schio (Casa Bakhita) e Valdagno (Asilo notturno Mulini d’Agno): spazi dove sostare, trovando un momento per la cura di sé, in un clima di accoglienza e non giudizio. Il percorso di revisione personale fa spazio anche alla creatività: parole e immagini, che danno vita a un calendario ricco di suggestioni. Per conoscere e chiedere l’edizione 2013 www.inclusionesocialevicenza.it

6. scarp de’ tenis novembre 2012


fotoreportage

Maria, 48 anni, Moldavia novembre 2012 scarp de’ tenis

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La bellezza dei volti umili

Fabio, 46 anni, Italia Omar, 51 anni, Marocco

8. scarp de’ tenis novembre 2012


fotoreportage

Elisabeth, 62 anni, Ghana Davod, 22 anni, Afghanistan

novembre 2012 scarp de’ tenis

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E T N E M L SOCIA ABILI S N O P S E R

economicamente vincenti* ETICA SGR: VALORI IN CUI CREDERE, FINO IN FONDO. Etica Sgr è una società di gestione del risparmio che promuove esclusivamente investimenti finanziari in titoli di imprese e di Stati selezionati in base a criteri sociali e ambientali. L’investimento responsabile non comporta rinunce in termini di rendimento. È un investimento “paziente”, non ha carattere speculativo e quindi ben si coniuga con la filosofia di guadagno nel medio-lungo termine comune a tutti gli altri fondi di investimento. Parliamo di etica, contiamo i risultati. I fondi Valori Responsabili si possono sottoscrivere presso tutte le filiali e i promotori di Banca Popolare Etica, Banca Popolare di Milano, Banca Popolare di Sondrio, Banca di Legnano, Simgest/Coop, Banca Popolare dell’Emilia Romagna, Casse Rurali Trentine, Banca Popolare dell’Alto Adige, Banca della Campania, Eticredito, Cassa di Risparmio di Alessandria, Banca di Piacenza, Online Sim e presso alcune Banche di Credito Cooperativo. Per maggiori informazioni clicca su www.eticasgr.it o chiama lo 02.67071422. Etica Sgr è una società del Gruppo Banca Popolare Etica. Prima dell’adesione leggere il prospetto informativo. I prospetti informativi sono disponibili presso i collocatori e sul sito www.eticasgr.it

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anticamera Aforismi di Merafina LA NOIA Per scacciare la noia non stare nell’ombra NON POSSO SCEGLIERE Non posso scegliere dove nascere non posso scegliere dove morire ma posso scegliere come vivere NEI TUOI SOGNI Nei tuoi sogni portami con te

Non tradire

In fondo al mare

Non tradire mai

Una nuvola in fondo al mare, molti pesci non riescono a capire paradosso colossale giace lì senza vedere tra i coralli sorride con stupore attraendo a sé pesci di ogni colore. Una piovra gigante gli da lo sfratto dicendo che lei è solo un contrasto. La nuvola piccina comincia a sentir freddo realizza che, in effetti, vede pesci, e non angioletti. Forse sogna di essere lì, o forse è la realtà che è fatta proprio così. Il freddo intenso comincia a salire lasciandola di stucco, lasciandola capire: dolce sole non farmi soffrire, fammi ritornare al mio posto reale. Un caldo torrido la fa evaporare la spinge in alto, oltre ciò che non si può vedere. Ora sei qui non ti disturbare torna al tuo posto senza far rumore

chi ti vuole bene perchè il bene è una ricchezza dell’anima. Non tradire mai un bambino felice raccontandogli una bugia. Non tradire mai la donna che ami

Solidarietà L’avevo persa, mi aveva abbandonato, tutto il mondo addosso mi era crollato, la porta del suo cuore era chiusa con le catene, aveva smesso di volermi bene, ma d’un tratto, dentro me ho avvertito un boato che la porta del mio cuore ha frantumato, in tutto il tuo splendore il boato del vulcanico tuo calore ha colmato d’amore il mio cuore Mr Armonica

quando sai che nel cuore porta solo te. Non tradire mai un amico fedele quell’amico su cui hai sempre contato. Non tradire mai la speranza che c’è in te. Nino Moxedano

Cinzia Rasi novembre 2012 scarp de’ tenis

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Era attesa da decenni. Ora una seria indagine statistica traccia il profilo dei senza dimora in Italia. Occorre ripensare i servizi

Homeless in Italy, il popolo dei (quasi) 50 mila Presentata la ricerca sui senza dimora nel nostro paese: Istat e Fio.psd, su mandato di ministero delle politiche sociali e Caritas Italiana, hanno realizzato un’indagine accurata. Milano, un po’ a sorpresa, è la capitale degli homeless, seguita da Roma e Palermo. Gli italiani sono la metà di chi vive per strada; invece l’età media non supera i 45 anni. Molti dati, utile strumento per battere i pregiudizi. E impostare politiche

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servizio di Stefano Lampertico Il fermo immagine è quasi desolante. Una città, che potremmo chiamare della “dignità perduta”. Abitata da 47 mila persone, uomini e donne. Tutti senza una casa. Le tabelle, e i numeri che le compongono, sono altrettanto desolanti. Traducono nel linguaggio della statistica tante storie intrise di povertà, di umanità sofferente e, appunto, di dignità perduta. Sono i numeri e le tabelle elaborati dall’Istat, frutto della prima “Ricerca sulla condizione dei senza dimora in Italia”, condotta dall’Istat insieme con Fio.psd (Federazione italiana organismi persone senza dimora), su mandato e grazie ai finanziamenti di Caritas Italiana e ministero delle politiche sociali. Un’indagine storica (attesa da decenni), accurata, metodologicamente destinata a fare scuola (non solo in Italia). Che fotografa il numero dei senza dimora in Italia, metmassimo la licenza media inferiore e il tendo un punto fermo (47 mila perso72,9% dichiara di vivere solo. La magne, appunto) dopo anni di ipotesi più o gioranza è costituita da stranieri meno realistiche. (59,4%) e le cittadinanze più diffuse sono la rumena (l’11,5%), la marocchina Stranieri sei du dieci (9,1%) e la tunisina (5,7%). Il primo dato, dunque, è di per sé già In media, le persone senza dimora sorprendente. Le persone senza dimoriportano di trovarsi in tale condizione ra che, nei mesi di novembre e dicemda 2,5 anni; quasi i due terzi (il 63,9%) bre dello scorso anno, hanno utilizzato prima di diventare senza dimora vivealmeno un servizio di mensa o accovano nella propria casa, mentre gli altri glienza notturna, in base alla rilevaziosi suddividono pressoché equamente ne condotta in 158 comuni italiani (con tra chi è passato per l’ospitalità di amiapprofondite interviste), sono stimate ci e parenti (15,8%) o chi ha vissuto in in 47.648. E poi c’è il profilo, degli hoistituti, strutture di detenzione o case di meless d’Italia. Sono per lo più uomini cura (13,2%). Il 7,5% dichiara di non (86,9%), hanno meno di 45 anni aver mai avuto una casa. Gli stranieri (57,9%), nei due terzi dei casi hanno al


l’inchiesta

sono più giovani degli italiani (il 47,4% ha meno di 34 anni, contro l’11,3% degli italiani), hanno un titolo di studio più elevato (ha almeno la licenza media superiore il 40,8%, contro il 22,1% degli italiani) e sono da meno tempo nella condizione di senza dimora (il 17,7% lo è da almeno due anni, contro il 36,3% degli italiani). Più spesso vivono con altre persone (il 30%, contro il 21,8%), in particolare con amici (17,4%, contro 10,2%); solo il 20% era senza dimora prima di arrivare in Italia.

In strada per necessità C'è anche una lettura qualitativa dei numeri, forse ancora più significativa.

Una lettura che rivela (e conferma) come i senza dimora siano persone che non hanno scelto di vivere in strada, ma lo fanno per necessità. Costrette dalla perdita del lavoro o della casa, o ancora dalla fine di una relazione coniugale. La fotografia scattata dalla ricerca nazionale racconta dunque un mondo complesso, superando molti stereotipi. «Per la prima volta puntiamo l’attenzione su queste persone, per troppo tempo ignorate anche dalla ricerca statistica. Partiamo dai numeri per raccontarne le storie e la realtà di vita – ha affermato in occasione della presentazione, avvenuta a Roma il 9 ottobre, En-

rico Giovannini, presidente dell’Istat –. Parliamo di quasi 50 mila persone, la maggior parte stranieri, ma molti anche italiani, soprattutto giovani. E anche se non ci sono confronti con ricerche del passato, ora sappiamo che in molti casi le persone diventano senza dimora dopo aver perso il lavoro Un legame con la crisi attuale c’è. Ma, più in generale, il fenomeno richiede che si crei una rete di protezione intorno a questi soggetti».

MIlano capitale Tornando ai dati, si scopre che più della metà delle persone senza dimora che usano servizi sociali e di assistenza vive novembre 2012 scarp de’ tenis

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Il popolo dei (quasi) 50 mila nel nord (il 38,8% nel nord-ovest e il 19,7% nel nord-est), poco più di un quinto (il 22,8%) al centro e solo il 18,8% nel mezzogiorno (8,7% nel sud e 10,1% nelle Isole). La presenza è densa soprattutto nei grandi centri. Milano è la capitale dell’homelesness, con più di 13 mila persone senza dimora, seguita da Roma e Palermo. Sono d'altro canto le grandi città che offrono opportunità maggiori di aiuto (mense, dormitori, altri servizi) rispetto ai centri della provincia. Dove pure il fenomeno è ormai radicato.

In mdia 45 anni di età Significativo anche il dato relativo all'età media. Le persone senza dimora hanno in media 42,2 anni; circa un terzo (il 31,8%) ha meno di 35 anni e solo il 5,3% ha 65 anni o più. Gli stranieri sono più giovani degli italiani (36,9 anni contro 49,9 anni): quasi la metà (46,5%) ha meno di 35 anni, mentre ben il 10,9% degli italiani ha più di 64 anni. Il fatto di essere più giovani, tra gli stranieri, si associa anche a titoli di studio mediamente più elevati: ben il 43,1% ha almeno un diploma di scuola media superiore. Il 28,3% delle persone senza dimora dichiara di lavorare; si tratta in gran

parte di lavori a termine, poco sicuri o saltuari (24,5%), a bassa qualifica nel settore dei servizi (facchino, trasportatore, addetto al carico-scarico di merci o alla raccolta dei rifiuti, lavapiatti), nel settore dell’edilizia, in quello delle pulizie. Il 17,9% delle persone senza dimora, però, non ha alcuna fonte di reddito; il 9% riceve un reddito da pensione e l’8,7% un sussidio da ente pubblico; il 27,2% riferisce di ricevere dei soldi da

parenti, amici o familiari e il 37% da estranei (colletta, associazioni di volontariato o altro). Il dato più significativo, sul versante qualitativo, è invece quello relativo alle cause del processo di emarginazione. La perdita di un lavoro si configura come uno degli eventi più rilevanti nel percorso di progressiva emarginazione che conduce alla condizione di senza dimora, insieme alla separazione dal coniuge o dai figli e, con un peso più contenuto, alle cattive condizioni di salute. Ben il 61,9% delle persone senza dimora ha infatti perso un lavoro stabile, il 59,5% si è separato da coniuge e figli e il 16,2% dichiara di stare male o molto male. Sono una minoranza, inoltre, coloro che non hanno vissuto o hanno vissuto uno solo di questi eventi, a conferma del fatto che l’essere senza dimora è il risultato di un processo multifattoriale. L'ultimo dato, quello relativo ai servizi. Nei dodici mesi precedenti l’intervista, oltre al servizio in cui sono stati intervistati, l’89,4% delle persone senza dimora ha utilizzato almeno un servizio di mensa, il 71,2% un servizio di accoglienza notturna, il 63,1% un servizio di docce e igiene personale (più ridotte le percentuali di utilizzo di servi-

In mensa chi ha casa, fenomeno Il direttore Caritas, don Francesco Soddu: «La crisi modifica il profilo degli “utenti”. Un «I poveri (le persone senza dimora, in particolare) non sono un “problema” che può riguardare solo la Caritas, il volontariato, il terzo settore, in una sorta di delega che nasconde una palese assenza, se non disinteresse, da parte dio altre realtà istituzionali e sociali. Siamo convinti che la povertà estrema mini il concetto stesso di umanità e, più in generale, di cittadinanza». Non ha usato giri di parole, don Francesco Soddu, direttore di Caritas Italiana, alla presentazione della ricerca sui senza dimora. È andato dritto al cuore del problema: è arrivato il momento di riprendere con serietà la discussione sulla garanzia dei diritti di cittadinanza per tutte le persone. «La ricerca – ha affermato don Soddu – conferma la natura multifattoriale della condizione di senza dimora. Ma il racconto della fruizione dei servizi da parte degli intervistati evidenzia che le situazioni e le condizioni di chi non ha più una dimora si sono diversificate sempre più nel corso degli

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ultimi anni. Inoltre sappiamo che la realtà delle persone senza dimora è più ampia, e comprende anche quanti non vengono intercettati dai servizi. Da alcuni anni andiamo ripetendo che i servizi Caritas, nei territori, stanno registrando un aumento delle richieste di aiuto. È il segnale che la crisi c’è ed è reale. Una crisi che ha modificato anche il profilo anagrafico dei cosiddetti “utenti” dei servizi. Vi sono infatti molte persone che, pur vivendo nella propria casa, con la propria famiglia, utilizzano servizi per senza dimora. Ad esempio i servizi doccia, non potendo più usufruire di acqua calda nella propria abitazione. Mangiare a mensa, chiedere di poter accedere agli empori della solidarietà che diverse Caritas stanno aprendo, appunto utilizzare la


l’inchiesta zi di distribuzione di medicinali, accoglienza diurna, unità di strada).

Non bastano i soldi Alla presentazione della ricerca, a Roma, è intervenuta anche il sottosegretario Maria Cecilia Guerra: «Queste persone non sono così invisibili, li vediamo ma li guardiamo con occhi sbagliati: l’idea che dietro la loro condizione ci sia una scelta o una colpa mette in pace le nostre coscienze. La ricerca offre suggerimenti per le politiche sociali, in particolare evidenzia la natura multidimensionale del bisogno. Non si diventa senza dimora per caso, si tratta di percorsi in cui tutti potremmo incorrere, perché sono legati alla separazione del nucleo familiare o alla perdita del lavoro, alla rottura di un percorso integrato che ha conseguenze drammatiche. Rispetto a questo scenario, le nostre politiche sociali sono molto indietro e in difficoltà, ma stiamo studiando nuove prospettive, fondate su una presa in carico delle persone che tenga conto della complessità delle loro storie. Di certo non ci si può limitare ai trasferimenti monetari, ma bisogna accompagnare le persone in difficoltà attraverso l’inserimento abitativo, lavorativo e l’inclusione sociale».

Il caso

Anche le donne soffrono, molte per una separazione Le donne rappresentano il 13,1% delle persone senza dimora, con caratteristiche sono simili a quelle osservate tra gli uomini. La quota delle donne con difficoltà a interagire è pari al 10%; tra quelle che non presentano tali difficoltà, il 43,3% è italiana. Tra le straniere prevalgono la cittadinanza rumena, con il 36,6%, seguita da quelle ucraina, bulgara e polacca (insieme, il 19,6% delle straniere); oltre un quarto (27,4%) ha più di 55 anni (l’età media è pari a 45,1). Più frequentemente degli uomini le donne senza dimora vivono con un coniuge o con i figli (31,4%) e, anche per questo, dormono in strutture di accoglienza nel 75,4% dei casi, dove spesso consumano anche pasti. Ciò non le tutela, tuttavia, dal rischio di rimanere coinvolte in risse o atti violenti: l’11,4% dichiara di essersi trovata in queste situazioni nel corso degli ultimi dodici mesi. Tra le donne, l’83,6% ha vissuto almeno uno degli eventi considerati rilevanti per il percorso che conduce all’essere senza dimora: il 70,2% ha vissuto la separazione dal coniuge o figli (il 40%, in quest’ultimo caso), il 55% la perdita di un lavoro stabile, il 26,7% li ha vissuti entrambi; ben il 25,6% dichiara di stare male o molto male.

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senza nome circolo vizioso da spezzare» doccia, far ricorso ad altri aiuti: una situazione ai limiti, a cui forse non abbiamo ancora dato un nome, benché sia uno stato di vita migliore dell’essere senza dimora tout court. Questo nuovo fenomeno, frutto della crisi nella quale siamo immersi, non ha ancora una precisa identità (nemmeno per noi che già lo percepiamo), ma lo sforzo nostro e di tutti credo non debba muoversi solo verso la categorizzazione, e il successivo studio o conteggio. Lo sforzo di tutti deve andare nella direzione dello spezzare il circuito vizioso, per far sì che queste persone non rappresentino alcuna categoria ma siano uomini, donne e famiglie che vivono serenamente la propria quotidianità perchè hanno servizi che li sostengono (ad esempio nell’essere geni-

tori che lavorano), vicini che li aiutano in momenti difficili della vita, comunità che se ne fanno carico».

Il ruolo di chi aiuta La rete dei centri d’ascolto delle Caritas parrocchiali rappresenta sovente il primo luogo di accesso, per chi chiede aiuto. «I dati della ricerca – ha affermato don Soddu – devono costituire un’occasione per rivedere e riflettere sulla capacità dei nostri servizi di intercettare nuovi bisogni, di adeguarsi al mutamento dei fenomeni di povertà e di fare rete per non disperdere energie preziose e puntare all’efficacia degli interventi. Il ruolo di chi opera nei servizi è fondamentale per la vita delle

persone che vi si rivolgono. Può dare o togliere speranza, può sostenere o involontariamente allontanare, può limitarsi a distribuire tessere e permessi o riavviare percorsi di vita, può essere in grado di coordinare forze e risorse differenti o affermare che da soli si opera meglio o più velocemente, penalizzando la persona in difficoltà e sottraendogli possibilità e risorse. É fondamentale sentirsi responsabili di chi si incontra. Anche oggi, anche in un momento economico così difficile, esistono persone disposte ad aiutare gli altri, a sostenere chi ne ha più bisogno. Bisogna crederci, e bisogna aiutarle a svolgere sempre meglio e più responsabilmente il proprio compito».

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Il popolo dei (quasi) 50 mila

Notte di Ronda tra “uomini senza” Con i volontari di un’unità mobile, tra coloro che per domicilio hanno la stazione

di Francesco Chiavarini Milano, Stazione Garibaldi, venerdì sera, ore 20. Mentre i pendolari ritardatari si affrettano a prendere gli ultimi treni che li riportano a casa, dietro alla fila dei taxi fermi sul piazzale si raduna una piccola folla. Sono gli “uomini senza”. Senza casa, senza lavoro, senza famiglia. Sono qui, perché sanno che anche stasera arriverà la Ronda della Carità, una delle unità mobili attive da più tempo in città: 14 anni di servizio, ogni settimana quattro uscite notturne e due di giorno, una cinquantina di volontari divisi in squadre da sei che si danno il cambio. I senza tetto arrivano alla spicciolata. Qualcuno si saluta con un cenno. Sono stranieri, soprattutto. Ma anche italiani. Tutti maschi, una sola donna anziana, che guarda circospetta e si tiene ben lontana da taccuino e macchina fotografica. C’è chi ha il volto segnato da troppe notti alspola tra Bacau, dove vive la moglie, e l’aperto. E chi, vedendolo la mattina, Milano, dove ogni tanto qualche suo conon lo diresti mai. Tipi come Simone, 46 noscente gli procura un lavoretto. L’ulanni, ex operaio metalmeccanico. Tanti tima volta non gli è andata proprio beanni di lavoro, mai un contratto vero e ne. «Sono stato in cantiere 12 ore al giorproprio. «Sono sempre passato da un’ano per due mesi e sai cosa mi hanno dazienda all’altra, stavo fermo qualche to? 160 euro. Ora aspetto che mi chiami mese e ricominciavo – racconta –. Poi è un altro amico. È un italiano. Sempre arrivata questa maledetta crisi e l’agennel ramo dell’edilizia. Speriamo bene. A zia ha smesso di chiamarmi. Nel fratmia moglie ho detto che va tutto bene, tempo i miei genitori sono morti e da ma devo presto mandarle qualche solsolo non sono più riuscito a pagare l’afdo. Se no si insospettisce e pensa che mi fitto. Così da novembre 2009 sono in li sia bevuti tutti». strada. La mattina salgo su un treno e giPoco prima delle dieci, la folla, come ro la Brianza. Chiedo aiuto ai parroci. si era radunata, così improvvisamente si Riesco sempre a mettere assieme qualdisperde. Sul binario 6 sta arrivando il che euro per il mangiare. Insomma, tiro Domodossola – Porta Garibaldi. Pare sia a campare, ma non è vita. Se non passa un buon posto per passare la notte. Il questo momento prima o poi lo faccio. migliore qui in giro. «Basta non dare E se mi beccano, pazienza, mi sbattono troppo nell’occhio e salire prima che si dentro». chiudano le porte», ci informa Simone mentre si dirige verso la banchina. Non Alexander attende un lavoro ci sono i controlli della Polizia ferroviaAlle 21.15 i volontari hanno già montaria? «Gli agenti lo sanno che siamo qui – to il banchetto davanti al camper. Inisorride –. Ma chiudono un occhio. Baziano a distribuire panini, bicchieri di sta che non facciamo casino e non bethe caldo e coperte. Il capannello è diviamo, e ci lasciano in pace. L’unico proventato un gruppetto di 40 persone. Tra blema è che alle 4.55 il treno riparte e ti loro c’è Alexander, 41 anni, rumeno che devi svegliare. Io faccio così: punto il celracconta di essersi laureato in veterinalulare, prendo le mie cose e mi sposto ria a Bucarest ma di non riuscire ad sul binario 4 dove il treno, mi pare per esercitare la professione nel suo paese. Lecco, riparte alle 6.15». Così in mancanza di alternative, fa la

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Ma c’è anche chi ai sedili di un treno, preferisce i cartoni. Mohamed se ne sta accovacciato sotto il ponte sul lato della stazione, tra una montagna di sacchetti di plastica. «Non se ne separa mai – racconta Madga Baietta, presidente della Ronda che lo conosce da anni –. Quando va alla mensa dei frati, se li trascina dietro. Prende un sacchetto, lo sposta. Poi tona indietro a prelevare gli

altri. La psichiatra che l’ha vistato ci ha detto di non toccarglieli, perché è come se fossero la sua coperta di Linus, un ancora che gli dà sicurezza».

Faustino che vede i fantasmi Ma il cruccio di Magda è Faustino. Lui racconta di avere 87 anni, di ricevere una pensione e di avere pure un appartamento a Roma, che però non abita perché pieno di fantasmi. Ogni volta che


l’inchiesta si siede nel tinello compaiono le ombre dei fratelli ai quali era tanto legato e lo spaventano. Allora preferisce la stazione. E quando fa troppo freddo, l’albergo del figlio di un suo ex collega che nemmeno gli fa pagare la camera. «Chissà se è vero – Magda allarga le braccia –? Per ricostruire la sua storia dovremmo almeno conoscere il suo cognome, capire cosa è successo, se ha un disturbo psichico e di che tipo. Quello che è certo è che non lo possiamo lasciare qui: è troppo vecchio e malandato per passare la notte in strada, soprattutto ora che si avvicina l’inverno. Bisognerà convincerlo a farsi aiutare. Ma non sarà facile. Bisogna avere molta pazienza, proporre e riproporre. Molti di quelli che muoiono d’inverno per assideramento, sono persone come queste, che hanno rifiutato ogni tipo di soccorso». All’una di notte la Ronda è terminata. La stazione deserta. Davanti al piazzale passa qualche ragazzo che va a fare nottata nei locali del vicinissimo corso Como. Su binario 10 il Domodossola

L’intervento

Fio.psd: «Reddito e anagrafe, abbiamo conoscenze per agire» «Sono più di venti anni che Fio.psd (Federazione italiana organismi persone senza dimora, alla quale aderiscono anche molte Caritas diocesane, ndr) insiste a gran voce sulla necessità di dotare anche l’Italia, come altri paesi sviluppati, di un sistema informativo e conoscitivo aggiornato sulla situazione delle persone senza dimora presenti nel paese, e sui servizi loro dedicati. È un passo fondamentale, non solo perché non si può deliberare senza conoscere ciò su cui deve intervenire, ma anche perché attraverso dati ufficiali è assai più semplice provare a dare visibilità a ciò che ancora non la ha, come purtroppo accade troppo spesso per le persone senza dimora e i loro problemi». Per Paolo Pezzana, presidente Fio.psd, la ricerca, frutto di un lavoro decennale, è solo un punto di partenza. Importante soprattutto per le analisi e per le scelte politiche che ne potrebbero discendere. Con un punto fermo: i dati presentati demoliscono molti pregiudizi. E sono soprattutto dati fondamentali per pensare a più incisive politiche di welfare. «Non è più rinviabile – ha sostenuto Pezzana, in occasione della presentazione nella sede Istat – il tema di una misura universale di contrasto della povertà, almeno di quella assoluta, nella forma di un reddito minimo. Esistono interessanti e sostenibili proposte in questo senso, come quella recentemente avanzata dalle Acli o quella cui sta lavorando la neocostituita “Alleanza contro la Povertà”, di cui anche Caritas Italiana è parte. In secondo luogo, e in stretta connessione, non si può abbassare la guardia sul tema della residenza anagrafica, specie ora che, con il decreto sviluppo, si prevede un’anagrafe unica nazionale gestibile anche da terzi privati. In termini più strutturali, occorre poi riportare al centro del dibattito il tema dell’housing». E poi c'è la questione dell’integrazione tra servizi sociali e sanitari. Come hanno detto i dati della ricerca, ha proseguito Pezzana, «la salute per le persone senza dimora è da tempo un diritto negato. E lo sarà sempre più mano a mano che, come sta accadendo, le soglie di accessibilità della sanità pubblica si faranno elevate». Quanto alla folta componente straniera del popolo degli homeless, «è vero che alcuni di loro sono persone con un progetto migratorio oramai fallito e una pesante condizione di desaffiliation alle spalle, e che necessitano di supporti e servizi specifici e particolarmente intensi. Ma per la maggior parte di loro il tema principale non è quello dell’accesso ai servizi, bensì quello dell’accesso ai diritti».

Milano, con i suoi ospiti abusivi, è sprofondato nell’oscurità. Sotto il cavalcavia Mohamed è un fagotto tra i suoi sacchetti. Anche Alexander, il veterinario di Bucarest, ha trovato un posticino: dorme avvolto nelle coperte in uno slargo del nuovo tunnel che hanno costruito sotto Porta Nuova, proprio davanti alla scalo ferroviario. Finalmente un po’ di riposo anche per gli invisibili. E allora buona notte ai senza dimora.

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Un ultimo tema «rilevantissimo», secondo Pezzana, è quello del lavoro: «La mancanza di lavoro è un problema per tutti, non solo per le persone senza dimora. Ma occorre affermare un principio di pari opportunità: guai a ragionare pensando che si debba prima dare lavoro alle persone “normali” e poi ai poveri; si ricadrebbe in biechi stereotipi e si genererebbe una situazione sempre meno sostenibile per gli uni e per gli altri. Inoltre occorre avere il coraggio di riconoscere e affermare, come in molti paesi europei avviene, che l’inclusione lavorativa che restituisce dignità sociale può passare, per molte persone senza dimora, anche fuori dal mercato tradizionale del lavoro. Non parlo di lavoro nero, ma di quella che in molti sistemi europei è chiamata meaningful occupation, ovvero una forma sensata e dignitosa di occupazione del tempo in attività a servizio della comunità, remunerate non solo con un contributo economico, ma anche con il riconoscimento da parte di una comunità specifica dell’utilità del ruolo sociale delle persone in esse coinvolte». novembre 2012 scarp de’ tenis

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Il popolo dei (quasi) 50 mila

Enza studia per il “concorsone” ministeriale. Senza casa, ospite di un centro di accoglienza a Napoli, prova a riscrivere la sua vita

Maestra sulla strada, una cattedra per svoltare di Laura Guerra Enza ha un sogno: diventare insegnante di scuola materna, o insegnante elementare. Ha 39 anni: diplomata all’istituto magistrale, come tanti aspettava il concorso pubblico per provare a concretizzare il suo sogno. Fare la maestra, appunto, lavorare con i bambini, passando con loro la maggior parte della giornata. Una giornata che adesso trascorre riempiendola di studio, allo scopo di sostenere, a metà dicembre, le prove di preselezione del “concorsone”, indetto dal ministero per selezionare nuovi insegnanti. Ma se non dovesse studiare, Enza le sue ore le passerebbe per strada. Perchè Enza è una clochard, non ha una casa propria. Prima la donna aveva una vita “normale”, nella zona dell’Arenella, quartiere borghese di Napoli, dove abitano impiegati, commercianti e professionisti. Figlia unica, ha perso la madre quando era ancora alle elementari, e quando è morto scendo ad affittare una camera ammoanche il padre lei, ormai studentessa biliata. Ma poi il lavoro è saltato e lei si è universitaria, ha abbandonato gli studi trovata di nuovo per strada. Da alcuni per cercare lavoro. Si è arrangiata con mesi è ospite della Casa di accoglienza lavoretti precari, non sufficienti, però, “Giovanna Antida”, un appartamento per mantenere la casa. Persa la quale, è nel cuore del centro antico, le cui ospiti finita per strada: ha girato fra i centri di (più di trecento, negli ultimi dieci anni) accoglienza, si è offerta come badante si sentono come a casa, quando la sera o colf, per un periodo ha lavorato, riurientrano, dopo aver trascorso la gior-

nata per strada. La casa di accoglienza per donne “Giovanna Antida” è un’opera segno della Caritas diocesana di Napoli, che l’ha aperta dieci anni fa grazie alla generosità delle suore della Carità di Santa Giovanna Antida Thouret, che misero a disposizione la piccola struttura e ancora oggi collaborano ai progetti di promozione delle ospiti. Ma Casa Antida, coordinata da suor Aurelia Suriano, non è un dormitorio: ogni ospite è seguita individualmente,

Rosana, talento e libri in cerca di Ha vinto premi letterari, sta scrivendo la propria autobiografia. Ma dorme dove capita da di Claudio Corso

Rosana ha 45 anni, è nata in Francia, oggi vive a Firenze, e sin da giovane la sua passione per il cinema e per il doppiaggio l’hanno portata a frequentare corsi impegnativi. Ma Rosana è una ragazza intelligente, brillante: ha cercato la sua strada nel lavoro come doppiatrice e attrice, e il suo sogno stava per realizzarosi. La sua famiglia, sparsa un po’ in tutta Italia, non è mai stata unita: dopo la morte della madre i rapporti col padre, i fratelli e la sorella si sono sciolti. Solo con un fratello Rosana ha mantenuto i contatti, ma le condizioni psichiatriche dell’uomo sono peggiorate, sino a che ha iniziato a giocare, cadendo ben presto nella dipendenza. Lei ha cercato in tutti i modi di aiutarlo, rivolgendosi a medici, co-

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munità, cliniche psichiatriche, trascurando così il lavoro. Che, alla fine, ha perso. Sola, senza soldi e lavoro, è caduta in depressione, fino a essere inghiottita in un calvario che oramai per lei dura da ben sette anni: la strada. Enza ha tentato pure il suicidio, è stata salvata per miracolo. Poi ha inizito a dormire in alcuni dormitori, una esperienza per lei tanto negativa che, quando trovava piccoli lavori stagionali, preferiva usare quel poco che guadagnava per dormire in piccoli ostelli, sapendo bene che era solo per poco tempo. Piuttosto che ripetere le esperienze traumatiche che aveva vissuto nei dor-


l’inchiesta per le necessità materiali, per offrire loro strumenti e occasioni di recupero delle risorse personali, per trovare un lavoro e rimettersi in gioco nella società.

In attesa di una cattedra Il progetto di recupero di Enza, oltre a prevedere la partecipazione al concorso, include anche l’accompagnamento e il sostegno in questa sfida. Durante la giornata Enza frequenta l’internet point dell’Informagiovani sotto la galleria Umberto, dove si esercita per la prova preselettiva che si farà usando il computer, appunto a metà dicembre. Per potersi preparare sui programmi di esame, usando i pochi risparmi che aveva si è iscritta al corso del Ceripe, scuola di alta formazione che tiene lezioni mirate, utili ad affrontare le prove del concorso. Sul tema Enza è informatissima: «La prova preselettiva durerà un’ora; si dovrà rispondere almeno a 35 quesiti a risposta multipla su 50. Spero propria di riuscire a passarla». Dopo una settimana di studio, Enza al sabato si rilassa con la meditazione yoga, disciplina che esercita da tempo. La sera torna a Casa Antida, dove, con le altre sei ospiti, trova ad accoglierle uno dei quattro operatori che si alternano. Con loro Enza ha una grande sintonia, sono giovani e in casa c’è un clima familiare, che è piacevole ritrovare ogni sera. In attesa di una cattedra, e poi magari di una casa propria.

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felicità anni: «Viva grazie alla lettura» mitori, preferisce esaurire in albergo le già magre risorse economiche. L’unica consolazione per lei sono sempre stati i libri «Senza i miei libri sarei morta – dice sempre –, sono i miei angeli custodi».

Ti aspetto da una vita L’intelligenza e le capacità di Enza sono comprovate da due concorsi letterari, vinti nel 2009 e nel 2012, ai quali ha presentato racconti sulla sua esperiena personale. Ma nonostante ciò la sua vita non riesce a cambiare. Ha dormito spesso in strada, a volte in case famiglia, ora è di nuovo in un dormitorio, aspettando che perlomeno la denuncia

Le persone senza dimora Valori assoluti

Valori percentuali

Sesso maschile femminile

41.411 6.238

86,9 13,1

Cittadinanza straniera Italiana

28.323 19.325

59,4 40,6

Classe di età 18-34 35-44 45-54 55-64 55 e oltre

15.612 11.957 10.499 7.043 2.538

32,8 125,1 22,0 14,8 5,3

47.648

100,0

totale

Senza dimora per tipologia e utilizzo dei servizi Almeno uno Distribuzioni pacchi Mense Distribuzioni abiti Distribuzioni medicinali Igiene personale Unità di strada Accoglienze notturne Accoglienze diurne altro Almeno uno Servizi per l'impiego Servizi anagrafici Servizi sociali Servizi sanitari Altri servizi

Straniero 99,8 37,4 91,3 61,4 35,1 67,5 27,6 67,2 31,5 31,9

Italiano 99,7 45,6 86,5 59,4 31,1 56,7 27,7 77,1 39,6 41,2

76,1 45,2 23,7 30,3 48,2 4,2

88,0 44,8 32,1 53,7 64,1 *

fatta nei confronti dell’ultima azienda per la quale ha lavorato le consenta di ottenere i sei stipendi mai ricevuti. Ma ci vuole tempo, l’azienda è fallita... Da questa vita, fatta di sofferenza, di strada, di marginalità, Rosana non sa come uscire. Il suo sogno più grande è pubblicare un libro con la sua autobiografia, che ha già iniziato a scrivere. «I sogni non devono morire, devono vivere con noi per farci vivere – racconta –. Se non ci fossero i sogni io sarei solo una morta vivente, una zombie come tante altre persone che vivono nei dormitori, senza speranza. Alcune di queste persone, ma sono poche, cercano di

andare avanti, si muovono per cercare di risistemare la propria vita. La maggior parte, al contrario, sono rassegnate e non vivono più. Io, invece, ancora non ho incontrato la felicità, ma assicuro a tutti che un giorno finalmente la troverò, in qualche angolo sperduto. Quando ciò accadrà io e la felicità ci abbracceremo e io le dirò: “Ciao felicità, è tutta la vita che ti aspetto”». È facile perdere la dignità in situazioni anche meno gravi della sua, ma è proprio da persone come Rosana che c’è molto da imparare: non bisogna mai smettere di sognare un futuro migliore.

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Salmoni e surfisti figli di due mondi La scelta dei giovani immigrati cinesi: tornare per cercare fortuna in una economia in crescita, o far valere il proprio ruolo di ponte tra due universi?

Gli eredi dell’immigrazione cinese stringono rapporti con il paese d’origine. Molti tornano, a causa della crisi che rende l’Italia sempre meno appetibile rispetto al drago asiatico. Molti altri, pur rimanendo tra noi, mettono a frutto, nello scenario della globalizzazione, i vantaggi della loro doppia identità

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di Francesco Chiavarini ed Ettore Sutti La Cina galoppa, l’Italia arranca. E così i figli degli immigrati cinesi cominciano a pensare di tornare nella patria dei loro genitori. Certo, la ritirata non è ancora suonata. Né, al momento, si vede montare un’ondata di ritorno tra i flussi migratori, come dimostra l’aumento della popolazione nelle principali chinatown nostrane, avvenuto a dispetto della crisi pure quest’anno, secondo l’ultimo Dossier statistico immigrazione di Caritas e Migrantes. Tuttavia, soprattutto le seconde generazioni, nate o cresciute in Italia, sanno che la Cina avrà un peso maggiore non solo nei destini del pianeta, ma anche nel loro personalissimo futuro. E così c’è chi vola a Pechino o a Shanghai. Con l’intenzione di trasferirvisi definitivamente. Oppure con l’obiettivo di studiare lingua, legislazione e mercato del “Paese di mezzo”, e utilizzare queste conoscenze come araprendo uffici commerciali a Milano, ma vincente nella competizione con i Londra o New York. Questi ragazzi sono coetanei, in Italia o in occidente. nati e cresciuti in Italia, a volte hanno otPiù che salmoni che risalgono le tenuto già la cittadinanza italiana, ma correnti migratorie, «questi ragazzi sotengono un piede in occidente e uno in no veri cittadini globali e transnazionaoriente». Surfisti delle onde della conli», osserva Giorgio Del Zanna, presitemporaneità, sono la prima generaziodente milanese della Comunità di ne di italiani davvero globali. Sant’Egidio, da vent’anni presente nel quartiere di via Paolo Sarpi, a Milano, dove cresce e prospera una delle più anHu crede nell’Italia tiche e radicate comunità cinesi d’Italia. Hu Liqin, 30 anni, ha vissuto la sua priDalle nostre migliori università, Bocma infanzia a Parigi, dove il padre è staconi e Politecnico, sono usciti in questi to assunto da un connazionale come anni i primi giovani cinesi arrivati con le cuoco in un ristorante. Poi si è trasferita loro famiglie negli anni Novanta. Sono in Italia con la famiglia. A Milano ha freper lo più figli di ex operai tessili e cuochi quentato le elementari, le medie, le sualla dipendenze dei cinesi di prima imperiori e si è laureata. Da poco ha apermigrazione, a loro volta diventati comto nella centralissima via Alessandro mercianti e titolari di ristoVolta un’enoteca. Come suggerisce il ranti. Grazie ai sacrifici dei lonome, Huva, il suo elegante locale proro genitori si sono laureati e pone alla clientela di professionisti delsono stati assunti e inviati dalla zona un menu italiano e una seleziole multinazionali occidentali ne di vini di degustazione. La sorella Hu nelle filiali in Cina – spiega (il nome è identico, ma cambia la proDel Zanna –. Ora in parte nuncia, sebbene nella traslitterazione questa fase si è già esaurita. E non ci sia modo di indicarlo) sta invece chi parte si muove da solo, avavviando un’impresa commerciale in viando attività di import-exCina per l’importazione di prodotti enoport a Pechino o Shanghai. gastronomici rigorosamente italiani. Oppure utilizzando i contatti «Quando ce ne siamo andate il nostro con imprenditori cinesi, ma paese Wen Chen, nella provincia dello


l’inchiesta

Le scuole

La nuova frontiera? Insegnare cinese ai cinesi Prato è la città italiana con la più alta concentrazione di immigrati cinesi. Del tutto normale, quindi, che proprio lì, nel 2005, sia nata la “La città proibita”, una delle prime scuole fondate e gestite da cinesi. Alessandro Ferro ha cominciato la sua collaborazione con l’istituto come insegnante e ora si occupa dello sviluppo di progetti in collaborazione con le Università, a fronte della crescente richiesta di studenti cinesi che vengono a formarsi in Italia a livello universitario. L’istituto ha questa forma da circa otto anni; è nato come scuola di lingua e si è andato modificando via via in base alle esigenze del territorio. In particolare, in questi otto anni si è mosso su due binari paralleli: da un lato l’insegnamento dell’italiano come L2, dall’altro quello del cinese alle seconde e terze generazioni di immigrati cinesi. Non esiste un profilo tipico di chi si rivolge alla scuola perché sono diverse le tipologie di persone che hanno bisogno di certificare le loro competenze linguistiche: per quanto riguarda l’italiano come L2 (“Livello elementare”, cioè il livello minimo richiesto per l’acquisizione della carta di soggiorno e del visto per studiare in Italia), “La città proibita” offre percorsi tanto per privati cittadini spinti da interesse personale, quanto per migranti (adulti e bambini) e studenti cinesi da inserire nelle università italiane. Anche sul piano della lingua cinese le attività sono diversificate: sono molti i cittadini cinesi che si sono

spostati in Italia per lavorare partendo dalle campagne del loro paese con una bassa scolarizzazione, ma non sono loro i fruitori di questi corsi, se non in rari casi. Piuttosto, vi si iscrivono i loro figli e nipoti, che dovrebbero essere madrelingua cinesi, ma di fatto non lo sono, come non sono madrelingua italiani. Il loro primo contatto con la lingua italiana avviene alle scuole elementari o materne, mentre in casa apprendono il dialetto, trovandosi così in età scolare senza padroneggiare una lingua che possa traghettarli fuori dal contesto familiare. Una peculiarità di questa esperienza è che non viene proposta da un’impresa sociale: la scuola ha una connotazione commerciale ed è nata dalle esigenze e dalle competenze della direttrice. Ma ha prodotto un bell’esempio di imprenditoria innovativa, al servizio del territorio e in grado di far interagire realtà diverse, dato che nella scuola vengono accolti tirocinanti universitari italiani. A Milano, invece, nei locali prestati dalla scuola “Casa del Sole”, nel parco Trotter (zona ad alta concentrazione di stranieri), il sabato dalle 9 della mattina alle 4 pomeriggio una decina di docenti cinesi madrelingua insegna ai propri connazionali a comporre gli ideogrammi e a pronunciali correttamente. I corsi furono avviati più di dieci anni fa da Caterina Farago e dal marito Mario Refraschini. Da allora gli iscritti sono continuati ad aumentare. E oggi frequentano le lezioni circa 250 bambini e adolescenti. «Soprattutto all’inizio i genitori, che abitavano nel quartiere, li mandavano da noi, spinti dal senso di appartenenza e dall’orgoglio nazionale. Oggi lo fanno anche perché sanno che può favorirli da adulti nel trovare uno spazio nel mondo del lavoro». (ha collaborato Veronica Guida) novembre 2012 scarp de’ tenis

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Salmoni e surfisti, figli di due mondi Zhejiang, era poco più di un villaggio con le strade di fango, oggi è una città grande come Milano – racconta –. Chi è rimasto a casa e in questi anni si è arricchito oggi va matto per qualsiasi cosa abbia il marchio Italia. Una bottiglia di Chianti, di Barolo, la vendi al triplo del prezzo a cui l’acquisti qui...». E così le sorelle Hu lavoreranno probabilmente in tandem, una proponendo l’eccellenza italiana ai milanesi, l’altra ai cinesi. Ma la globalizzazione premia anche i cinesi che decidono di restare in Italia. Xiaomin Zhang, 29 anni, viene da Shanghai ma è cresciuta e ha studiato a Milano. Oggi cura i rapporti con gli investi-

tori internazionali interessati ai mercati dell’estremo oriente dall’asian desk di una importante agenzia di comunicazione con sede nel capoluogo lombardo. «So bene che per i miei coetanei italiani è dura trovare lavoro, invece io non ho avuto alcuna difficoltà a inserirmi. Certamente le mie origini cinesi mi hanno favorito. Quando mi chiedono se mi sento più italiana che cinese, rispondo che sono sia l’uno che l’altro. Non credo di avere un’identità a metà, ma un’identità doppia. E oggi avere due identità è senz’altro meglio che averne una sola». Non basta, però, avere genitori o

passaporto cinesi per avere un vantaggio competitivo. Bisogna soprattutto conoscere la lingua. E spesso non è scontato che chi ha gli occhi a mandorla abbia anche confidenza con il mandarino. E così tornano a studiarlo gli stessi figli degli immigrati cinesi, che spesso parlano solo il dialetto che hanno sentito in casa da bambini. E soprattutto non sanno scrivere nell’alfabeto di Confucio, operazione non immediata per chi è abituato ad avere confidenza solo con i caratteri latini. Devono, insomma, recuperare porzioni rilevanti delle proprie radici. Ma se a richiederlo non è solo la nostalgia, ne vale davvero la pena.

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Chi va, chi torna, chi non volev Cina o Italia? Le strade della fortuna sono molteplici. Sempre se si ha la possibilità di Hao ha un sorriso simpatico e veste sportivo, con un’attenzione al dettaglio che lo distingue da tanti suo connazionali. Lui, che per anni è stato un huaqiao (un “cinese d’oltremare”, emigrato e stabilitosi all’estero), trae grande soddisfazione dal poter raccontare la propria storia nel ristorante che ha aperto a Pechino, nel bel mezzo del quartiere delle ambasciate. Il locale è arredato alla moda e il menù elenca piatti di una buona trattoria italiana: pasta fresca fatta in casa, pizza, secondi toscani e umbri, dolci casalinghi che potrebbero essere tranquillamente cucinati da un cuoco italiano. Ma qui tutto il personale è cinese, cuochi compresi. Tutto quello che sa sull’Italia, Hao lo ha imparato negli anni in cui ha vissuto nel Belpaese. «Sono cresciuto tra voi – racconta – e una volta conclusi gli studi ho iniziato a lavorare nel campo della ristorazione insieme ad alcuni amici italiani. Dopo diverse esperienze in Toscana e Umbria, cinese, testimoniano che il target a cui è ho capito che il vero affare era lanciare destinato non è proprio popolare. Da la cucina italiana in Cina. Qui da noi l’Iqualche mese Hao ha aperto anche due talia, o almeno alcuni prodotti italiani enoteche dove, neanche a dirlo, vende (cibo, vino, design) sono considerati il principalmente vino italiano, e gli affari massimo. In Italia gli affari andavano covanno a gonfie vele. «L’Italia – conclusì così, da qui la decisione di tornare in de –. Un bel posto dove fare le vacanze. Cina». Il ristorante non è proprio pienisMa gli affari veri ormai si fanno qui». simo ma i prezzi, circa 25 euro a persona, più del doppio di un normale ristorante

Nai strappato agli amici Nai Hu ha 22 anni, ed è originario della citta di Vinchen, nella provincia di Chinkiangà. Ricorda come un trauma la sua emigrazione: «La mia famiglia decise di venire in Italia ma io non volevo, in Cina stavo molto bene, andavo bene a scuola, mi piacevano i professori, invece i miei mi disse-

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ro: vedrai che in Italia la scuola sarà più bella e ti piacerà di più, e troverai un lavoro più bello». Nai però in Italia non ci voleva venire. Aveva amici in Cina, era bravo nello studio: il cambiamento non fu facile. Una fatica enorme per imparare la lingua, tante difficoltà a farsi degli amici. Era il 2004. «Quando sono arrivato non capivo nulla, non la lingua, non la storia dell’Italia – rievoca –. E poi i miei compagni di classe odiavano gli stranieri, non volevano avermi vicino, una ragazza mi disse di spostarmi, non voleva sedersi vicino a me perché diceva che gli stranieri puzzavano». Nai oggi lavora in un bar di via Pellegrino Rossi, lo gestisce insieme alla sua giovane fidanzata. Il suo è il cognome più diffuso a Milano. I suoi genitori decisero di trasferirsi come moltissimi loro paesani: «In Cina chi viene dal mio paese è abituato a spostarsi all’estero, perché pensa che in patria sia difficile trovare lavoro e di che vivere. Così per primo è partito mio padre. Il quale per un periodo non si è più fatto sentire. Forse voleva vivere da solo, guadagnare e consumare per sé. Invece dopo è partita anche mia madre. All’inizio voleva andare in Francia, poi ha deciso di raggiungere mio padre portando anche noi figli, io e mia sorella. Se in aeroporto fossi stato sveglio avrei urlato e pianto, invece ero piccolo e dormivo. Se fossi stato in Cina


l’inchiesta

La storia

Chloe ha lasciato perdere i ricci «Alla fine l’Italia è difficile...»

va venire scegliere... avrei preso la licenza, imparato il cinese e l’inglese, avrei già un lavoro. Portandomi a forza in Italia mi hanno fermato il futuro, mi hanno limitato, ho smesso di studiare. In Cina ora non ho più neanche un parente, se ne sono andati tutti».

Le coinquiline la ricordano per le cose stranissime – cibi essiccati e indecifrabili – che era solita mangiare già di prima mattina, ma anche per i bigliettini, appiccicati ovunque, dove scriveva i vocaboli italiani che stava imparando: ne è rimasto ancora uno, rosa, con le parole “ricci” e”permanente” e un piccolo disegno illustrativo a fianco. Eppure lei, i capelli, li ha da sempre lisci, neri e lucidi, come tutte le donne orientali, del resto; ma la verità è che, nella casa di salita Oregina, proprio alle spalle del “quartiere universitario” di via Balbi, la sua assenza si sente molto, ora che manca da due mesi. Venuta a Genova circa un anno fa, per un periodo di studio e lavoro, dalla lontana provincia cinese del Zhejiang, si era scelta un nome “italianizzato”: Chloe. Quello vero lo usava solo per la burocrazia e né io né le coinquiline abbiamo mai imparato a pronunciarlo bene, né tantomeno a scriverlo. Chloe, invece, con la nostra lingua e il nostro alfabeto, si è data molto da fare e, anche grazie all’inglese che già conosceva, ha affrontato a testa altissima le barriere culturali e linguistiche che si è trovata davanti. Oltre agli studi di scienze politiche, ha deciso di dedicarsi anche al lavoro, andando a dare una mano nello studio contabile di uno zio, che opera a supporto di imprenditori e commercianti cinesi immigrati. Perché a Genova la presenza cinese è ormai radicata e ha i suoi punti di forza in due elementi fondamentali: l’imprenditorialità e i legami familiari. La stessa Chloe ci ha spiegato più volte che, senza la presenza di suoi parenti in Italia, non si sarebbe mai sentita di muoversi. E d’altra parte, questa sua famiglia così ramificata, ha saputo creare a Genova attività solide e ben avviate: il centro contabile, con lo zio e due cugini, e un negozio di pelletteria-abbigliamento, con un’altra zia.

A Jada conviene l’Italia Jada Bai, giovane mediatrice culturale, insegna il cinese nella scuole internazionali private, frequentate per lo più dai figli dei manager delle multinazionali con base a Milano. «Tornare in Cina? Poteva essere conveniente fino a qualche anno fa – asserisce –. Chi è partito agli inizi degli anni Duemila, assunto dai grandi marchi italiani, poteva guadagnare anche 12 mila, 15 mila yuan, il triplo della stipendio di un colletto bianco cinese. Ma oggi la concorrenza è spietata: ormai dalle università cinesi escono ottimi professionisti e le aziende preferiscono assumere loro, che sono altrettanto preparati ma costano molto meno . Per i giovani come me credo che oggi sia più conveniente lavorare con la Cina, ma stando in Italia se possibile, o comunque in occidente». Insomma per i salmoni è già diventata più dura risalire la corrente. Meglio salire in superficie e farsi trasportare dall’onda, là dove decide di portarti. Imparando a stare in bilico tra due mondi come su una tavola da surf. (ha collaborato Stefania Culurgioni)

Ma allora, perché tornare in patria, dopo così poco tempo? È una decisione che, in fondo, noi che l’abbiamo conosciuta in questi mesi, non siamo ancora riusciti a spiegarci. Eppure, i tanti messaggi di saluto da Facebook, le e-mail e le foto che manda ce la fanno immaginare contenta, per nulla pentita della scelta fatta. «Alla fine – mi ha scritto una volta sulla posta elettronica – l’italiano è tutto difficile, tutto diverso, e anche l’Italia è difficile, diversa». Mi viene da pensare che questa frase voglia dire tante cose e non parli solo di ideogrammi e alfabeto latino; penso significhi anche che l’integrazione, spesso, è vicina, ma anche lontana. Che si incontrano persone aperte, ma anche altre ostili e indifferenti. E che l’Italia, che sembra ricca di opportunità, è piena di ostacoli per i giovani in cerca di una propria strada. Tornata a casa, Chloe lavora nella gestione dell’azienda tessile dei genitori: «Tessuti di qualità – precisa –, con cui si fanno i vestiti dell’alta moda italiana. È un’azienda che cresce di anno in anno e mi sembra di poterci fare qualcosa di utile». Così, alla fine, è prevalso il “richiamo” del ramo familiare d’origine. O forse, semplicemente, la scelta di affidarsi al vecchio gigante asiatico, dove, a differenza che in Europa, la crescita economica, per quanto disomogenea e per certi versi poco sostenibile, porta ai giovani sempre nuove opportunità. Paola Malaspina

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Sanatoria: solo una parte degli interessati ha avanzato richiesta

Ahmed l’emerso, ma è uno tra i pochi di Paolo Riva

Sanatoria boom di domestici 134.576 Fonte: Ministero dell’interno - diPartiMento Per le libertà civili e l’iMMigrazione

richieste di sanatoria presentate alla mezzanotte del 15 ottobre

111.261 le richieste di sanatoria per lavoro domestico

17.328 le richieste di sanatoria per lavoro subordinato

19.055 le richieste presentate a Milano, città con più richieste di emersione, seguita da Roma con 13.815, Napoli 11.111 e Brescia 5.214

15.770 le richieste presentate da cittadini del Bangladesh, nazionalità più numerosa, di cui ben 14.359 per lavoro domestico. Seguono Marocco (15.600 richieste, di cui 12.647 per lavoro domestico), India (13.286, di cui 10.593), Ucraina (13.148, di cui 12.632), Pakistan (11.728, di cui 10.489), Egitto (10.701, di cui 8.285), Cina (10.198, di cui 8.814) e Senegal (6.296, di cui 5.828)

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Alla fine Ahmed ce l’ha fatta. O meglio, pensa di avercela fatta. Scarp l’aveva intervistato a settembre, nel bel mezzo del mese di tempo disponibile per partecipare alla “Regolarizzazione lavoratori stranieri 2012”, e lo aveva trovato disperato perché non aveva né i requisiti né i mezzi economici per mettersi in regola. Ora, invece, sbandiera con fiducia i documenti che sanciscono la sua partecipazione all’ultima delle tante sanatorie volute dai governi (di ogni colore) del nostro paese. Mostra speranzoso la “Dichiarazione di emersione”, il documento con il quale il suo datore di lavoro ha chiesto allo stato di sanarne la posizione di lavoratore immigrato irregolare, pagandogli sei mesi di con numeri nettamente inferiori rispetstipendio e contributi e versando una to a quelli della sanatoria 2009, pur es“penale” di mille euro. «Per i documensendo quella riservata solo a colf e bati, sono a posto», gongola Ahmed, pur danti». Il Sai effettua anche consulenze essendo ancora “clandestino”, fino a legali gratuite. Delle 19.055 domande quando la sua domanda non sarà stata compilate in provincia di Milano (reaccettata. cord nazionale), molte sono passate per Alla mezzanotte del 15 ottobre, data i suoi uffici, poco lontani dalla Stazione ultima per presentare richiesta, il miniCentrale. «Abbiamo avuto meno richiestero dell’interno ha ricevuto 134.576 ste che in passato – afferma Di Iorio – moduli come quello con i dati di Ahanche perché il provvedimento è stato med. Una cifra in linea con le previsioni del ministro per l’integrazione, Andrea Riccardi, che ad agosto aveva detto di aspettarsi tra le 100 e le 150 mila domande, ma deludente secondo molte organizzazioni del terzo settore che si occupano di immigrazione. La fondazione Leone Moressa di Mestre, per esempio, alla vigilia del provvedimento aveva stimato che la sanatoria avrebbe dovuto interessare circa 380 mila lavoratori. Così non è stato. E chi lavora a stretto contatto con i lavoratori stranieri se ne è accorto subito.

Numeri molto bassi «Nonostante il permesso di soggiorno sia ancora oggi un documento agognato dalla gran parte degli immigrati irregolari presenti nel nostro paese – spiega Pedro Di Iorio, dello Sportello accoglienza immigrati di Caritas Ambrosiana –, questa volta ci siamo confrontati


l’inchiesta approvato in estate, ma soprattutto perché, come hanno sottolineato molte altre realtà della società civile, i costi erano elevati e la presenza continuativa nel nostro paese da almeno il 31 dicembre 2011 era difficile da dimostrare. Poi abbiamo notato anche una forte diffidenza da parte degli immigrati, cresciuta sicuramente dopo l’esperienza del 2009, ovvero dopo quella che è stata ribattezzata “sanatoria truffa”, a causa dell’alto numero di domande rifiutate». Nonostante il calo, però, a rivolgersi più spesso al Sai sono stati i lavoratori che dovevano regolarizzarsi, non i datori di lavoro che avrebbero dovuto pagare per ciascuno dei loro dipendenti assunti “in nero”. Una spia di come i costi della sanatoria siano ricaduti molto spesso sugli immigrati. Sia quando questi avevano davvero un lavoro non in regola, sia quando hanno fatto ricorso a intermediari per ottenere i documenti pur non avendone i requisiti.

Ahmed ci sta tentando È il caso di Ahmed. Arrivato dall’Egitto a Lampedusa alcuni anni fa, è salito al nord senza documenti e, dopo aver lavorato in nero per un’impresa di pulizie, è rimasto disoccupato pochi mesi fa. In linea teorica, non avrebbe potuto partecipare alla regolarizzazione, ma, in un anno in cui il governo ha scelto di non emanare alcun decreto flussi, la parola “sanatoria” ha acceso in lui grandi speranze. Così ha iniziato a chiedere a

Caritas Ambrosiana

Gualzetti: «Basta sanatorie, bisogna scrivere nuove leggi» Che qualcosa non torni nei dati della sanatoria è sensazione comune a molte realtà del terzo settore e del privato sociale. «L’esito, modesto, della sanatoria mostra come la politica dei condoni in materia di immigrazione mostri ormai la corda – spiega il vicedirettore di Caritas Ambrosiana, Luciano Gualzetti –. La sanatoria andava fatta per cercare di porre rimedio ad anni di politiche migratorie non adeguate. Occorre lavorare a una nuova legge per regolarizzare gli ingressi di manodopera straniera, invece di intervenire quando ormai sono tutti irregolari». Circa l’80% degli stranieri che hanno fatto domanda di regolarizzazione hanno dichiarato di lavorare come colf o badante. «Una quota troppo alta e molto sospetta – continua Gualzetti –, anche perchè la maggior parte di queste domande viene da immigrati di nazionalità marocchina, un paese che non è affatto noto come esportatore di manodopera domestica...». Ci sono, invece, gli esclusi, ovvero gli immigrati che un’occupazione in nero ce l’hanno per davvero, ma che non sono stati toccati da una sanatoria che prevedeva alti costi (fino a 5.000 euro per le aziende e a 1.600 per le famiglie). Il provvedimento non ha coinvolto gran parte della manodopera straniera meno qualificata e più sfruttata: gli edili, chi lavora nelle pulizie, i braccianti agricoli. L’immigrato reclutato la mattina alle 4 non ha certo chiesto al caporale di essere messo in regola. «Il problema vero – ribadisce con forza Gualzetti – è che non si può andare avanti con le sanatorie. Anche perché sono usate da chi fa favori, per esempio assunzioni fittizie, lasciando varchi ad abusi. Più in generale, non va bene una legge che sanziona i clandestini, per poi arrivare alla sanatoria, perché ci si rende conto che sono diventati troppi e creano problemi a imprese e famiglie. Bisognerebbe rivedere la logica, cambiando la legge sugli ingressi e sulla durata dei permessi e poi, nel caso, essere un po’ più rigorosi sulle condizioni di permanenza, nella massima chiarezza, ma con realismo».

chiunque di fingere di essere il suo datore di lavoro, per potere presentare la domanda. Prima ad amici e conoscenti, poi a connazionali e compagni di preghiera nella moschea, che frequenta ogni venerdì. E qui ha trovato alcune risposte. La prima è stata una richiesta di 10 mila euro. Scartata. «Quei soldi – racconta – non ce li avevo. Poi però ho incontrato un altro mio compaesano, che mi ha chiesto 3 mila euro. Allora ho chiamato mio fratello in Egitto e gli ho domandato un prestito: ho pagato mille euro subito, mille alla presentazione della domanda. Gli ultimi li pagherò quando avrò ottenuto il permesso».

Molti dubbi sulle domande Ma perché tanta differenza di prezzo tra le due richieste? I conti sono semplici. La normativa consente la regolarizzazione solo per i lavoratori subordinati assunti a tempo pieno, mentre se si impiega un immigrato irregolare nel lavoro domestico è possibile sanare la sua

posizione anche se è assunto part time. Il risultato è stato che su un totale, come detto, di 134.576 domande, 115.969 hanno riguardato collaboratori familiari e assistenti a persone autosufficienti e non. «Per come è concepito, il provvedimento – spiega Laura De Carlo, avvocato esperto di questioni di immigrazione – favorisce la regolarizzazione di rapporti di lavoro duraturi, collaudati, nei quali ci sono conoscenza e fiducia reciproche. Un esempio è proprio quello della collaboratrice famigliare che è in casa ormai da anni». E infatti la quarta nazionalità più rappresentata nei dati del Viminale è quella ucraina, con 13.148 domande, mentre sono 2.989 le domande provenienti dalla Moldavia. Al tempo stesso, però, nella graduatoria degli stati d’origine, nei primi posti figurano Bangladesh e Marocco, Pakistan, Egitto e Senegal, paesi dai quali non provengono certamente la maggior parte dei lavoratori domestici oggi presenti in Italia.

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Speranza, un filo. Sennò ti suicidi Aniello Arena, ergastolano, protagonista del film “Reality” di Garrone: «Il teatro, un luogo di libertà nella massima oscurità della prigione» di Daniela Palumbo Il teatro ti salva, ce lo ha detto Gianfelice Facchetti, che cura la regia di un laboratorio teatrale nel carcere di Monza. Non è un’esagerazione. Ti salva quando sei dentro e vivi schiacciato in quel limbo dal quale non riesci a vedere via d’uscita. Capita che quest’ultima non sia prevista, in effetti: accade per gli ergastolani, gli eterni reclusi nei nostri luoghi di pena. Al mese di giugno 2012, secondo i dati dell’associazione Ristretti Orizzonti, se ne contavano 1.546. C’è senz’altro una buona ragione per gli ergastoli, ma se il carcere diventa, come è adesso, un luogo di alienazione mentale e fisica, all’interno del quale l’unico antidoto alla disperazione è (nell’indifferenza generale) il suicidio, allora non c’è dubbio che il sistema detentivo italiano sia fallito. E infatti se muore la speranza, non resta che il suicidio, ci ha raccontato Aniello Arena, l’ergastolano protagonista di Reality, l’essere dentro. Da allora molti secoli sol’ultima fatica di Matteo Garrone. no passati. Non c’è più il soldato della *** camorra. Oggi c’è un uomo che sta tenAniello Arena non vuole parlare del pastando la ricostruzione, dentro, in quegli sato. Era un altro Aniello, quello di spazi profondi dove c’è posto per il rivent’anni fa. Era un soldato arruolato morso, per la pietà. E per la speranza. dalla camorra. Ci fu una strage a Barra, Basta saperli cercare. Aniello ha impain quel di Napoli, nel 1991. Ci scapparorato a farlo. Un lento processo di rinano i morti, tre. Ad Aniello diedero l’ergascita, messo in moto dal lavoro teatrale. stolo. Dopo anni di carcere a Viterbo, Arena è un vero attore, ha talento. Se dieci anni fa lo trasferirono a Volterra. Lì ne è accorto anche il regista Matteo Garincontrò Armando Punzo, che aveva rone che, dopo Gomorra, ha realizzato fondato una compagnia teatrale con i Reality. E ha voluto Arena come protadetenuti: la Compagnia della Fortezza. gonista. Nella finzione cinematografica Aniello aderì al progetto per curioAniello è Luciano, che sogna di essere il sità, per sfuggire al vuoto alienante delprotagonista del Grande Fratello, ma a un certo punto non riesce a immaginare altra vita che quella inverosimile del GF. E si ferma, aspettando che arrivi; intanto perde di vista un’altra vita, quella nel mondo reale, la sua. Luciano si perde nel mondo dei balocchi. Una metafora del nostro tempo. La spiega bene Aniello, che con la sua semplicità alla Troisi sa cogliere l’essenziale. «Mi guardo intorno e penso che le persone vogliono più apparire che essere – racconta –, passano un minuto in televisione e pensano che sia la gloria. Ci sono tante persone come Luciano, Attore a tutto tondo forse ce l’abbiamo tutti dentro un LuAniello Arena in Reality. A destra, ciano: sono quelli che vogliono tutto e Armando Punzo e Aniello Arena subito, guadagnare senza sacrifici. Mi in Pinocchio, lo spettacolo della Ragione

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viene in mente la fragilità dell’essere umano perché il film, in fondo, racconta un viaggio mentale. Le persone pur di apparire fanno qualsiasi cosa, è un fatto di esistere: vogliono apparire per esistere, è come se gridassero ci sono anch’io, ma alla fine è illusione». Ti sei chiesto perché Garrone ha scelto proprio te? Lui è sempre venuto a vedere gli spettacoli teatrali che facevo, ci siamo cono-

sciuti nel 2005. Quando fece Gomorra, nel 2007, mi chiamò. Ma i tempi per me non erano maturi e il giudice disse no. Ma lui non si è dato per vinto e mi ha richiamato. Tenacia premiata. Come è stato lavorare per Reality? Come ti sei preparato al ruolo?


l’esperienza Quando mi ha scelto per fare Luciano, Garrone non voleva darmi neppure la sceneggiatura: aveva paura che non fossi spontaneo. Lui lavora un po’ come in teatro, gira in sequenza le scene e allora il personaggio te lo fa crescere dentro, te lo fa vivere emotivamente. Per me va bene così, io lavoro più di pancia, d’istinto. Mi immergo dentro il personaggio e lo “vivo” proprio, infatti a un certo punto quando ho visto Luciano che andava alla deriva, non si rendeva più conto dei veri valori della vita, trascurava i figli e la moglie, mi ha fatto pena. Un giorno sono arrivato sul set e mi sentivo male per come era ridotto Luciano, col suo dramma. Matteo mi capiva. Lui ti dà la struttura, i passaggi, ma poi gesti, parole e azioni le devi mettere tu.

Teatro in carcere

La Fortezza: «Come i copioni, i destini si possono cambiare» La Compagnia della Fortezza compie 25 anni nel 2013. Fin dall’inizio ha operato dentro il carcere di Volterra, gli attori sono sempre stati i detenuti. Almeno una cinquantina. «Sono loro che scelgono di far parte della compagnia. Nel tempo si sono avvicinati in tanti e difficilmente se ne allontanano – racconta Armando Punzo, regista, fondatore della Fortezza –. Magari restano a fare gli elettricisti, i fonici, gli aiuto registi, ma quando si avvicinano alla libertà del teatro, non vanno più via». Armando Punzo ha scelto un carcere per fondare, circa 25 anni fa, una sua compagnia di teatro. «Non per compassione o per motivi umanitari – specifica –, ma perché volevo fare teatro in un luogo non convenzionale. Avevo voglia di sperimentare, di fare altro rispetto al teatro ufficiale. Il carcere è un luogo di osservazione straordinario dell’essere umano. Uno di quei luoghi dove il palcoscenico riesce a scardinare la realtà. Lavoriamo su copioni, ma non accettiamo mai la versione ufficiale dei testi. Dopo la lettura iniziamo a modificare, a tentare nuove strade. Perché la magia del teatro è questa: ti permette di cambiare ciò che era scritto, perché ti mette in gioco senza mediazioni».

Che vita fa oggi Aniello Arena? Sto con l’articolo 21 dell’ordinamento carcerario, ossia ergastolo con lavoro esterno. Noi andiamo a fare tourné con Armando Punzo. Da dieci anni ho contratti di lavoro con Carte Blanche, l’associazione culturale della Compagnia

Carceri allo stremo situazione disperata 66.568 i detenuti nelle carceri italiane a settembre 2012 (2.801 donne e 23.383 stranieri)

45.849 la capienza regolamentare

20% i detenuti con un lavoro (11.508 per l’amministrazine carceraria e 2.257 per l’esterno)

148,2 Fonte: associazione antigone - ristretti orizzonti

detenuti ogni 100 posti letto in Italia, sono 96,6 in Europa

della Fortezza. Ogni giorno esco alle 9 dal carcere e rientro alle 18.30, dal lunedì al venerdì, sabato e domenica resto dentro. Ho 44 anni, sono separato e ho due figli, uno di 23 e uno di 22 anni, spero di saper loro trasmettere quello che sono adesso, non l’Aniello di prima. Poi ho 45 giorni di permesso premio al-

37% i detenuti stranieri in Italia, sono l’11,5% in Europa

E ai detenuti la magia del teatro regala la libertà di guardare alle cose da altri punti di vista, di riflettere su se stessi e sulla propria vita da prospettive diverse. Il teatro di Armando Punzo, in particolare, racconta al detenuto che i destini si possono cambiare, se ci si lavora, come a un copione, metafora di vita. Per questo ci mettono il cuore e l’istinto, in uno spettacolo. «Perché i limiti di libertà di un detenuto – riflette Punzo – in realtà sono una metafora dei limiti dell’Uomo, che è bloccato, prigioniero di una realtà che pensa di non poter cambiare. Il teatro ribalta questa visione e restituisce la libertà di modificarla».

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La Compagnia della Fortezza ha un protocollo d’intesa con il ministero della giustizia, dipartimento i suicidi in carcere nel 2011 dell’amministrazione penitenziaria, la regione Toscana, la provincia di Pisa, il comune di Volterra e l’Ente teatrale le persone che usufruiscono delle misure alternative al carcere in italiano. Ciò garantisce alla compagnia Italia, sono 120 mila in Germania di Punzo un riconoscimento del ruolo pilota nell’ambito del sistema penitenziario. Ma soprattutto garantisce ai detenuti opportunità di lavoro e dignità. Gli spettacoli, a differenza di altre realtà teatrali che operano nel carcere, sono aperti alla comunità esterna e spesso sono i detenuti ad andare fuori dal carcere per recitare. Attualmente, Compagnia della Fortezza sta raccogliendo le firme di quanti vogliono sostenere il progetto di Teatro Stabile dentro il carcere di Volterra. INFO www.compagniadellafortezza.org i morti in carcere nel 2011

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13 mila

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Speranza, un filo. Sennò ti suicidi l’anno, sono i giorni più belli, me li segno tutti sul calendario. Quanto bene fa il teatro a chi sta chiuso dentro? Il teatro è un luogo di libertà. Quando entriamo nella sala teatro ci dimentichiamo di stare in carcere e si inizia a lavorare. Anno dopo anno il teatro mi ha fatto mettere tutto in discussione, ho cominciato a farmi domande, mi chiedevo: “Ma come ho fatto fino a ora? Dove ho vissuto? Come ho fatto a vivere e a non conoscere questo altro aspetto della vita?” Perché il teatro è vivo ti fa vedere le cose che prima non vedevi. Io non ho frequentato le scuole e non arrivavo

proprio a capire che c’era un altro mondo, oltre a quello dove avevo sempre vissuto. Con Armando facciamo teatro sperimentale, non lavoriamo su un copione precostituito, lui decide un argomento o un libro e poi il copione lo costruiamo tutti insieme con la discussione, il confronto. Lavoriamo molto sulla fisicità, sulle parole, sull’istinto, parliamo di tutto, a ruota libera; allora ti poni domande che mai ti saresti sognato. Così come non mi sarei sognato di leggere Shakespeare: all’inizio sono stato costretto, ma poi mi ha preso una voglia di leggerlo sempre, perché mi ha conquistato. Insomma, grazie al teatro ho scoperto che esiste un altro Aniello.

Quando la guardia chiude la tua cella, dopo essere stato fuori tutto il giorno, che accade dentro di te? Quando senti la chiusura alle tue spalle... Dieci anni fa sì, perdevo la speranza, mi sembrava che niente avesse importanza. Adesso però è diverso, io esco e lavoro. Faccio teatro, è un lavoro che mi piace, a 44 anni la speranza cresce sempre di più. Però ho passato anche i momenti del buio, lo so che significa. Eppure, anche quando sembra tutto nero, l’ultima cosa che si perde è la speranza. Nella massima oscurità, anche quando dici la mia vita è finita, dentro c’è sempre la speranza. Anche un filo, ma c’è. Se non c’è, allora ti suicidi.

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Meraviglie del calcio, l’anima in Parla l’autore di “La partita”, che nel carcere di Monza diventerà un lavoro teatrale grazie L’istante prima di un tiro al volo, mentre il pallone scende dal cielo degli dei sul collo di un piede in corsa. L’eternità di una mischia in area piccola, quando ogni respinta non è mai l’ultima, e ogni tiro non è mai quello decisivo. Il fischio con cui l’arbitro, indicando il dischetto del rigore, cambia il corso di un Destino che pareva segnato. Il colpo di testa così perfetto che trasforma la mollezza di un cross nella violenza di un bolide diretto all’angolino basso. E la finta di corpo che in un istante “siede” l’intera difesa avversaria. Scrivere ciò che vorresti leggere è da sempre uno dei pochi punti fermi della mia attività di romanziere. Perché, come buona parte dei lettori, quando apro un nuovo libro, non ho voglia di buttare via il mio tempo, ma solo di calarmi dentro un’avventura letteraria in grado di arricchirmi, farmi aprire gli occhi, evadere dalla realtà, scoprire universi paralleli al nostro. Così ho cominciato con un thriller, puntando a qualcosa che non mi “tattica”, “talento”, “forza” e facesse dormire di notte. Ho continuato “debolezza”. E, come se ciò con una storia di musica e sentimenti, tenon bastasse, il calcio mi nendo presente ciò che di solito mi tocca ha donato istanti, ore e nell’intimità. E giunto alle soglie del ternotti insonni di assoluta zo romanzo, ho inevitabilmente pensato al calcio. Dico “inevitabilmente” perché, Felicità, dovute a una vittoria, a un gol, a un’azione da quando sono venuto al mondo, il calmai vista e vissuta prima. cio occupa in modo incessante i miei A un certo punto ho tipensieri, inteso non solo come gioco di rato le somme e, né nel sasquadra, ma anche come mitologia polotto di casa, né negli scafpolare, specchio della società e, sopratfali delle librerie, ho trovatutto, scuola di vita. to ciò che faceva al mio caso. Nessun roLa ragione è presto detta: come spetmanzo italiano pubblicato per fare la tatore e giocatore, dopo quelle derivate mia gioia di lettore, ma caso mai uno stildagli affetti, il calcio mi ha dato le gioie e le emozioni più forti della mia esistenza. licidio di scritti a sfondo autobiografico che di volta in volta prendevano spunto Mi ha aiutato a conoscere persone, conda rimasticati ricordi di Italia-Germadividere passioni, contemplare la Belleznia, apologhi sulla squadra del cuore, za attraverso un anticipo di Gaetano Scicommistioni fra microstorie sportive e rea o un “sinistro” di Gigi Riva, considemacrostorie politiche. Nessun pallone rare gli imperscrutabili influssi del Fato che scende dal cielo degli dei, nessuna sugli eventi umani, ragionare su termini fondamentali come “singolo”, “collettivo”, finta con cui far sedere una difesa intera,

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nessuna fuga sull’ala verso il cross battuto sollevando una nuvoletta bianca dalla linea di fondo, nessuna mischia in area simile a una furente rappresentazione del Caos. Nessuna “Partita”. Qualcosa di meglio ricavavo da autori inglesi come il Nick Hornby di Febbre a 90, o il Colin Shindler di La mia vita rovinata dal Manchester United. Libri splendidi, scritti lavorando sul punto di vista del tifoso-spettatore che accosta le vicende della sua esistenza a quelle della squadra del cuore. Ma anche in questi best seller britannici si rinvengono echi appena sbiaditi di quanto ispira l’adrenalina di un dribbling sulla fascia, l’impeto di un tackle scivolato, l’illuminazione di un assist lanciato da quaranta metri. Tutte meraviglie derivate da un calcio più giocato che guardato. Lo stesso football praticato di cui avrei tanto voluto leggere in romanzi costruiti su imprecisabili dosi di sudore, classe, agonismo, poesia, strapaese, dilettantismo e fedeltà alla causa. Una volta constatato che nessuno aveva provveduto, mi sono sentito ancora più obbligato a provarci. Perché questo è il calcio che ho vissuto assieme ad amici e avversari di infinite partite giocate sui campi di una giovinezza sovente sul filo di sembrare “inventata”,


l’esperienza

Gianfelice Facchetti

«Nel delirio del carcere fare teatro a volte ti salva»

un cross alla compagnia Facchetti tanto forti erano le emozioni provate su quei campi di fortuna quasi sempre senza arbitro e a volte con un pallone così precario e malandato che la sua scomparsa fra le pannocchie sanciva anzitempo la fine, o per lo meno la sospensione, delle ostilità. Tornando agli anni Settanta dei miei tornei giovanili, non è stato difficile mettere assieme due squadre di diciottenni ideologicamente “nemiche” (compagni e camerati), una partita interrotta da un tiro a campanile finito nel granoturco, e lo stratagemma alla Dumas di ritrovarsi non un anno dopo, e nemmeno venti come i moschettieri, ma trentatré. Fondamentale era far tornare in campo quegli ex ragazzi degli anni Settanta per un’unica ragione: giocare a calcio davvero, pur con tutte le rughe, gli acciacchi, i compromessi e i dubbi portati dall’incalzare degli anni. Una volta trovate le soluzioni narrative grazie a cui far scorrere l’intreccio senza indulgere nel goliardico o nel patetico, la storia si è depositata sulla carta con irruente naturalezza. E se alla fine a qualcuno è piaciuta, come a Gianfelice Facchetti, è stato di sicuro per il “tud” di un tiro al volo, il sospiro di un cross battuto con l’anima al posto del piede, il sordo rintocco di un palo colpito prima della gioia o dello sconforto… Sensazioni uniche, che si vivono solo in una “Partita”..». Stefano Ferrio

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«Ho incontrato Stefano Ferrio (autore del libro La Partita, edizioni Feltrinelli, ndr) al Bancarella Sport, perché eravamo in finale tutti e due. Il suo libro mi ha appassionato perché mi ci sono ritrovato, come tutti quelli che amano il calcio. Con i ragazzi del carcere di Monza avevamo in mente di rappresentare proprio qualcosa legato allo sport: la scelta a quel punto è stata facile». Gianfelice Facchetti (foto a sinistra) conduce un laboratorio teatrale dentro il carcere di Monza, circa venti persone che ogni anno realizzano uno spettacolo, sia all’esterno che all’interno del carcere. «La Partita però dobbiamo rappresentarla fuori e stiamo cercando una sede, per dicembre 2012: prima di Natale vogliamo metterla in scena. Il teatro del carcere si è allagato e la struttura non è sicura, la situazione delle carceri è spaventosa, e Monza non sfugge a questa realtà». Facchetti si è formato teatralmente con Quelli di Grock, storica scuola di teatro milanese, e ha cominciato subito a lavorare come attore. Ma la passione era la regia e adesso alterna l’incarico in carcere agli spettacoli con la compagnia teatrale Facchetti/De Pascalis, di cui è regista, autore e attore, fondata insieme a Pietro De Pascalis. Suo papà era Giacinto Facchetti, che con i suoi 75 goal e l’aspetto da signore del calcio è stato un personaggio mitico dell’Inter e della Nazionale azzurra. Lui, Gianfelice, classe 1974, ha vinto lo scorso anno il Bancarella Sport con il libro dedicato proprio al padre (Se no che gente saremmo, edito da Longanesi). «Ho scelto La Partita per il potenziale simbolico del calcio: è un codice universale, parla a tutti e su piani diversi. C’è il valore dell’individualità e quello del collettivo, del fare squadra. Oggi, certo, il calcio è altro, è mercato e tv. I ragazzini non hanno più gli spazi verdi nei quartieri. Noi però lo rappresentiamo come valore universale, positivo». Il copione prevede che si cominci dal libro di Ferrio, ma poi si attinga ai racconti dei detenuti, al loro vissuto. Il metodo di lavoro di Facchetti prevede, infatti, un copione partecipato. «Ho chiesto ai ragazzi di raccontarsi dal punto di vista sportivo. Narrando la propria storia con lo sport arriva anche il resto; c’è una soglia precisa, il punto di rottura con lo sport intrapreso, che poi si porta dietro tutto il vissuto. Lì dentro peschiamo il contenuto della rappresentazione». Oggi Gianfelice Facchetti farebbe molta fatica a staccarsi dai luoghi del carcere, per quanti tristi, fatiscenti, angoscianti. «I detenuti fanno teatro per perché li fa stare bene, non hanno altre aspettative se non il piacere di farlo. Hanno una vitalità e una libertà nell’approccio al recitare che non esiste negli spazi ufficiali. Lavorano su se stessi in profondità, ma si raccontano con libertà, con spontaneità. Poi in carcere il teatro è un lavoro corale». Nell’ultima esperienza, Facchetti ha voluto addirittura coinvolgere nel laboratorio teatrale anche alcuni detenuti dell’infermeria. «Un limbo nel limbo – racconta –: sono persone sotto psicoformaci, spesso da lì non esci mai. Eppure, nel nostro caso, i risultati sono stati sorprendenti. L’anno scorso siamo arrivati alle ultime settimane di prove e loro andavano dai medici e chiedevano di dimezzare la cura perché si sentivano bene. Il teatro è così, ha fatto bene a me per primo. Ti dà energia, mette in moto risorse, sentimenti che credevi sotterrati. In una situazione delirante come quella delle nostre carceri, a volte ti salva. Lo sanno anche gli agenti di guardia, che si danno da fare per agevolare il laboratorio perché vedono che il teatro restituisce tutto, dunque la squadra si è allargata. Speriamo che nel 2013 ci siano ancora i finanziamenti per continuare...». novembre 2012 scarp de’ tenis

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milano Ormai ogni quartiere ne ha una. Non insegnano soltanto a fare manutenzione: diffondono la cultura delle due ruote

Ciclofficina, tempio delle bici di città Como Topi sì, acqua no: il Bassone rischia la rivolta Torino Senza stipendio, dormono nei dormitori dove lavorano Genova Al volante ubriachi? Ripara e Impara Vicenza Notte dei senza dimora: emozioni, canzoni e cartoni Modena Vivere bene o meglio? La vita non è spreco Rimini Pericolo o sfida? Il rischio attrae i ragazzi Firenze Scambi europei, pensieri in moschea Napoli Vita da venditore di Scarp: l’esordiente e il veterano Salerno Luci d’artista in centro, i giovani restano al buio Catania Parole in piazza per “l’altra” città

30. scarp de’ tenis novembre 2012

di Simona Brambilla Sono luoghi aperti a tutti, in cui è possibile riparare gratuitamente la propria bicicletta, imparare a usare gli attrezzi, scambiare conoscenze e strumenti. Negli ultimi anni in tutte le città italiane sono state aperte moltissime ciclofficine: versione moderna delle antiche botteghe dei “meccanici ciclisti”, stanno riscuotendo sempre più successo. Sebbene la rete stradale di Milano non agevoli i ciclisti, anche nel capoluogo meneghino se ne vedono sempre di più. Per le riparazioni, gli appassionati delle due ruote hanno un punto di riferimento importante, dal quale possono imparare molto: ne sono nate praticamente in ogni quartiere. In zona Corvetto, per esempio, da poco è stata aperta la ciclofficina Ohibò, nella sede dell’omonimo circolo Arci. «L’idea ci è venuta diversi mesi fa, parlando con i gestori del circolo – spiega Guglielmo, mani e contribuire alla gestione (eviuno dei tre giovani gestori dell’officina –; tando di lasciare in disordine e rompeda entrambe le parti c’era la volontà di re gli attrezzi); il secondo è la condividiffondere la cultura della bicicletta in sione dei saperi, cioè nessuno nasce imuna zona dove mancava un punto di inparato, troverai sempre qualcuno dicontro per gli amanti delle due ruote. sposto ad aiutarti, ma ci aspettiamo che L’idea che sta alla base della nostra citu stesso aiuti a risolvere problemi che clofficina è fornire attrezzi, consulenze e pezzi di ricambio a tutti coloro che abbiano intenzione di imparare a mettere le mani sui meccanismi di una bicicletta, senza doversi sempre e per forza rivolgere a ciclisti professionisti». Non far riparare la propria bicicletta, dunque, ma imparare a ripararla. «Io, Andrey e Marco, gli altri due ragazzi che gestiscono con me la ciclofficina, non siamo professionisti, quindi il tipo di consulenze che possiamo fornire è limitato alla nostra conoscenza, acquisita in altre ciclofficine».

Lo vedi, lo fai, lo insegni “Lo vedi, lo fai, lo insegni”: è questo il motto della ciclofficina autogestita RuotaLibera, sorta nel 2004 su iniziativa degli studenti dell’Università degli studi di Milano, che ben riassume lo spirito delle ciclofficine. «Una ciclofficina – spiegano i ragazzi – funziona sulla base di due principi fondamentali: il primo è riassunto dall’acronimo Diy (do it yourself), ovvero devi venire e sporcarti le

Meccanici democratici La ciclofficina, un luogo dove ci si scambia informazioni e aiuto in maniera gratuita


scarpmilano sai di poter affrontare». Dentro RuotaLibera vengono organizzati corsi di cicloriparazione e presentati libri che trattano il tema. «A fine ottobre, all’interno della facoltà di agraria abbiamo organizzato una settimana di corsi di ciclomeccanica gratuiti, per fornire al numero più alto possibile di persone le basi dell’autoriparazione – spiegano i promotori –. Poi, a conclusione del corso, abbiamo organizzato una festa nel cortile dell’università». Ma RuotaLibera non è solo una ciclofficina, bensì un progetto politico, culturale e sociale. «L’esperienza è nata nel 2004, dopo la sperimentazione di alcune giornate in piazza Leonardo, organizzate da sveglia_cittastudi, collettivo studentesco del polo universitario, che l’anno prima aveva partecipato alle mobilitazioni contro la guerra in Iraq – spiegano gli studenti –. A Milano le ciclofficine e la critical mass (evento che si svolge una volta al mese e che vede migliaia di biciclette invadere le strade di molte città, ndr) si stavano diffondendo. Dal rifiuto della guerra per il petrolio abbiamo tratto lo spunto iniziale per una diversa cultura della mobilità, inclusa la cultura autogestita della bicicletta».

Un mondo di volontari Architetti, consulenti, bibliotecari, grafici, infermieri, precari vari, disoccupa-

Il dato

Immatricolate più delle auto, media e libri si specializzano Le autovetture immatricolate in Italia l’anno scorso sono state 1.748.143, le bici vendute 1.750.000. Quasi duemila in più: un distacco minimo, dal punto di vista numerico, ma dalla grande valenza simbolica. Complice la crisi e il caro benzina, gli italiani stanno riscoprendo l’amore per la bicicletta. Non solo, stanno apprezzando sempre di più il fai da te, il recupero e il riutilizzo di vecchie biciclette, che magari da anni erano stipate in cantina o in cortile. Molti italiani, soprattutto nelle città, si recano infatti nelle ciclofficine di quartiere per riqualificare gli antiquati mezzi di trasporto. Il fenomeno si registra nonostante il fatto che l’Italia non sia propriamente un paese “a misura di ciclista”. Oltre alle strade inadatte, il ciclista urbano deve far fronte anche ad altri problemi: ogni giorno deve infatti affrontare le ire degli automobilisti, che spesso mal sopportano la presenza delle due ruote. E tra i problemi più gravosi spiccano il pericolo per la propria incolumità, il cattivo fondo stradale e il rischio di furto. Un abisso, rispetto agli altri paesi europei; in Germania, per esempio, ci sono 40 mila chilometri di piste ciclabili. Web, giornali e libri: tutti i media raccontano sempre più il fenomeno e cercano di fornire al proprio pubblico consigli semplici e pratici. È il caso per esempio di Ilaria Sesana, scrittrice, giornalista e ciclista, che ha da poco pubblicato, per Ponte alle Grazie e Altra Economia Edizioni, un libro intitolato La manutenzione della bicicletta e del ciclista di città. «Ho iniziato a lavorare al libro circa un anno fa – spiega l’autrice –. L’idea era redigere un vademecum che garantisse agli aspiranti ciclisti i consigli fondamentali per inforcare la bicicletta in totale comfort e sicurezza. Da qui l’esigenza di conciliare diversi temi e argomenti. Oltre alle indicazioni sulla scelta della bicicletta, il libro contiene anche consigli sulla manutenzione e la riparazione dei guasti più comuni (forature, riparazione dei freni). Ma anche suggerimenti su quale sia il tipo di abbigliamento più adatto per chi viaggia sulle due ruote (senza rinunciare all’eleganza) o i consigli per tutelare la propria sicurezza nel traffico». Un libro che insegna come, dove e perché comprare una bicicletta. Come usarla, quando e perché. Come ripararla, addobbarla, migliorarla, coccolarla. Tutto ciò che un ciclista ha bisogno di sapere. Perché «la bicicletta alla fine è una “macchina perfetta”: semplice, e allo stesso tempo straordinariamente efficace».

ti: questi invece sono i volontari che da circa dieci anni gestiscono la ciclofficina Stecca dell’Associazione “+bc”. «Libera unione di meccanici, visionari e inventori, +bc diffonde la cultura delle macchine a pedali, fa formazione ciclomeccanica, organizza ciclofficine di strada e gestisce la Ciclofficina Stecca, dove progetta nuovi modelli di macchine a propulsione umana»: così si autodefiniscono i componenti dell’associazione. La Stecca è una delle officine storiche di Milano. «L’utenza della ciclofficina è decisamente trasversale e anche l’età non è un fattore significativo – spiega Micol Dell’Orto, presidentessa dell’associazione –. La vera linea di demar-

cazione sta tra chi ha voglia di sporcarsi le mani e chi no: per i secondi la ciclofficina non è il posto giusto. Noi non riceviamo finanziamenti, alle persone che vengono da noi chiediamo di pagare a prezzo di costo i ricambi nuovi che eventualmente hanno usato. E se vogliono possono lasciare un’offerta...». La filosofia dell’offerta libera è tipica di tutte le ciclofficine presenti nel territorio, le loro attività non hanno finalità di lucro. L’obiettivo è invece promuovere l’utilizzo della bicicletta come mezzo di trasporto, di aumentare il recupero delle biciclette altrimenti destinate alla spazzatura e di facilitare il recupero della manualità.

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scarpmilano

Non solo pensionati: il centro d’ascolto è nato da trentenni. Regole e verifiche. Ma anche la giusta attenzione a ogni storia

A Pero l’ascolto è faccenda da giovani di Daniela Palumbo Pero è un piccolo centro a nord-ovest di Milano, che ha vissuto storicamente l’immigrazione dal sud Italia: tanti calabresi, pugliesi, sardi, siciliani e così via. Nei primi anni Cinquanta contava poche centinaia di anime, adesso ne ha oltre 12 mila. In maggioranza immigrati nostrani. Ma Pero ha mantenuto una buona tradizione di accoglienza anche con le ripetute ondate di immigrazione straniera. Nel 2003, quando gli immigranti di tutto il mondo hanno cominciato a essere via via più numerosi, il parroco di allora, don Antonio Mascheroni, pensò di lanciare un’iniziativa nuova per la città e la comunità pastorale dedicata a Giovanni Paolo II, qualcosa che rappresentasse un salto qualitativo rispetto alla borsa alimentare, distribuita già da diversi anni: duecento borse al mese per chi non ce la fa a tirare avanti da solo. L’idea non ha preso piede immesieme, con soddisfazione di tutti». diatamente. C’è voluto qualche anno, La Visitazione è aperto il mercoledì ma l’eredità di don Mascheroni è stata dalle 18 alle 21, ma spesso si tira fino alraccolta (nel 2008) da un gruppo di giole 23 per incontrare tutti. Nel corso del vani trentenni, una decina in tutto, vo2011 è stato aperto per 39 mercoledì e i lontari, che hanno iniziato a far funziovolontari hanno incontranare il centro di ascolto “La Visitazione”, to 238 persone. Ogni perall’interno delle due parrocchie di Pero sona viene ricevuta da (dedicata appunto alla Visitazione di due volontari. Poi, una Maria) e Cerchiate (quest’ultima intitovolta a settimana, il lulata ai santi Filippo e Giacomo). nedì, si ritrovano tutti per fare il punto. «È una pratica utile incontrarci insieUn gruppo di amici me, perché ognuno di noi «Essere un gruppo di amici ci ha aiutacoglie dell’ascolto di una to a realizzare il progetto – racconta il persona un aspetto, macoordinatore del centro di ascolto Alesgari lasciandone in ombra sandro Lecchi (foto a lato) –. Ci siamo un altro, altrettanto importante. Gli altri ritrovati insieme, tutti con meno di 30 “colleghi” ci rimandano un feedback anni, con le stesse idee su cosa fare e oggettivo di ogni caso, e così si costruicome organizzare il servizio. Per fortusce un’analisi utile a creare percorsi di na ci hanno dato una grossa mano due aiuto personalizzati. Cercando di fare figure storiche di Pero: Solivana Marrete e attivando le risorse del territorio: chesi e Gino Bolzacchini. Lei da semCaritas e comune di Pero sono i nostri pre è attiva nella comunità parrocchiainterlocutori principali». le, Gino ha un passato da assessore dei Non va dimenticato, in effetti, che i servizi sociali e sa come funziona la giovani del centro di ascolto sono vomacchina comunale. Certo, all’inizio lontari, dunque non hanno competenc’è stato anche qualche screzio: per Soze specifiche. In certe situazioni occorlivana e Gino la provvidenza bastava, re valutare aspetti legali, psicologici, buper noi giovani mettere delle regole era rocratici. Allora ricorrono al sostegno di fondamentale. Alla fine siamo arrivati a Caritas Ambrosiana, che mette in camun compromesso e adesso si viaggia in-

po le competenze dei suoi operatori, oltre a collaborare con il comune e con le sue assistenti sociali.

L’importanza di ascoltare «Ci sono ascolti in cui la persona chiede solo la borsa alimentare. E invece c’è chi ha bisogno di un percorso più complesso: accompagnamento, orientamento al lavoro, sostegno psicologico. In realtà non tutti vogliono entrare in un programma di aiuto – fa notare Alessandro Lecchi –: qualcuno vive la proposta di un percorso di formazione e di nuovi incontri come un’ingerenza nella propria vita. Comunque, non sempre riusciamo a soddisfare il bisogno, anche perché con i tagli il comune non può fare molto: la torta è sempre più piccola e il bisogno cresce. Questo è l’aspetto frustrante». Con circa il 40% delle persone che si rivolgono al centro di ascolto, si riesce comunque ad attuare un percorso completo di risposta. «Il passo successivo è la verifica – spiega Alessandro –. La persona presa in carico viene contattata per monitorare che gli interventi messi in atto diano frutti. È una delle nostre regole. Ma ce ne sono altre: per esempio, la tessera-ascolto vale tre mesi (in modo che le persone tornino alle scadenze programmate con noi)».

Tantissimi gli stranieri A rivolgersi al centro di ascolto sono soprattutto stranieri: l’immigrazione a Pero arriva soprattutto dell’Europa dell’est e dal Sud America. «A differenza degli novembre 2012 scarp de’ tenis

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scarpmilano italiani, molti migranti non possono accedere ai servizi delle istituzioni perché non hanno il permesso di soggiorno in regola. In genere si rivolgono al centro le donne, oltre il 60%; gli stranieri sono giovani, fra i 20 e i 30 anni. Anche fra gli italiani sono più le donne a chiedere aiuto, ma gli italiani sono più “vecchi”: soprattutto nella fascia dai 40 ai 55, perché è quella dove si perde il lavoro; le provano tutte e poi vengono qui quando sono disperati. La povertà materiale si accompagna spesso alla vicenda di una famiglia che si sgretola, di abbandono scolastico, a rapporti che si spezzano, a un clima di sfiducia nel futuro, a debiti e depressione». Al di là dei risultati, resta comunque importante la dimensione umana dell’ascolto: «Si dovrebbe stabilire – ironizza Alessandro – che dopo un ascolto si possa dormire, la sera, invece il sonno è regolato da complicati meccanismi interiori... Un ascolto ti coinvolge, mette in gioco energie che pensavi di non avere, scava dentro di te alla ricerca di ricordi che ti aiutino a decifrare ciò che ascolti. Noi volontari ci raccontiamo le

Volontari all’opera Iniziativa di raccolta di fondi e aiuti realizzata nella parrocchia La Visitazione

nostre attese di fronte all’ascolto e viene sempre fuori la stessa cosa: da una parte vorremmo dare subito una risposta materiale, fare fare fare. Ma nello stesso tempo ci rendiamo conto che chi arriva vuole innanzitutto essere accolto, vuole

raccontarsi. Soprattutto gli stranieri: attraverso il racconto, è come se legittimassero la loro identità, che ha un nome e un cognome e un passato. E che non basta una borsa di aiuti alimentari a riconoscere e onorare».

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Triste icona della crisi, nel centrale mercato di via Crema

Bancarelle del declino, tanti frugano tra i rifiuti di Sandra Tognarini foto di Stefano Merlini È il “polso” più attendibile delle condizioni di una comunità e, in generale, di un intero paese. Stiamo parlando del mercato ambulante. Non cambia molto tra quelli dei piccoli centri e quelli allestiti nei quartieri delle metropoli. Salvo, forse, per un aspetto: nelle grandi città il controllo sociale è minore. E in questo lungo periodo di crisi economica, questo fa la differenza. Soprattutto se hai pochi soldi da spendere e anche trovare da mangiare diventa un sacrificio. Verso le 14 di un venerdì qualunque, in via Crema, a Milano. Per tanti, Porta Romana davvero non è più bella. Qualche commerciante, per lo più del settore abbigliamento, ha già chiuso il suo banco da una ventina di minuti, sfiduciato per le scarse vendite. Altri lanciano gli sconti dell’ultimo minuto, riducendo di una buona metà il prezzo iniziale, mentre i colleghi, in fretta, buttano alla rinfusa in un intorno, come ad accertarsi che nessuangolo qualche cassetta di legno con no lo veda. Poi si decide e, visti in un anverdura ingiallita e frutta ormai guasta. golo un po’ di lattuga e un peperone ammaccato, cerca di pulirli dalla polvere e li mette nel sacchetto. Alcuni comTanti gli anziani in difficoltà mercianti mostrano un po’ di solidaL’incrocio centrale è deserto. Ma dalle rietà per le difficoltà di queste persone e, vie vicine arrivano alcuni anziani, come prima di andarsene, lasciano sacchetti fossero attesi a un tacito appuntamengià pronti con gli avanzi, evitando così to comune. Qualcuno ha il classico picche frutta e verdura debbano essere raccolo trolley da spesa, altri sacchetti apcolte da terra. Ma sono una minoranza. pallottolati nelle mani. C’è chi si guarda

La proposta

Informazione e libera distribuzione per evitare una pratica rischiosa Qualcosa non torna nell’informazione destinata alle categorie a rischio (soprattutto gli anziani che vivono soli), se molti, giorno dopo giorno, girano i mercati ambulanti di quartiere adattandosi, per sopravvivere, a raccogliere da terra (o quasi) i rifiuti alimentari. Con rischio tutt’altro che remoto di ammalarsi. Le strade da percorrere nell’emergenza sembrano due: informare queste persone (magari attraverso unità di strada) dell’esistenza in città di mense dove gli indigenti possono consumare pasti senza correre rischi per la salute; predisporre un coordinamento tra le associazioni dei commercianti, affinché sia in un certo modo “istituzionalizzata” la libera distribuzione (al termine dell’orario di apertura dei mercati e in apposite confezioni) di quanto è rimasto tra gli alimenti in via di deperibilità o un po’ “ammaccati”. Milano ha il dovere morale e sociale di intervenire, per evitare che le persone povere siano indotte a frugare tra i mucchi di immondizia, per evitare di rimanere senza cibo.

36. scarp de’ tenis novembre 2012

La scena degli anziani con i sacchetti è la degna conclusione di una giornata come tante, al mercato. Una giornata in cui, come accade ormai da tempo, il tema e l’esperienza della povertà (o quantomeno della fatica di campare) si manifestano in tanti modi. Basta vedere il potenziale cliente che, durante la mattinata, gira prendendo appunti su foglietti, mentre si trova davanti a gonne e pantaloni, come se confrontasse i prezzi con altri mercati di quartiere, più difficilmente con le boutique del centro. Infine, scuote la testa. E si allontana. Tra due stand gestiti da stranieri è invece in corso una sorta di gara tra banditori: ognuno esalta le qualità della sua merce, cercando di superare le grida dell’altro. Pare di essere al luna


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park e, in un altro momento storico, l’iniziativa avrebbe radunato anche del pubblico, ma non adesso: non si ferma nessuno. Uno sguardo con la coda dell’occhio. E poi via. «Soltanto rispetto a giugno – dice Raffaele Lanotte, proprietario di un banco di frutta e verdura –, gli affari so-

Via Crema, venerdì pomeriggio Anziane donne frugano tra gli scarti delle bancarelle di ortofrutta

no calati del 30% almeno. E prima dell’estate la situazione era già molto difficile. Dal punto di vista di noi commercianti, oltre alla crisi ci sono da tempo anche altri problemi. Per esempio, quando i grossisti ci danno la cassetta con frutta o verdura tolgono al peso complessivo una tara nominale pari a un chilo. Ma, come può vedere, se prendo la cassetta vuota e la metto sulla bilancia, il peso è di un chilo e mezzo. Quindi, ogni volta io pago come merce vendibile ciò che in realtà non lo è. Protestare finora non è servito. Altra questione: anno dopo anno, la gente ha cambiato le proprie abitudini alimentari. Vuole un esempio? Siccome nessuno ha più il tempo o la voglia di sbucciare le patate, che sono pur sempre un alimento sano e primario, ora tutti comprano quelle congelate, che a lungo andare possono anche far male. Con la conseguenza che prima io ne portavo al mercato due o tre quintali e li vendevo quasi tutti, adesso ne porto al massimo 50 chili e mi avanzano. L’educazione alimentare è importante e adesso capita-

no cose che fanno davvero arrabbiare, non solo perché abbiamo vendite minori: la mattina si vedono in giro tanti genitori che, prima di portare i figli a scuola, vanno con loro al bar per fare colazione. Ma si può?».

Si vende solo se costa poco A un vicino banco del pesce c’è il signor Moreno, che prova a fare un’analisi un po’ più ampia. «La crisi ha morso tutti, sia i clienti che i commercianti. Tutta colpa dell’euro – sostiene Moreno –. Finché non entrerà nella crisi anche la Germania, non cambierà nulla. Lo capiscono tutti che se le tasse aumentano crollano i consumi e, se la gente compra di meno, chi vende deve aumentare i prezzi per cercare di sopravvivere, innescando un circolo vizioso che ovviamente riguarda tutte le merci. Questa situazione, tra l’altro, può creare anche problemi di salute, perché molti devono arrangiarsi e si accontentano di alimenti di qualità scadente, magari anche presi tra i rifiuti del mercato». Proprio come gli anziani del primo pomeriggio. Icona di un mercato dove si impara che la crisi non è solo flessione di asettici indici di borsa, ma anche sofferenza concreta e quotidiana.

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latitudine como Il sindacato delle guardie penitenziarie avverte: «Situazione insostenibile»

Topi sì, acqua no: degrado cronico, al Bassone si rischia la rivolta di Salvatore Couchoud

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NA CISTERNA CONTENENTE GASOLIO IN FASE DI SPROFONDAMENTO. Colonie di piccioni

che depositano escrementi già responsabili di un’epidemia di febbre acuta e promettenti la diffusione di ulteriori contagi. “Pantegane” che circolano liberamente nei corridoi, così grosse da incutere soggezione persino ai cani che vi prestano “servizio”. E poi ancora un sovraffollamento da bolgia dantesca, tubazioni così antiquate e corrose da limitare l’afflusso nei rubinetti e nelle docce a un rigagnolo d’acqua putrida e gelida, disinfettanti a tal punto diluiti – quando ci sono – che alcuni degli ospiti in vena di autolesionismo li hanno ingeriti senza danno per la salute. A rendere sempre più irrespirabile l’atmosfera che aleggia sul Bassone, la casa circondariale di Como che dal 1985 avrebbe dovuto accogliere non più di 176 detenuti, ma che al momento ne ha stipati ben 570 tra le sudice pareti di celle sempre più anguste e intasate, sono le esigenze superiori della ragion di stato, che taglia, sforbicia e assottiglia anche laddove ci sarebbe da intervenire, rafforzare e perfezionare, per la dignità dei reclusi, il decoro professionale degli agenti di custodia e la necessità di scongiurare tumulti e disordini in perenne agguato. Per Massimo Corti, guardia penitenziaria con 29 anni di servizio alle spalle e segretario regionale della Federazione Sicurezza della Cisl, «é inesatto parlare di “emergenza” in merito al Bassone, perché si dovrebbe più correttamente descrivere il fenomeno in termini di “insostenibilità”. Sono decenni che chiediamo a gran voce di essere ascoltati, ma gli unici interventi che sono stati praticati sono le imbiancature delle pareti della direzione a ogni cambio al vertice. Intanto l’imminente strategia d’azione del provveditorato annuncia nuovi tagli del personale, dimenticando che al Bassone un agente copre già anche quattro turni di servizio». Se la situazione dei penitenziari della Lombardia è quella che è, a Como va senz’altro assegnata la maglia nera della graduatoria. «Continuando con questa situazione – conclude Corti –, tutto quello che potremo fare sarà cercare di capire fino a quando riusciremo a tirare la corda. Perché i nostri reclusi hanno da tempo esaurito le scorte di pazienza e presto potrebbe esplodere una rivolta dagli esiti imprevedibili». Non resta dunque, per quanto possa sembrare un rimedio del tutto palliativo e generico, che affidarsi alla speranza di una mobilitazione della sensibilità dei comaschi, che conduca a un’effettiva presa di coscienza della gravità del problema. Capire che così non è più possibile andare avanti sarebbe già un primo passo per poi ripartire, ma senza un risveglio reale della cittadinanza sarà difficile ottenere risultati efficaci e duraturi. Altrimenti sarà vietato farsi illusioni sul futuro dell’intera città.

Strutture allo sfascio, sporcizia, sovraffollamento: i reclusi del carcere comasco hanno esaurito le scorte di pazienza

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torino

Il comune non paga, welfare allo stremo Senza stipendio, c’è chi finisce nel dormitorio in cui lavora...

di Giovanni Catanzaro Riccardo Olivieri è il vicepresidente della cooperativa Parella, storica realtà torinese, che da oltre vent’anni lavora con le persone in difficoltà e i senza dimora, gestendo i dormitori comunali e progetti di reinserimento lavorativo. A lui il compito di lanciare l’allarme: da oltre cinque mesi gli operatori non percepiscono lo stipendio, perché il comune è in ritardo con i pagamenti. Le sue parole esprimono preoccupazione, ma anche estrema attenzione alla condizione dei lavoratori del sociale. Un’ attenzione che equivale a un segnale di stima, verso donne e uomini che con il loro lavoro intervengono in favore di molte persone in difficoltà, per un riconoscimento dei loro diritti e della loro dignità. I quali devono essere garantiti e tutelati dai soggetti pubblici, così come prevedono le leggi, a cominciare dalla Costituzione. Riccardo, cosa sta succedendo a Torino? Torino, avendo alle spalle una tradizione industriale, soffre la crisi più di altre Il vento ricopre città: si prevede che nel biennio 20122013 i disoccupati in più saranno circa con le foglie il paesaggio. 100 mila. Non solo. Torino è anche la Un’aria un po’ stanca, capitale degli sfratti. Siamo in un perioci si cerca un rifugio, do di piena emergenza: Torino ha 1 piove. sfratto ogni 360 abitanti, Roma 1 ogni Cammino e sono stanco, 600. In Italia il dato medio degli sfratti non mi giro, per morosità è l’84%, a Torino sono il 92,9% (Istat). Vuol dire che qui tutti gli l’estate che mi riscaldava sfratti sono per morosità, che la gente è passata già da un po’. non ce la fa più. Torino ha una grande Nell’aria odore tradizione di welfare, per dare risposte di castagne, alla povertà, alle povertà “grigie” e ai e odori senza dimora. Una tradizione forse che si confondono. unica, ma oggi gli stanziamenti per fronteggiare la crisi non sono adeguati Durante alla gravità della situazione. il mio cammino Qual è la situazione dei dormitori coun sorriso munali? sforzato, Stanno esplodendo. C’è una pressione ah beh, di richieste esponenziale, per tutte le mi sono ricordato: ragioni di cui ho detto. Negli ultimi anni c’è stata una riduzione delle struttunovembre re pubbliche e una conseguente ridusei già passato. zione dei posti letto. Franck Come va, invece, con i progetti e i

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percorsi di reinserimento? Va segnalato un inasprirsi dei criteri d’accesso per accedere ai sussidi e a quei percorsi che permettono di emanciparsi e di fuoriuscire dal circuito assistenziale. Del resto è sempre più evidente come non basti un tetto per non essere più un senza dimora. Appare chiaro che di fronte c’è una scelta sostanziale e politica. Tutti sappiamo delle enormi difficoltà del comune di Torino, dell’enorme debito accumulato, ma ritengo fondamentale, oggi, dare una scala di priorità alla spesa pubblica. È prioritario dare sostegno alle componenti della popolazione che più subiscono la crisi, perdendo diritti e dignità. I lavoratori della cooperativa sono


scarptorino stati parte attiva nelle mobilitazioni che nei mesi scorsi hanno interessato il settore; oggi qual è la situazione? Non nego che oggi c’è il timore che si possa, per esigenze di bilancio, smantellare quella che negli anni è stata un’azione di sistema, sul versante del welfare pubblico, condotta dal comune di Torino. Sarò brutale: noi non percepiamo lo stipendio da cinque mesi per effetto delle difficoltà di pagamento delle fatture. E la cooperativa Parella è allo stremo. Da tempo chiediamo che sul territorio torinese si riprenda a discutere degli scenari e degli obiettivi di cui ci si vuole dotare per affrontare questa situazione. Una cosa è certa, non potremmo assistere silenti nel vedere colleghi che, nonostante abbiano un posto di lavoro e una professionalità, sono costretti a ricevere i pacchi viveri o cercare ospitalità negli stessi dormitori nei quali operano, perché il comune non riesce a pagare ciò che dovrebbe. Ma il comune non ha soldi... A inizio settembre, mentre eravamo in attesa di risposta circa i pagamenti arretrati, abbiamo appreso della spesa di 360 mila euro per il rinnovo del parco pistole per la Polizia municipale, malgrado l’opposizione degli stessi vigili urbani che non la ritenevano una spesa prioritaria. Nessuno vuole fare demagogia o citare episodi specifici per Ritardo letale Da cinque mesi il comune non paga gli operatori. Alcuni costretti a chiedere ospitalità al dormitorio stesso in cui operano...

Il mercatino

Al Balon si (ri)vende di tutto: «Un’entrata vitale, e la compagnia» Il Balon è un luogo storico di Torino. Di più. Il Balon è un luogo mitico di Torino. Il sabato pomeriggio nelle vie e viuzze che portano alla Dora, scendendo da piazza della Repubblica lungo via Del Maglio, è un susseguirsi di bancarelle dell’usato che espongono ogni sorta di mercanzia. Una babele, un turbinio di voci, accenti e colori da annebbiare i sensi. Centinaia di persone impegnate a mercanteggiare e a sperare nell’affare. Alla domenica, però, c’è un altro appuntamento con l’usato, altrettanto affascinante e particolare. In piazza della Repubblica, al posto delle bancarelle che compongono uno dei più grandi mercati d’Europa, un esercito di venditori ricopre buona parte della piazza con teli e tavolini, su cui è posizionato tutto quanto possa in qualche modo destare interesse o essere riutilizzato. Tante persone in difficoltà lavorativa passano la settimana a recuperare oggetti, per poi trovarsi in piazza a venderli. B. è uno di loro; abbiamo voluto raccogliere la sua storia. Come funziona il mercato della domenica? Chi lo frequenta? Si arriva verso le 6 del mattino, in base al numero della locazione consegnatoci ci si sistema nella piazza. C’è di tutto qui: operai, casalinghe, professori universitari, medici (tra cui anche il mio), e collezionisti di anticaglie. Insomma: sarebbe più veloce elencare chi non frequenta questo mercatino... Dove recuperi la roba? Non avendo un mezzo di trasporto mi appoggio a conoscenti e a un giro di amici. Tutte le volte che qualcuno di loro si trova con oggetti di cui vuole sbarazzarsi, invece di buttarli nell’immondizia mi dà uno squillo e io vado a prelevarli. C’è un detto anglosassone: “L’immondizia di un uomo può essere il tesoro di un altro”. Con chi fai mercato? Siamo tre amici ad affittare due spazi sul piazzale per venti euro ogni domenica. Ognuno di noi lo fa per ragioni diverse. Gino, per esempio, è pensionato, e non lo fa per guadagnare ma per aumentare la sua collezione di monete e francobolli da collezione. Poi c’è Max che, pur avendo un lavoro “normale”, ama stare in mezzo alla gente: è qui ogni domenica a fare l’imbonitore e a conoscere nuove persone. Quanto a me, lo faccio per guadagnare: ho perso il lavoro sei anni fa e questo, oltre al misero sussidio che percepisco, è l’unico modo per avere un’entrata. Ma è anche un modo per passare una bella giornata in compagnia, chiacchierando e magari mangiando e bevendo qualcosa insieme. Mister X

sintetizzare la complessità della situazione, ma a noi operatori, che non abbiamo chiuso un solo giorno i nostri servizi, è stato un gesto che ha fatto molto male. Siamo convinti che il welfare debba essere patrimonio di un paese civile. Nei paesi europei virtuosi in questo ambito, si investe in welfare pubblico; in Italia è il contrario. Vedete una via d’uscita? I capitolati d’appalto prevedono pagamenti delle fatture in 90 giorni. In questo momento il comune è ben oltre i

180 giorni (sei mesi) e la regione sfonda il tetto di un anno. Si sta discutendo sulla possibilità di applicare una normativa europea che, oltre a prevedere pagamenti entro i 60 giorni, ricarichi sugli enti stessi gli interessi di mora (nel nostro caso sono a carico della cooperativa). Non possiamo che auspicare che il governo accolga immediatamente tale direttiva: sarebbe un passo virtuoso per provare a tenere in piedi quell’economia che anche nel comparto del welfare è in crisi profonda.

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La storia

Alberto: «La vita ha senso aggiustando biciclette» Il quartiere Vanchiglia, che si estende sul lato nord-est della città, incuneato tra il Po e la Dora Riparia, è stato connotato, fino alla seconda metà del secolo scorso, da un’elevata concentrazione di botteghe artigiane. In tempi recenti la costruzione dell’università, la progressiva dismissione degli opifici e l’ondata di immigrazione ne hanno mutato notevolmente l’aspetto. Molte botteghe artigiane hanno chiuso i battenti; tuttavia proprio la crisi attuale ha spinto molti, giovani e non solo, a rialzare serrande chiuse da decenni e ad avviare attività in proprio. In Via Tarino 5 esiste da circa un anno una cicloofficina, gestita da Alberto, giovane con un passato difficile alle spalle. «Il progetto nasce da un’idea di mio fratello Stefano – racconta Alberto –; appassionato di ciclomeccanica, mi ha trasmesso la sua passione. Sono stato tossicodipendente per anni, ho vissuto per strada dal 1999 al 2003. Dopo quel periodo ero debilitato e sapevo che non avrei resistito un altro anno, così sono entrato in un centro anticrisi, dove ho conosciuto la madre di mia figlia, però siamo usciti senza finire il percorso, ma abbiamo smesso di farci, eravamo monitorati dai servizi sociali e avevamo paura che ci togliessero la bimba che nel frattempo era nata. L'ultimo mio lavoro è stato il carpentiere edile, ma bevevo molto ed ero diventato autolesionista. Quindi mi sono rivolto al Sert, che mi segue da dieci anni, e sono entrato in una comunità, dal 2009 al 2011. Poi, un giorno, mio fratello mi ha

esposto la sua idea: “Le competenze le abbiamo, gli attrezzi pure: perché non provarci?”. Così è nata Bike Zone, dopo alcuni mesi mio fratello ha preso un’altra strada, ma ormai il seme era germogliato. Adesso mi sento bene, il vestito è sempre lo stesso, ma ho un valore in più. Prima nessuno mi salutava, né si prendeva cura di me, eppure l’aspetto è il medesimo di oggi. Mi sento gratificato perché ora sono io che risolvo i problemi, sento di avere finalmente uno scopo, un ruolo: fosse anche aggiustando le biciclette, essere un riferimento per qualcuno dà un senso nuovo alla vita. Ho un buon riscontro economico, che mi permette una vita finalmente dignitosa. Sto vivendo un bellissimo sogno, che si ripete ogni giorno».

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firenze Favorire l’accesso di persone escluse alle nuove tecnologie: incontro ad Ankara per un progetto tra partner del continente

Scambi europei, pensieri in moschea Il progetto Kafe (Knowledge across fair experience – conoscenza attraverso le buone esperienze) rientra nel programma di scambi europei della linea di finanziamento Gruntdvig. Lo scorso anno, grazie alla collaborazione con l’associazione Biblioteca di Pace di Firenze (che si occupa prevalentemente di multiculturalità), l’associazione Solidarietà Caritas ha ottenuto il finanziamento per attivare il programma di scambi in Romania, Turchia, Svezia e Repubblica Ceca. Il progetto ha la finalità di favorire l’accesso ai nuovi mezzi di comunicazione e tecnologie diffuse a persone che altrimenti ne sarebbero escluse, ad esempio gli ospiti delle strutture di accoglienza della Caritas, per offrire uno strumento di reinserimento sociale e lavorativo e far crescere la società con il contributo di tutti i cittadini. Le attività hanno lo scopo di garantre erano coperte dalla testa ai piedi. tire la conservazione dei beni culturali, Ad Ankara abbiamo partecipato agli la riduzione del tasso di disoccupazioincontri del Kafeproject assieme agli altri ne e l’integrazione degli immigrati, atpartner, provenienti da Svezia, Romania, traverso la riscoperta delle ricchezze Repubblica Ceca e Turchia. Gli incontri culturali messe in campo e la creazione si sono svolti in una bellissima scuola di occasioni di incontro, scambio e conella zona di Mamah di Ankara. Una noscenza. Per questo, alcuni tra i destiscuola veramente particolare, nella quanatari di questa formazione hanno prele non si studiano materie “classiche” ma so parte ad alcuni meeting di scambio. I più professionalizzanti, come cucina primi due si sono tenuti a Firenze e a turca, sartoria, teatro, musica popolare Goteborg, in Svezia; il terzo, da poco turca, e vengono fatti corsi per diventare conclusosi, ha avuto luogo ad Ankara, in estetiste, parrucchiere, maestre, assistenTurchia, ed è quello di cui le nostre amiti alle persone anziane, sarte. In questa che Marilena ed Elisa hanno deciso di scuola le donne possono portare anche i raccontarci qualcosa, in attesa dei prosloro bambini perche c’è un asilo interno. simi a Ostrava (Repubblica Ceca) e SinOltre agli incontri del progetto abca Noua (Romania). biamo avuto la possibilità di visitare la *** città: il castello, il museo antropologico e Andare in un paese straniero, totalmenla bellissima moschea. E lì dentro, ferme te diverso da quello nel quale vivi, provoa osservare i grandissimi lampadari e le ca un misto di emozioni. Così ci siamo belle decorazioni bianche e azzurre dei sentite noi quando abbiamo preso l’aemuri, le persone sedute senza le scarpe, le reo per la Turchia: contente, incuriosite e donne salire su piani diversi dagli uomiun po’ agitate, visti i giorni movimentati che stavano vivendo i paesi musulmani. ni, abbiamo pensato che è assurdo che ci siano guerre per imporre la propria reliArrivate ad Ankara ci siamo sentite tragione, perché alla fine c’è un solo Dio per sportate in un altro mondo. Un mondo tutto il mondo che di sicuro non approcolorato, vivace, con bella musica in sotva tutto questo dolore. tofondo, con ottimo cibo e abitato da persone gentili e simpatiche. Un mondo Marilena Drogeanu (ospite della un po’ strano però, perché alcune donne Casa della Solidarietà San Paolino) indossavano abiti occidentali, mentre alElisa Cappelli (educatrice)

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Inventiva e dedizione 40 anni di Caritas Lo scorso 29 settembre a palazzo Vecchio si è svolto il convegno per i 40 anni di cammino della Caritas diocesana di Firenze, alla presenza di gran parte dei volontari e dei collaboratori che hanno accompagnato questo cammino, oltre che delle istituzioni cittadine. Dopo il saluto del sindaco Matteo Renzi e delle altre autorità, sono intervenuti il direttore della Caritas diocesana, Alessandro Martini, l’assessore per le politiche sociosanitarie del comune di Firenze, Stefania Saccardi, il direttore della Caritas Italiana, monsignor Francesco Soddu, il vescovo ausiliare monsignor Claudio Maniago, per lasciare infine spazio alle conclusioni del cardinale Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze. Il filo rosso di tutti gli interventi è stata una profonda gratitudine, che scorre su un doppio binario: dall’interno si rivolge alle realtà circostanti, che hanno lasciato spazio e dato fiducia alla Caritas, mentre dall’esterno va all’attenzione e alla cura con cui la Caritas si fa carico dei bisogni che emergono nel territorio. «L’auspicio – ha sottolineato Betori – è che continui a fiorire l’inventiva della carità nel venire incontro alle forme sempre nuove in cui il bisogno e l’emarginazione si manifestano, come pure ci si augura che si diffonda sempre più la generosa dedizione di tanti nel farsi prossimi a chi soffre».

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genova Lavori di pubblica utilità, invece di multe o carcere, in caso di guida in stato di ebbrezza. In due anni seguiti oltre 260 casi

Volante alcolico? Ripara e Impara di Mirco Mazzoli Ubriaco alla guida? Non serve immaginare chissà che. Per la legge italiana lo stato di ebbrezza scatta quando il tasso alcolemico del sangue supera i 50 milligrammi per litro, in pratica due birre o due bicchieri di vino o un superalcolico. La scienza conferma: oltrepassata quella soglia, si riducono il tempo di reazione e la capacità di compiere più azioni contemporaneamente, la sicurezza della guida inizia a diventare più apparenza che sostanza. Se ti fermano e l’etilometro rileva alcol da 50 a 80 milligrammi più costruttiva la pena. Una variante paghi un’ammenda da 1.500 a 6.000 partita anche dalla Liguria. «Dal 2010 – euro; sopra gli 80 e poi oltre i 150 millispiega Gabriele Sorrenti, presidente di grammi, alla multa si aggiunge l’arreArcat Liguria – Associazione regionale sto, in misura crescente. E siccome il club alcolisti in trattamento –, anche giudice può commutare il carcere in grazie agli stimoli di chi opera sul tema una ulteriore sanzione amministrativa, dell’alcolismo nella nostra regione, sofinisci per essere condannato al pagano stati modificati gli articoli del codice mento di diverse decine di migliaia di della strada che regolamentano le pene euro. Pene ancora più severe per il caper la guida in stato di ebbrezza e sotto so di procurato incidente, per i neopal’effetto di stupefacenti. Oggi è consententati, per la guida in stato di ebbreztito, anche se non in caso di incidente, za nelle ore notturne. di sostituire multa e arresto con lo svolDa due anni a questa parte, però, gimento di lavori di pubblica utilità». esiste una variante che vuole rendere

Un percorsi di riabilitazione Significa lavori non retribuiti svolti presso istituzioni o enti del terzo settore, in via prioritaria nel campo della sicurezza e dell’educazione stradale. Nasce in questa cornice il progetto “Ripara e Impara – esperienze di giustizia riparativa”, attraverso cui Arcat, in convenzione con il tribunale di Genova e in collaborazione con associazioni

I Cat: agire sui comportamenti. Per cambiare L’Associazione regionale cIub alcolisti in trattamento conta 50 club in Liguria, 40 solo a Genova: affidati ciascuno a un “servitore”’, i Cat (Club alcolisti in trattamento) sono un’esperienza di condivisione e di uscita dal problema dell’alcol che coinvolge la persona e la sua famiglia, con la presenza di volontari ed esperti. La metodologia è quella “ecologico-sociale” del croato Vladimir Hudolin (1922-1996), psichiatra di fama mondiale, che per primo considerò l’alcol non un vizio né una malattia ma un comportamento, uno stile di vita determinato da molteplici fattori interni ed esterni alla persona, tra i quali particolare importanza assumono la famiglia, la cultura generale e quella sanitaria della comunità dove le persone vivono e lavorano. Con Hudolin, l’accento si spostò dall’alcolismo di uno al “bere” di tutti. Hudolin formò al suo metodo più di 10 mila persone: in Italia esso si propagò in modo singolare, tanto che oggi i Cat italiani sono 2.300, e da qui fu esportato in molti altri paesi del mondo. Oltre all’attività dei Cat, in Liguria Arcat conduce varie attività di formazione e sensibilizzazione, tra cui si segnala almeno l’Unità mobile, che percorre la regione per informare la popolazione sul rischio del bere e sul suo cattivo rapporto con la pratica della guida. www.arcatliguria.it - Vico Mezzagalera 4R Genova, tel. 010.251.21.25 www.alcoholnet.net

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di volontariato e realtà del terzo settore, propone al guidatore condannato percorsi di crescita nella consapevolezza degli effetti del bere e nell’impegno sociale. La persona inserita nel programma è affidata a un tutor, che ne segue il percorso e la sua validità educativa. Non si tratta di una formalità: a cose fatte, sarà il giudice, sulla base delle restituzioni avute, a stabilire se l’esperienza è stata affrontata con efficacia e


scarpgenova a sostituirla definitivamente alla pena pecuniaria; 250 euro di multa equivalgono a un giorno di lavoro di pubblica utilità, considerando che il condannato è chiamato a impegnarsi due ore al giorno. «Da gennaio 2011 a oggi – ricorda Sorrenti – abbiamo seguito 206 persone. Sono numeri alti ma, agendo sul problema da 25 anni, non è stata certo una sorpresa: bere è un costume diffuso e, soprattutto, la valutazione della relazione tra alcol e guida è sottovalutata». I problemi legati all’alcol attraversano tutte le età e le fasce sociali, spesso si collegano ad altri comportamenti a rischio, come l’uso di droghe, di psicofarmaci e negli ultimi anni il gioco d’azzardo.

Dare nuovi strumenti «Il nome del progetto – dice il presidente regionale – descrive bene la doppia finalità di questo tipo di pena: da una parte, la persona condannata è

chiamata a riparare, ricostruendo il suo legame con la società sulla base di una ritrovata responsabilità dei comportamenti; dall’altra impara partecipando alla vita della nostra associazione e di quelle che collaborano con noi, acquisisce nuovi punti di vista, si apre ad attività spesso praticate per la prima volta e riscopre il valore della solidarietà, della cittadinanza e della comunità». L’errore si trasforma in occasione di

Lo sfogo

Autoanalisi di un ubriacone «Bevo. Perché la vita è un inferno» Alcolista. Alcolizzato. Etilista (come dicono i dottori). Bevitore (termine che mi fa quasi ridere). Ubriacone. Questi sono alcuni dei titoli che quotidianamente mi vengono appiccicati addosso; sono marchiato a fuoco. Mi riecheggiano vorticosamente nella testa tutte le frasi, le espressioni. I “complimenti” che mi vengono rivolti. Sei sbronzo. Vai a farti un giro. Qui non puoi più venire. E allora dove dovrei andare? Sì, io bevo. Ma perché la mia vita è l’inferno. Loro questo non lo sanno. Nessuno lo capisce. Eppure non do fastidio a nessuno, non creo problemi. Di giorno giro per la città, di notte cerco un rifugio. Sono sempre in movimento. Non sto mai nello stesso posto. E sono solo. In compagnia di una qualsiasi bottiglia. Un tempo stavo bene: un lavoro apprezzato, una casa piccola ma confortevole. Amici, conoscenti. Piacevoli frequentazioni. Qualche problema con la famiglia d’origine, ma niente di apparentemente insormontabile. E poi un rapporto affettivo, sul quale avevo investito. Totalmente. E forse questo è stato l’errore: mi sono gettato a capofitto in una storia molto complicata. Che mi ha progressivamente e inesorabilmente corroso, portandomi in uno stato mai conosciuto di disperazione. Mi sentivo perso, vuoto. E tutto ha cominciato a sgretolarsi. In una spirale di dipendenza; cercando di annullare tutte le ansie e le paure, di annegarle nella sostanza. E così faccio ancora. Sono passati anni. Anche se, nei pochi momenti di lucidità, talvolta mi capita di cogliere il ritmo delle stagioni attraverso qualche semplice gesto della natura. E mi ritrovo a ricordare quando guardavo tutto con occhi curiosi, stupiti. Desiderosi di poesia. E ho il pensiero di ritornare a essere quello di una volta. Un po’ più attempato. Ma quello di una volta. Limpido, sereno. Ora sono offuscato. Bicchiere su bicchiere. Non mi so limitare, non posso fare a meno di bere. Non mi ricordo le cose. Perché sono un alcolista. Ubriacone. Stefano Neri

miglioramento. A giudicare dalle impressioni scritte dalle persone a fine percorso, la cosa funziona: «Grazie per l’opportunità che mi avete dato, grazie per aver reso il “passaggio” un’esperienza viva, utile e coinvolgente»; «Il fatto più interessante è che le informazioni ricevute non rimangono all’interno del corso ma si è portati a parlarne all’esterno e diventano motivo di dibattito»; «Un episodio ingiusto e sfortunato mi ha consentito di vivere un’esperienza educativa, riflessiva e, nel contempo, piacevolissima»; «Terminate le ore obbligatorie, ho deciso che proseguirò l’impegno nell’associazione a cui sono stato assegnato». Le associazioni che collaborano al progetto di Arcat operano nel campo del disagio e dell’emarginazione (Soleluna, Caritas diocesana, Emmaus Ge-

nova, Fondazione Auxilium), con i minori a rischio (Dimora Accogliente), in ambito sanitario (Donatori di sangue Fidas, Associazione ligure Sindrome X Fragile), nella cura degli animali (Amico Gatto). «Proprio il lavoro di rete – commenta Sorrenti – è una delle caratteristiche più convincenti di questo progetto: chi è costretto ad affrontarlo scopre tanti suoi concittadini che dedicano tempo e risorse per il bene della società, e questo schiude nuovi orizzonti. L’altro punto di forza è che la persona non viene chiamata solo a fare qualcosa di buono, ma ad educarsi a considerare i propri comportamenti in base alla loro ricaduta sociale». Una maggiore consapevolezza di sé è un regalo che un’ammenda di migliaia di euro non avrebbe saputo fare.

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vicenza Grande successo per la manifestazione organizzata da Scarp il 17 ottobre, con le realtà che si occupano di senza dimora

Notte di emozioni, canzoni e cartoni di Cristina Salviati

Lei Sabato, Torino città. Salendo sul tram con mia figlia un piede bastardo mi fa inciampare: cado e una mano veloce mi ruba il borsello. Venti euro perduti, ma ancor peggio Il tesserino d’invalidità di mia figlia. Inutili la rabbia, le bestemmie tra i denti. Rimangono la preoccupazione della piccola, la denuncia depositata e l’indifferenza della mia ex moglie nei miei riguardi. Lei, che non crede che nel giro d’un giorno rifarò il tesserino per Marina. Lei, che arriva accompagnata da quell’altro, che non vorrei incontrare e che invece, per l’ennesima volta, s’allontana con loro. Massimiliano Giaconella

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Sono le tre e mezza di mattina in piazza delle Poste a Vicenza e finalmente tacciono le voci dei tanti ragazzi che stanotte hanno deciso di dormire sui cartoni, tra coperte e sacchi a pelo. Le risate e le canzoni sono rimbombate amplificandosi tra le arcate dei portici, tenendo sveglio anche chi, stanco della lunga nottata e un po’ provato dall’età più avanzata, ha provato a chiudere gli occhi. La prima edizione in grande stile della “Notte dei senza dimora”, a Vicenza, sta per concludersi, alle 5 ci serviranno la colazione direttamente in questa camera con tetto di stelle. A lanciare l’iniziativa del 17 ottobre, Giornata mondiale di lotta alla povertà, a Vicenza è stato proprio Scarp de’ Tenis, insieme alla cooperativa Cosep che gestisce l’Albergo cittadino; l’adesione dei centri di servizio per persone senza dimora (Il Mezzanino, Centro San Faustino, Casa San Martino, Croce Rossa, Via ché i giovani che erano con noi, ed eraFirenze 21, gruppo Condivisione di strano tantissimi, si sono prodigati nel da e gruppo Sotto un cielo di Stelle – fadiffondere messaggi, invitare persone, re cultura con le persone senza dimora) inventare cornici accattivanti per attie dell’assessorato al sociale del comune rare l’attenzione: dai tamburi lungo il è stata calorosa da subito. In un mese e corso Palladio ai flash mob nella piazza mezzo di lavoro comune si sono coindei Signori ai banchetti pieni di scritte volti artisti e volontari, per dar vita a una e cartelloni, sono stati le nostre instangrande kermesse, fatta di musiche, dancabili vedette. Applauditissimo il reaze, racconti, letture.

Coinvolgere per far capire Abbiamo scelto di dedicarci soprattutto al coinvolgimento di persone senza dimora nello spettacolo, inserendo sketch, storie, reading, animazioni di balli latino-americani, intervallati da brani jazz e letture di autori classici e moderni. Sul palco, ma anche giù dal palco, nei tanti banchetti dove chiacchierare con il pubblico, abbiamo scelto di puntare all’uguaglianza. Nessun distinguo tra chi un tetto ce l’ha e chi invece vive ai margini: «Invisibile soprattutto perché in quanto persona non è possibile individuarla in mezzo agli altri, a meno che non scelga di farsi riconoscere». Invisibile, però, anche perché la nostra società sceglie di non guardare, e molti si limitano semplicemente a vedere, passando via. Ecco perché abbiamo raccontato tante storie, ecco per-


scarpvicenza La storia

L’accattone professionale gioca e affama la povera Nelli

ding della redazione di Scarp, realizzato in collaborazione con l’Albergo cittadino, grazie alla regia di Paola Rossi della Piccionaia – I Carrara, ma anche alle doti istrioniche degli attori-lettori. Tutti bravi, commoventi gli artisti vicentini che hanno affollato il palco riempiendo la serata fino a tardi e trattenendo il pubblico fino alla fine, per cantare Piazza Grande in onore di Lucio Dalla, cantore degli homeless scomparso qualche mese fa.

Disumano dormire in strada Volevamo chiacchierare, alla fine, ingaggiare la discussione con chi intendeva rimanere per la notte; invece, prima di stenderci sui cartoni, abbiamo dovuto sbaraccare, perché domani, su questa piazza ci sarà il mercato e i venAll’adiaccio, tutti uguali Notte dei senza dimora a Vicenza: in tantissimi in piazza e sotto i portici a dormire (foto sopra)

«Mamma, mamma, guarda che cane magro», dice la bambina con molta tristezza. E si sente una voce roca che dice «Nelli, cuccia, cuccia». Il cane si accuccia, mentre il collare opprime il suo collo delicato. «Ti ho detto di stare ferma, non voglio che giochi con nessuno, hai capito?». Nelli non capisce perché deve rimanersene immobile, mentre il caldo di mezzogiorno sta diventando insopportabile per la sua spessa pelliccia. «Di che razza è questo cane?», chiede la bambina con curiosità. «È un husky», balbetta l’uomo di 60 anni, dall’apparenza triste e trascurata: ha con sé una bottiglia nella mano destra, e nella sinistra una ciotola con monetine da uno o due centesimi. Siamo a dicembre e nell’aria si sente la festa di Natale. In Liguria, anche se è inverno fa molto caldo sotto il sole. All’entrata del centro commerciale si formano piccole file di persone per vedere e sentire Babbo Natale che ridacchia con il suo particolare “Ho, ho, ho”. Sono in vacanza a Sanremo e frequento la spiaggia di Arma di Taggia. Nella stazione ho trovato questo signore, padrone di Nelli, che si fa chiamare accattone. Mi avvicino per domandargli la strada per andare in spiaggia. Il cane mi viene incontro scodinzolando per salutarmi e lui lo ferma dicendo: «Nelli, ferma, non voglio che saluti nessuno». Noto che l’animale è esageratamente magro e domando al signore il perché. Mi risponde che Nelli non mangia. Facendo un giro della stazione trovo delle scatolette di cibo per cane e sacchetti di croccantini perfettamente intatti, li porto al signore e lui mi dice che Nelli non vuole queste cose, ma vuole prosciutto, mortadella, pane, insomma mangia cibi per umani. Chiacchiero un po’ con il signore e mi racconta la sua storia. Viene dalla Romania e il suo sogno era emigrare in Australia, ma sotto il regime di Ceausescu non ha potuto realizzarlo. In Romania, giocando alla lotteria aveva vinto un milione di euro, ma poi aveva perso tutto, affari sbagliati gli avevano prosciugato il conto. Almeno così racconta. Si era così dedicato a fare l’accattone “professionale”, come si definiva lui. Con i soldi dell’elemosina tre sere a settimana giocava al lotto: tempo e risorse erano totalmente dedicate a pianificare la giocata successiva. Occupava tutto il pomeriggio in questa attività. Il suo gioco preferito era “10 e lotto”. Nei giorni seguenti ho continuato a frequentare la stazione di Alma di Taggia per andare al mare, e sempre incontravo Nelli e il suo padrone. Ogni volta tentavo di dare da mangiare al cane, finché il padrone si è deciso a spiegarmi che non voleva che lo facessi: «Se ingrassa, non può più fare il suo lavoro, non farà pena ai passanti e non mi daranno più soldi», mi ha detto con voce minacciosa. Andando via quella sera mi è venuto da paragonare il rapporto tra la cagnetta e il suo padrone al rapporto tra società e stato: in tempo di crisi la nostra società è presa per il collo, affamata di giustizia sociale come la povera Nelli. Mario Martin Diaz Rodriguez

ditori ambulanti arrivano prestissimo. Così ora siamo qui a guardare le stelle in attesa della colazione. Nel silenzio della notte si sente russare forte e piano, si vedono le facce imbacuccate di chi qualche ora fa ha riso o pianto sentendo raccontare le storie, non si muove chi

con un po’ di agitazione pensava che non sarebbe mai riuscito ad addormentarsi, e invece si agita chi credeva di essere così stanco da schiantarsi subito. È duro dormire per terra, i cartoni non bastano: per una notte si può fare, ma tutte le notti è avvero disumano.

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modena Nuovi stili di vita, questione di cultura: pratiche di sobrietà, contro la povertà relazionale, figlia dell’eccesso di consumi

Bene o meglio? La vita non è spreco di Laura Solieri «Parlare di nuovi stili di vita significa riscoprire che nella nostra quotidianità abbiamo tante opportunità per cambiare e non c’è bisogno di prendere alcun aereo, di andare chissà dove perché il cambiamento di ognuno parte a chilometri zero». Con queste parole padre Adriano Sella, coordinatore della rete interdiocesana “Nuovi stili di vita”, ha aperto la sua conferenza a Modena. L’iniziativa è stata promossa dall’associazione di volontariato Porta Aperta, da sempre impegnata a diffondere una cultura del consumo critico e consapevole, basata sul riutilizzo delle risorse a nostra disposizione. L’incontro ha seguito la sfilata di moda vintage svoltasi nel pomeriggio allo spazio “L’Arca” di Porta Aperta, con gli

Sfila il riuso: «Anche il diacono veste Prada» Per fare conoscere “L’arca”, il centro di raccolta e distribuzione di vestiti, scarpe, accessori, ma anche mobili, elettrodomestici e oggettistica varia, gestito dall’associazione Porta Aperta nella struttura di via Cimitero San Cataldo 119 a Modena, è stata organizzata a inizio ottobre una sfilata di moda con abiti dismessi, all’insegna del vintage, oggi – complice anche la crisi – di gran tendenza. Negli spazi esterni dell’Arca hanno sfilato modelle e modelli “per un giorno”: ragazze e ragazzi delle parrocchie, ma anche persone assistite da Porta Aperta, oltre agli stessi responsabili del centro. Tra loro anche il diacono Franco Messora, che con portamento distinto e disinvolto in passerella non si lascia sfuggire la battuta: «Il diacono veste Prada…». Il tutto coordinato da tre infaticabili volontarie (Chiara, Laura e Daniela), che hanno gestito le 42 uscite in passerella e sono state accolte dagli applausi al termine della sfilata. Gli abiti, firmati Versace, Guess, Prada, Armani, Levis, Paul Smith, Richmond, Max Mara, sono stati presentati al pubblico, fatto accomodare su sedie e divani anch’essi di recupero: le persone interessate hanno poi potuto acquistare gli abiti in una successiva asta. Il modello che ha ispirato gli organizzatori è quello dei Charity shop di matrice anglosassone, nati e sviluppati all’insegna del riuso e della solidarietà. Quanto raccolto con la sfilata di moda e, più in generale, con l’attività di recupero e distribuzione viene utilizzato per sviluppare attività e progetti a favore dei più poveri, oltre a finanziare il progetto. «Tramite l’attività di recupero e distribuzione – spiegano i responsabili – si cerca di dare nuova dignità alle persone in condizione di disagio, offrendo la possibilità di scegliere oggetti, abiti, mobili e altre cose, a fronte di un piccolo contributo rapportabile alle proprie possibilità e nella consapevolezza che tale contributo viene utilizzato per altre persone in difficoltà. Contemporaneamente, attraverso il recupero e la distribuzione, vogliamo diffondere una cultura del ri-uso, della sobrietà, per la tutela dell’ambiente». Il servizio è aperto al pubblico lunedì, mercoledì e giovedì dalle 14.30 alle 18.30; martedì, venerdì e sabato dalle 9 alle 12.30, è gratuito solo per le persone inviate e seguite dal centro di ascolto.

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abiti recuperati, mentre la Caritas diocesana ha organizzato una raccolta di indumenti usati nelle parrocchie modenesi.

Bisogna cambiare mentalità «Ciò che sta alla base di tutti i cambiamenti, che devono venire dal basso e non dall’alto – ha asserito il sacerdote –, è la questione culturale, madre di crisi e allo stesso tempo di rivoluzioni: bisogna cambiare testa, mentalità, perché il mondo di oggi ha bisogno di pensiero. La grande povertà occidentale non è economica ma relazionale, mentre nel Sud del mondo accade il contrario. La crisi ci fa scoprire oggi per necessità quello che prima si faceva per virtù, come il recupero, la scelta dell’usato, il riciclaggio. La parola chiave è sobrietà: non significa privazione o negazione del vivere bene. Ecco, questa è la chiave: ci siamo lasciati accecare dal miraggio del vivere “meglio”, e spesso il nostro meglio diventa il peggio per qualcun altro, quando in realtà dovremmo tendere al vivere bene, ma un bene che sia per tutti, in armonia con le altre persone e col creato. “Bene” non è un dato che nasce dall’accumulo di cose, ma prima di tutto dalle relazioni tra le persone».

Tutti possono fare bene Padre Sella ha riflettuto anche sull’immagine simbolo della rete “Nuovi stili di vita”: una mano con il palmo rivolto al Creato, con cinque dita di colori diversi: «Quattro dita indicano ognuna un nuovo rapporto con le cose, le persone, la natura e la mondialità. Il quinto dito, il pollice, siamo noi – ha spiegato padre Sella –. Noi, che siamo il pollice della mano, schioccando le di-


scarpmodena L’iniziativa

In città 250 senza dimora, giornata Scarp a Modena

ta, gesto con cui siamo soliti dare il ritmo a ciò che facciamo, attiviamo le altre dita, ovvero mettiamo in moto le diverse relazioni con ciò che ci circonda. Non dobbiamo farci sopraffare dalla rassegnazione che il sistema in cui viviamo ci ha messo in testa, facendoci credere che non possiamo fare niente. Sobrietà, tempo e spazio sono i tre binari che coordinano i nuovi stili di vita: riscoprire l’essenzialità ci fa riappropriare del “bene vivere”, che è diverso dal “vivere meglio”, concetto che si inserisce nella logica della cumulazione che non da felicità».

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La realtà dei senza dimora in Italia e a Modena: questo è il tema trattato nel convegno promosso dall’associazione “Porta Aperta” il 13 ottobre. A Modena le persone senza dimora sono tra 200 e 250: il rischio di povertà riguarda però il 15% delle famiglie e le coppie con figli minori sono il 50% di questa area di povertà. Negli ultimi quattro anni le persone che si sono rivolte a Porta Aperta (unico centro di accoglienza presente a Modena; opera dal 1978 occupandosi prevalentemente dei senza tetto) per soddisfare bisogni primari, quali mangiare, dormire, lavarsi e curarsi, sono costantemente aumentate. I dati raccolti da Porta Aperta sono eloquenti: gli accessi alla mensa (un pasto caldo al giorno) sono passati dai 13 mila del 2008 ai 21.278 del 2011; gli utenti di docce e servizi igienici da 193 a 423; le famiglie seguite tramite distribuzioni alimentari da 493 a 781. Il convegno era inserito all’interno della “Giornata Scarp de’ tenis” che Porta Aperta ha organizzato a Modena. Nel pomeriggio del 13 ottobre, di fronte alla stazione ferroviaria, uno stand (foto a sinistra) ha infatti presentato il giornale: un’iniziativa allietata da esibizioni di artisti di strada ed è diventata un importante momento di sensibilizzazione, in un luogo simbolico come la stazione ferroviaria, da sempre crocevia di persone senza dimora e “rifugio” nelle più fredde giornate invernali. Con questa iniziativa gli organizzatori hanno voluto portare all’attenzione dell’opinione pubblica temi di rilevante impatto sociale. Specialmente in questo periodo, con la stagione invernale alle porte, l’aiuto e la vicinanza ai senza dimora diventano un impegno che chiama in causa ogni singola persona.


rimini

Pericolo o sfida? Il rischio che attrae Indagine tra giovani studenti. Con esiti non tranquillizzanti...

di Letizia Rossi

Chissà Chissà se la rivedrò? Là su quella spiaggia, Genova, lei se ne stava seduta con il seno nudo, parlando con un amico dei suoi problemi. E io lì affianco in silenzio ad ascoltare. Mi distraeva il suo modo di parlare, il suo sorriso. Pensavo tra il sole e il mare, che se fossimo rimasti soli le avrei chiesto: «Ci vediamo?». Ma sarà per un’altra estate..

Aghios

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I giovani e il rischio: pericolo o sfida? La domanda, scaturita dalla riflessione di Volontarimini – Csv e di altre associazioni del territorio, ha portato all’elaborazione di una ricerca-azione che ha coinvolto gli studenti riminesi. La dimensione della percezione del rischio, analizzata nella ricerca, vuole offrire uno sguardo sulla realtà degli adolescenti, sottolineando non solo i pericoli in cui incorrono, ma anche le sfide positive che affrontano nel loro percorso di crescita personale e civile. «Si parla raramente del coraggio, della forza e della costanza dei giovani, mentre emerge da questa ricerca uno spaccato ricco di speranza e di prospettive», spiegano le associazioni coinvolte (Club alcologici territoriali, Centofiori social club e Cristiani nel mondo del lavoro). L’indagine ha visto protagonisti 280 alunni degli istituti professionali della (principalmente da più di tre anni), il provincia di Rimini, due classi di un isti29,2% si è ubriacato almeno una volta tuto tecnico e un gruppo di ragazzi delnell’ultimo mese e il 20%, nello stesso la stessa fascia di età (età media 16 anni) periodo di tempo, ha fatto uso di soappartenenti a una parrocchia della pestanze. Quanto alla percezione del ririferia. Il campione è composto per il schio legato alle dipendenze, il 18,3% 70% da ragazzi e per il 30% da ragazze; del campione dichiara di utilizzare soil 75% nati in Italia, il 25% all’estero. stanze stupefacenti e il 93% lo considera un comportamento rischioso; il 41% ha il vizio di fumare e l’85,5% lo consiRapporti familiari e dipendenze La famiglia è luogo di dialogo e ascolto, anche se non si può prescindere dal fatto che un ragazzo su quattro non vive più con entrambi i genitori. L’80% dei ragazzi si sente, da questi, ascoltato. Prevale un dialogo aperto, ma senza confidenze intime (65%); il rapporto è più confidenziale con la madre (31,5%) che con il padre (22%). Più del 60% dichiara comunque di impegnarsi nel dialogo volto a contrattare con i genitori spazi di autonomia. In tema di dipendenze, si evidenzia una funzione educativa e di accompagnamento della famiglia. Mentre nel caso della convivenza con i genitori il 36,4% fuma sigarette (principalmente quando capita), il 20% si è ubriacato (almeno una volta nell’ultimo mese) e il 14,6% ha fatto uso di sostanze nello stesso periodo; nella non convivenza si registra che il 56,1% fuma sigarette


scarprimini dera un comportamento rischioso; il 54,4% beve alcolici e il 71,6% lo considera rischioso. Le femmine fumano da più tempo rispetto ai propri compagni. Per quanto riguarda l’alcol e le sostanze, emerge – al contrario – un maggiore consumo da parte dei maschi.

Alcol, fumo, sostanze: la percezione del rischio

Tra studio e partecipazione Il 65% degli alunni degli istituti professionali afferma che il motivo per cui ha scelto la scuola che frequenta è perchè potrà servire per il suo futuro professionale, mentre nell’istituto tecnico la percentuale sale all’83%. Il 10,9% del campione afferma che trova interessante studiare le materie previste dal piano formativo, e il 13,7% dice “non trovavo altra scelta”. Il 64,5% degli intervistati dichiara di studiare meno di un’ora al giorno. Il 66% si ritiene disposto a trascorrere un periodo di studi all’estero: la principale motivazione di questa scelta (33,3%) è legata all’investimento sul futuro.

La mia professione futura Il 17% dei ragazzi non ha scelto il lavoro che vorrebbe fare pur avendo già avuto, nel 62% dei casi, almeno un’esperienza lavorativa. Per il 63,7% dei ragazzi non lavorare è rischioso. L’aspetto più importante relativo all’occupazione è “fare il lavoro che piace” (47,5%). Seguono lo stipendio (28,4%) e l’importanza dell’ambiente di lavoro e il rapporto con i colleghi (19,5%). Ulti-

Rapporto tra uso di fumo, alcol e sostanze (in blu) e percezione del rischio (in rosso)

ma motivazione, l’utilità sociale (3,8%).

Amici e relazioni reali e virtuali Il 60% del campione dichiara che il tempo libero ogni giorno è superiore alle tre ore e più della metà afferma di trascorrerlo con gli amici. Questo riguarda per lo più i maschi: 65% contro il 50% delle ragazze, che – invece – trascorrono più tempo con la famiglia. Quasi la totalità degli intervistati ha un gruppo di amici con il quale si vede regolarmente e il 43,5% dichiara di trascorrere con loro oltre le tre ore al giorno. Quasi tutti i ragazzi coinvolti a casa hanno a disposizione un computer con collegamento internet e il 55% vi trascorre da una a tre ore al giorno. Un 6,5% più di cinque ore. Alla domanda “cosa fai principalmente su internet?”, il 56,4% risponde che utilizza social network. Segue l’ascolto della musica (52,9%) e l’uso della chat (51,8%) che si discosta dall’utilizzo della mail (8,6%). Il 47,8% dei ragazzi chatta con gli amici che frequenta e un 17,4% con persone conosciute su internet. Nel 70% dei casi internet non è considerato un rischio ma un’opportunità.

Io e le mie scelte di vita Più del 90% dei ragazzi ritiene fondamentale l’amicizia e la solidarietà, ai quali seguono cibo e acqua per tutti gli esseri viventi (87,1%) e la fedeltà del marito e della moglie (86,5%). Relativamente all’aspetto spirituale il 57,1% si professa credente, il 19,2% non credente e il 23,7% “confuso”. Circa l’85%

degli alunni non svolge attività di volontariato. Tra i motivi principali della mancanza di un impegno a servizio della comunità, il 28% dichiara che non ha tempo (dato che si trova in disaccordo con quello relativo al tempo libero che i ragazzi dichiarano di avere ogni giorno), il 23,5% risponde “non mi è mai stata presentata un’occasione interessante”. Quali, tra gli eventi della vita di un giovane sono “riti di passaggio”? Per il 37% degli studenti è il primo rapporto affettivo, che si collega al momento del primo rapporto intimo (27%), preceduto dal fatto di avere il motorino (30%).

Rischio: pericolo o sfida? In definitiva, si nota una differenza di fondo tra i maschi e le femmine: mentre per i primi hanno avuto particolare rilievo gli eventi collegati agli affetti e all’uso-abuso di alcol e fumo, la differenza tra i generi si accorcia negli episodi correlati alla propria autonomia, alla famiglia e alla scuola. Il 46% del campione associa il “rischio” al concetto di “pericolo”. Il 47% dei ragazzi intervistati associa invece alla parola “rischio” il termine “sfida”. Si rilevano come opportunità positive l’andare a studiare all’estero, fare una vacanza senza i genitori, praticare sport, partecipare attivamente alla vita della scuola, dialogare con i genitori su aspetti legati alla propria vita, utilizzare internet, avere un’occupazione lavorativa, fare volontariato.

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napoli Consigli di chi vende Scarp da tempo a chi inizia l’attività

Antonio esordiente, veterano Umberto Le belle fate Sono andato in una foresta incantata dove tutti cantano, ballano e suonano le fate sono arrivate sono arrivate nella foresta incantata per preparare l’inverno che è alle porte. Ognuna ha un ruolo e fa qualcosa: la fata colorina prepara i colori della primavera e usa il giallo, il rosa e l’arancione. C’è la fata raccoglina che raccoglie le foglie e i rami lasciati dall’inverno che è passato. E poi c’è la fata dell’amore, ha un arco e le frecce. E dà l’amore a tutti gli animali della foresta. E così la primavera è una stagione di festa. Domenico Capuozzo

di Antonio Casella e Umberto D’Amico Uscire a vendere il giornale, per un redattore di strada, è sempre un momento delicato. Prima che accada, durante il periodo di inserimento nel progetto, si alternano sentimenti di attesa, curiosità, paura di non essere all’altezza. È accaduto anche ad Antonio, che così si è immaginato il suo primo giorno da venditore. «La prima volta che venderò in chiesa sarà una difficoltà enorme perché ho un carattere introverso ed un po’ isolato – ha affermato –. Stare tra tanta gente all’inizio mi porterà un po’ di disagio ma so che ce la farò, anche perché allo stesso tempo ho un carattere forte e mi piace mettermi alla prova. Incontrare tanta gente sarà un’esperienza e anche parlare con loro, fare l’annuncio dall’altare, conoscere tante persone. Non mi aspetto di guadagnare molto ma il sufficiente per vivere sereno e tirarmi su da ’sta buca in cui non si finisce mai di miglie napoletane: i bambini corrono in cadere, e vai sempre giù... Purtroppo bicicletta e i ragazzi giocano a pallone. questo ci è rimasto da fare, o lo fai bene Adesso la domenica non andrò più a o non lo fai per niente perciò mi impeperdere il mio tempo in giro per le piazgnerò a farlo bene. Spero di andare bene ze ma andrò a vendere il giornale nelle e rimettere a posto un po’ della mia vita. parrocchie e vedrò tante persone nuove Spero solo che le mie giornate con queche vivono in zone di Napoli che non sto lavoro possano cambiare in manieconosco. Spero sia l’inizio di una bellisra significativa: adesso ho molto tempo sima nuova storia». per andare in giro, quando fa molto caldo vado a Santa Chiara dove c’è fresco poi, a secondo dei giorni di apertura, scelgo una delle mense cittadine. Poi, di pomeriggio, vado ai giardini di Palazzo Reale dove ci sono sempre tantissimi turisti, e nei giorni festivi ci sono tante fa-

Senza casa non ci sono cose Senza casa non ci sono cose, senza chitarra non c’è musica e senza musica non c’è allegria né vera tristezza, non c’è fuga dalla realtà cattiva. Senza letto non c’è riposo e con le batterie scariche non si fa niente e le mie, impegnate in sforzi non voluti e quindi più faticosi, si asciugano subito. Una vita senza pensiero è impossibile da immaginare: scrivere e leggere sono due cose sì materiali, ma farle costa così poco sforzo, impegno e applicazione che vanno, e io con loro, subito fuori dalla materia, dal fare. L’ideale sarebbe scrivere col pensiero. Senza casa non ci sono cose, non ci sono più e mai ci sono state. Dentro il salvadanaio, della nostra vita. Nudo e solingo è l’uomo per la via, andare avanti e indietro senza sosta, che di star fermi proprio non si può; solo e leggero perché senza fardello. No, nun ce sta proprio niente ‘e bello. Preferisco stare a casa mia, venitemi a trovà, vi dò la via. Bruno Limone

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scarpnapoli Ho imparato ad accontentarmi Umberto, invece, non ha timori. Lui è ormai un veterano della vendita di Scarp. «La prima volta che sono uscito a vendere me la ricordo ancora benissimo – racconta –: era settembre 2009, stavo davanti alla chiesa perché non era stato possibile fare l’annuncio. Ero molto emozionato, non ero esperto, non sapevo come comportarmi con le persone che non conoscevo. Poi piano piano ho preso coraggio e ho venduto la prima copia. E subito si sono avvicinati gli altri, mi è sembrata un comunità bellissima, accogliente. Man mano che procedevo nella vendita le paure se ne andavano. Anzi, più raccontavo alle gente che si avvicinava a comprare il giornale che era la prima volta che uscivo come venditore, più la mia sicurezza cresceva. I fedeli, fermandosi a parlare, a sfogliare la rivista, a vedere di cosa si trattava, a chiedermi di me e della mia storia mi hanno dato coraggio per continuare. Non pensavo che la mia vita sarebbe andata a finire così ma ho imparato ad accontentarmi: adesso ho potuto affittare una piccola casa dove vivo insieme alla mia compagna. Sono contento che andiamo d’accordo e soprattutto io non sono più solo come prima. Il consiglio che posso dare ad Antonio e a tutti gli altri venditori agli inizi è restare quelli che si è, senza cambiare. Bisogna porsi alle persone per quello che si è veramente. Basta essere se stessi e tutto andrà bene.

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Redazione unita Una bella foto di gruppo dei venditori di Scarp de’ Tenis di Napoli

Il ricordo

Lo chiamano granello di sabbia Da solo è niente, non serve a niente. Con gli altri cambia il discorso. Con gli altri cambia nome: si chiama spiaggia, la spiaggia, insieme al mare è l’emblema dell’estate. Calda e bollente ricordo che bruciava sotto i miei piedi di bambino; appiccicata addosso dava fastidio o anche nel costume quando qualcuno, all’improvviso, te la metteva. Se finiva sulla merenda non la mangiavi più anche se sembrava pane grattugiato. Nelle giornate di vento, ti finiva negli occhi anche se portavi gli occhiali; sul telo-mare lo rendeva ruvido e pungente e se lo sbattevi inondavi il vicino di ombrellone. La sabbia, nonostante tutto, è carica di poesia. Quante storie può raccontare: amori, amicizie, partite di calcetto, ore passate ad abbronzarsi, suonate di chitarra. E trovatemi un bambino che non ha giocato con secchiello e paletta e che non ha fatto almeno una volta il classico castello con quelli sagomati appositamente, impastando con l’acqua di mare, che si faceva colare a poco a poco, creando vere e proprie sculture. La spiaggia, fatta di sabbia, raccoglie momenti indimenticabili della vita e ricordi rimasti indelebili nella mente. Giuseppe del Giudice

La storia

Le belle fate dove sono andate? Le belle fate dove sono andate? Le belle fate sono andate ad aiutare quella ragazzina che deve andare a una festa: si chiama Ginevra e l’aiutano a prepararsi e a farsi bella con creme e profumi. Le fanno indossare un bellissimo vestito di merletto rosa con nastrini dello stesso colore. Corrono le belle fate sulla strada e fanno apparire una macchina sportiva, fiammante e veloce, la guida un autista vestito di azzurro. Vanno veloci alla festa, Ginevra è contenta e impaziente di arrivare dai suoi amici perché sta aspettando questa festa da tanti mesi. Finalmente entra e si sente elegantissima ed emozionata. Appena entra in sala, vede che Amedeo è già arrivato e si sente battere il cuore un po’ più forte. E le belle fate dove sono andate? Le belle fate non si vedono ma sorvegliano tutto. Guardano e sorridono mentre Amedeo invita Ginevra a ballare. I ragazzi sono contenti e anche le belle fate sono contente. I due ragazzi dopo aver ballato si siedono sulla terrazza e parlano per ore e ore, senza accorgersi che il tempo passa. Sono adolescenti e, come tutti gli adolescenti, hanno problemi con la scuola, si sentono incompresi dai genitori, litigano con i fratelli, si fidano solo degli amici. Si raccontano tutto questo e sembra che intorno a loro non ci sia nessuno e invece la festa continua. E le belle fate dove sono andate? Le fate sono magiche, noi non le vediamo ma loro ci sono sempre, stanno in silenzio e non si sente neanche quando sbattono le ali per correre di qua e di là. Aiutano chi è in difficoltà e sono sempre allegre; anche adesso mentre guardano Ginevra e Amedeo le fate sono contente. Tutti abbiamo una fata che ci accompagna, anche se non ci accorgiamo. Anche io ne ho una, me la immagino con un vestito leggero verde. Sono sicura che mi aiuta e mi ha aiutata quando sono stata in difficoltà e ho avuto momenti di sconforto. Quando ho avuto paura che calpestassero la mia dignità di donna; quando ho avuto paura che mi togliessero i miei diritti; quando ho avuto paura che mi prendessero in giro; quando ho avuto paura di perdere autonomia e indipendenza. Tutti abbiamo una fata, non solo vive per strada o chi come me ha conosciuto la vita da clochard. Maria di Dato novembre 2012 scarp de’ tenis

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salerno Salerno s’illumina da novembre a gennaio. Le installazioni luminose costano molto. Ma non generano vantaggi diffusi

Luci d’artista, giovani al buio... di Michele Piastrella Ogni anno, da novembre a gennaio, Salerno si trasforma, illuminandosi. Ciò avviene grazie alle “Luci d’artista”, installazioni luminose, realizzate da artisti giovani e non giovani, che vengono piazzate in tutto il centro e in alcuni rioni periferici. Le luminarie, innegabilmente bellissime, di anno in anno riscuotono un successo clamoroso e, nei mesi a cavallo del Natale, portano Salerno alla ribalta nazionale, una delle città italiane più visitate. Chiaramente, però, le installazioni hanno un costo: si parla di alcuni milioni di euro, che il comune ogni anno spende per acquisire le luminarie e per montarle. Si tratta di soldi solo in parte versati dal comune; poi c’è il contributo della camera di commercio (alcune centinaia di migliaia di euro), il cui coinvolgimento ha una precisa motivazione: pare che le “Luci” abbiano un impatto forte sull’economia evangelisti; ma nessun turista italiano lo dei negozi cittadini, garantendo grossi sa). In pratica, nessuna di queste filiere, introiti (grazie ai tanti turisti che girano che dovrebbero “terminare” con l’aperin città), che vanno a compensare le tura di negozi e attività specializzate, è perdite accusate durante tutto l’anno. veramente sviluppata. Come spesso ripetono i presidenti delle associazioni di categoria in città, Tre mesi non bastano come in tutta la penisola è ormai opeMa siamo sicuri che tre mesi di grossi razione molto veloce, dal punto di vista guadagni, e di file chilometriche davanburocratico, l’acquisizione di una licenti ai negozi (soprattutto bar e ristoranti) za e l’apertura di un esercizio commerpossano far ritenere in buona salute il ciale, ma è ancora più semplice e veloce settore del commercio cittadino? Neschiudere un negozio, a causa dei debiti. suno decide di aprire un negozio per soA Salerno prendere in affitto un loli tre mesi di grossi guadagni, sopporcale per aprire un’attività ha costi altistandone nove di perdite: le luci sono un simi, che diventano esorbitanti nel caso ottimo supporto per i commercianti, in cui si decida di acquistarlo; le spese di ma non possono rimanere l’unica anristrutturazione generano, quasi semcora di salvataggio, perché non salvano. pre, la necessità di chiedere fondi alle Piuttosto, bisognerebbe mirare ad banche o a società che fanno capo alla attività di più ampio respiro, capaci di regione: è denaro solo in parte ceduto a generare ricchezza tutto l’anno. La città fondo perduto; per buona parte, si tratdovrebbe puntare sulla creazione di ta di prestiti, che vanno restituiti a cifra aziende e negozi che valorizzino le tipimaggiorata. Per cui, se l’attività creata cità del territorio, come i prodotti agrinon decolla, il negoziante non solo è cocoli (mozzarella, pomodori, olio d’oliva, stretto a chiudere, ma anche a pagare vino), le tradizioni culturali (la Scuola per anni i debiti dei prestiti intrapresi. medica salernitana, prima facoltà di La crisi colpisce inoltre i negozi samedicina d’Europa, con le sue erbe culernitani, attaccando il cuore della loro rative che potrebbero essere commerattività, ovvero il portafogli dei clienti, cializzate), le tradizioni religiose che poche non hanno più la possibilità di trebbero generare turismo (nel Duomo spendere; con la chiusura o il ridimenè sepolto san Matteo, uno dei quattro

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sionamento dei negozi, perdono lavoro i già sfruttati commessi. Sono molti i giovani salernitani che bruciano i risparmi di una vita dei propri genitori per avviare un’attività commerciale.

Difficile far ripartire il comparto A Salerno si è cercato di creare durante l’anno nuove attrattive che aiutino il commercio: ad esempio l’arrivo, da marzo a ottobre, delle navi da crociera, che ha avuto inizio da alcuni anni, potrebbe garantire un’ottima quantità di turisti, che fungerebbero da clienti anche per i negozi. Ma tali croceristi, una volta giunti a Salerno, preferiscono effettuare la classica escursione non nella città capoluogo, ma nelle più rinomate e attraenti Amalfi, Ravello, Pae-


scarpsalerno stum e Pompei. Ciò non avviene solo per lo splendore delle località suddette, ma pure per i difetti del capoluogo: il mare di Salerno d’estate è sporchissimo, non funzionano i depuratori e le spiagge si riducono sempre di più, a causa dell’erosione marina. E, come detto, non si punta sulla valorizzazione delle tipicità locali, dunque al turista si offre ben poco.

Giovani al buio tutto l’anno Ovviamente, per questi motivi gli alberghi salernitani non sono particolarmente pieni d’estate, così come i ristoranti o i bar, per non parlare degli altri tipi di negozi. Come se non bastasse, dall’estate scorsa ben 650 dipendenti del Cstp, consorzio che gestisce i trasporti pubblici a Salerno, sono a rischio di licenziamento, a seguito del fallimento dell’azienda. Chi va a lavorare nei negozi, ma anche chi va a spendere, non può usare i mezzi pubblici. E lo stesso disagio è avvertito dai turisti. I giovani salernitani, insomma, non possono fare altro che ammirare le luci, come qualunque turista, partecipando solo minimamente alla ricchezza da esse generata. È triste osservare da novembre a gennaio una città ornata a festa, quasi fosse Las Vegas, grazie allo splendore delle “Luci d’artista”, quando i suoi giovani rimangono per tutto l’anno al buio.

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Una città che brilla Saggio di “Luci d’artista”, rassegna che illumina Salerno per tre mesi

Cava de’ Tirreni

Borgo Scacciaventi in ginocchio «A noi ragazzi resta il “nero”» Cava de’ Tirreni, che dista solo 7 chilometri da Salerno, è una città di oltre 50 mila abitanti, ricca di storia e tradizione. Ed è alle prese con una gravissima crisi del commercio: anche Borgo Scacciaventi, centro storico porticato, che rappresenta una delle zone commerciali più antiche di tutto il Sud Italia (i primi traffici risalgono al 1400), è in ginocchio. Nel 2012 le attività a rischio in tutta Italia sono 150 mila, secondo le stime di Confcommercio, contro le 105 mila cessate nel 2011. Recessione, tassazione e Imu costituiscono un cocktail letale per le imprese. Stroncate dalle spese, le famiglie non spendono. Così l’economia si blocca, la crisi avanza e le imprese chiudono. Nel 2011 il saldo tra aziende aperte e cessate è stato fortemente negativo. Se consideriamo che ogni attività chiusa implica il licenziamento di un dipendente, troveremo ben 150 mila lavoratori a casa nel 2012. Ne hanno risentito i negozi e punti di vendita al dettaglio. E, come detto, nel 2012 il numero finale è destinato ad aumentare. A risentire della crisi sono soprattutto le piccole imprese e i negozi di vendita al dettaglio, come appunto quelli di Borgo Scacciaventi, tappezzato da cartelli “vendesi” o “affittasi”. E se le attività chiudono, vengono cancellati anche i posti di lavoro. Nessuno può negare che la situazione è avvilente e che la ricerca del posto fisso diventa di giorno in giorno più ardua, quasi la caccia a una chimera. È così triste vedere una zona storica, come Borgo Scacciaventi, con i suoi portici del Quattrocento, nei quali è praticamente nato il commercio in Campania, essere un contenitore vuoto, con i locali sfitti; o, in altri casi, un porto di mare, con negozi che aprono e dopo pochi mesi chiudono. La zona continua a essere meta del passeggio di tanti, anche non cavesi; ma le vetrine vengono guardate solo di sfuggita. Certo, a Cava c’è chi si adatta. Chi lavora per poco e senza essere regolarmente registrato, e non è certo una novità. Il lavoro in nero è una piaga sociale, che non doveva attendere l’attuale periodo di crisi per manifestarsi. Ma dalla crisi trae ulteriore forza. La denuncia delle situazioni di illegalità diffusa, sul versante del lavoro nel commercio, potrebbe andare a detrimento di tante persone che si guadagnano di che sopravvivere, lavorando in quel modo; le situazioni sui generis sono comunque tante. C’è poi chi lavora a orari improponibili. Chi rinuncia ai festivi. Chi lavora in casa, e difatti non sono rari gli annunci di chi si propone come baby sitter, o di chi preferisce impartire lezioni private, anche per valorizzare il proprio percorso di studi, nell’attesa che il diploma o la laurea diano i loro frutti nel campo che era stato scelto. C’è pure chi si inventa il lavoro. Chi si dà al fai-da-te e chi preferisce l’hand-made. C’è chi si da ai ferri e alla maglia, chi all’uncinetto. E forse, a dispetto di ogni previsione, questi lavoretti artigianali sono apprezzati dal pubblico. Tuttavia, si è ben consapevoli che questo non può essere considerato un lavoro a tutti gli effetti. I guadagni sono esigui e questa può essere solo un’attività “ di sostegno”, in una situazione economica disastrosa. Ma come possiamo noi ragazzi crearci un futuro, se non abbiamo l’opportunità di crescere da un punto di vista lavorativo? Angelo Pierri novembre 2012 scarp de’ tenis

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catania Il 17 ottobre piazza dell’Università ha ospitato la Notte dei senza dimora. Arte e condivisione. E testimonianze eloquenti

Parole in piazza per “l’altra” città di Sissi Geraci È una notte stellata quella dei senza dimora a Catania. La “Notte” si è svolta il 17 ottobre, in piazza dell’Università, una delle più belle del centro storico. Organizzata a Catania dalla Caritas diocesana, in collaborazione con la Comunità di Sant’Egidio, il Csv Etneo, il Cope (Cooperazione paesi emergenti) e gli scout dell’Agesci. Presente anche l’Ordine francescano secolare della parrocchia di San Luigi. Hanno animato la serata momenti di poesia e di intrattenimento musicale, realizzati dal vignettista-artista Totò Calì alla chitarra, con Tony Bergarelli poeta di strada, intervallati da proiezioni di video realizzati dalla web-tv Telestrada. I primi a salire sul palco sono stati Roberta Rizzotti, responsabile dell’Unità di strada della Caritas, che da anni distribuisce generi di conforto e pasti caldi a chi vive in strada, con affetto e calore umano, la quale ha illustrato la situazione dei tanti

“Vite in salita”: la Caritas contro la povertà Sono state più di mille le persone che nel 2011 si sono rivolte al centro di ascolto Caritas; 615 sono state inserite nel progetto “Vite in salita”. Uomini e donne quasi si equivalgono; il dato in crescita ha riguardato situazioni di “nuove povertà”, innescate dalla crisi. Sono soprattutto le famiglie a soffrire le difficoltà economiche del periodo, che spesso generano crisi delle relazioni famigliari stesse: divorzi e separazioni contribuiscono, a loro volta, a generare ulteriore povertà. Un circolo vizioso, che può essere interrotto solo da politiche incisive di sostegno alle famiglie. I risultati di “Vite in Salita” sono stati presentati dalla Caritas diocesana il 17 ottobre, in occasione della Giornata mondiale di lotta alla povertà. All'incontro hanno preso parte padre Enzo Algeri, nuovo direttore di Caritas Catania, don Gino Licitra, vicedirettore, Rosaria Giuffrè, viceprefetto della città, e Carmela Campione, responsabile del settore inclusione sociale del comune etneo. Il progetto ha favorito la creazione di un lavoro di rete tra territorio, parrocchie e Caritas diocesana, offrendo servizi di reinserimento sociale per le persone in stato di marginalità. Il problema principale e trasversale che riguarda tutti (uomini e donne, italiani e stranieri) è risultato essere la mancanza di lavoro. Difficoltà non solo figlia della crisi economica, ma anche dell’assenza di adeguati titoli di studio o qualifiche professionali e dell’elevata età anagrafica. Il 22,22% dell’utenza ha invece manifestato disagi legati all’abitazione: molti non possono pagare il canone d’affitto e dopo uno sfratto non riescono a trovare un nuovo alloggio. I risultati raggiunti dal progetto sono stati notevoli: sono stati realizzati 1.653 interventi a sostegno di singoli e famiglie. Circa il 30% delle persone seguite sono state reinserite nel mondo del lavoro e grazie alla ricostruzione delle reti primarie e di facilitazione del rapporto con le reti istituzionali, oltre il 35% degli utenti è passato da una condizione di privazione di dimora all’ottenimento di una casa. Ausilia Domenica Costanzo

56. scarp de’ tenis novembre 2012

poveri che dormono per le vie di Catania, e Pippo Maccarrone coordinatore di una mensa dei poveri.

Pesa la crisi della famiglia Giuseppe Fichera, direttore del dipartimento di salute mentale, e Pino Fusari, psicologo della Caritas, hanno parlato dell’incidenza del disagio mentale tra chi vive per strada, spiegando che oggi non è più dovuto soltanto a una patologia, ma anche a traumi derivati da situazioni familiari difficili (separazioni, stress da perdita del lavoro o da precarietà abitativa). Il dipartimento di salute mentale lavora in stretta sinergia con la Caritas, ricevendo le persone che bussano ai centri d’ascolto, affette da di-

Condivisione sotto le stelle Pubblico delle grandi occasioni per la Notte dei senza dimora a Catania


scarpcatania pendenze come alcol o droghe. In rappresentanza della Comunità di Sant’Egidio è invece intervenuta Angela Pascarella: «Insieme possiamo cambiare il volto di questa città – ha spiegato –; per noi l’amicizia con i poveri è la cosa più bella. Questo è un momento grave e noi abbiamo una grande riserva di umanità da donare agli altri. C’è più gioia nel dare che nel ricevere».

L’importanza di fare rete Altra ospite è stata Giusi Palermo, rappresentante del Consorzio Elios Etneo. Nel suo intervento ha parlato della chiusura del dormitorio “Il Faro”; era gestito dal consorzio Sol.co, in convenzione con il comune di Catania. Dopo tre anni la convenzione è scaduta e il dormitorio è stato chiuso. Nell’attesa del rinnovo della convenzione, Giusi ha sottolineato «l’importanza di fare rete tra istituzioni e volontariato e di sensibilizzare il tessuto sociale, soprattutto i giovani». Michele Giongrande, presidente del Cope, ha voluto invece ringraziare i tanti volontari che «mettono a disposizione risorse umane e professionali per aiutare i popoli dei paesi emergenti nello sviluppo nel proprio paese». Tutti hanno condiviso una cena a base di panini, pizza e dolci offerti dai cittadini catanesi e preparati dalle mense della Caritas e di Sant’Egidio.

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La storia

Prostituirsi per giocare, la sala delle schiave del bingo Il settore del gioco ha avuto negli ultimi anni un notevole incremento: l’Italia risulta al primo posto in Europa per risorse impiegate dai giocatori, con i suoi oltre 76,1 miliardi di euro nel 2011 (fonte Mediacom), spesi tra slot machine, videopoker, gratta e vinci, sale bingo, più i vari concorsi a pronostici di carattere sportivo. Le sale bingo, sempre spacciate come luogo capace di favorire la socialità, più che il gioco d’azzardo, in certi casi mostrano un volto inquietante. Anche tra i loro frequentatori, infatti, vi sono persone che, pur di continuare a gocare, sembrano disposte a tutto: perdere lo stipendio, la casa, l’auto, persino la propria dignità, arrivando a barattare il proprio corpo. Il fenomeno, a Catania, ha numeri piccoli, ma alcune voci lo danno in espansione: donne, ma anche ragazzi, si mettono in vendita, “trattando” proprio all’interno delle sale da gioco. Abbiamo voluto verificare in un caldo pomeriggio di ottobre, entrando in una delle sale bingo più note della città, ospitata in uno dei quartieri più agiati di Catania. La sala è semivuota, forse è ancora presto. In un angolo vediamo Sergio (il nome è di fantasia), una vecchia conoscenza, che bazzica questo posto quasi quotidianamente. «Siete arrivati presto – confida –: dalle 19 in poi qui si comincia a non ragionare più. Arriva gente di ogni ceto sociale, di ogni etnia, di ogni età. Tutti con la stessa malattia. Qualcuno vince, di tanto in tanto, ma riperde tutto la sera stessa o, al massimo, la sera successiva. Nessuno è capace di vincere e mollare il vizio: ho visto persone rovinarsi, chiedere spiccioli davanti al supermercato vicino o, addirittura, davanti alla chiesa. E c’è anche chi viene a giocarsi la pensione e magari non ha nemmeno i soldi per mangiare. Prendete me, per esempio: sapete che ho perso la famiglia proprio a causa di questo maledetto vizio del gioco...». Intanto la sala inizia lentamente a riempirsi, mentre gli addetti alla sorveglianza gironzolano intorno. Chiediamo a Sergio se è vero, che si arriva a prostituirsi per colpa del gioco. Lui non nega. «Qui tutto accade in silenzio – spiega –, o almeno così sembra; in questo momento c’è una ragazza che usa questo espediente, non voltatevi a guardarla o se ne accorge». Ce la indica con gli occhi e notiamo che la ragazza è ferma e che le si avvicinano alcuni ragazzi sui trent’anni. «Viene da fuori città – spiega Sergio – e lavora come domestica da una signora anziana. Ce ne sono tante che fanno come lei, anche di livello sociale più elevato. E ci sono anche ragazzi disperati che si prostituiscono». Due dei giovani escono con la ragazza dopo una serie di gesti, per noi indecifrabili, e il gruppo rimanente si disperde. «Hanno raggiunto un accordo – conclude Sergio –; state sicuri che la stanno portando in auto o in un appartamento qui nei paraggi. Di solito la cifra richiesta non supera i 20 euro, dipende molto dalla prestazione richiesta. Solitamente a prostituirsi sono donne sui 40 anni, provenienti dai paesi dell’Est». Guardiamo le nostre cartelle, fingendo di controllare i numeri: non ne abbiamo azzeccato uno, ma abbiamo guadagnato la conoscenza di un fenomeno davvero triste e inquietante. Ringraziamo Sergio, prendiamo un altro caffè tutti insieme e ci salutiamo. Intanto altre due donne sole entrano nella sala bingo, e diversi uomini vanno loro incontro... Tony Bergarelli e Roberto De Cervo novembre 2012 scarp de’ tenis

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poesie di strada

Meglio vivere Forse meglio vivere

di se stessi che d’amore. Alla fin fine ci si spegne naturalmente esaudendo intensamente gli stimoli necessari per la propria umanità di donna-uomo. Ci vuole forza, fegato, nervi saldissimi ed esperienza per sopravvivere oltre una certa età. La prima cosa è una grande fede il che non basta per evitare calunnie o situazioni terribili, spesso incredibili… Talvolta tragedie da sopportare in silenzio… Silvia Giavarotti

L’uomo Vecchio e la bestia indiano Spesso mi chiedo ove siano nascosti i confini del riconoscimento fra l’uomo e la bestia, il cui cuore non ha il dono della parola. In quale paradiso in un remoto mattino di creazione, correva il semplice sentiero che legava i loro cuori? Le tracce dei loro passi non sono mai state cancellate, sebbene la loro parentela sia da molto tempo scordata. Ma all’improvviso l’oscura memoria si desta in una musica senza parole, e la bestia guarda in viso l’uomo con tenera fiducia, e l’uomo la guarda negli occhi con divertito affetto. Sembra quasi che i due amici s’incontrino mascherati, e attraverso il travestimento si riconoscano.

Il tuo pensiero va oltre, i tuoi lustri sono visibili sul tuo viso scolpiti, segnati, calcati nelle tue profonde e sofferte rughe. I tuoi occhi stanchi vedono oltre la grande distesa della prateria, e i ricordi diventano rimpianti e nostalgia. Forse lo sapevi, ma tu hai fatto la storia, hai lasciato all’uomo bianco la sconfitta della vittoria. Ricordati i tuoi giorni di caccia, la vita semplice, il tuo cammino saggio, la tua voglia di libertà, uccisa per il colore della tua pelle. Vecchio, il tuo Manitù ti ha ascoltato, non è stata vana la tua vita hai lasciato orme che segnano il cammino della tolleranza. Vecchio indiano, vecchio uomo dal passato antico, vecchio persecutore della pace per il suo popolo. Domenico Casale

Gaetano “Toni” Grieco

Ninna nanna Dormi, dormi dolcemente nella culla tutta rosa, mentre in ciel la bianca luna passa assorta e silenziosa. Dormi, dormi finché l’alba luminosa s’alzerà ed il placido orizzonte tutto d’oro tingerà. E poi svegliati al mattino che apre i boccioli dei fiori, ed attorno alla tua culla odi il battito dei cuori. Mary

Oggetti Dov’è il mio io? E la mia mente? Sgretolati via, polverizzati come legno dai tarli. Detriti di memorie, tellurica zavorra di cui non so disfarmi. Cos’è il mio se non tela sbiadita monocroma di grigi, consumata dagli acari? Dolomite superba fallita di sconfitte, da cui non scorgo altro che foschie. Il cuore? Un freddo gomitolo di ruggine coronato di spine. Aida Odoardi

58. scarp de’ tenis novembre 2012


ventuno Ventuno. Come il secolo nel ventunodossier 2012, Anno quale viviamo, come l’agenda Internazionale della cooperazione. per il buon vivere, come Quanto incidono le cooperative l’articolo della Costituzione sulla libertà di espressione. sociali sul sistema economico Ventuno è la nostra italiano? E quale contributo possono idea di economia. Con qualche proposta per dare alla trasformazione dello stato agire contro l’ingiustizia e sociale? l’esclusione sociale nelle scelte di ogni giorno. di Andrea Barolini

21 ventunostili Quando l’agricoltura è donna. Le storie di imprese rurali al femminile, caratterizzate da un tratto comune: l’amore per la terra

di Stefania Culurgioni

ventunorighe Cooperative sociali, perché penalizzarle?

di Giovanni Carrara presidente Consorzio Farsi Prossimo

novembre 2012 scarp de’ tenis

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21ventunodossier Il 2012, Anno internazionale della cooperazione. Quale è stato l’effetto della crisi sulle coop? Un mondo che si trasforma

Coopero, dunque reggo dossier a cura di Andrea Barolini

Sono più di 80 mila in Italia. Sociali e non. Danno lavoro a più di un milione e trecentomila persone, ovvero il 7,4% dell’occupazione creata complessivamente dal sistema economico. Ma soprattutto, e in tempo di crisi ancora di più, si fanno carico di servizi che puntano a generare solidarietà, integrazione, giustizia sociale. Il taglio dei fondi pubblici penalizza le nostre cooperative? E come si stanno attrezzando per adattarsi ai tempi nuovi?

60. scarp de’ tenis novembre 2012

Meno finanziamenti, più occupazione

Il tempo dei rischi, facendo rete si cresce La crisi, ormai ciascuno di noi lo ha imparato, colpisce tutti. Ma per chi è più a contatto con realtà fragili, per chi ogni giorno affronta situazioni di disagio, l’impatto non può che risultare particolarmente duro. Lo sanno bene coloro che lavorano nelle cooperative sociali, e di conseguenza anche tutti coloro che vivono (e a volte sopravvivono) grazie all’aiuto di queste realtà. Le cooperative sociali, si sa, sono imprese che come prima finalità si prefiggono la promozione della persona e l’integrazione di tutti i cittadini nella comunità. L’offerta di servizi sociali, culturali, ricreativi, di lavoro ed educativi è amplissima: dall’aiuto garantito a migliaia di disabili nel duro compito di trovare un’occupazione, all’accompagnamento di ex detenuti o semplici cittadini in percorsi di crescita professionale, solo per fare due esempi. Un mondo che, in ogni caso, costituisce per tante persone una forma di welfare integrativo (e indispensabile) rispetto a quanto offerto dalle istituzioni pubbliche. Per tradurre tutto ciò in numeri, basta ricordare le cifre contenute nelle anticipazioni del primo Rapporto sulla cooperazione in Italia, effettuato dal Censis. I dati riguardano, ovviamente, anche alduzione primaria, con punte del 52% nel tre forme di cooperazione, ma sono cosettore vitivinicolo e del 39% in quello ormunque eloquenti: esistono nel nostro tofrutticolo; quanto alla cooperazione paese 4.411 sportelli di banche cooperasociale, dà lavoro a oltre 300 mila persotive di territorio, con una raccolta pari a ne e rappresenta il 23,7% dei servizi so161 miliardi di euro (il 13,1% del mercaciali complessivamente offerti nel paese to); nel settore della distribuzione, tra le (nell’ambito dell’assistenza e della saluprime dieci realtà italiane, tre sono coote, si raggiungono punte vicine al 50%). perative, con una quota di mercato del Il fenomeno, d’altra parte, non è solo 34%; nel comparto agroalimentare, la italiano, bensì globale: non a caso, l’ascooperazione gestisce il 36% della prosemblea generale delle Nazioni Unite ha


Crisi e cooperazione tabella 1. La previsione sulle entrate derivanti da contributi, convenzioni, rapporti con la pubblica amministrazione e donazioni T ipolog ia P r evis ione ent r at e da C cd C r es cit a St abili Diminuzione Non s o Non abbiamo r appor t i totale

Consorzi 21,1% 78,9%

100,0%

Coop A 8,1% 40,7% 43,1% 4,1% 4,1% 100,0%

Coop B 7,9% 32,9% 38,4% 3,0% 17,7% 100,0%

Coop A+B 18,2% 27,3% 31,8% 4,5% 18,2% 100,0%

Fonte: Indagine sui fabbisogni finanziari della cooperazione sociale in Italia, 2012, Ubi Banca

tabella 2. La previsione di indebitamento nei confronti degli istituti di credito, in relazione alle aspettative sulle entrate

P r evis ione ent r at e da C cd C r es c i t a St abili Diminuzione Non s o Non abbiamo r appor t i totale

P r evis ione indebit ament o pr os s imi 3 anni No debiti Diminuzione Stabile Aumento 26,8% 22,0% 24,4% 26,8% 32,6% 15,2% 37,0% 15,2% 26,4% 14,2% 37,3% 22,2% 11,1% 38,9% 50,0% 0,0% 40,0% 11,1% 42,2% 6,7% 29,4% 15,8% 37,0% 17,8%

totale

Fonte: Indagine sui fabbisogni finanziari della cooperazione sociale in Italia, 2012, Ubi Banca

dichiarato il 2012 Anno internazionale delle cooperative, sottolineando il contributo socio-economico che esse forniscono, in particolare all’opera di riduzione della povertà e di inclusione sociale in ogni parte del mondo. Un’ipotetica crisi delle coop, nel nostro paese, può dunque potenzialmente mettere in ginocchio centinaia di migliaia di persone. Le più a rischio, in questo periodo di austerity e rigore, sono le realtà che vivono di finanziamenti pubblici. Recentemente, in Veneto, il mondo della cooperazione ha lanciato un vero e proprio grido d’allarme. L’applicazione regionale della spending review prevede infatti una riduzione del 5% dei costi per le cooperative. Legacoop, Federsolidarietà - Confcooperative Veneto, Agci e Compagnia della Opere del Veneto hanno spiegato che ciò equivarrebbe a una decisa contrazione occupazionale e a un impoverimento della qualità dei servizi erogati: «Un 5% in meno di fatturato – ha sottolineato Loris Cervato, responsabile del settore sociale di Legacoop Veneto – si traduce inevitabilmente in tagli ai servizi». «E se per chiunque perda il lavoro oggi – ha aggiunto Nicola Boscoletto della Compagnia delle Opere – diventa un’impresa trovarne un altro, immagi-

Entrate in calo, debiti alle porte. Ma gli occupati sono aumentati niamoci per i soggetti svantaggiati. Siamo consapevoli che il paese si trova in una situazione critica e che ciò comporta sacrifici, ma se il contenimento degli sprechi e della spesa pubblica si trasforma in una mannaia per le fasce più deboli, allora non siamo d’accordo». «Ci aspettiamo tagli per 400 mila euro», ha contabilizzato Bruno Pozzobon, presidente del Consorzio di cooperative sociali “In concerto”.

Trend negativo L’impressione di un pericolo imminente è confermata dall’“Indagine sui fabbisogni finanziari della cooperazione sociale in Italia”, pubblicata a gennaio dall’Osservatorio Ubi Banca e da Aiccon Ricerca. Lo studio ha riguardato 500 organizzazioni rappresentative della realtà italiana, e ha mostrato una situazione di evidente rischio. «La maggior parte degli intervistati prevede per il 2012 un trend negativo per le entrate derivanti da con-

tributi, convenzioni, rapporti con la pubblica amministrazione e donazioni», si legge nel documento (vedi tabella 1). Quanto all’indebitamento (tabella 2), la maggioranza delle coop oggetto dell’analisi dichiara che le proprie esposizioni resteranno stabili (37%), ma molti intervistati affermano che la ragione è da ricercare nelle forti difficoltà che tali realtà incontrano nell’ottenere forme di credito da parte delle banche. Detto ciò, chi ipotizza le peggiori previsioni di indebitamento sono gli operatori del settore socio-sanitario e, ancora una volta, dei servizi educativi e di formazione. Un tale quadro – conclude il rapporto – «sta mettendo a dura prova la cooperazione sociale. Alla contrazione dei mercati, per queste organizzazioni, si aggiunge la riduzione della spesa pubblica. Così sono pochi i soggetti che prevedono un recupero per il prossimo futuro e nonostante la maggioranza preveda un 2012 stabile, si deve considerare che questa stabilità è riferita a un anno (il 2011) già di contrazione e non di sviluppo». Nonostante tutto, però, va detto che la situazione complessiva non ha ancora raggiunto livelli catastrofici. Il rapporto Censis ha sottolineato infatti la novembre 2012 scarp de’ tenis

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ventunodossier

Il rapporto

Quasi 80 mila organizzazioni, molte “sociali” Le cooperative italiane, sociali e non, sono quasi 80 mila. Solo tra il 2001 ed il 2011 il numero di realtà presenti nel paese è passato da 70.029 a 79.949, secondo i rilevamenti contenuti nel primo “Rapporto sulla cooperazione in Italia”, realizzato dal Censis. Le “coop” danno lavoro a circa 1 milione 382 mila persone, ovvero il 7,4% dell’occupazione creata complessivamente dal sistema economico. E a dare il maggiore contributo è proprio il settore terziario sociale: il 23,7% di chi è impiegato in tale comparto lavora presso coop. Tra questi, una quota preponderante si concentra nei servizi di assistenza socio-sanitaria (il 49,7%); al secondo posto figurano i trasporti e la logistica (24%), quindi seguono i servizi di supporto alle imprese (19,3%). Quanto alle dimensioni, le cooperative appaiono ben più “consolidate” rispetto alle imprese tradizionali: nel 2011, a fronte di una media di 3,5 addetti per ciascuna impresa, le cooperative ne contavano 17,3.

62. scarp de’ tenis novembre 2012

«straordinaria tenuta occupazionale» delle coop nel loro complesso (dunque non solamente quelle sociali), che continuano «a costituire un bacino prezioso e per certi versi unico di nuove opportunità». Nel corso degli anni di crisi, dal 2007 al 2011, i posti di lavoro sono infatti aumentati dell’8%, facendo lievitare il numero degli occupati – tra soci e non soci – da 1 milione 279 mila agli attuali 1 milione 382 mila. Un dato in netta controtendenza con il contesto economico nazionale (le imprese hanno tagliato il 2,3% della loro forza lavoro). A trainare l’aumento dell’occupazione nel periodo considerato, aggiunge il Censis, è stato proprio «il settore della cooperazione sociale, che ha registrato tra 2007 e 2011 un vero e proprio boom, con una crescita del numero dei lavoratori del 17,3%». Una delle ragioni di tale dato, apparentemente sorprendente, risiede nella stessa natura della cooperazione sociale, che spesso si pone in termini “anticiclici" rispetto all’andamento complessi-

vo del sistema. Basti pensare a tutte le realtà che si occupano di sostegno a persone disagiate: in periodi di crisi il loro numero aumenta, e conseguentemente il ricorso ai servizi offerti dalle coop. «Il mondo della cooperazione, in particolare quello sociale, fino ad ora si può dire che abbia tenuto – conferma Massimo Minelli, presidente di Federsolidarietà Confocooperative Lombardia –. Ma va detto che in molti casi sono stati sacrificati i margini di profitto o si è attinto alle riserve, ad esempio per salvaguardare l’occupazione. Scelte in linea con lo spirito cooperativo, ma che non possono essere portate avanti all’infinito». Il peggio, infatti, potrebbe venire nel prossimo futuro: «I dati colti dalle ricerche sono relativi al 2011 – aggiunge Minelli –, mentre noi quest’anno abbiamo registrato avvisaglie più forti, soprattutto per le cooperative di tipo “A”, quelle che dipendono maggiormente dalle risorse pubbliche. È probabile che il momento in cui si uscirà dalla crisi sarà il più difficile».

Cooperative a Trento

Se il Delfino si fonde moltiplica il fatturato Sebbene la risposta complessiva della cooperazione sociale alla crisi sia stata fino a questo momento piuttosto buona, non in tutti i casi si è riusciti a “sopravvivere” all’urto senza dover modificare le proprie strutture. Un adattamento al terremoto economico globale degli ultimi anni si è rivelato infatti, soprattutto in determinate situazioni, indispensabile. Per comprendere al meglio in che modo ciascuna realtà sia riuscita a contrastare la fase di recessione, è necessario effettuare anzitutto una distinzione: quella tra cooperative “di tipo A” e “di tipo B”. Secondo la legge che disciplina il settore, le prime «perseguono l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini attraverzazione e manutenzione di sentieri, laso le gestione dei servizi socio-sanitari vori forestali o legati al comparto dei vied educativi». Conseguentemente, i vai, manutenzioni edili, elettriche, “prodotti classici” di una coop di tipo A sono legati all’assistenza domiciliare soidrauliche o, ancora, facchinaggio e cuciale e sanitaria; alla fornitura di servizi stodia di edifici. in strutture per anziani, per pazienti psiLe coop di tipo A sono maggiormenchiatrici o per portatori di handicap; alte legate ai finanziamenti pubblici, perla gestione di centri estivi e doposcuola ché si concentrano in settori comparteper minori. Le coop sociali di tipo “B”, incipati da stato ed enti locali. È inevitabivece, svolgono prevalentemente «attile, perciò, che siano queste quelle magvità agricole, industriali, commerciali o giormente in difficoltà, dati i tagli alla di servizi, finalizzate all’inserimento laspesa sociale pubblica degli ultimi anni. vorativo di persone svantaggiate». Il che La distinzione si può toccare con mano si traduce, in particolare, in pulizie amanche in realtà presenti nello stesso terbientali, manutenzione del verde, realizritorio. A Trento (area storicamente ricca


Crisi e cooperazione

Obiettivi da modificare Per questo il mondo della cooperazione deve riuscire, in primis, a sfruttare il valore aggiunto che è rappresentato dalla sua stessa cultura. Innanzitutto “facendo rete”, consorziandosi. «Quando mancano finanziamenti pubblici – spiega Michele Tait, presidente del consorzio di impre-

se sociali trentine Con.Solida – il rischio è non riuscire a proseguire da soli. È il caso dei servizi che dipendono direttamente dalla pubblica amministrazione, come i centri giovanili o per anziani. Per questo è importante unire le forze». Si tratta (in ogni caso) di un processo di cambiamento che, conclude lo studio

tabella 3. Previsione per la cooperativa e il paese, 2012

Fonte: Primo Rapporto sulla cooperazione in Italia, Anteprima di Giuseppe Roma, direttore generale del Censis

Cooperative 60,5% Economia italiana 1,2%

28,4% 20,5% 14,1%

Ubi-Aiccon, è già in atto: «Le cooperative stanno rivedendo gli obiettivi strategici. Se negli anni scorsi hanno investito in innovazione, nel tentativo di approfittare di una ripresa economica che poi non si è verificata, oggi orientano le energie altrove. In particolare nel consolidamento delle relazioni, dei partenariati, delle aggregazioni». «Noi proponiamo ai nostri operatori di stringersi tra loro – conferma Minelli –, di economizzare e mettere insieme i saperi. Devono diventare punti di riferimento nei territori, attraverso reti ampie, anche con altri soggetti: banche, imprese, farmacie, parrocchie. O puntare su dinamiche nuove, come quelle aperte dalle energie rinnovabili». Con le competenze e la capacità di far fronte alle difficoltà dimostrate dalle cooperative, le trasformazioni economiche potrebbero rivelarsi un volano. E la cooperazione potrebbe diventare un punto fermo di un sistema economico più giusto, più equo. Più orientato ai bisogni di ciascun individuo.

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12,2% 4,5%

4,0%

4,1%

0,2% Crisi

Ristagno

Ripresa

di cooperative), ad esempio, lavora da tempo la coop Delfino, che dal 1989 offre servizi di cura e assistenza e promuove attività culturali e ricreative a favore di anziani e adulti in situazioni di disagio. Le sue dimensioni (il fatturato annuo non superava il milione e mezzo di euro) e il tipo di servizi offerti hanno convinto il presidente Michele Tait a operare una scelta lungimirante per fronteggiare la crisi, salvaguardando anzitutto l’occupazione: «Ci siamo fusi con un’altra cooperativa, che offriva prestazioni analoghe, per garantirci il raggiungimento di dimensioni capaci di farci competere sul mercato. Oggi abbiamo 20 milioni di fatturato, e possiamo offrire intere filiere di servizi, dalla semplice gestione delle badanti a quella di intere case di riposo, aderendo maggiormente alle richieste delle famiglie. In questo modo è stato

Consolidamento Espansione

possibile, inoltre, tagliare i costi senza diminuire il personale: strategia ben differente da quella delle imprese tradizionali, dove prevale spesso l’investimento immobiliare o in macchinari».

Qualità e flessibilità Nella stessa area opera anche la cooperativa A.L.P.I., di tipo B, che offre servizi di orientamento al lavoro. In questo caso la crisi si è fatta sentire in modo solamente indiretto, dal momento che le necessità di sostegno, nel tentativo di trovare un’occupazione, in periodo di crisi, aumentano. «Lavoriamo prevalentemente per il mercato privato – racconta il direttore, Silvano Deavi – e riusciamo ad avere successo perché offriamo servizi di qualità a prezzi concorrenziali, grazie alla capacità di muoverci in velocità e a una struttura flessibile». Un mo-

dello che funziona, «soprattutto, a mio avviso, per le cooperative di tipo B come la nostra, particolarmente in grado di fronteggiare le trasformazioni». La coop A.L.P.I. dà lavoro a 50 persone con patologie psichiatriche, di età media tra i 20 e i 24 anni, che eseguono assemblaggi di materiali plastici, meccanici, elettrici, tessili, oppure cellophanature, o ancora lavorazioni per l’editoria e le tipografie. «I lavoratori restano con noi finché non hanno trovato un impiego stabile – prosegue Deavi – e nel frattempo imparano a gestire la loro fragilità, trovando uno spazio nella società». Una risposta alla crisi che sa, dunque, coniugare gli obiettivi sociali con quelli di impresa, riuscendo a conquistare quote di mercato. Una concreta alternativa, sul territorio, alla delocalizzazione.

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21ventunostili Le amiche di Gianna Gianna, ex operaia metalmeccanica, oggi alleva capre e produce formaggio

C’è chi ha lasciato il posto fisso. Chi si dedica alle api. Chi a produrre formaggio. Storie di agricoltura al femminile

Agli avvocati preferisco le capre! di Stefania Culurgioni - foto di Mariangela Marseglia

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I milanesi sanno essere simpatici e affabili, e tutti quanti mi dicono: ah, che bello, potessi farlo anch’io. E non sanno che è davvero possibile!

»

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Patrizia non ne poteva più di star dietro ai capricci delle donne sciccose di Milano, a cui confezionava abitini per le serate mondane. Enrica non ce la faceva più a sopportare gli avvocati dello studio legale per cui lavorava. Ornella si sentiva soffocare nella fabbrica in cui faceva gli ombrelli, Simona non aveva di che vivere suonando il corno nonostante fosse la sua grande passione. Infine Elisa era stufa di ricevere lo stipendio un mese sì e uno no, come guardia del parco con cui aveva un contratto poco sicuro. Cinque storie diverse, che arrivano tutte alla stessa meta: donne che hanno mollato il lavoro che facevano e hanno deciso di diventare contadine. E se non vi convince il termine, potete anche chiamarle coltivatrici, o meglio imprenditrici della terra, visto che questo sono: creative, coraggiose, intuitive, hanno rivoluzionato il concetto di agricoltura, declinandolo nel sociale e nel commerciale. E stanno, come si


agricoltura al femminile Donne in Campo

Aziende agricole al femminile? Vivaci, creative e multifunzionali Chiara Nicolosi, 58 anni, è la coordinatrice di “Donne in Campo”, associazione lombarda di donne che lavorano in agricoltura, fondata nel 1999. Le imprese agricole faticano a superare la crisi, ma si registra un fenomeno nuovo: sempre più donne tornano alla terra... La crisi dell’agricoltura è stata sempre e soprattutto dovuta a un calo del reddito. Dal dopoguerra in poi siamo passati dall’essere un paese prevalentemente agricolo ad avere solo il 2-3% di lavoratori nel settore. È stata una trasformazione radicale: tante persone non riuscivano più a vivere facendo i contadini, sono resistite solo le aziende che sono riuscite a meccanizzarsi. Poi vi è stato lo sviluppo dell’industria e dell’edilizia, che ha distrutto il suolo italiano, tanto che ora siamo arrivati a un livello di guardia. Costruire ancora nelle aree agricole sarebbe un danno economico, ambientale e territoriale irrimediabile. Difendere i suoli agricoli per difendere l’Italia e il suo paesaggio: questa parola d’ordine è stata lanciata da noi addetti all’agricoltura venti, trent’anni fa. E ormai da quindici-venti anni assistiamo a un fenomeno: mentre una volta gli agricoltori partivano dalle zone più povere per andare in città e le donne rimanevano a casa, tenendo aperte le aziende agricole, ora le donne restano alla terra, ma

direbbe oggi, “spaccando”. Di storie come queste ce ne sono a centinaia. Il fenomeno delle donne che tornano nei campi, infatti, è nuovo e si sta affermando sempre più, negli ultimi anni. Qualcuno lo chiama il “Fattore D” e secondo una stima di Unioncamere (dati relativi al terzo trimestre 2011) le “manager della terra” gestiscono il 17% delle aziende italiane del settore: una su tre, per un totale di circa 250 mila. Che poi, diciamoci la verità: le donne sono contadine da secoli, e sono protagoniste in agricoltura praticamente da sempre. Sono state braccianti, mondine, contadine, ma anche madri di famiglia,

non per una scelta residuale. Ovvero, nessuna più pensa: rimango perché l’uomo se ne va in città a trovare lavoro. Chi lo fa pensa invece: rimango perché lo scelgo. Questo spostamento di motivazione ha determinato la nascita di aziende vivaci, aperte, multifunzionali. La multinfunzionalità: basta monocolture... Sono due cose diverse, ma entrambe si stanno affermando sempre di più. Al posto della monocoltura, oggi si punta sulla coltivazione di prodotti diversificati. E invece di condurre solo l’azienda agricola (ecco la multifunzionalità) si punta sull’offerta di tanti servizi, dall’agriturismo alle fattorie didattiche per i bambini, dagli agrinido alle fattorie sociali. Le donne ci hanno visto bene: funzionano le aziende piccole, ma versatili. Funziona bene anche il modello famigliare: tutti i membri sono coinvolti nella produzione, perché quello che si sceglie, prima che un lavoro, è un progetto di vita, con una condivisione di valori. Certamente, fare l’agricoltrice non è facile. Presuppone un sistema di conoscenze, una preparazione e un’esperienza che si acquisiscono con anni di lavoro... sul campo. Ma le donne stanno dimostrando di saper declinare al meglio abilità, capacità imprenditoriali, fantasia e dedizione al lavoro.

Dagli ombrelli al cacio A sinistra, prodotti naturali di un’impresa al femminile; a destra, la signora Ornella, ex operaia in una fabbrica di ombrelli, oggi produttrice di formaggi in Valcamonica

mogli e compagne. Si sono occupate di cucinare, preparare il pane, fare i formaggi, le conserve per la famiglia, e quando gli uomini erano in guerra erano loro a portare avanti l’azienda, o l’attività agricola. Nei secoli, silenziose e nascoste, hanno creato abilità femminili, generando molti dei prodotti di eccellenza di cui il nostro paese oggi va fiero, e che tutto il mondo riconosce e invidia. E poi di più: in un momento storico come questo, in

cui la crisi ha colpito duro, facendo perdere a molti il posto di lavoro, molte si sono inventate una ricetta nuova: tornare alla terra, investire sull’impresa agricola, farla fruttare abbinandola a nuovi ingredienti. Qualcuna ha aperto per esempio un “econido”, qualcun’altra una “fattoria didattica” in cui si organizzano visite delle scuole, altre ancora una “fattoria sociale”, l’ultima tendenza di questi anni, in cui si ospitano gli anziani.

Patrizia, l’ex stilista Patrizia ha 41 anni ed è sempre stata una milanese convinta. Solo che poi, a un certo punto, la città ha cominciato a starle novembre 2012 scarp de’ tenis

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ventunostili

Arance sotto il vulcano Barbara, imprenditrice agricola di Catania, gestisce un’azienda con sette ettari di agrumeto, a pochi chilometri dalla città etnea

Catania

Barbara e la svolta “bio”: «Produrre, in modo umano» Barbara, occhi colore del cielo di Sicilia, sorriso ampio e rassicurante, mi accoglie tra le piante della sua terrazza per raccontarmi la vita da imprenditrice agricola. La mia azienda ricopre sette ettari di agrumeto – attacca –, sorge a pochi chilometri dalla periferia degradata di Catania. Cominciai ad occuparmene circa trent’anni fa, quando era ancora di proprietà dei nonni, che la gestivano. Gli agrumeti erano malmessi a causa di una gestione un po’... feudale, che aveva portato a un bilancio aziendale da “profondo rosso”. Per poterne uscire, due cose apparivano assolutamente necessarie: modernizzare ed economizzare». I tempi di allora, per certi aspetti, erano simili a quelli di oggi: «Il mercato strozzava i produttori con prezzi sempre più bassi e tanti erano i commercianti privi di scrupoli; eravamo costretti a subire estenuanti trattative, che ci obbligavano a cedere, pur di non perdere tutta la produzione. Nel 1985 conobbi Peter, capitano inglese di lungo corso, lui lasciò la vita di mare, ci sposammo e andammo a vivere nella mia campagna. Fu allora che incontrammo il Coordinamento siciliano per l’agricoltura biologica, fu una svolta importante. La nostra attenzione nel curarci ed alimentarci in modo naturale, volevamo fosse la stessa per curare ed alimentare la terra.

stretta. Non si sentiva libera di andare in giro di giorno né di notte, non le piacevano i milanesi sempre sotto stress. E poi quelle signore di città, in cerca di abitini sgargianti, incontentabili, puntigliose. Il richiamo della terra le è venuto fuori poco per volta, poi otto anni fa la decisione: «Mi sono trasferita nell'Oltrepò pavese, mi sono portata dietro tutta la famiglia, sorella minore, mamma e papà – racconta – e ho scoperto un mondo. Piano piano ho cominciato ad applicare la fantasia a confetture, conserve di verdure, gelatine di vino; mi sono messa a coltivare frutta e ortaggi, a partecipare a mercatini biologici in tutta Italia». Le sue nuove giornate, Patrizia le passa all'aria aperta e confessa di fermarsi, a volte, a guardare i colori del tramonto con la madre e la sorella. «Ho persino scoperto che i milanesi sanno essere simpatici e affabili, se sono lontani dalla città – racconta –. Tutti quanti mi dicono: ah, che bello, potessi farlo anch’io! E non sanno che è davvero possibile, a patto di impegnarsi 24 ore su 24, ogni giorno dell'anno». In effetti, il disagio inconfessato di chi ogni tanto si immagina di tornarsene in

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Nel 1988 rimasi da sola, Peter se ne andò nel mese di luglio a causa di un brutto male, ma mi lasciò un meraviglioso dono: a dicembre nacque nostro figlio Davide. Negli anni difficili che seguirono, di grande aiuto mi fu Nino, fedele e appassionato collaboratore. Imparai a spedire direttamente le mie arance a una cooperativa bio di Varese; finalmente un modo “umano” di vendere il prodotto. E per la prima volta sentii dire che le mie arance erano veramente buone». Oggi gestisce l’azienda insieme con Davide, che ha ereditato, con i geni, l’amore per la terra e la natura. «Mi dà un aiuto importante – continua Barbara –, sta facendo molte significative esperienze. Il nostro ambiente è uno dei pochi in grado di offrire a un giovane l’opportunità di lavorare umanamente, sentendosi parte integrante di una comunità sana». Sissi Geraci

campagna, si condenza nel detto di una volta: la terra è troppo bassa... Patrizia e la sua famiglia hanno tre ettari di terreno a vigneto, più un orto di 900 metri quadrati e un impianto di 150 alberi da frutta. Poi hanno anche le galline, che producono le uova e muoiono rigorosamente di vecchiaia. «L'inizio non è stato per niente facile – racconta lei –; per cinque anni abbiamo strappato le erbacce a mano e solo dopo abbiamo scoperto che esistono i teli anti-alga per non farle crescere. E poi, non sai bene come piantare i peperoni, vicino a quale pianta metterli, se hanno bisogno di più ombra o più sole. Insomma, eravamo un po' inesperte, ma abbiamo imparato. Prima tenevo in mano ago e filo, oggi il mio mondo è la motosega, il decespugliatore, le accette. Scopro che tutte le stagioni sono belle e resto stupita della bellezza delle cose, sia -13 gradi d'inverno che con 35 d'estate».

Le capre di Enrica «Sono una ragioniera, lavoravo in uno studio legale, poi ho conosciuto le capre e ho scoperto che mi piacciono di più loro che gli avvocati...». Enrica ha 49 anni

ed è diventata imprenditrice agricola dieci anni fa, quando ha lasciato l’ufficio per aprire un piccolo allevamento, grazie al quale produce formaggi caprini. La tecnica gliel’ha insegnata un contadino vero, «perché io sto ancora imparando – si schermisce –, ma la verità è che a lavorare il latte insegna solo l’esperienza». Oggi vive in provincia di Bergamo, nel parco del Brembo, e racconta che della sua vita di prima non rimpiange niente. «Non è che non mi piacesse – riflette –, è solo che volevo vivere più a stretto contatto con animali che non fossero cani e gatti. Avere le capre mi ha aiutato a responsabilizzarmi, sono animali molto intelligenti». Con il suo nuovo lavoro, Enrica riesce a sopravvivere dignitosamente, ma anche se potesse guadagnare di più, non vorrebbe mai che diventasse una piccola industria. «Le mie capre le conosco tutte per nome – dice –, le distinguo dalla barbetta, dalla forma delle mammelle, delle zampe, del busto, dal colore, dalle corna, dalle macchie, dal rumore che fanno. E tutte hanno nomi di persona: ci sono Giulia, Ivonne, Alice, Sofia, Bimba,


agricoltura al femminile

Patrizia, dalla moda alla terra A sinistra, uno stand di agricoltura al femminile; a destra Patrizia, ex stilista, oggi ha un'impresa agricola nell'Oltrepò pavese

Itti, Eva... Il nome lo prendono anche un po’ in base al carattere o alla genealogia. Per esempio la capra Rossella ha fatto figlie che ho chiamato tutte con la erre: Roberta, Romina, Rossana, Riccia». Accanto a Enrica c'è la socia, Gianna, che ha 52 anni. Per 33 ha fatto l'operaia in una fabbrica metalmeccanica: «Un lavoro alienante, ripetitivo. Poi la ditta si è trasferita in Cina, ho fatto un anno in un'altra fabbrica. E poi ho conosciuto Enrica in un mercatino. Sono diventata sua cliente, andavo in cascina a comprare i formaggi: alla fine siamo diventate socie. Io ero rimasta senza lavoro, adesso riesco a vivere di questo. E sono cambiata: i miei figli mi hanno detto che da quando sto con gli animali sono più rilassata, nonostante sia molto faticoso. Io mungo 50 capre e ogni giorno le prendo e ce ne andiamo sul fiume a pascolare, fino a che loro sono stanche di stare fuori. Sono sempre a contatto con la natura, vedo gli aironi che si alzano e i cani che corrono, non sono chiusa in un ufficio, in una fabbrica. Alla sera arrivo distrutta, ma non potrei mai tornare indietro».

Ornella, dagli ombrelli al formaggio Ornella è una sorridente signora di 58 anni, a cui piace la vita dei mercatini, farsi due chiacchiere con le persone che passano. Dispone le sue forme di formaggio con cura, se le guarda come figli, perché le ha fatte con le sue mani. Una volta faceva l'operaia, produceva ombrelli ed elettrodomestici, poi ha deciso di lasciare, per dedicarsi all’agricoltura. Con il marito ha aperto un agriturismo in Valcamonica, in provincia di Brescia, poi ha cominciato a fare i formaggi di capra. Si alza alle 4 del mattino e va a letto a mezzanotte, fa una vita durissima: lavora il latte portandolo alla giusta temperatura con la caldaia, prepara il banchetto per i mercatini del giorno dopo, segue l'agriturismo e le bestie. «Ma adoro stare in compagnia e girare luoghi, mi piace parlare, quando non c'è il mercatino mi sento persa, anche se ho tantissime cose da fare. Questo lavoro è pesante, ma è bellissimo. Sono felice quando la gente torna, dopo aver mangiato i miei formaggi, perché li ha trovati buoni...».

Le api di Simona Simona Schena, 45 anni, abita a Caravaggio (Bergamo) e “ricava” prodotti dell'alveare: miele, pollini, pappa reale, caramelle, grappa, aromi. Ha 120 alveari, ciascuno dei quali ha 80 mila api. «Sì che ho paura – confida –, le api pungono spesso, tranne quando sono tranquille e c'è bel tempo. Sono insetti temibili ma bellissimi, con una grande organizzazione». Lei è una suonatrice di corno, diplomata al conservatorio, ma non è mai riu-

scita a mantenersi con quel lavoro. E adesso desidera puntare tutto sulla nuova attività, che porta avanti con il suo compagno. «Dalla crisi – commenta – nasce anche l’amore vero per la natura».

Elisa, e l’eredità di famiglia Elisa Cedrone, 36 anni, ha un’azienda agricola in provincia di Frosinone, nel parco nazionale d’Abruzzo. «Siamo una famiglia di agricoltori da sempre – racconta – e qualche anno fa io, che lavoravo come guida nei parchi, ho insistito con i genitori per aprire un agriturismo, insieme ai fratelli, in un vecchio casolare di proprietà della famiglia. Sentivo un forte legame con la terra. Mamma e papà non erano d’accordo. “Voi conoscete la terra – ci dicevano –, sapete che è dura da lavorare, mai un giorno libero, non è così redditizio”. Ci siamo impuntati, abbiamo ristrutturato un fienile del 1600 e ora abbiamo una struttura ricettiva con 20 posti letto, ristorante e attività didattica, coltiviamo, abbiamo un allevamento tradizionale con mucche, cavalli, pecore, maiali. E siamo soddisfatti». Tutta la famiglia di Elisa ora è contenta. La sorella lavorava nel comparto tessile, poi la sartoria è stata chiusa ed è rimasta senza lavoro; il fratello era invece impiegato nell'edilizia, ma anche lui era rimasto disoccupato. «Ora siamo impegnati tutti, non abbiamo orari ma non ci pesa – conclude Elisa –. Collaboriamo con tante associazioni, siamo inseriti nel progetto di recupero del territorio del parco, abbiamo tantissime attività»: la terra è bassa, il morale molto alto.

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ventun righe di Giovanni Carrara presidente Consorzio Farsi Prossimo

Coop sociali, perché penalizzarle? In questa fase di crisi, tra i pochi settori che possono esibire dati incoraggianti e in controtendenza c’è quello delle cooperative sociali. Lo testimoniano le cifre relative all’occupazione: dal 2006 al 2011 è aumentata del 17%, nelle altre imprese è diminuita del 2,3%. Anche Consorzio Farsi Prossimo e le cooperative socie, molte promosse da Caritas Ambrosiana, negli ultimi quattro anni hanno fatto registrare un aumento di oltre il 15% dei lavoratori (1.022, a fine 2011). Questo non significa che le cooperative non avvertano la crisi. Sicuramente trovano risposte differenti: ad esempio, evitando di fare ricadere le difficoltà sui lavoratori, attraverso misure come licenziamenti o la cassa integrazione. Questo non sarebbe possibile senza il grande senso di responsabilità di soci e lavoratori. Però purtroppo ben pochi, a partire da chi determina le politiche locali e nazionali, sono consapevoli della rilevanza delle cooperative. Lo dimostra il fatto che solo il 0,5% del pil nella spesa pubblica è destinato a interventi sociali. E non si spiegano altrimenti le nuove disposizioni previste nel disegno di legge di stabilità 2013, in discussione in parlamento, che prevede che l’Iva sui servizi socio-sanitari svolti dalle cooperative sociali dal 1° gennaio aumenti dal 4% al 10%, con un aggravio per enti pubblici e famiglie. Tale aumento mina al cuore l’assistenza ad anziani, disabili, tossicodipendenti, minori in condizioni di disagio, famiglie con bimbi che frequentano il nido. Siamo sicuri che questo conto pesantissimo favorisca l’economia del paese e non pregiudichi la vitalità di uno dei pochi settori ancora con saldo attivo?

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lo scaffale

Le dritte di Yamada “Dio colloca l’angelo come un orologio, che nell’autunno senta il prossimo autunno.” (Rainer Maria Rilke). In questa recensione novembrina, tre sono i conviI due Proposte per tati con una “k”, nel nome o nel cognome. desideri immaginare di Valentina la decrescita Il primo – poeta – annunciato poche righe sopra, ci fa strada verso la foto di copertina di un disco che Adesso Valentina Il libro vuole fare quando uscì, nel 1971, fece strage di cuori e rimase, per ha 23 anni. pulizia delle oltre sei anni, nelle classifiche americane: si vede una A 4 anni ha capito semplificazioni giovane (autrice e compositrice) seduta su una panca di essere una mediatiche bambina con dei sulla decrescita, vicino a un finestrone da cui filtra di sguincio una luce problemi, ma non provando mattutina senza sole. Accanto a lei, su un cuscino, le è mai mancata a prefigurare il suo gatto: tutti e due guardano l’obiettivo, in una la voglia di andare le caratteristiche comunanza di pace e silenzio. Del gatto non so il incontro agli altri, del nuovo modello nome. Del fotografo della celeberrima foto, sì: Jim di imparare, dare sociale. Un e ricevere affetto. modello di società McCrary, mancato quest’anno, a maggio. La cantante, Valentina è in cui venga ora: erede di Janis Joplin per talento e bravura, con diversamente superato questo disco, Tapestry, avrebbe dato i natali a un abile, è intelligente il paradigma genere popolare – il songwriting al femminile –, ispima non può della produzione rando, nel tempo, tantissime altre musiciste: è Carole parlare, si esprime e del consumo di digitando tasto massa. Ognuno dei King, ovviamente. Questo non è un lavoro come tutti dopo tasto, con quattro autori gli altri nella carriera di Carole King: è una benedizione, fatica, immensa. propone un tema un’innovativa grazia compositiva e d’esecuzione Grazie a un di decrescita e le canora, che immortala un periodo storico – progetto del modalità con le i Settanta –. I temi scelti e cantati dalla King, vicini alla liceo Amaldi quale affrontarlo. di Orbassano (To) società dell’epoca, sono mossi da ideali forti, utopici e è però riuscita a Bruna Bianchi, consapevoli dei tanti risvegli – sociali e sessuali – che incontrare, in modo Paolo Cacciari, era ora di agire. La lettura dei credits, poi, stana gli altri profondo e nuovo, Adriano Fragano e gioielli del disco: Joni Mitchell ai cori, Curtis Amy al sax i suoi coetanei. Paolo Scroccaro e al flauto, e, soprattutto James Taylor, che riesce a conImmaginare Paola Albertetti e la società vincere la King a cantare i pezzi che, fino a quel Alessandro Tollari della decrescita momento, aveva con successo scritti solo per altri artiDi tre desideri Edizioni Terra Nuova sti. Se vedete la lista delle canzoni di Tapestry, restate lì: me ne bastano due pagine 263 So far Away, It’s too Late, Home Again, Way over Yonder, editore Mursia euro 12 Will You Love me Tomorrow, You Make Me Feel Like a pagine 217 euro 14 Natural Woman... dovrei scriverle tutte, davvero... VH1, il canale satellitare della Warner, nel 1999 faceva una classifica delle donne più grandi del rock. Al primo posto c’era Aretha Franklin, al decimo Carol King, e al trentesimo la nostra terza “K”. Originaria di Chicago, anche lei erede di Janis Joplin, era stata fidanzata con Tom Waits (sono suoi i lunghi capelli biondi che sfiorano la Cadillac nella copertina di Blue Valentine, disco di Waits del 1978, ndr) fino alla fine degli anni Settanta, quando si rintana sulle colline di Los Angeles a scrivere parole e musica per un disco – il suo secondo – che si rivelerà meraviglioso. Sto parlando di Rickie Lee Jones, e il cd in questione è Pirates. La voce di RLJ è bellissima, areonautica e imprendibile nei vocalizzi che molto devono al jazz, di cui è una convinta adepta con licenza di contaminazione. Ha avuto una carriera vivida (il suo ultimo disco di cover è uscito quest'estate) e discontinua, con successi commerciali e flop maestosi che non hanno scalfito l’indomito spirito musicale della Nostra. Tutti i pezzi del disco – otto – sono perfetti e incantano per l’allegria, la passione e il fascino che si sente profuso da tutti i musicisti che ci hanno suonato (i due Steely Dan, Randy Brecker, David Sanborn, Lenny Castro, solo per dirne alcuni), RLJ in testa. Mi immagino Rilke, RLJ e CK immersi nell’ascolto di Skeletons di RLJ: che belli, sarebbero. “Tapestry” di Carol King e “Pirates” di Rickie Lee Jones (e Rainer Maria Rilke)

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Economia blu, l’acqua come risorsa Nemmeno a dirlo, siamo il paese che spende meno per la prevenzione da catastrofe ambientale. E anche quello europeo a più alta vulnerabilità. Il libro di D’Angelis e Irace mette a fuoco le risorse del paese per raddrizzare una situazione al limite del naufragio. La ricetta riguarda la Blue economy, ovvero gli investimenti idrici che potrebbero aiutare a recuperare risorse e posti di lavoro in un settore dalle molteplici potenzialità. Erasmo D’Angelis e Alberto Irace Come riparare l’Italia Dalai Editore pagine 254 euro 18


Milano

Al Mercato della Terra i prodotti del Parco agricolo Sud Ogni primo e terzo sabato del mese, in via Procaccini 4, alla Fabbrica del Vapore, sono presenti i produttori del territorio milanese e lombardo con le loro storie, i loro prodotti, i sapori della terra. Protagonisti sono i produttori del Parco agricolo Sud di Milano, che con oltre 47mila ettari è uno dei parchi agricoli urbani più grandi d’Europa, esteso fra i bacini di tre fiumi (il Ticino, l’Adda e il Po). I produttori coinvolti sono più di 40, con una straordinaria varietà di prodotti, che include anche alcuni Presidi Slow Food. Il progetto del Mercato della Terra di Milano è realizzato a seguito del protocollo di intesa tra Slow Food Italia e Parco agricolo Sud Milano attraverso il co-finanziamento del parco stesso, mentre Fondazione Cariplo e comune di Milano compaiono fra gli sponsor. INFO milano@mercatidellaterra.it

Milano

Un secolo e mezzo di illustrazione per l’infanzia in Italia

Inaugurata nelle Sale Viscontee e nella Sala dei Pilastri del Castello Sforzesco la mostra “Da Pinocchio a Harry Potter. 150 anni di illustrazione italiana dall’Archivio Salani. 1862 2012”, è prodotta da comune Milano con Salani Editore. L’esposizione

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presenta 300 opere grafiche provenienti dalla Civica Raccolta delle Stampe “Bertarelli”, dall’Archivio Salani e dalla Biblioteca Nazionale di Firenze e resterà aperta fino al 6 gennaio, con ingresso gratuito. INFO www.comune.milano.it

Milano

Quelli di Grock, teatro che fa spiccare il volo agli adolescenti

Il progetto “Adolescenza: fase di decollo” nasce dal lavoro sulle scuole del territorio che la compagnia teatrale Quelli di Grock ha svolto al teatro Leonardo da Vinci a partire dal 2002. Ne sono scaturiti spettacoli che, avvalendosi del supporto scientifico di psicologi, psicoterapeuti e operatori specializzati, danno voce a tematiche di estrema attualità, e con un linguaggio adatto ai giovani. Quest’anno gli appuntamenti teatrali domenicali con gli adolescenti sono quattro e iniziano il 25 novembre (sempre alle 16, al Teatro Leonardo, ingresso 15 euro) con lo spettacolo “Home sweet home” sulla violenza domestica sulle donne e le conseguenze sui minori in famiglia. Domenica 27 gennaio 2013, lo spettacolo “Io me ne frego!” parlerà del bullismo tra adolescenti. Domenica 24 febbraio andrà in scena “Quasi perfetta: i disturbi alimentari nell’era dell’immagine”. Infine, domenica 17 marzo sarà la volta di “Kome un kiodo nella testa”, sulle nuove dipendenze nell’era digitale. Seguono confronti con il pubblico e ospiti illustri. Inoltre, sarà aperto in teatro uno sportello di informazione specifico sulla tematica trattata di volta in volta, gestito in collaborazione con associazioni e operatori specializzati. INFO www.quellidigrock.

Pillole senza dimora Anche i giovani homeless sfruttano le potenzialità del web Negli Stati Uniti, secondo una recente ricerca dell’Università dell’Alabama, il 75% dei giovani senzatetto usa regolarmente i social network, proprio come i loro coetanei più fortunati. Secondo la ricerca, la condizione economica non è la discriminante più importante per l’accesso al web. Ciò che conta davvero è l’età. L’indagine ha preso in esame 237 studenti universitari e 65 giovani senzatetto, con un’età media di 19 anni. Il risultato è che entrambi i gruppi utilizzano Facebook o Twitter per almeno un’ora al giorno (il 90% degli studenti e il 75% di chi non ha dimora). Un altro studio, condotto dall’Università americana di Dayton, ha analizzato le modalità con cui le persone senza dimora usano i social network. Oltre a essere un valido strumento di contatto e uguaglianza sociale, i social network sono molto spesso il mezzo indispensabile per trovare rapidamente i servizi sociali, un posto dove dormire o un pasto caldo. Tutti, anche chi non ha reddito, possono aprire facilmente un account e sfruttare le opportunità offerte dalla rete, il cui accesso globale è sempre più garantito dalla recente diffusione delle postazioni internet e degli accessi wi-fi gratuiti in numerosi luoghi ed edifici pubblici.

Genova

Identità e territorio, un binomio da condividere Si terrà alla Fiera di Genova, dal 23 al 25 novembre, il “Salone delle identità territoriali”, manifestazione che si propone come punto di riferimento e strumento fruibile per tutti coloro che intendano valorizzare il proprio territorio, condividendo progettualità, metodi, competenze. Un’esposizione dedicata all’identità territoriale e alla promozione delle risorse, partendo dai prodotti tipici che la caratterizzano. INFO www.saloneidentitaterritoriali.it


caleidoscopio Street art

Miriguarda di Emma Neri

Grandi cuochi all’Opera per finanziare i pasti della mensa Domenica 21 ottobre alla mensa dell’Opera San Francesco, a Milano, si è tenuto uno speciale pranzo di beneficenza per 190 persone, firmato da 13 grandi nomi della cucina italiana. Un successo, considerando che l’iniziativa ha consentito di raccogliere fondi per un totale di 4.300 pasti, circa 15 mila euro. “Grandi cuochi all’opera”, questo il titolo dell’evento, è stato organizzato in collaborazione con “Identità Golose”, il congresso di cucina d’autore fondato nel 2005 a Milano dal giornalista Paolo Marchi. Fra i cuochi: Cesare Battisti, Mauro Brun e Bruno Rebuffi, Viviana Varese, i fratelli Cerea, Aimo e Nadia con il loro team di giovani chef: tutti insieme hanno creato un menù di “alta cucina povera”, all’insegna della semplicità francescana. L’Opera San Francesco è un centro di prima accoglienza per i poveri e gli emarginati di Milano. Nell’ultimo anno, Osf ha distribuito oltre 700 mila pasti (più di 2.300 al giorno), 10 mila cambi d’abito, 55 mila docce, e curato più di 32 mila persone nell’ambulatorio medico, garantendo un servizio importante anche a favore della cittadinanza. Nei cinquant’anni dalla sua fondazione, avvenuta nel 1959, è mutato il quadro delle persone che si rivolgono a Osf. Dai senzatetto di quegli anni, si è passati ai numerosi immigrati provenienti sia da paesi europei che extraeuropei; attualmente, si registra un costante aumento di italiani. INFO www.operasanfrancesco.it/OSF/

Genova

“Viaggio intorno all’uomo”, il mondo ritratto da McCurry Anche a Genova arriva il grande fotoreporter, divenuto famoso per lo scatto alla ragazza afgana dagli occhi verdi. In “Viaggio intorno all’uomo” vengono esposte, fino al 24 febbraio a Palazzo Ducale, oltre 200 foto, in un allestimento di grande impatto scenografico, curato da Peter Bottazzi, per ripercorrere gli oltre 30 anni di carriera del fotografo. Naturalmente non può mancare il suo scatto più famoso, ma la mostra percorre tutti i suoi viaggi, compresi i lavori più recenti insieme ad alcuni inediti. La mostra è organizzata da Civita e Genova Palazzo Ducale Fondazione per la cultura, con l’associazione Sud Est 57. INFO servizi@civita.it

Vicenza

Formaggini e ciondoli, al “Fiero” c’è posto per il territorio e il baratto Ogni terzo week end del mese torna il “Fiero”: un mercato a chilometro zero,

ma non solo. Il Fiero – a Campo Marzo – è una realtà nata da un mese, una vera e propria fiera dove c’è posto per i prodotti del territorio, ma anche per il baratto delle cose più varie, per l’animazione per bambini, per artisti di strada. E persino per una sezione e-commerce. A “Fiero” sarà possibile trovare i formaggi di capra ma anche quadri, ciondoli fatti a mano, artigianato in pelle e molto altro. Nel sito ci sono le date degli appuntamenti mensili. INFO www.ilfiero.it

Salerno

“Violenza? No grazie!” Progetto e ascolto nelle scuole superiori Partirà a metà novembre in alcune scuole salernitane un corso teorico e pratico contro la violenza sulle donne, organizzato dal Cif (Centro italiano femminile) di Salerno. Le attività previste nelle scuole sono due: un corso teorico che riguarderà gli aspetti giuridici e psicologici della tematica; ma anche, evento nuovo per la città, un corso di autodifesa personale. Sarà attivo, inoltre, ogni settimana, nel corso

Urbansolid, vita dai muri e critica sociale Fino al 21 novembre, a Superground, in via Bussola 4 a Milano, Art Kitchen presenta “What?!”, mostra personale di Urbansolid. I due artisti che compongono Urbansolid hanno un passato da writer alle spalle, in seguito si ritrovano all’Accademia di Brera e qui iniziano a collaborare. Il loro lavoro scultoreo (in gesso o cemento) si avvicina sempre più a un linguaggio urbano: il ritorno sui muri è inevitabile. Le sculture, che si articolano sulle pareti delle città, sono calchi umani, pistole, televisori, grandi orecchie, spermatozoi e scheletri animali. Spesso si compongono a multiplo sul muro; le loro forme e i colori sgargianti stimolano il processo

di interazione con lo spettatore, che può toccare con mano l’arte di strada, cogliendone i particolari o addirittura gli umori e le espressioni, quando si tratta di statue umane. è come se la città trasudasse forme di vita dai propri muri, come se ciò che finora è stato bidimensionale cercasse di evolversi uscendo ed esplorando la terza dimensione, arricchendo aree dismesse, fatiscenti o degradate. Il messaggio di fondo è una critica alla società contemporanea. Urbansolid propone espressioni inusuali di sdegno e denuncia sociale verso un mondo alla deriva. “What?!” racchiude tutta la loro produzione passata e recente. INFO www.urbansolid.org

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tre domande a... Giacomo Gatti di Daniela Palumbo

«Alla fine di un viaggio, devi essere cambiato...» Dopo lo spot per il nuovo Rifugio Caritas di via Sammartini a Milano (che ha scritto con Massimo Donati e che ha girato nell’autunno di un anno fa nella stazione Centrale della città, coinvolgendo cinque venditori di Scarp), il giovane regista Giacomo Gatti ha da poco terminato di girare la docufiction Michelangelo: il cuore e la pietra per il nuovo canale Sky Arte. Una produzione tutta italiana, che ha visto impegnati attori del calibro di Rutger Hauer e Giancarlo Giannini. Con Massimo Odierna nella parte di Michelangelo giovane. Giacomo Gatti ha girato la parte fiction della Dal Rifugio produzione in dodici giorni, tra Firenze, Poggio al Maestro a Caiano, Montepulciano e Pienza. Sopra, una bella La docufiction è andata in onda l’1 novembre immagine di Giacomo 2012, in prima serata. Inaugurare il canale Sky Gatti, regista dello spot per il Rifugio Caritas Arte con Michelangelo è stato un atto dovuto, e della recentissima perché il 31 ottobre è stato il cinquecentenario docufiction della consacrazione dei dipinti della volta della Michelangelo: Cappella Sistina. Nel documentario intervengono il cuore e la pietra, il professor Antonio Paolucci, direttore dei Musei con Rutger Hauer Vaticani, Pina Ragionieri, direttrice di Casa (a sinistra) nei panni Buonarroti, e il professor Claudio Strinati, del grande artista toscano in età anziana dirigente del ministero per i beni e le attività culturali. Giacomo, come è stato lavorare con attori dello spessore di Giancarlo Giannini e Rutger Hauer? Rutger Hauer ha interpretato Michelangelo anziano, Giancarlo Giannini ha dato volto e voce alle lettere e alle poesie dell’artista. Due uomini molto diversi tra loro, ma accomunati da una grande sensibilità, da una forte ironia e dall’amore per il tabacco... Entrambi hanno contribuito al processo creativo del film, mettendo a disposizione idee e suggerimenti con entusiasmo; avevano un’idea chiara del loro personaggio. Sono attori che, con un piccolo gesto, possono esprimere un mondo. Adesso invece, stai lavorando a un progetto per l’Expo 2015 con il regista Ermanno Olmi. Expo ha chiesto a Olmi di elaborare una proposta cinematografica che contribuisse a valorizzare l’esposizione mondiale del 2015 e che fosse legata al suo tema: “Nutrire il pianeta, Energia per la vita”. Ermanno ha così pensato di richiamare l’attenzione dei paesi sottoscrittori invitando i governi, ma anche le persone comuni, a realizzare dei film (massimo dieci minuti) attorno al tema: “L’Acqua e il Pane di ogni giorno”. Il progetto si chiamerà “Cinema per conoscersi” e prevede proprio questo… da una parte i grandi Maestri del cinema, proposti dalle nazioni, dall’altra un “racconto collettivo”, magari fatto anche con i cellulari, che consentirà a chiunque di poter esprimere il proprio operato attraverso la rete. Non un concorso, ma un racconto polifonico in cui è importante quello che viene detto, non le forme stilistiche... É un progetto di Ermanno e io, come spesso è accaduto in questi anni, collaboro alla regia e gli do una mano nell’organizzazione. Ermanno Olmi è stato il tuo maestro. Spesso collabori con lui. Cosa ammiri maggiormente? Sette anni fa, quando ho iniziato a lavorare con Olmi, ho trovato l’opportunità di seguire progetti di ampio respiro umano, culturale e sociale, come ormai non se ne fanno più… La sua capacità di arrivare all’essenza della realtà è davvero rara e capita sempre meno nelle produzioni di oggi, troppo limitate dal budget e da un pensiero debole dominante. Ma Olmi ha un’altra grande qualità: la sua disarmante capacità di rimettersi in gioco, sempre. Con lui si cambia continuamente strada durante il corso delle riprese. L’essenza del film talvolta arriva proprio alla fine… Con Ermanno è come se il film fosse un viaggio: tu parti in un modo e quando arrivi dall’altra parte sei davvero una persona diversa. Quindi anche il film deve essere diverso da come l’avevi immaginato: perché se quando arrivi dall’altra parte sei la stessa persona di quando il viaggio è iniziato, il film avrà poco da dire anche agli altri…

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caleidoscopio dell’anno scolastico 2012-2013, un servizio di ascolto nelle scuole, denominato Spazio-Ascolto, il cui fine è fornire ai giovani e, soprattutto alle giovani studentesse, la possibilità di confrontarsi e di esprimersi, ed eventualmente denunciare le violenze subite. Il Cif di Salerno si occupa di prevenzione alla violenza sulle donne a livello nazionale e locale, anche attraverso lo sportello Centro Ascolto Donna (attivo al numero verde 1522), in collaborazione con il Cif provinciale e la questura. L’obiettivo del progetto “Violenza? No, grazie” è formare i giovani delle scuole superiori, trasmettendo la cultura della non violenza fisica e psicologica, intra ed extra familiare. INFO Sofia Infernoso, 333.6389968

Napoli

“Punto lettura” al Palazzo delle Arti, per bimbi e famiglie Al Palazzo delle Arti, il Pan, l’associazione culturale “Pediatri. Nati per leggere”, insieme all’Aib (associazione italiana biblioteche) e il Centro per la salute del bambino, ha di recente inaugurato il primo “Punto lettura” dedicato ai bambini del territorio. Lo scopo è diffondere l’amore per i libri e la lettura ad alta voce. Lo spazio – importante, a maggior ragione se si pensa che il quartiere circostante non dispone di una biblioteca pubblica – è messo a disposizione di bambini e famiglie,

con l’arricchimento di laboratori di lettura. La dotazione libraria del Punto lettura del Pan è stata possibile grazie alla sensibilità di alcuni editori che hanno donato i volumi: Editoriale Scienza, Edizioni EL, Franco Cosimo Panini, Giunti, Logos, Kalandraka. INFO www.natiperleggere.it

Catania

Poesia o prosa, per raccontare il monastero Scade il 30 novembre il concorso letterario dell’Università di Catania – Facoltà di lettere e filosofia (in collaborazione con la casa editrice Villaggio Maori edizioni) intitolato “Raccontare il Monastero”. Il concorso è aperto a tutti, con testi in prosa o in versi, ma anche con testi teatrali e saggi, che abbiano come argomento, protagonista o ambientazione il Monastero dei Benedettini, dove è ospitata la facoltà. Condizione fondamentale è che traspaiano dall’opera elementi storici, architettonici o artistici del complesso monastico. Premi previsti:

Ricette d’Alex

Seppie in umido alla veneta Alex, chef internazionale, ha lavorato in ristoranti e alberghi apprendendo l’arte della cucina nell’albergo di famiglia, a Rovigo. Oggi – i casi della vita... – vende Scarp. Prendiamo circa 200 grammi di seppie pulite e tagliamole a liste. Una cipolla bianca, una carota, una gamba di sedano tritati fini. In una casseruola mettiamo le verdure tagliate e facciamole rosolare con poco olio, un paio di minuti al massimo, a fuoco lento. Aggiungiamo poi le seppie, due foglie di alloro, 50 grammi di passata di pomodoro, due spicchi di aglio interi, un bicchiere di vino bianco. Aggiungere acqua fino a coprire le seppie. Mettiamo il coperchio mentre cuoce. Tempo di cottura: un’ora e mezzo. Si sala a cottura avvenuta. Accompagnare con polenta bianca. Vini rosati o bianchi.

un viaggio in una capitale europea, con un contributo di duemila euro e la pubblicazione dell’opera. INFO www.facebook.com/events/ 368438126565424/

pagine a cura di Daniela Palumbo per segnalazioni dpalumbo@coopoltre.it

Tarchiato Tappo - Il sollevatore di pesi

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street of america Crisi senza età. I minori nei dormitori di New York sono sempre di più

Il rifugio fa abbastanza schifo, parola di piccolo homeless di Damiano Beltrami da New York

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Come Anthony Sono 19 mila i bambini senza dimora costretti a vivere nei rifugi per homeless di New York

A VITA IN UN OSTELLO PER SENZATETTO PUÒ ESSERE INSOPPORTABILE per un bambino di sei anni.

Lo conferma Anthony Clayton. Lui, che è parte di un gruppo sempre più ampio di bambini newyorchesi senza casa, spiega che abitare in un rifugio è stato «come vivere un inferno. Fa abbastanza schifo», sintetizza efficace e candido, seduto accanto alla madre, al fratello Bob di cinque anni, e alla sorellina Candice di appena 12 mesi, davanti a un centro di accoglienza nel Bronx. Sono ben 19 mila i bambini come Anthony costretti a sopravvivere nei rifugi per homeless di New York: solo l’anno scorso la percentuale di bimbi è lievitata del 18%, stando ai dati del comune. «Era dai tempi della grande depressione che New York non contava tanti bambini senza casa», ha detto Patrick Markee, analista politico della Coalition for the Homeless, organizzazione senza scopo di lucro che sta facendo una battaglia molto forte a favore dei minori senza dimora. La mecca, per gente come Anthony e la sua famiglia, è un anonimo edificio color fuliggine al civico 41 Est della 151a strada del Bronx. Alle sei di mattina, mentre nelle strade tutt’intorno regna il silenzio, qui le ruote di plastica di vecchie valigie stridono sul selciato. A spingerle sono soprattutto madri afroamericane e ispaniche, con molti figli piccoli. Dei mariti o compagni, di solito, non c’è traccia. Per le ragioni più svariate, ma quasi tutte collegate alla mancanza di mezzi economici, questa gente si è ritrovata sulla strada, e ora qui al Prevention Assistance and Temporary Housing Office cominciano un lungo percorso burocratico per ottenere almeno un posto in ostello, o essere ricollocati. Una di queste famiglie è, appunto, quella di Anthony: «Nell’ostello in cui stavamo non riuscivamo a dormire, c’era sempre qualche idiota che gridava o accendeva la luce – fa spallucce Anthony –. E poi c’era puzza di pipì». Dallo scorso autunno i Clayton stavano in un ostello nel Bronx, ma adesso vorrebbero essere trasferiti da qualche altra parte, anche se non sanno bene dove. Prima di diventare homeless, abitavano in una casa sovvenzionata dal comune. Ma con i tagli al bilancio imposti dalla recessione i fondi per questo tipo di assistenza sono evaporati. La madre di Anthony è una signora gioviale, nonostante i problemi. Corpulenta e dalla risata pronta, la butta in filosofia: «Almeno stando in strada respiriamo aria buona!». Dopo, però, le viene la malinconia, quando pensa alle poche opportunità che fino a questo momento è riuscita a offrire ai suoi figli: «Abitando in zone come questa, dove non c’è neppure un supermercato, ‘sti marmocchi sono cresciuti con il fast food», sospira, ricordando che vaste aree del Bronx sono food deserts, quartieri in cui le catene di supermarket non aprono neppure bottega, perché le considerano troppo poco redditizie. Il piccolo Anthony ascolta la madre, attento. Poi interviene: «Non preoccuparti mamma – dice, battendo un pugno sulla valigia –. A me gli hamburger piacciono, e prima o poi una casa la troviamo...».

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