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numero 168 anno 17 febbraio 2013

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il mensile della strada

de’tenis www.scarpdetenis.it

ventuno Microcredito, quando la legge?

Pescatori Sopravvivere a reti vuote Acque inquinate, caro carburante, leggi inadeguate, concorrenza straniera: da Rimini a Catania, da Napoli a Genova, storie di gente di mare. Settore cruciale per l’Italia, ma molti gettano la spugna Milano Accoglienza di provincia Como Tendone bis Torino Relazioni al diurno Genova Pupazzi all’Ospedale Vicenza Riparto da via Bakhita Modena L’amicizia si fa pane Rimini Emergenza casa Firenze Conosco un Uomo Napoli Pizze di talento Salerno Movida, e poi? Catania Gesù sotto sfratto



editoriali

L’Agenda (sotto i) Ponti, tre idee per chi ci governerà Paolo Brivio

M

assì, dai, facciamo una cosa originale. Scriviamo un’agenda per il governo che verrà. Mica sarà un’esclusiva di candidati e commentatori tivù. Certo, noi guardiamo la politica dalla siderale distanza di un marciapiede. Ma qualche sommessa idea ce la siamo fatta, circa le priorità di cui dovranno occuparsi i governanti venturi, per fare dell’Italia un paese giusto e coeso: la chiameremo l’Agenda (sotto i) Ponti. Si scherza, è ovvio. Si scherza quanto ai toni. Ma alcune proposte vorrebbe avanzarle pure Scarp. Senza pretendere, va da sé, che siano il perno del dibattito elettorale. Anche perché riguardano una categoria di cittadini – i senza dimora – di fatto e (spesso) di diritto esclusi dal voto. Però si tratta di decine di migliaia di uomini e donne: confinarli nell’irrilevanza politica non è degno di uno stato che voglia definirsi civile. E allora, ecco i tre punti (concentrici) dell’Agenda Ponti. Primo: mai Roberto Davanzo direttore Caritas Ambrosiana più nessuno attenti – in nome di discutibili pacchetti sicurezza, come accadde nella precedente legislatura – al diritto fondamentale che va assicurato agli homeless, cioè la residenza anagrafica, senza la quaGesù fu marinaio finchè camminò le non vi è possibilità di godimento degli altri diritti di cittadinanza. sull’acqua ... e poi, quando fu sicuRovesciando in positivo l’anatema: istituzioni e politica lavorino perro che soltanto agli annegati fosse ché siano finalmente sviluppate e applicate, nei comuni dell’intedato di vederlo, disse: “Siate marinai finchè il maro stivale, senza eccezioni né furbizie, pratiche uniformi di iscrire vi libererà”». Così cantava il grande Fabrizio De zione alle anagrafi comunali. Costa niente, vale tutto. Andrè in una sua famosa canzone, tornatami alla Secondo: governo e parlamento si diano da fare per codimente pensando a questo numero di Scarp, dedificare un incisivo piano di contrasto all’homelessness, atcato al mondo dei pescatori e alle difficoltà che quel tuando la buona idea (che sta maturando nelle sedi minisettore sta attraversando, al rischio di vedere scomsteriali) di scrivere linee guida nazionali cui dovranno atteparire una tradizione non marginale per un paese, conersi i soggetti (amministrazioni pubbliche, enti locali, orme l’Italia, dotato di migliaia di chilometri di coste. ganismi del privato sociale) attivi nel settore. Sogniamo Gli ebrei non furono mai un popolo di navigatori. Il indicazioni (e risorse!) capaci di far evolvere i servizi oltre mare li spaventava; loro, gente della terra, nati nel deseril minimo sindacale – e un po’ vetusto, benché ancora treto, dove l’acqua è rara. Ma Gesù iniziò la sua missione promendamente necessario – costituito dalla gestione di dorprio sulle sponde di un lago, quello di Genezaret, e si è scelmitori e mense: bisogna ispirarsi alle migliori prassi euroto tra i suoi primi collaboratori uomini avvezzi alle reti e alpee, fondate su coraggiose politiche dell’abitare sociale, e le barche, alle notti insonni e alla paura dei venti, a un beintegrarle con innovativi percorsi di reinserimento sociale. nessere economico sempre precario. Proprio su quel lago, su quelle barche, cominciò a mostrare frammenti del suo Sogno possibile: però qualche soldino – oltre alla fantasia mistero. E dalla vita dei pescatori mutuò l’immagine di un – bisogna mettercelo. giudizio universale, che sarà come una grande pesca che Terza priorità, il cerchio più ampio: si badi a prevenire tirerà su ogni tipo di pesce, selezionato successivamenl’ampliamento dell’area della grave emarginazione, anzi si te in base alla sua bontà. La stessa missione affidata a punti a riassorbirla un (bel) po’, tramite una misura uniPietro sarà diventare “pescatore di uomini”. versale di lotta alla povertà di cui il nostro paese scandaloNon si può capire il Vangelo senza amare l’arte delsamente manca, tra i pochissimi in Europa. Lo si chiami redla pesca, l’arte del mare. Non si può seguire Gesù sendito minimo, di cittadinanza, di sussistenza: ma si istituisca za il coraggio e la disponibilità di “prendere il largo” veruna misura di civiltà che deve stimolare e verificare la voso acque profonde, e magari qualche volta anche di lontà di risalita di colui che ne fruisce, evitando di farlo sedeaffondare. Il cristiano non è l’uomo sicuro e arrogante. re nell’assistenza, e raggiungere non solo i disoccupati, ma Il cristiano è l’uomo capace di convivere con una peranche i più vulnerabili e cronici tra i marginali. Ecco, questa mimanente instabilità, data dalle vicende della vita e dal sura costa: ma ci spiegarono un tempo che la politica è l’arfluttuare del suo temperamento. Ma il cristiano sa che te di compiere scelte chiare, in regime di risorse limitate, in sulle acque instabili e insidiose il suo Dio ha pronuncianome di un bene comune davvero inclusivo. In Italia è un to una parola di stabilità, capace di farlo progredire. Certo po’ difficile crederci. Ma noi, fautori dell’Agenda Ponti, non timoroso, ma anche irrimediabilmente fiducioso. smettiamo di fissare traguardi, e di avere fiducia.

Annegati fiduciosi

«E

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sommario Fotoreportage

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Il cibo plasma il mondo p.6

Scarp Italia

Cos’è È un giornale di strada non profit. È un’impresa sociale che vuole dar voce e opportunità di reinserimento a persone senza dimora o emarginate. È un’occasione di lavoro e un progetto di comunicazione. È il primo passo per recuperare la dignità. In vendita agli inizi del mese.

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L’inchiesta Non autosufficienti: scaricati sulle famiglie p.20

L’inchiesta Rifugiati: storie di vite sospese p.24

Scarp de’ tenis è una tribuna per i pensieri e i racconti di chi vive sulla strada. È uno strumento di analisi delle questioni sociali e dei fenomeni di povertà. Nella prima parte, articoli e storie di portata nazionale. Nella sezione Scarp città, spazio alle redazioni locali. Ventuno si occupa di economia solidale, stili di vita e globalizzazione. Infine, Caleidoscopio: vetrina di appuntamenti, recensioni e rubriche... di strada!

Per contattarci e chiedere di vendere

Il reportage Pescatori d’Italia: le reti restano a riva p.12

L’intervista Giovanni Allevi: «Musica “da strada”, rinasco dal buio» p.26

Scarp città Milano Senza dimora: fa freddo anche in provincia p.28 Il laboratorio dei morti senza nome p.32

Como Sant’Abbondio: torna il tendone contro il freddo p.38

Torino Luogo di sostegno, spazio di relazioni p.40

Genova Pupazzi in ospedale, contro paure e sprechi p.42

Vicenza Io riparto da via Bakhita p.44

Modena I poveri al portone, l’amicizia si fa pane p.46

Rimini Casa, un diritto. Anzi un’emergenza p.48

Firenze Conosco un Uomo, si chiama Ahmed p.50

Napoli Gente di talento, si parte dalla pizza p.52

Salerno Il buio è alle spalle, la movida non basta p.54

Catania Gesù è nato dentro l’automobile p.56

Scarp ventuno Dossier Credito: il “micro” aiuta, la legge latita p.60

Stili Il baratto di domani: no skei, si party p.64

Caleidoscopio Rubriche e notizie in breve p.69

scarp de’ tenis

Il mensile della strada Da un’idea di Pietro Greppi e da un paio di scarpe - anno 17 n. 168 febbraio 2013 - costo di una copia: 3 euro

Per abbonarsi a un anno di Scarp: versamento di 30 € c/c postale 37696200 (causale AbbonAmento SCArP de’ tenIS) Redazione di strada e giornalistica via Copernico 1, 20125 Milano (lunedì-giovedì 8-12.30 e 14-16.30, venerdì 8-12.30), tel. 02.67.47.90.17, fax 02.67.38.91.12 Direttore responsabile Paolo Brivio Redazione Stefano Lampertico, Ettore Sutti, Francesco Chiavarini Segretaria di redazione Sabrina Montanarella Responsabile commerciale Max Montecorboli Redazione di strada Antonio Mininni, Lorenzo De Angelis, Tiziana Boniforti, Roberto Guaglianone, Alessandro Pezzoni Sito web Roberto Monevi, Paolo Riva Hanno collaborato Mr. Armonica, Andrea Barolini, Damiano Beltrami, Antonio Bergarelli, Simona Brambilla, Domenico Casale, Aldo Cascella, Salvatore Couchoud, Stefania Culurgioni, Roberto De Cervo, Angela De Rubeis, Maria Esposito, Sergio Gatto, Silvia Giavarotti, Maria Chiara Grandis, Gaetano “Toni” Grieco, Luciano Gualzetti, Laura Guerra, Alessandra Leardini, Stefano Malagoli, Paola Malaspina, Marco Mantoan, Navina Manzoni, Mirco Mazzoli, Antonio Minutolo, Emma Neri, Aida Odoardi, Daniela Palumbo, Enrico Panaro, Cinzia Rasi, Paolo Riva, Alberto Rizzardi, Cristina Salviati, Manlio Santoro, Vito Sciacca, Sandra Tognarini, Antonio Vanzillotta, Francesco Védele, Gabriella Virgillito, Yamada Foto di copertina Gabriella Virgillito Foto Stefano Merlini, Archivio Scarp Disegni Luigi Zetti, Elio Progetto grafico Francesco Camagna e Simona Corvaia Editore Oltre Società Associato Cooperativa, via S. Bernardino 4, 20122 Milano Presidente Luciano Gualzetti Registrazione Tribunale di Milano n. 177 del 16 marzo 1996 Stampa Tiber, all’Unione Stampa via della Volta 179, 24124 Brescia. Consentita la riproduzione di testi, foto e grafici citando la fonte e inviandoci copia. Questo numero è in vendita dal Periodica 10 febbraio al 9 marzo 2012. Italiana


Il cibo plasma il mondo Le comunità del cibo, ovvero gruppi di persone che producono, trasformano, diffondono e consumano alimenti sostenibili e di qualità, con l’obiettivo di rafforzare i legami sociali, economici, culturali e storici che rendono vitale un territorio. Sono proprio le comunità del cibo le protagoniste del progetto “4Cities4Dev”, co-finanziato dall’Unione europea, nato dalla collaborazione tra quattro città europee (Torino, capofila, Tours, Bilbao, Riga) e Slow Food. Grazie al progetto, le quattro città europee “adottano” sette comunità del cibo situate in Senegal, Mauritania, Etiopia, Madagascar, Kenya, Mali e Costa d’Avorio. Questa “adozione” permette alle città europee di conoscere da vicino le realtà africane, attraverso l’avvio di rapporti di natura istituzionale e di progetti condivisi, che vedono protagonisti autorità locali, cittadini e – appunto – animatori delle “comunità del cibo”. La mostra fotografica “Cibi che cambiano il mondo” rappresenta uno dei veicoli del progetto: istantanee per capire come, ovunque nel mondo, il cibo, la sua produzione e il suo consumo plasmano e organizzano le comunità e i territori. 6. scarp de’ tenis febbraio 2013

In tour per l’Europa La mostra, che ha fatto tappa al Salone del Gusto di Torino del 2012, viaggia per l’Europa e coinvolge le città protagoniste del progetto: dopo Torino, Tours, Riga e Bilbao. Il progetto dei Presìdi Slow Food nasce nel 1999, in Italia. Dopo aver catalogato centinaia di prodotti a rischio di estinzione, Slow Food decide di fare un passo avanti, entrando concretamente nel mondo della produzione, per conoscere i territori, incontrare i produttori, promuovere e far conoscere i loro prodotti, il loro lavoro, i loro saperi. Al Salone del Gusto del 2000 Slow Food presenta i primi 90 “presìdi italiani”, che riscuotono un grande successo. Al Salone del 2002 partecipano i primi 19 “presìdi internazionali”. Poi nascono i primi “presìdi del sud del mondo”: in Africa, Sud America, Asia. Il progetto si adatta ai contesti più diversi e risulta efficace anche in realtà con grandi complessità sociali ed economiche.


© Paola Viesi

fotoreportage

© Oliver Migliore

© Francesco Amato

Profumi, sapori, colori I presidi Slow Food della vaniglia di Mananara (Madagascar, sopra), del caffè selvatico della foresta di Harenna (Etiopia, sotto a sinistra) e delle patate dolci di Pampacorral (Perù, sotto a destra)

febbraio 2013 scarp de’ tenis

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© Paola Viesi

Il cibo plasma il mondo

© Paola Viesi

Ricchezze d’Africa Presidio della cola di Kenema (Sierra Leone, sopra); bambini dell’orto della scuola materna di Buiga Sunrise, Mukono (Uganda, sotto)

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© Ivo Danchev

fotoreportage

© Mary Hensley

Risorse d’altura Presidio dei formaggi d’alpeggio di Mavrovo Reka (Macedonia, sopra); risaie sui terrazzamenti nella regione di Cordillera (Filippine, sotto)

febbraio 2013 scarp de’ tenis

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anticamera

Anima bella Esisti veramente anima bella? Perla tra i sassi, gemma fra le pietre mimetizzata in scorie di apparenza. Oso ancora sperare che tu non sia un miraggio, una chimera ma un sottile placebo della mente per soccorrere il cuore. Un essere speciale inaspettato che alle domande fatue e al pregiudizio riesce ad anteporre solo Amore. Aida Odoardi

Tira calci il mio cuore

Speranza di

Tira calci il mio cuore, che strano, dall’esterno non si ode rumore, nel mondo ci sono miliardi di cuori che odiano, desiderano, amano in silenzio. C’è chi è felice – a guardarsi intorno non si direbbe. Sento solo il mio cuore veramente, che giorno dopo giorno mi da un morsetto lì, dritto dritto nel petto.

Cinzia Rasi

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È straordinario o illusorio scoprire che finalmente qualche porta inizia ad aprirsi. Diventa d’obbligo il ringraziamento per questo reale fatto che ci permette di vederci considerati. Diventa anche difficile farci capire, in quanto ogni nostro atteggiamento è frainteso. Forse non veniamo, mai, visti come persone che qualcosa sappiamo fare. Il destino ci consente questo passaggio di vita, ci dà la possibilità dell’alternativa, della scelta del cambiamento che pian piano viene avanti. Il nostro futuro sei tu “amico mio”, aiuta il nostro destino, certamente va avanti insieme a te.

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PESCATORI D’ITALIA Le reti restano a riva Un mestiere antico. Duro, ma appassionante. Oggi in crisi. A causa di molti fattori: caro-gasolio, leggi sbagliate, concorrenza di prodotti esteri. La gente di mare sempre più spesso vive storie di “non speranza”, parabole di fallimento e impoverimento. Da Genova a Catania, da Rimini a Napoli, viaggio di Scarp in un mondo in forte difficoltà

Catture e ricavi per regioni d’Italia (2010) catture Liguria Toscana Lazio Campania Calabria Puglia Molise Abruzzo Marche Emilia Romagna Veneto Friuli Venezia Giulia Sardegna Sicilia Totale

ricavi

(tonnellate)

(milioni di euro)

3.745 (1.7%) 10.629 (4.8%) 5.441 (2.4%) 14.089 (6.3%) 9.205 (4.1%) 34.842 (15.6%) 2.099 (0.9%) 10.914 (4.9%) 29.622 (13.3%) 22.181 (9.9%) 23.428 (10.5%) 3.724 (1.7%) 8.056 (3.6%) 45.003 (20.2%) 223.007

30,85 (2.8%) 44,85 (4.1%) 46,80 (4.2%) 64,21 (5.8%) 53,01 (4.8%) 184 (16.7%) 18,60 (1.7%) 43,02 (3.9%) 120,35 (10.9%) 56,72 (5.1%) 64,49 (5.8%) 19,34 (1.8%) 62,73 (5.7%) 193,77 (26.6%) 1102.76

fonte: Osservatorio nazionale della pesca

12. scarp de’ tenis febbraio 2013


l’inchiesta

Nella rete della crisi Un pescatore di Aci Trezza (Ct) rammenda le sue reti. Il settore della pesca in Italia soffre una fase di estrema difficoltà

di Stefano Lampertico Partiamo da Chioggia. Orizzonte di laguna. Acque basse, tutt’altro che tranquillizzanti. Anzi, tirano venti carichi di disagio. Perchè qui la pesca è stata da sempre l’oggi e il domani di tante famiglie. Ma la crisi ha colpito duro. Durissimo. I pescatori si spingono sempre più al largo. Rischiano. Senza garanzie. Oppure abbandonano gli scafi e decenni di tradizione. Come i loro colleghi d’altre coste d’Italia. Da Rimini a Lampedusa. Da Napoli a Genova. Giro dei mari dello stivale, che si tuffa nella storia delle Repubbliche marinare e fa affiorare alla memoria la barca di padron N’Toni e dei Malavoglia. Ma l’approdo è sullo scoglio aspro del presente. Che di certo non suggerisce speranza.

Le cause della crisi «La crisi della pesca, qui nella laguna, inizia tra la fine degli anni Novanta e i primi anni del Duemila. Dopo secoli di pesca, sono questi gli anni in cui il settore è entrato in una condizione di pesante sofferenza, trascinando con sé le sorti di molte famiglie. Che di pesca vivevano». Don Marino Callegari è il di-

rettore della Caritas di Chioggia (Venezia). Una recente ricerca sulla povertà, alla quale la Caritas diocesana ha contribuito, è lo spunto per approfondire il quadro di un disagio (e di una crisi di settore) dai tratti preoccupanti. «L’origine della crisi sta nella “taglia” sempre più grossa dei pescherecci moderni, attrezzati con apparecchi in grado febbraio 2013 scarp de’ tenis

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Pescatori d’Italia. Le reti restano a riva

In Europa

Una politica con esiti dubbi Nel 1982, Nell’Unione europea, è stata istituita la Pcp, Politica comune della pesca, oggetto di due successive riforme nel 1992 e 2002. La Pcp non è riuscita a evitare l’acutizzarsi della crisi del settore. Secondo la Commissione europea, nonostante alcuni risultati positivi raggiunti nella gestione a lungo termine degli stock, si continua a registrare uno sfruttamento eccessivo delle risorse, anche per effetto del sovradimensionamento delle flotte. La nuova riforma della Pcp, presentata a luglio 2011, è incentrata sulla sostenibilità ambientale, economica e sociale dell’attività di pesca. Obiettivo da raggiungere entro il 2015: ricostituire le popolazioni delle specie minacciate e fare in modo che le attività di pesca si mantengano al di sopra del livelli di rendimento massimo sostenibile.

di incrementare la capacità di pesca. Sembra paradossale, ma è così: un’eccessiva modernizzazione della flotta ha portato alla prima ondata di crisi. E i pescherecci più piccoli, trovandosi in un sistema di concorrenza troppo forte con i pescherecci più grandi, hanno cominciato a spostarsi sempre più al largo, con tutti i rischi che derivano dal dover affrontare acque per i quali non si è attrezzati... La seconda causa di crisi è la concorrenza estera: croata, nordica, africana, vietnamita, equadoregna. Nel nostro mercato il 55% del pesce che viene immesso e distribuito proviene dall’estero o da altri porti italiani. Infine, soprattutto dagli inizi degli anni Novanta, c’è un terzo elemento di crisi, legato a una scarsa regolamentazione del settore. A Chioggia ha preso il sopravvento un particolare tipo di pesca, quello delle vongole. All’inizio erano quelle autoctone, veraci, poi si sono aggiunte le alloctone, di origine filippina. Per questioni climatiche, le vongole filippine hanno avuto una proliferazione enorme. Dall’inizio degli anni Novanta e per un decennio questa raccolta è arrivata a occupare più di 800 persone, incapaci però di strutturarsi in cooperative. I guadagni facili, derivanti dalla pesca delle vongole, hanno alimentato la corsa a questo eldorado. Attraendo so-

prattutto le fasce meno scolarizzate della popolazione, spingendo persino i ragazzi a lasciare la scuola dell’obbligo». Oggi, l’eldorado non c’è più. Sepolto dalla concorrenza globale e stravolto da un uso indiscrimanto delle turbosoffianti, imbarcazioni per la pesca delle vongole che usano sistemi di dragaggio dei fondali che, alla lunga, hanno distrutto le semine nei fondali. Così i facili guadagni si sono smorzati. E oggi non arrivano più dalla pesca, ma da altre attività. Illecite. «Sostituendo il guadagno facile delle vongole con altri guadagni facili, abbiamo prodotto un fortissimo tasso di marginalità. In molti ormai si trovano in una condizione di esclusione dal mondo del lavoro, non ricollocabili per età, ma anche perché non hanno qualifiche professionali spendibili altrove». E a tutto ciò si

Un porto di venti chilometri. E un Genova fa spazio soprattutto ad attività turistiche e di cantiere. E i pescatori finiscono per «Abbiamo uno dei porti più grandi d’Italia, ma su venti chilometri di portualità i pescatori rischiano di non trovare più un approdo. Bel problema di identità, per una repubblica marinara...». Si esprime così Augusto Comes, presidente ligure e vicepresidente nazionale di Federcoopesca (Federazione nazionale cooperative della pesca, aderente a Confcooperative), dando voce a un paradosso tutto genovese. La costa del capoluogo ligure, oggi, è quasi per intero dedicata a imbarcazioni turistiche, navi da crociera, industria e riparazioni navali. Aggravano la situazione i progetti di ribaltamento a mare di alcune aree portuali, che colmeranno alcuni fondali per ottenere nuove superfici edificabili. Chi pesca per lavoro è quasi un di più. «Il problema – dice Comes – è che apparentemente i pescatori non producono vantaggi per gli altri soggetti presenti in mare, non fanno sistema. Così oggi si ritrovano quasi ospiti, in una casa che è sempre stata anche loro». Federcoopesca, Legapesca (Legacoop) e Associazione generale delle coo-

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perative italiane raccolgono oltre il 70% dei pescatori riuniti in cooperative. Ma non è sempre stato così e gli effetti dell’“ognun per sé” si patiscono ancora oggi, soprattutto in termini di vendita. Storicamente, i pescatori sono padroni di sé stessi: solo dal dopoguerra in questo settore si sono formate associazioni, cooperative, consorzi e federazioni, incoraggiati da nuove leggi che premiavano la rappresentanza. In Liguria i pescatori sono 1.500: Federcoopesca ne rappresenta 500, riuniti in 30 cooperative da Lerici a Ventimiglia, comprese alcune realtà di acquacoltura nel golfo di La Spezia, al largo di Lavagna e ad Alassio; 200 imbarcazioni, per lo più da una o due persone a bordo, cui si aggiungono le lampare, che imbarcano equipaggi fino a dieci unità. «Quella ligure è al 70% una


l’inchiesta aggiungono l’aumento del costo del carburante e un paradosso. Dettato dalla normativa Fisher, voluta dall’Unione europea. La legge che disciplina la pesca nell’Unione è la stessa per il mare del Nord (Norvegia, per intenderci) e per l’Adriatico. Quindi le reti che possono essere utilizzate devono essere identiche, comprese le maglie: i tonni norvegesi sono meno fortunati, perché in quelle maglie rimangono intrappolati, dei loro cugini del mare Adriatico che, meno imponenti, da quelle maglie riescono facilmente a scappare. Ma per i pescatori la fortuna gira esattamente al contrario.

Storie di “non speranza” «Questo quadro – conclude don Marino – coinvolge e trascina in situazione di povertà decine di famiglie. Noi cerchiamo di creare spazi di riflessione sul disagio sociale, struttura molto più complessa della semplice povertà economica. La pesca è da sempre tendenzialmente collegata a una popolazione culturalmente povera, incapace (a differenza di quanto accade in altri settori) di auto-rigenerarsi. Per questo i racconti delle famiglie che si avvicinano alla Caritas sono, purtroppo, storie di “non speranza”: il futuro sembra non lasciare prospettive positive».

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paradosso...

Voltri

Il petrolio spinge le lampare a rischiare sempre più al largo La scena si apre con la distesa del mare buio, la luce tremolante della lampara, le voci dei pescatori fuori campo. In realtà, la cinepresa non inventa nulla, in questo quadro che si ripete ogni notte, da tempo immemorabile, al largo del mar Ligure, come in molti altri mari del pianeta. Perché la pesca è un mestiere nobile e antico che ripete, con la solennità dei riti, le sue tradizioni. Le innova, in parte, ma soprattutto le custodisce con tenacia e costanza. Ed è proprio la costanza, l’incrollabile capacità di affrontare, sempre e comunque, il mare, che ci colpisce nei volti e nelle voci dei pescatori della cooperativa GI.BI. di Genova Voltri, immortalati nel film Pescoi de Utri (letteralmente, in dialetto genovese, Pescatori di Voltri), documentario realizzato dal Laboratorio Buster Keaton di Savona. Ci troviamo all’estrema propaggine di ponente della città di Genova, in quella fascia di mare tra Voltri e Arenzano, che ospita su uno scoglio, a protezione dei naviganti, la Madonnina dell’Aguggia. Purtroppo, non è troppo lontano il Porto Petroli di Multedo che, col suo inefficace sistema di depurazione, da decenni, a seconda dell’andamento delle correnti, inquina diversi tratti dello specchio di mare genovese. A danno dei pescatori, che devono avventurarsi sempre più al largo per trovare pesce “pulito”. Così, aumentano ancor di più i rischi, per un mestiere già pericoloso in partenza. «Senza contare tutti gli altri problemi – spiega un giovane, protagonista del documentario con lo zio –, perché noi pescatori ormai siamo in balia della concorrenza e dei grandi intermediari, che decidono quantità, prezzi, tutto». Soggetto alla globalizzazione, il settore ittico sta conoscendo gravi difficoltà, proprio a causa di logiche di mercato, che non hanno alcuna considerazione del piccolo produttore. Né tantomeno dell’ambiente, perché i proprietari dei pescherecci intercontinentali non hanno rispetto dell’habitat marino e della sua fauna. «E questo sistema non produce nemmeno risparmio per il consumatore – affermano i pescatori voltresi –; anzi, la gran parte del prezzo pagato va, in termine di margine, agli intermediari». In questo senso i consorzi di piccoli pescatori, insieme ai rappresentanti delle aree marine protette, cercano oggi di costruire alleanze per una nuova politica della pesca. Battaglia per il futuro, ma tutt’altro che facile. [paola malaspina]

«sentirsi ospiti a casa loro» flotta di piccola pesca – afferma Comes – con imbarcazioni sotto le 10 tonnellate di stazza, adatte anche alla pesca stagionale e alla pesca speciale. Abbiamo poi 90 barche per la pesca a strascico e di profondità con cui, tra gli altri, si pescano i gamberi, e le lampare per il pesce azzurro, acciughe e sardine».

Flotte vecchie, guadagni in calo La pesca speciale è nota ai più per il “caso bianchetti” – in genovese gli amatissimi gianchetti –, il novellame di sarda di cui l’Unione europea ha vietato la cattura: «Oggi in Liguria peschiamo solo il rossetto, che è piccolo ma adulto. Stiamo lavorando in sede europea per uno studio dello stato delle risorse e un conseguente piano di gestione che ci permetta di pescare nuovamente anche il bianchetto e

il cicciarello». Ma i punti di debolezza del settore, anche in Liguria, sono più antichi: «Il primo – ricorda il presidente ligure di Federcoopesca – sta nel fatto che, nella maggioranza dei casi, i pescatori non gestiscono direttamente la vendita del pescato ma la affidano, ognuno per sé, ai grossisti, che conoscono gli andamenti del mercato ittico locale e globale e determinano i prezzi d’acquisto e di rivendita. Così, anche se il consumatore registra frequenti rincari, il guadagno del pescatore è sempre più risicato». Un secondo elemento di criticità è il tempo che passa: «La flotta ligure invecchia, sia come mezzi che come uomini». Le conseguenze sociali sono sconsolanti: «Il consumo del pesce aumenta, ma i pescatori stanno peggio. In Liguria peschiamo per 45 milioni di euro l’anno,

ma i liguri consumano pesce per 500 milioni». Il resto arriva dall’estero: la scena europea è dominata da Spagna e Francia. «Occorre promuovere – conclude Augusto Comes – una conferenza nazionale sulla pesca, che determini una nuova strategia: sono necessari un diverso rapporto con l’Europa e un’azione più efficace dei nostri politici a difesa della pesca italiana. In Liguria, in particolare, dobbiamo salvaguardare gli approdi per i pescherecci. Bisogna inoltre incoraggiare la vendita diretta dei pescatori consorziati e studiare piani che migliorino la resa del pescato, nel rispetto delle risorse ittiche disponibili. Infine, c’è da formare una nuova generazione di pescatori e di consumatori, capaci di scambiarsi anche qualità e informazioni». [mirco mazzoli]

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febbraio 2013 scarp de’ tenis

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Pescatori d’Italia. Le reti restano a riva

La marineria di Rimini è composta per oltre l’80% da pescatori di Lampedusa. Che oggi, per contenere i costi, scelgono di tornare a sud

Riviera troppo casa, l’Atlantic inverte la rotta di Angela De Rubeis Bernardo ha 62 anni. È originario di Lampedusa ma vive a Rimini da 15 anni. Comanda l’Atlantic, una bella imbarcazione bianca e blu, portata da Lampedusa in Romagna una decina di anni fa. Ma dopo appena cinque anni ha deciso di tornare giù, percorrendo la rotta inversa. Quello dell’Atlantic non è la sola “migrazione di ritorno” nella marineria di Rimini, composta per più dell’80% da pescatori originari della piccola isola siciliana. Negli ultimi cinque anni è toccato al Kennedy, al Giacomo Maria (attraccato al porto romagnolo da oltre trent’anni), al Dearpa e all’Andrea Padre. Una vera e propria moria. Un impoverimento progressivo del settore, che coinvolge tante barche a conbduzione famigliare e un bel pezzo di economia locale. Quello ittico è un settore che nella provincia di Rimini conta circa 200 imprese attive, 100 imbarcazioni attraccate nel solo porto di Rimini e 500 pescatori. Il mercapiù insostenibile aumento del carburanto all’ingrosso della città, il più grande te – con più di un anno di anticipo rispetdella provincia, ogni giorno fa scorrere to alle imprese industriali e dell’artigiasui suoi rulli 12-13 mila quintali di pescanato. to. Numeri indicativi dell’importanza del Dietro ai numeri, però ci sono le persettore. Che la crisi però non ha risparsone. Intere famiglie che hanno vissuto miato, investendolo anzi – complice gran parte della loro vita attorno a una l’impoverimento delle risorse ittiche barca, oggi sono di fronte a scelte e dividell’Adriatico, ma soprattutto il sempre sioni traumatiche. I capifamiglia, in linea

di massima, tornando a Lampedusa, mentre i figli – nati e cresciuti a Rimini – preferiscono rimanere, pur apprestandosi ad abbandonare un lavoro e una tradizione di famiglia durati decenni. «Io ho 18 anni – racconta Simone Colapinto, erede di una famiglia di pescatori –, sono nato a Rimini e ho sempre vissuto qui. Qui ci sono i miei amici, qui

Sulle rive del padre Po prospera Nei fiumi italiani si pesca solo per sport e per diletto. Le attività sono state riconvertite, di Maria Chiara Grandis

Prima il Po si è ammalato. Poi sono scomparsi i pesci, soprattutto le specie autoctone. Alla fine se ne sono andati anche i pescatori. Oggi nei fiumi italiani non si pesca più per mangiare, ma solo per sport: dei 220 mila tesserati Fipsas (Federazione italiana pesca sportiva e attività subacquee), 190 mila sono pescatori di fiume e la metà è residente in Lombardia. «La mia vita è sempre stata legata al grande fiume, quando ero piccolo con mio nonno pescavamo con le reti: anguille, alborelle e pesci gatto facevano parte della nostra cucina», ricorda Vitaliano Daolio, 56 anni, che da 14 gestisce un pescaturismo a Motta Baluffi, nel cremonese. «Dipende dall’inquinamento se il fiume non è più quello di prima, anche se questa realtà fa paura».

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Gli anni Settanta e Ottanta sono stati i più bui. «Poi sono stati costruiti i depuratori e la situazione è migliorata, da una decina di anni il Po è tornato alle sua colorazione naturale, non ci sono più odori strani né sostanze sospette a pelo d’acqua, ma la diossina e i diserbanti cancerogeni non si vedono a occhio nudo...». Come Vitaliano, perciò, le nuove generazioni di pescatori si sono convertite al turismo: gestiscono i porticcioli e accompagnano i turisti a pesca. «Il turismo fluviale purtroppo è in mano all'illegalità, perché qui lo stato è assente. Sul fiume ci sono una quindicina di attività come le mie, ma sono tutte abusive, anche se


l’inchiesta ho vissuto tutta la mia vita, qui voglio cominciare a lavorare. Quest’anno ho il diploma, con la scuola comincerò a fare stage nelle aziende. Come faccio ad andare a Lampedusa? Un paese su un’isola, dove vivono cinquemila persone. Dove non ci sono possibilità di lavoro. Dove non conosco nessuno se non i miei nonni, zii e cugini. Io mi rifiuto».

Simone non partirà Simone non partirà, a giugno, con i suoi genitori. Ha deciso di rimanere in Romagna con il fratello, Antonio, di poco più grande. La mamma è molto preoccupata ma comprende lo stato d’animo dei figli e ne rispetta la volontà. E da buona siciliana fa spallucce davanti alle evidenze che non si possono modificare. «Lampedusa è lontana. Vedrò i miei figli un mese l’anno, in estate – racconta triste Maria Colapinto –. Mi piange il cuore al solo pensiero, ma come fare altrimenti? La crisi ci sta portando alla fame, giù almeno abbiamo la casa di famiglia». Potendo evitare di pagare l’affitto, dato che a Lampedusa quasi tutti hanno costruito una casa, si sceglie di abbattere le spese in questo modo. «I figli sono del mondo», conclude amara Maria. I lampedusani, popolo di migranti, lo hanno vissuto sulla loro pelle. «Quando 25 anni fa sono salita al nord non avrei mai pensato che avrei dovuto fare il viaggio inverso, se non per la pensione». Ma le valigie sono pronte. Il mare, certe volte, riconduce al punto di partenza.

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Volume del pesce venduto in Italia Anno 2005 2006 2007 2008 2009

Valore di vendita

Valore di vendita

(tonnellate)

(milioni di euro)

13.408 11.379 6.891 6.473 8.407

70,786 64,987 46,789 41,010 35,724

fonte: Osservatorio nazionale della pesca

Composizione delle catture e dei ricavi per sistemi di pesca, flotta nazionale, 2010 Strascico Volante Circuizione Draghe Piccola pesca Polivalenti Palangari Totale

catture (tonnellate)

ricavi(milioni di euro)

78.182 (35.1%) 44.393 (19.9%) 31.506 (14.1%) 21.794 (9.8%) 33.559 (15%) 8.426 (3.8%) 5.148 (2.3%) 223.007

555.47 (50.4%) 46.52 (4.2%) 52.71 (4.8%) 63.00 (5.7%) 275.58 (25%) 65.81 (6%) 43.66 (4%) 1102,76

fonte: Osservatorio nazionale della pesca

l’illegalità purtroppo con molte ombre... operano alla luce del sole. Arrivano tedeschi e austriaci che affittano in nero le barche per sei mesi l’anno, affari da decine di migliaia di euro...».

Il controllo delle acque interne I nuovi pescatori di fiume italiani non riescono a lavorare e si sentono abbandonati. Ecco perché Daolio porta avanti una campagna per promuovere il turismo fluviale come opportunità di lavoro anche per i più giovani. «Il fiume ha potenzialità enormi, anche se non possiamo più vendere il pesce che peschiamo come facevano i nostri nonni». Eppure c’è chi il pesce inquinato lo vende, e lo

può fare a causa della mancanza di controlli. Il pesce siluro, ad esempio, arrivato nelle nostre acque dall’estero con i ripopolamenti degli anni passati, in Italia non si consuma. Ma sui mercati dell’Europa dell’est viene venduto a 5 euro al chilo, e un solo esemplare arriva a pesarne 50. I bracconieri, di notte, ne prendono in gran quantità, anche utilizzando elettrostorditori, proibiti dalla legge. «Certo, fa comodo dare la colpa ai romeni che praticano la pesca illegale, ma sono solo manodopera, aiutata da basisti italiani», rivela Antonio Bertellini, gestore del porto Zampolli, nel mantovano. Le province, cui spetta il controllo

delle acque interne, sono senza fondi. Le Autorità di bacino, come quelle istituite per i fiumi più grandi, come Po e Tevere, hanno altri problemi: garantire la navigabilità dei corsi d’acqua e prevenire le esondazioni. La Fipsas cerca di dare una mano per quel che può: «In Italia gestire le acque interne è un problema e anche per le nostre guardie è pericoloso intervenire senza gli strumenti adatti, perché subiscono minacce e intimidazioni. Però cerchiamo di prendere in gestione il numero maggiore di tratti fluviali per occuparcene – spiega Sergio Schiavone –. Ma anche per noi non è facile: siamo volontari e i fondi scarseggiano».

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Pescatori d’Italia. Le reti restano a riva

Sulle tavole di Sicilia si consuma pesce asiatico. Le politiche di settore non aiutano un sistema in difficoltà. E così Fabio getta la spugna...

I figli di Padron ‘Ntoni non rinnovano la licenza Eredi dei Malavoglia Foto di gruppo al porto di Catania. In Sicilia si concentrano ancora 3.035 barche adibite alla pesca, ma sono in calo

di Gabriella Virgillito Masculini, pisci stoccu e baccalà, sono solo alcune delle prelibatezze che il mare siciliano da sempre offre. La pesca è una delle ricchezze più importanti dell’isola, che però, nonostante centinaia di chilometri di coste, importa dall’estero oltre il 70% del pesce che vi viene venduto. La notizia ancora peggiore, è che spesso il prodotto proviene da allevamenti di pescicoltura intensiva del sud-est asiatico e della Cina, caratterizzati da scarsa igiene e scarsa sicurezza per gli ignari consumatori. A rendere questo già quadro ancora più preoccupante è il fatto che la tracciabilità del pesce è ancora un’utopia; di conseguenza, una volta sul bancone del pescivendolo è impossibile risconoscere il pescato nostrano da quello proveniente dall’estero, persino per quanto riguarda il pesce spada e il tonno, due pesci che sono l’orgoglio di Sicilia, ma spesso vengono importati, soprattutto da Spagna e Marocco.

Norme troppo rigide? Come sia possibile che un’isola con quasi 1.500 chilometri di costa debba ricorrere al pesce di importazione, anziché vendere quello proveniente dal proprio mare, lo scopriamo parlando con Fabio Micalizzi, presidente regionale dell’Associazione pescatori marittimi professionali di Sicilia: «La colpa è sia dei nostri politici, sia delle politiche comunitarie che invece di tutelare la nostra pesca sono riuscite a metterla in ginocchio, a causa di leggi e regole penalizzanti. Uno degli esempi più eclatanti riguarda le restrizioni per la pesca con il sistema “palangaro”, che non può essere praticata oltre le venti miglia dalla costa, mentre paradossalmente i pescatori dilettanti non subiscono questo tipo di restrizioni, e lo stesso vale per i pescatori professionisti di altri paesi. Anche i politici siciliani ci si mettono a peggiorare le cose: nel 2012 il governo regionale ha concesso un bonus di 40 mila euro a ognuno dei circa 400 pescatori che hanno consegnato il tesserino d’iscrizione al registro dei pescatori marittimi, per un impegno economico totale di 15 milioni di euro, con l’unica richiesta di dimostrare entro due anni di aver fatto una riconversione in altri set-

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tutto questo con un impegno ecnomico di centinaia di milioni di euro. Salvo che in molti casi si è trattato di una rottamazione virtuale, perché alle false dismissioni è seguita la vendita all’estero. La nostra pesca, oltre la crisi economica che ha colpito un po’ tutti i settori economici, subisce, quindi, anche le conseguenze di una cattiva gestione politica; ecco perché questo mestiere sta scomparendo» .

Sicilia: i numeri della pesca 1.500 chilometri

il perimetro della costa siciliana (sono 7500 i chilometri delle costa italiane)

9 mila pescatori in Sicilia nel 2012 (erano 15 mila nel 1989)

3.035 le barche siciliane impiegate per la pesca (erano 4.500 nel 1989)

15 milioni la cifra spesa dalla regione Sicilia nel 2012 per ritirare 400 tesserini di pesca

70% il pesce proveniente dall’estero venduto in Sicilia

tori. Purtroppo questo incentivo è servito soltanto a favorire la pesca in nero; molti dei presunti ex pescatori, infatti, dopo aver incassato il bonus hanno continuato la propria attività facendosi passare per dilettanti. Altro flop è stato il maldestro tentativo di ridurre lo sforzo di pesca, attraverso l’incentivo alla demolizione volontaria delle barche, concedendo agli armatori un premio pari all’80% del valore reale di una nuova imbarcazione,

La forte denuncia di Micalizzi è supportata da alcuni inquietanti dati, che testimoniano un’effettiva diminuzione dei pescatori professionisti: erano 15 mila nel 1989 e sono diventati 9 mila nel 2012; oggi sono solo 3.035 le barche registrate in Sicilia, contro le 4.500 del 1989. «Io ho i documenti scaduti e non posso rinnovarli perché costa troppo – confida per esempio Fabio, pescatore del porto di Catania –. Ci sono troppi divieti,


l’inchiesta

Pozzuoli

Giovanni, nato pescatore riciclatosi in imbianchino

non possiamo pescare pesce spada e tonno, per esempio; inoltre subiamo la concorrenza dei pescatori esteri che non hanno tanti limiti: mentre noi dobbiamo certificare il nostro pesce perché ne venga accertata la provenienza, lo stesso non vale per il pesce che arriva sugli aerei, che costa molto meno ai commercianti e che quindi viene privilegiato, a scapito del nostro e della qualità di ciò che arriva sulle tavole di tutti gli italiani».

Tra divieti e controlli Le soluzioni ci sarebbero, e ad indicarne alcune è la Federazione degli armatori siciliani, presieduta da Carmelo Micalizzi, padre di Fabio: favorire il ripopolamento

ittico tramite il reale divieto assoluto di pesca oltre un miglio dalla costa, controlli severi sulla pesca a strascico entro i 50 metri di profondità, incentivi sul fermo reale delle imbarcazioni. Inoltre bisognerebbe incentivare lavorazione e trasformazione dei prodotti locali, come il pesce azzurro, e creare infine infrastrutture compatibili con l’ambiente, come barriere anti-strascico e impianti di acquacoltura di qualità.

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Giovanni, 56 anni, pescatore nato e cresciuto a Pozzuoli, cittadina di mare vicino Napoli, dopo una vita passata fra reti e mercato del pesce, da sei mesi ha cambiato mestiere. Fa l’imbianchino. La sua vita è cambiata, la sua giornata è cambiata. Figlio di pescatore, era abituato a svegliarsi all’alba per uscire per mare. Adesso si alza alle 6.45 ma si sveglia ancora quando albeggia. Aveva un peschereccio che ha venduto per colpa della crisi. Crisi che sta colpendo violentemente il settore: la prima causa è il carogasolio, e a questo aumento del carburante si aggiungono la pescosità sempre più scarsa del mar Mediterraneo, e la concorrenza sul mercato alimentare dei prodotti stranieri. Di fronte a questo scenario di problemi, Giovanni ha dovuto decidere per un cambiamento drastico. La moglie è casalinga, i figli si sono appena diplomati, sono disoccupati e stanno pensando di trasferirsi al nord. E allora il capofamiglia di una famiglia monoreddito si è sentito “costretto” a guadagnarsi da vivere in un altro settore. Per Giovanni, cambiare lavoro ha significato cambiare completamente vita, dopo un’esistenza passata interamente sul mare, fin da bambino, con il padre che gli ha insegnato la passione del navigare e i segreti del mestiere. Dopo un anno di dubbi e speranze, quando già il guadagno era ridotto e le spese per mantenere il peschereccio crescevano, si è deciso a vendere l’imbarcazione e ad accettare un lavoro più stabile. Stabile in tutti i sensi, perché lavorare sulla terra ferma per lui è strano: abituato com’è a stare in barca, a contatto con la natura, a passare giornate e nottate intere in mare aperto, ancora gli sembra strano entrare nelle case delle persone per imbiancare muri scegliendo fra stucchi e pitture. Il nuovo lavoro gli piace, è contento di aver accettato l’offerta del cognato che aveva bisogno di una mano. Ma il mare gli manca. La sua storia a Pozzuoli è una delle tante. La città flegrea conta circa 80 mila abitanti e da sempre, in ogni famiglia, almeno una persona si guadagna da vivere grazie al mare. Il comparto della pesca era il principale settore produttivo dell’economia puteolana fino a qualche anno fa: ufficialmente ci lavoravano fra le 1.500 e le 2 mila persone fra pescatori diretti e indotto creato dal mercato del pesce; lavoratori annuali e stagionali. La crisi economica ha invece determinato una contrazione dei consumi e della spesa alimentare; consumatori e famiglie hanno ridotto l’acquisto di prodotti che forniscono proteine nobili, quindi il primo prodotto a uscire dal carrello della spesa è stato il pesce fresco. Il consumatore napoletano, anche se abituato per tradizione a consumarlo soprattutto la domenica, ne compra di meno, ha ridotto la frequenza d’acquisto, ne sceglie varietà meno care. Insomma, se tiene la vendita delle varietà definite povere (come alici e pesce bandiera), restano sul banco branzini e gamberoni, diventati acquisto da gourmet per la tavola delle feste. Così l’effetto domino della crisi e delle politiche macroeconomiche determinano e condizionano le scelte quotidiane delle persone. E hanno deciso il destino lavorativo di Giovanni, nato pescatore, costretto a riciclarsi imbianchino. [laura guerra]

al dossier ha collaborato Navina Manzoni febbraio 2013 scarp de’ tenis

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Welfare iniquo e inumano: aumentano i non autosufficienti, ridotti a zero i fondi per le politiche sociali e l’assistenza

Scaricati sulle famiglie servizi di Stefania Culurgioni

Drastici tagli alle politiche sociali

3.500.000

gli anziani over 65 presenti in Italia nel 2010

1.800.000

gli anziani over 65 presenti in Italia nel 1990

4.500.000

gli anziani over 65 che saranno presenti in Italia nel 2020

13 mila

le residenze socio-assistenziali e socio-sanitarie attive in Italia, per un totale di quasi 450 mila posti letto

69 euro

Fonte: Ministero per le politiche sociale, istat

costo giornaliero medio per il ricovero in una Rsa

27 euro

costo giornaliero in un centro diurno (a cui bisogna aggiungere il prezzo del trasporto)

2,52 miliardi di euro

fondi statali per le politiche sociali nel 2008

1,47 miliardi di euro

fondi statali per le politiche sociali nel 2010

300 milioni di euro

fondi statali per le politiche sociali nel 2013

20. scarp de’ tenis febbraio 2013

Nessuno di noi ama pensarsi vecchio. Non ci viene facile immaginarci come degli ottantacinquenni malati di Alzheimer, o come dei novantenni incapaci di stare in piedi, dipendenti del tutto dagli altri, con il cervello annebbiato, confuso, rallentato. È un sentimento di rimozione collettiva, che la politica asseconda, vuoi per assenza di risorse, vuoi proprio perché portare in agenda questi temi non entusiasma il cittadino medio. Eppure il fenomeno dell’aumento costante della popolazione anziana è uno dei più certi e rilevanti, a livello globale, e rappresenta una certezza demografica, in grado di incidere su dinamiche sociali e logie ad andamento cronico degenerasostenibilità delle finanze pubbliche. tivo; pazienti con gravissimi disagi psiOggi nel mondo vivono 810 milioni di chici o intellettivi o sordocecità, che neanziani, ma nel 2050 ce ne saranno 2 cessitano d’assistenza vigile; pazienti miliardi. Anche in Italia gli ultraottancon cerebrolesioni o stati vegetativi che tenni sono in costante crescita. Nel 1990 necessitano d’assistenza vigile. Un cenerano il 3% della popolazione, ovvero 1 simento non esiste, ma quello che si milione 800 mila persone, nel 2010 sono può dire è che in Italia le residenze sodiventati il 6% (3 milioni 500 mila) e nel cio-assistenziali e socio-sanitarie sono 2020 saranno il 7,5% (4 milioni 500 miquasi 13 mila, per quasi 450 mila posti la). Ancora: nel 2050 l’aspettativa di vita letto: il 72% di queste strutture ospita sarà di 83 anni nei paesi sviluppati, tananziani non autosufficienti, mentre soto che Ban Ki Moon, il segretario genelo una piccola parte accoglie disabili, rale dell’Onu, ha detto: «Ci saranno tossicodipendenti, malati psichiatrici e conseguenze profonde nella società. È minori italiani o stranieri. Il 66% di queun’opportunità da cogliere, che però ste residenze si trova al nord e nel 70% presenta anche sfide sociali». dei casi si tratta di strutture private. E qui arriviamo al punto: come fanUn esercito di over 65 no a vivere e a mantenersi queste perL’aumento dell’aspettativa di vita, e sone? Su chi pesa il carico della loro asquindi della popolazione anziana, ha sistenza? Quanti e quali sono gli aiuti un’implicazione di grande attualità, che dello stato? Che cosa fa una famiglia prima o poi bisognerà affrontare con quando si trova a dover gestire un decisione: il tema della non autosuffimembro non autosufficiente? Le rispocienza. Non ci sono stime precise su ste sono diverse, ma è sicuro che l’aiuto quante sono, in Italia, le persone che diche arriva dallo stato è sempre meno pendono quasi del tutto dagli altri, ma il decisivo, si sgretola e si fa sempre più solo elenco delle categorie fa comprensottile. dere la portata del problema: pazienti Una prima opzione è ricoverare il con gravi patologie degenerative non malato in una Rsa: una “unità di offerta reversibili; pazienti che, a seguito di una residenziale”, secondo la terminologia malattia neoplastica, si trovano nella fatecnica, rivolta a persone non autosufse terminale della vita; pazienti con graficienti che hanno più di 65 anni, non ve stato di demenza; pazienti con pato-


l’inchiesta L’intervista

«Natural helpers, non si cura in solitudine» Nel libro natural helpers. storie di utenti e familiari esperti, il professor Fabio Folgheraiter (co-curatore insieme a Patrizia Cappelletti del volume edito da Erickson) spiega perché i natural helpers (aiutanti naturali) sono indispensabili al nostro sistema sociosanitario. Un sistema dove – secondo Folgheraiter, professore di metodologia del lavoro sociale alla Cattolica di Milano – prevale il tecnicismo clinico: «Si parte dal presupposto che ci sono centrali specializzate che risolvono i problemi. Da una parte ci sono quelli che hanno la verità e la cura, dall’altra i disgraziati ai quali iniettare la cura precostituita. Una concezione paternalistica e unidirezionale che non concepisce una relazione di reciprocità con l’utente-paziente».

assistibili a domicilio e richiedenti trattamenti continui. Luoghi di cura e assistenza ma anche luoghi di vita, insomma: una seconda casa. Che costa 69 euro al giorno... Un’altra opzione, più “leggera”, è il centro diurno, dove l’anziano o il disabile passa l’intera giornata per poi tornare a casa la sera. Costo: 27 euro al giorno (39 euro con il trasporto). A pagare sono le famiglie, anche se i comuni, a loro discrezione, ovvero a seconda del loro bilanci, possono riconoscere una quota di compartecipazione a seconda del reddito Isee: per gli anziani, si considera il reddito Isee di tutti i familiari; per il disabile, solo quello del disabile. Se invece si sceglie l’opzione privata, le famiglie possono affidarsi a una badante che ha diritto a due ore di pausa ogni giorno e al sabato pomeriggio libero. Per metterla in regola e pagare i contributi servono circa 2 mila euro al mese. Chi paga? Ovviamente le famiglie.

I costi sono proibitivi Ogni persona non autosufficiente però ha diritto a un piccolo sussidio statale: l’assegno di accompagnamento e, se

professore, chi sono i natural helpers? Non sono operatori specializzati, non posseggono titolo di studio. Storicamente sono le persone a cui la comunità si rivolgeva con più fiducia. Con la comparsa di figure tecniche professionalizzate, i natural helpers sono venuti meno. Ma oggi, soprattutto nei gruppi di auto mutuo aiuto e nelle esperienze di amministrazioni locali illuminate, stanno riemergendo. Possono essere utenti che hanno risolto una situazione problematica che li coinvolgeva, oppure familiari di utenti che hanno scoperto di voler continuare a essere utili. O sono persone con un capitale sociale alto, che si mettono a disposizione di chi ha bisogno, in modo volontaristico. Ma ci sono anche operatori sociosanitari che, fuori del proprio ambito professionale, si mettono in gioco in altri percorsi di cura. perché i natural helpers sarebbero utili al nostro sistema di welfare? L’operatore sociosanitario tipo prende atto del problema e lo colloca in una casella di tipologia di intervento precostituito. I natural helpers vanno nella direzione opposta, ascoltano e si mettono in una relazione con la persona. Ciò permette all’utente di avere fiducia nell’altro e in se stesso, di guardare al problema con un senso di responsabilità che mette in gioco dinamiche di autoterapia. Il paziente è protagonista della sua storia, non subisce gli interventi, ne è responsabile anche lui. Ma la reciprocità tra pari, nei casi di non autosufficienza, è improbabile... Sul piano umano è la reciprocità che cura. Sul piano funzionale, è diverso. Chi non è in grado di mangiare in autonomia, va imboccato. Ci sono tecniche di comunicazione che aiutano la persona disabile o autistica a interagire con l’altro. Non si vuole mettere in discussione la scienza. Però diciamo che non va esercitata in solitudine. Nelle nostre strutture di welfare, nei casi di non autosufficienza, chi deve prendersi cura dell’utente lo fa eseguendo una pratica funzionale. Non si attiva su altri piani: umano, di empatia, di relazione. L’anziano con demenza senile, il disabile grave dal punto di vista cognitivo: tutti recepiscono se chi hanno di fronte tutti i giorni è assente. Questo demotiva le loro poche risorse, che dovrebbero essere sollecitate. I natural helpers entrano in relazione anche con gli utenti più gravi, fin dove è possibile. Daniela palumbo febbraio 2013 scarp de’ tenis

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Scaricati sulle famiglie proprio la sua situazione è grave, anche la pensione di invalidità. Questi due strumenti possono servire ai familiari per ammortizzare le spese, ma il più delle volte non sono sufficienti: l’indennità di accompagnamento è un contributo monetario di 492 euro mensili e viene pagato dall’Inps. In questo panorama complesso, un’altra cosa è certa: i soldi che lo stato ha messo a disposizione di comuni e regioni per il sostegno

delle persone non autosufficienti è andato via via scemando negli ultimi anni. Se nel 2008 i fondi statali per le politiche sociali ammontavano a 2 miliardi 526 milioni di euro, nel 2010 sono scesi a 1 miliardo 472 milioni, e nel 2013 (ed è stata una grande conquista) si è arrivati pochissimi giorni fa all’accordo di uno stanziamento di 300 milioni euro. Sul fondo nazionale per la non autosufficienza è calata la mannaia più implaca-

Figli dei propri figli Pomeriggio all’Alzheimer Cafè di Sesto San Giovanni. Generazioni che si ribaltano. Tra balli, In una sala addobbata con striscioni colorati, piena di persone che ballano, ridono, parlano, si danno di gomito per scherzare sulle rispettive pose da attempati seduttori, invitano le mogli altrui a un altro giro di valzer e fanno cerchio per bisbigliarsi le ultime novità di famiglia, una bambola è immobile su una sedia, con un cappello di feltro verde scuro in testa, il trucco distribuito sulle guance, le mani incrociate posate sulle gambe, gli occhi velati, le labbra socchiuse, un pallore di porcellana a offuscarle il viso. La musica frusta la sala da una parete all’altra, come in un guscio vuoto, esce dalle casse imperfetta, riverberata in mille eco, si mischia al vociare, alle risate che le stridono addosso, al ringhio stridulo di una sedia spostata senza sollevarla. Se osservi bene la donna immobile, puoi notare una minuscola vena che le pulsa sul collo, le nabito. La gioia e la pena delle lorici trasparenti allargarsi imro famiglie, soprattutto dei fipercettibilmente e una donna gli, che a un certo punto ne dipiù giovane, che le assomiglia ventano i genitori, li accudimoltissimo, parlarle all’orecscono, li accompagnano, li chio con voce dolce. Chi è? guidano e decidono per loro, «Lei è la mia bambina – spiega come in uno strano contrapAda, che è sua figlia (foto a depasso del destino. «Non so stra) –. Mia madre è la mia esattamente quando si sia bambina di 85 anni. A volte ammalata – spiega Ada, che ha 55 anni, riesco anche a farla cantare». una famiglia e due figlie, un lavoro part time – ma so che in un certo senso non La bambina di Ada è più la mia mamma. Non ricorda nienSiamo a Sesto San Giovanni, in un amte, vegeta, non parla...». Il marito è morpio stanzone dentro l’oratorio della parto qualche anno fa, uno dei suoi figli lo rocchia Santo Stefano. Fuori è un gelido ha perso per un tumore al fepomeriggio di un giorno della settimana gato da cinque anni, ma nesma dentro è festa, una di quelle feste che suna di queste cose esce più accadono solo due volte al mese, quandalla bocca di questa bellissido è il momento di ritrovarsi all’Alzheima signora di 86 anni. Sua fimer Café. La bambola non è una sola, glia è tutto quello che le resta: ce ne sono altre. E altri uomini con lei, «L'Alzheimer Café è un apcon lo sguardo un po’ perso, una luce repuntamento che abbiamo mota negli occhi, l’espressione di un due volte al mese, e per fortubambino vecchissimo che cerca di cana che esiste. Solo in queste pire dove si trova. Sono i fantasmi deloccasioni riesco a farla uscire, e a volte l’Alzheimer: i cancellati, i vagabondi di capita addirittura che le scappi qualche un passato che vive solo nella loro mecanzone. Per me è una conquista, ma moria, lontanissimi dal qui e ora, oppuper il resto è tutto molto pesante. Ho re presenti, ma per dimenticarsene su-

22. scarp de’ tenis febbraio 2013

sempre paura di non fare abbastanza, faccio il possibile perché lei sia serena per questo poco tempo che la avrò con me, ma la vedo consumarsi sempre di più, come un lumicino». Accanto, la badante della madre la osserva e non dice niente. «Per fortuna che abbiamo trovato lei – continua Ada –, è tanto brava...». Le costa 870 euro mese più 760 di contributi, assiste la signora dalla domenica alle 8 di sera al sabato alle 14, e ogni giorno ha una pausa di due ore. «Vado io a coprire quel tempo vuoto – continua Ada –; il suo stipendio lo paghiamo con la pensione di reversibilità di mio padre, ma anche con i risparmi messo via dai miei. Senza non ce la faremmo...».

Luigi che ama ancora ballare Nella sala ad un certo punto accade qualcosa. Alcune ragazzine, studentesse di una scuola superiore in visita al Café, hanno preso in mano il microfono e improvvisano una canzone sulla base di un karaoke. Un uomo si mette al centro della pista e abbraccia una volontaria col grembiule rosso che stava distribuendo coca cola e pasticcini. Insieme si lanciano in un ballo, coordinati e seriosi come le coppie di valzer in una balera, come se fosse la cosa più solenne di questo mondo, ed eseguissero quei passi mentre pensano a tutt’altro, una specie di memoria ancestrale che risale negli anni, ai loro nonni, da cui impararono le movenze, e forse ancora più in là. Lui si chiama Luigi (foto a sinistra) e ha 80 an-


l’inchiesta bile: da 300 milioni euro, nel 2008, è stato azzerato dal governo Berlusconi nel nel 2011 e non rifinanziato nel 2012; solo dopo la protesta dei malati di Sla si è deciso di riattivarlo, per il 2013, con 275 milioni di euro. «Non è sufficiente – commenta Anna Tombini, sindacalista della Fnp Cisl –: chiediamo almeno 500 milioni di euro per coprire tutti i bisogni di famiglie che, altrimenti, non sanno davvero dove sbattere la testa».

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badanti, silenzi, lacrime... ni. «Sono del 1932 – si presenta – ed è mia moglie a essere malata di Alzheimer. La vede? Eccola là. Ma non scherzi, non le dica che la ragazza è la mia fidanzata. Potrebbe arrabbiarsi, guai per me, ci tiene ancora moltissimo...». Luigi parla della moglie e gli si fanno gli occhi lucidi. «Mi sono accorto che non stava bene perché perdeva la memoria. Mi chiedeva: “Cosa devo mettere su da mangiare?” Ma avevano appena finito il pranzo... Si chiama Odiglia e ha sempre fatto tutto lei in casa. Oggi sono io che cucino e che la vesto.». Qualche giorno fa Odiglia ha chiesto a Luigi che scarpe dovesse mettere, lui le ha risposto di mettere quelle nere, ma poi lei si è dimenticata ed è uscita con le pantofole e nessuno dei due se n’è accorto se non quando è tornato a casa. «Abbiamo fatto tanta vita insieme – ricorda Luigi –, abbiamo viaggiato, ballato, avuto tanti amici, ma ora vede? Lei è così, e io a volte non ho più voglia di vivere». Ma nei due giorni in cui apre l’Alzheimer Café, all’appuntamento non mancano mai. Arrivano a braccetto, pian pianino, lei si siede a un tavolo, lui parla e balla, e si aggrappa a quel resto di vita che gli gira intorno, e resiste, resiste...

Domenica tre volte mamma «Mi chiamo Domenica (nella foto sopra) e ho 50 anni e sono la mamma... ehm sono la figlia. Insomma, faccio la mamma a mio papà». Eccone un’altra: una mamma di due ragazzini, una alle ele-

Il progetto

Benvenuti all’Alzheimer Cafè, alla malattia si resiste insieme «Abbiamo ripreso il progetto dello psicogeriatra Bere Miesen, che a Leida, in Olanda, nel 1997 ha realizzato per primo un Alzheimer Café». Anna Giuliani è presidente dell’associazione Sacumé (Salute cuore mente) onlus, che a Sesto San Giovanni, in collaborazione con Caritas, gestisce un innovativo “Alzheimer Café”. «Fu Miesen che per primo si rese conto che, per i malati di Alzheimer e i loro familiari, era opportuno creare luoghi di aggregazione dove potersi incontrare e svolgere attività per mantenere il più a lungo possibile le residue capacità di ogni ammalato. Nel nostro centro operano 30 volontari e tutto ruota intorno a due momenti. Anzitutto l’accoglienza: i malati vengono accompagnati da badanti e familiari nella struttura, e vengono loro proposte attività di stimolazione cognitiva, esercizi per mantenere le residue capacità cognitive, la biodanza per favorire il movimento attraverso l’ascolto di musiche specifiche e per infondere un benessere globale, la musicoterapia e poi attività motorie e stimolazioni sensoriali. Mentre i malati fanno questo, in un locale a parte i familiari incontrano professionisti del settore, il geriatra, l’infermiere, il neurologo, il dentista, che trasmettono conoscenze, con l’obiettivo di migliorare la capacità di cura dell’anziano al domicilio. Le riunioni sono anche una possibilità per i familiari di confrontarsi, porre quesiti e incertezze, per sentirsi meno soli». L’Alzheimer Café apre due volte al mese e lo possono frequentare solo anziani con un minimo di autonomia fisica. Negli stadi avanzati di malattia, la persona viene ricoverata in Rsa, che costa dai 65 agli 80 euro al giorno, per un totale di 2 mila euro al mese. Al centro diurno, invece, si va tutti i giorni fino alle sei di sera e il costo è di 27 euro al giorno. «A tutto ciò si aggiunge il peso emotivo dovuto alla non accettazione della malattia – continua Anna Giuliani –: chi si fa carico dell’assistenza è di solito una donna, figlia o moglie, che soffre allo stesso modo. Spesso le famiglie si sentono abbandonate, non accompagnate, si vergognano dei disturbi del malato e hanno doppiamente bisogno di aiuto».

mentare e uno alle medie, e di un vecchietto di 82 anni che con l’Alzheimer si è trasformato in bambino. «Ho capito – dice Domenica – che qualcosa non andava dieci anni fa, perché dimenticava di aver mangiato. Poi è mancata mia madre e la sua malattia ha accelerato. Ha vissuto quattro anni da solo, una mattina esco e me lo ritrovo per strada, non sapeva di avere vagato da solo tutta la notte, così ho dovuto prendere una badante». Come per Ada, anche in questo caso il costo mensile è lo stesso: quasi 1.500 euro al mese, nessun aiuto dallo stato. «Mio papà ha la reversibilità di mia madre che è morta, ma non mi basta mica: i miei genitori hanno risparmiato una vita e per ora attingiamo ai loro risparmi. Non siamo riusciti a ottenere un contributo di invalidità: alle visite mio padre è sempre stato in grado di rispon-

dere alle tre domande che gli vengono fatte: come ti chiami? questa che ti accompagna chi è? in che stagione siamo, inverno o estate? Le risposte sono state giuste, ma ciò non vuol dire che lui sia autonomo. Si dimentica ogni due minuti di quello che sta facendo, di dove stiamo andando, se ha mangiato o no, se ha preso le medicine o meno, insomma è perso, da solo non ci può stare. E io devo controllare sempre, perché le badanti mica ti dicono tutto...». Domenica dice di sentirsi depressa, di essere stanca, di non riuscire ad avere il giusto distacco per continuare la sua vita. Questo nuovo e inaspettato bambino è un tipo tosto, che richiede attenzioni, con lo stesso egoismo di un neonato. Solo più grande, più alto, più pesante, e in corsa verso un lontanissimo oblio di se stesso, non verso la coscienza di sé, come un figlio vero. Che poi è una inderogabile legge della vita. Amara, però...

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Jonathan ha vinto, gli altri son sospesi Prorogata fino a fine febbraio l’Emergenza Nord Africa. Ancora incertezze, che ostacolano l’integrazione di 17.500 profughi. A parte storie eccezionali...

di Paolo Riva Alla fine, a Jonathan ha pensato la dea bendata. «Ero andato a comprare un gratta e vinci – racconta – e l’ho consegnato all’edicolante pensando che la combinazione ottenuta valesse 20 euro. E invece mi è stato spiegato che non poteva essere lui a consegnarmi il premio e che sarei dovuto andare in banca perché, in realtà, di euro ne avevo vinti 20 mila». Jonathan, originario della Nigeria, era fuggito alcuni mesi prima dalla Libia in guerra. Come lui, sulle nostre coste, a partire da febbraio 2011, sono sbarcate oltre 28 mila persone. Nella maggior parte dei casi, si è trattato di immigrati provenienti dall’Africa subsahariana, arrivati nel paese di Gheddafi in cerca di lavoro, stabilitisi lì da tempo e costretti a scappare a causa del conflitto. Per loro, in Italia, è stato deciso un regime di accoglienza straordinaria, la cosiddetta Emergenza Nord Africa che, realtà del terzo settore, per ospitare i di proroga in proroga, si concluderà il 28 profughi sono stati scelti i luoghi più difebbraio. Dal giorno successivo, dovransparati e, in alcuni casi, meno adatti, no essere autonomi. moltiplicando sprechi e scandali: dal Per questo, la vincita di Jonathan è Centro di accoglienza di Mineo, in Sicitanto importante. «Con quei soldi – lia, che è stato uno dei più grandi e conspiega – stiamo cercando un appartatestati, e ancora a novembre accogliemento in affitto. Io e altri tre miei amici, va duemila persone, alla tensostruttura tre miei connazionali. Nessuno di noi ha di Tor Marancia a Roma; dal Residence ancora trovato lavoro, ma con una cifra Ripamonti alla periferia di Milano, che così posso fare io da garante per tutti». ha dato le sue stanze a più di 400 profughi lasciandoli per mesi a guardare la Situazione complessa tv, alle strutture alberghiere di MontePer tutti gli altri 17.500 profughi, ancora campione, sulle Alpi Orobiche, con i ospitati nelle strutture d’accoglienza suoi ospiti isolati a 1.800 metri di altezsparse per l’intera penisola, la situazioza per diverse settimane. ne è molto più complessa. Considerato Il risultato è che, a molti dei rifugiail difficile momento economico del noti, sono stati garantiti vitto e alloggio, ma stro paese, il rischio è che molti finiscanon il necessario sostegno linguistico, no per strada, senza lavoro e senza casa, psicologico, legale e lavorativo per il per di più senza aver ricevuto il tipo di quale lo stato, in particolare il ministero accoglienza alla quale avrebbero diritto. dell’interno, ha comunque stanziato dei La fortuna di Jonathan, infatti, non fondi. Oltre un miliardo di euro, comè stata solo trovare una combinazione plessivamente. Non così è capitato a Jogiusta sul biglietto del gratta e vinci (e nathan che, insieme ad altri otto ragazun edicolante onesto), ma anche quelzi, tutti tra i 18 e i 30 anni, è arrivato nel la di essere rientrato in un progetto sesettembre 2011 a Cassano d'Adda, un rio. La gestione dell’emergenza, nel paese di quasi 20 mila abitanti, all’estrepieno degli arrivi dalla Libia via Lammità orientale della provincia di Milano. pedusa, è stata affidata alla Protezione «Anche se la nostra realtà opera con civile, che garantiva una retta giornaliepersone diversamente abili e non con ra media di 46 euro per ciascuna permigranti – spiega Luca Marchiori, resona accolta. Ma, accanto a collaudate

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sponsabile del progetto per la cooperativa Ellepikappa – abbiamo accettato la proposta, avanzata dal comune e dal distretto 5 della provincia di Milano, di accogliere questi ragazzi. Certo, non sono mancate le difficoltà, ma un anno e mezzo dopo, posso dire che è stata un’esperienza intensa e positiva».

Cassano mobilitata A Cassano, intorno al progetto di accoglienza si è creata una rete di realtà locali che lo hanno sostenuto: un’altra cooperativa della zona ha messo a disposizione un appartamento, il comune ha pagato i mediatori, il circolo Acli ha offerto il corso di italiano e l’associazione “Il Cerchio” ha garantito un adeguato supporto psicologico e, al tempo stesso, ha raccolto le storie di ciascun


l’inchiesta profugo. E i risultati sono arrivati. «Oggi – spiega Federica Spinolo, una delle tre psicologhe ad avere seguito il gruppo – tutti hanno i documenti in regola: il permesso di soggiorno, la carta d’identità, la tessera sanitaria e anche la patente per mulettista, ottenuta grazie a un breve corso di formazione al lavoro. Senza contare che hanno sviluppato una buona rete di conoscenze, sia sul posto che con i connazionali, grazie anche alle chiese e alle moschee che hanno iniziato a frequentare».

Risposte molto diverse Come è normale che sia, le risposte di ciascuno alle varie attività sono state diverse. C’è chi ora parla un buon italiano e chi si è impegnato poco nello studio della lingua, chi si è andato a iscrivere in municipio alle liste per gli spalatori della neve e chi è stato beccato più volte a fare l’elemosina fuori dal centro commerciale del paese. «Solo per consentire ai ragazzi di fare la spesa, cucinarsi pranzo e cena da soli e smettere di farsi recapitare ogni giorno i pasti garantiti dal comune – racconta Luca – abbiamo dovuto attendere per settimane il permesso dalla prefettura, e alcuni funzionari si sono fatti in quattro per farcelo avere. Senza contare che la vera e propria ricerca del lavoro è cominciata con parecchio ritardo, perché il loro status giuridico si è chiarito solo negli ultimi mesi».

Caritas Ambrosiana

«Necessaria un’ulteriore proroga per non penalizzare i più deboli» L’esperienza di Cassano d’Adda non è certo la sola ad essere stata portata avanti in maniera positiva nell’ambito dell’Emergenza Nord Africa. In Valle Camonica, per esempio, è stato realizzato un progetto molto interessante, così come lo sono stati altri a Riace (Calabria), in Piemonte e in Brianza, e in molti altri territori. La provincia autonoma di Bolzano ha deciso di prorogare l’accoglienza alle 121 persone ancora in Alto Adige fino al prossimo 31 maggio. Purtroppo, però, non si tratta di esperienze rappresentative dell’intero scenario nazionale, che rimane delicato. A dimostrarlo sono stati gli episodi di tensione verificatisi in numerosi centri d’accoglienza, da Vicenza a Pavia, da Santa Maria di Leuca a Torino e Milano, dove gli ospiti del Residence Ripamonti hanno occupato a metà gennaio, per protesta, una delle principali arterie stradali d’ingresso in città (come mostra la foto sotto). A confermarlo sono anche gli enti locali e le tante realtà del terzo settore impegnate sul campo, che hanno espresso perplessità e preoccupazioni sul modo con cui il governo ha deciso di chiudere l’emergenza. Tra le tante, si è sollevata anche la voce di Caritas Ambrosiana, che ha chiesto un’ulteriore proroga, almeno fino alla primavera. «Altrimenti si rischia di lasciare per strada prima della fine dell’inverno proprio i soggetti più deboli, tra i quali anche donne con bambini, che difficilmente potranno trovare soluzioni autonome. Usciti dai centri di accoglienza, i soggetti più fragili chiederanno aiuto alle Caritas e ai comuni, appesantendo così il carico sostenuto da un welfare locale costretto a rispondere a bisogni crescenti con sempre meno risorse». Non solo, il taglio della quota giornaliera per ciascuna ospite, decisa per gli ultimi due mesi di accoglienza, mina «la continuità dei percorsi di integrazione intrapresi dagli ospiti», quando questi ne hanno avuto la possibilità. E infine, avverte la Caritas milanese, che ha ospitato più di 200 profughi, «l’approssimarsi della scadenza crea tra gli ospiti dei centri una tensione alimentata anche da informazioni scorrette. In alcuni casi, ciò potrebbe degenerare in rivolte, che comprometterebbero il buon lavoro fatto».

Il governo ha infatti deciso, a fine ottobre, di concedere, parzialmente, quanto molte associazioni del terzo settore chiedevano da tempo. E cioè il rilascio di un permesso di soggiorno umanitario (della durata di un anno) ai profughi che avevano visto la loro richiesta di asilo politico inizialmente respinta. Se il provvedimento fosse arrivato prima, il tempo dell’accoglienza si sarebbe potuto investire meglio e sarebbero aumentate le possibilità di trovare un’occupazione. La questione più spinosa, infatti, ora è quella del lavoro. «Dei nostri ragazzi, al momento – continua ancora Luca – nessuno ne ha trovato uno». Infine i continui rinvii. L’Emergenza Nord Africa è stata più volte prolungata. L’ultima scadenza era stabilita per il 31 dicembre 2012 e la proroga fino a fine febbraio 2013 da parte del ministero è arrivata il 28 dello stesso mese, l’ultimo

giorno lavorativo dell'anno. «Questa incertezza ha complicato le cose. E per fortuna da noi si è creata una rete di supporto che, in virtù dei piccoli numeri con cui abbiamo a che fare, ha reso la situazione gestibile...». Nelle città e nei grandi centri con centinaia di persone accolte lo stato delle cose è ben diverso. E molto più complicato. Aumentano i rimpianti per la gestione dell’emergenza: perché si è tardato a garantire a tutti i profughi uno status giuridico chiaro? Perché non si è investito di più in esperienze come quella di Cassano, anziché consentire sprechi come quello di Pieve Emanuele, per citare uno dei casi più noti? Tra tanti quesiti, una certezza: i diritti delle persone che fuggono una guerra, uno stato li deve garantire. E, per farlo, non basta di certo un tagliando del gratta e vinci...

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Musica “da strada”, rinasco dal buio Allevi: «Le mie note, un atto d’amore per il mondo. Contro critiche e depressione»

di Daniela Palumbo

«miLa fastrada pensare all’umanità vera, quella costretta ad affrontare i problemi con poche certezze. Anch’io ho vissuto a Milano in un piccolo monolocale senza un soldo in tasca

»

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Quando conosci Giovanni Allevi, non puoi fare a meno di notare che fra la sua musica e lui il passo è breve. Giovanni, in un certo senso, somiglia alle sue note. Nei suoi suoni ritrovi la spontaneità, la grande capacità di comunicare emozioni positive, un sorriso che contiene e trattiene (nonostante l’età, 44 anni, e il successo in continua espansione) lo stupore del bambino. Dentro la sua musica – soprattutto in Sunrise, l’ultimo lavoro, un inno alla speranza e alla rinascita interiore – trovi Giovanni. Allora cominci a domandarti se sia vero. Sarà vero lo stupore? Il sorriso accogliente di chi ascolta davvero chi gli sta di fronte? Giovanni Allevi, con le sue legioni di fan in tutto il mondo e 13 album all’attivo dal 1997, è un personaggio dello star system nostrano, o un uomo autenticamente dotato di una carica umana fuori dal comune? Avendolo incontrato, un’alba, il profumo di un cornetto col scegliamo la seconda. E anche il lettore, cappuccino, il sorriso di un bimbo. Altre forse, ne converrà. volte mi fisso su certi pensieri o melodie che mi girano continuamente in testa. Giovanni, ci hai detto che per te è un onore essere intervistato da Scarp, Insomma, dentro di me c’è abbastanza confusione, ma è per questo che scrivo anche perché senti un legame forte quella musica, gioiosa e positiva. Chiecon la strada. Per quale motivo? do a lei di portarmi via dal buio, per ragLa strada mi fa pensare all’umanità vegiungere una luce, che non è dentro di ra, quella costretta ad affrontare i prome. Solo al buio si vedono le stelle! blemi lontano dalla sicurezza, in continuo contatto col mistero delle cose. Andar via dalla mia piccola città di provinIl tuo ultimo lavoro è nato dopo un pecia, Ascoli Piceno, per inseguire da solo riodo di buio, tu stesso l’hai detto: il sogno a Milano ha coinciso, per me, musica che contiene una rinascita... con la scoperta della strada. Ho vissuto In passato il mondo della musica “colper molti anni in un piccolo monolocata” mi ha attaccato, con lo scopo di dale disordinato, senza un soldo in tasca, re all’esterno una diversa immagine di ma con il cuore gonfio di speranza. Da me. Ho vissuto la vicenda come una quel momento ho sentito un cambiaprofonda ingiustizia, ci sono stato mamento nella mia musica. le per due anni e poi ho preso atto che non potevo fare nulla contro questa subdola macchina del fango. Non riuSunrise in particolare, ma in generale la tua musica, esprime tanta gioia, scivo più a scrivere una nota, sono anuna gioia istintiva, solare, rara. Sei dato in depressione... finché un giorno così nel profondo? la musica è tornata nella mia testa, all’improvviso, come una cascata. È stata Io sono un ansioso. Ogni tanto sono lei a salvarmi. Ho vissuto una rinascita preso da un’improvvisa ansia, magari per un giudizio negativo, e perdo di vista interiore, che non è stata delicata o grale ragioni importanti dell’esistenza. Alduale, ma improvvisa. lora mi ripeto che devo cercare di riconoscere il miracolo che è intorno a me, La depressione ti ha fortificato? di non dare nulla per scontato; la luce di Sì. Oggi non esisterebbe il mio Concerto


testimoni L’artista

Notorietà planetaria

per Violino e Orchestra se non fossi passato attraverso quel periodo buio. E in quelle note è impressa la disperata ricerca di una luce, di una gioia di vivere rincorsa lungo tutto lo scorrere del brano. Credo di essere riuscito a superare il mio problema, quello del giudizio esterno. Oggi posso affermare con certezza che non cerco nessun prestigio, nessun riconoscimento, non voglio essere ricordato o essere elogiato per qualche merito, non voglio nemmeno la ricchezza; voglio solo scrivere la mia musica, che per me è un gesto d’amore verso il mondo. Questo è un modo di pensare “da strada”, diametralmente opposto alle logiche di palazzo nelle quali volevano richiudermi. Vivi in un universo di musica e suoni. Cosa è il silenzio per te? È una benedizione, una dimensione che oggi più che mai cerco. Non è solo una tela bianca su cui appoggiare le note, ma è molto di più, una condizione interiore di essenzialità. Significa fare piazza pulita di tutti i pensieri inutili che non ho voluto io, di tutte le battaglie in

cui sono stato trascinato controvoglia. Il silenzio è una condizione necessaria per ritrovare il vero me stesso. Hai affermato che conosci sulla tua pelle la fatica dell’emarginazione... Il vero artista è sempre emarginato, perché si propone il cambiamento di un sistema. Bisogna andar fieri delle proprie cicatrici interne, come fossero medaglie. Hai scelto di aiutare l’associazione Paideia, che promuovere progetti di solidarietà in favore di bambini. Riceverai tantissime richieste di impegno: non deve essere stato facile scegliere a chi donare il tuo tempo... È stata la e-mail del padre di un bimbo speciale a farmi decidere senza indugio. Io ho percepito che quel concerto al Teatro Regio di Torino, con il quale ho iniziato il mio impegno per Paideia, sarebbe stato per me l’occasione per entrare in contatto con l’umanità vera, quella che per forza di cose si è spogliata di tutti i pregiudizi, di tutto il superfluo in cui siamo avvolti. Moltissimi erano i bimbi speciali in sala, ancor di più i

Giovanni Allevi è compositore, direttore d’orchestra e pianista. Ha poco più di 43 anni, una laurea con lode in filosofia e due diplomi di Conservatorio, in pianoforte e composizione. Sul palco veste in jeans e scarpe da tennis, per sentirsi completamente se stesso: per lui contano le note, tutto il resto è superfluo. La sua discografia, che comprende numerosi lavori in studio, live, raccolte ed esecuzioni di brani classici, gli ha dato notorietà planetaria, confermata da numerosi tour ed esibizioni sui più grandi palcoscenici mondiali. Tra gli ultimi successi, la direzione delle proprie musiche, eseguite dalla China Philharmonic Orchestra nel concerto alla Città Proibita di Pechino durante le Olimpiadi 2008, il debutto alla Carnegie Hall di New York in apertura del tour americano e il concerto all’Arena di Verona in cui ha diretto la propria musica per orchestra sinfonica alla guida della “All Stars Orchestra” (compagine di 90 elementi scelti tra i virtuosi dei più importanti ensemble musicali del mondo), di fronte a oltre 12 mila persone. Sua ultima fatica è Sunrise, uscito a ottobre 2012 (Bizart - Sony Music).

genitori e gli operatori del settore, i volontari. Potevi toccare la sofferenza, la disperazione, con mano. Eppure non ho mai visto tanta gente così felice tutta insieme. Con il tuo lavoro raggiungi milioni di persone. Senti una responsabilità come artista e come uomo verso queste persone? Ho scelto di essere vicino alla gente, di mantenere vivo questo amore reciproco, allontanandomi dalla sicurezza di incarichi istituzionali. Quindi la vicinanza di chi mi segue è il mio bene più prezioso, tutto ciò che ho. Spero di continuare a meritarla.

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milano Non solo Milano: anche i centri minori, soprattutto in inverno, devono dare risposte agli homeless. I casi di Lecco, Monza, Rho

Fa freddo pure in provincia... Como Tendone a Sant’Abbondio, l’inverno è meno pesante Torino Centro diurno, Caritas fa spazio alle relazioni Genova L’Ospedale dei pupazzi, contro paure e sprechi Vicenza Istituita la residenza fittizia: si riparte da via Bakhita Modena Poveri al portone, l’amicizia si fa pane Rimini La casa, un diritto? Oggi è un’emergenza... Firenze Ho conosciuto un Uomo, il suo nome è Ahmed Napoli Gente di talento, Gino artista della pizza Salerno Il degrado è alle spalle, la movida non basta Catania Gesù sotto sfratto, nasce dentro l’automobile

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di Francesco Chiavarini In genere sono le grandi città a calamitare il disagio più grave. Secondo il primo censimento della popolazione homeless, concluso nel 2012 da Istat, Fio.psd, Caritas Italiana e ministero del welfare, Milano è la prima città in Italia per numero di senza tetto. Supererebbe addirittura Roma, in quanto fulcro e polo di attrazione di un’area metropolitana di 6 milioni di abitanti. Tuttavia (benché Roma e Milano calamitino, da sole, il 44% delle persone senza dimora che in Italia ricorrono a servizi di accoglienza e sostegno, pubblici o privati che siano) il fenomeno della grave emarginazione, documenta sempre la ricerca, è diffuso anche ben oltre i confini metropolitani e sempre più spesso si manifesta in realtà di provincia. Poco attrezzate per offrire risposte all’altezza. È risaputo che chi vive per strada ospiti la sera, offrono loro té e caffè, li inspesso si sposta dai centri minori nella trattengono. Qualcuno si ferma anche a grande città, non solo attratto dalla prodormire: grazie ai volontari, l’accoglienspettiva di poter campare di espedienti za assume un’anima. Non solo. L’ostello, con maggiore facilità, ma anche perché gestito dalla Caritas locale, è pienamennelle cittadine minori mancano i servite inserito nella rete di assistenza dei zi di base (dormitori, mense, docce, servizi sociali pubblici e del privato sosportelli sociali) che costituiscono una ciale. Chi vi entra, viene monitorato e rete essenziale di sopravvivenza. D’inaccompagnato. Non solo riceve ospitaverno, in particolare, quando non si può lità, ma viene segnalato ai servizi sociafare a meno di un posto letto al caldo, anche se in uno stanzone insieme a tanAccoglienza strutturata ti altri, allora il trasloco s’impone. Da Operatori al lavoro nel rifugio Caritas qualche tempo, tuttavia, nell’area meallestito a Lecco tropolitana milanese e fino ai margini nei locali della parrocchia più esterni della Grande Milano, anche di San Nicolò i piccoli centri si stanno attrezzando per dare riposta al bisogno di accoglienza dei cittadini in difficoltà.

La prima volta di Lecco A Lecco, per la prima volta quest’anno, ha aperto i battenti un ricovero notturno nei locali della parrocchia di San Nicolò, proprio per i mesi invernali. L’ostello dispone di 22 posti (4 riservati alle donne). Si entra alle 20 e si esce alle 8 di mattina. Oltre al letto, gli ospiti hanno a disposizione docce e mensa. Il personale che fa funzionare la struttura è composto da due soli operatori, due custodi notturni. Il resto è affidato ai volontari, 60 persone, che accolgono gli


scarpmilano li del comune o al centro di ascolto della Caritas. «Per la verità un piano antifreddo per i senza tetto esiste da tre anni – spiega il responsabile della Caritas zonale di Lecco, don Ettore Dubini –. Si è cominciato con semplici tende, poi lo scorso anno con dei container. Ora grazie alla parrocchia, che ha messo a disposizione locali riscaldati, possiamo finalmente offrire una riposta più adeguata che, benché limitata al periodo invernale, non ha le caratteristiche provvisorie dell’emergenza». L’intervento, voluto dall’amministrazione comunale, ha anche un costo piuttosto contenuto per l’ente pubblico. Dei 20 mila euro necessari per coprire il servizio, esteso dal 1 dicembre al 31 di marzo, appena un quarto viene dalle casse del comune. La parte rimanente della cifra è stata raccolta da fondazioni bancarie e donatori privati. Insomma, anche sotto questo aspetto, un esempio virtuoso, in epoca di tagli al welfare. Gli utenti, per metà stranieri e per metà italiani, sono persone già seguite dagli assistenti sociali e dagli operatori di Lecco. Gente, che in mancanza di alternative, di notte trovava un riparo d’emergenza, entrando di nascosto nell’ospedale cittadino, oppure si trasferiva e cercava accoglienza a Milano.

A Monza accolte anche le donne A Monza, invece, i senza tetto fanno il

viaggio inverso: da Milano arrivano. «Almeno la metà dei nostri utenti – commenta don Augusto Panzeri, responsabile della Caritas cittadina –, è costituita da gente che non trova risposta ai propri bisogni nella grande città. Se è vero che Milano offre molti più servizi, è anche vero che nel capoluogo la concorrenza fra gli ultimi per accaparrarseli è sempre più serrata». Per questo Monza da anni, durante l’inverno, allestisce una tensostruttura per dare un riparo per la notte a chi, diversamente, starebbe all’addiaccio. Quest’anno l’accoglienza è stata potenziata ed estesa per la prima volta anche alle donne, grazie ai lavori di restauro che hanno consentito di riaprire il vecchio centro per immigrati di proprietà del comune in via Spallazani, adiacente al tendone riscaldato utilizzato finora solo per gli uomini. I posti disponibili, complessivamente, sono una trentina. I senza tetto, maschi e femmine, entrano alle 20 ed escono alle 8 di mattina. Hanno a disposizione un letto e un servizio docce. L’intervento è finanziato dal comune e gestito dalla Croce Rossa. Collaborano realtà del solidarismo cattolico, la Caritas e la San Vincenzo, e associazioni laiche, come i City Angels.

A Rho un po’ meno invisibili Come a Lecco, anche a Rho un vero e proprio piano antifreddo è stato varato dall’amministrazione comunale solo quest’anno, dopo un primo esperimento molto parziale, durante l’inverno scorso, quando il freddo polare e le nevicate di metà febbraio costrinsero il comune ad aprire di corsa il seminterrato di un edificio di sua proprietà all’interno della cittadella sanitaria di via Cividale e a sistemarvi, alle bell’e meglio, qualche letto. Questo inverno, invece, l’ammini-

strazione comunale ha giocato d’anticipo e prima dell’arrivo del grande freddo ha scelto esplicitamente di potenziare i servizi per i senza dimora, proprio per il periodo invernale, estendendo la mensa non solo alla fascia diurna ma anche a quella serale, e aprendo il ricovero notturno dal mese di dicembre fino a febbraio. Sul piatto ha messo 15 mila euro e ha sottoscritto una convenzione con la cooperativa “Intrecci”, promossa da Caritas, che già dagli inizi degli anni 2000 si occupa di senza dimora, gestendo durante tutto l’anno la mensa, le docce e un servizio di accompagnamento sociale. I posti a disposizione nel ricovero sono 14. E non vi sono liste di attesa. Segno di un’offerta, almeno per il momento, dimensionata alla domanda. «Naturalmente, i senza dimora non sono una novità per la nostra cittadina. – osserva Oliviero Motta, vicepresidente della cooperativa “Intrecci” e in passato anche assessore sociale a Rho –. I gravi emarginati costretti a passare la notte sotto le stelle d’inverno ci sono sempre stati. Fino ad oggi, però, non si era pensato di strutturare un servizio specifico e di emergenza, perché i senza dimora in provincia sono, paradossalmente, ancora più invisibili che nella grande metropoli. Questo perchè non occupano gli androni dei palazzi, le stazioni, i portici del centro, come a Milano, ma generalmente si disperdono nelle fabbriche abbandonate, nelle aree dismesse, o in luoghi distanti dal centro abitato, danno meno nell’occhio. Ai cittadini capita meno di frequente di scorgerli e, dunque, la percezione generale che se ne ha è meno diretta. Ma sono anche meno visibili in senso lato: gli amministratori pubblici hanno a lungo ritenuto che fossero una realtà tipicamente metropolitana, quasi, mi si passi il paragone, una componente del paesaggio urbano propria della grande città. È uno stereotipo largamente diffuso. Un fraintendimento che fa anche comodo coltivare, perché solleva gli amministratori dei piccoli centri dalla responsabilità di farsi carico anche di queste persone. Invece non è così. A Rho e nei comuni circostanti stiamo cercando far crescere una consapevolezza nuova. E proprio l’intervento di quest’anno mi pare un segno incoraggiante di un mutato atteggiamento».

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Si chiamano “operatori pari”, sono senza dimora che operano per aiutare altri senza dimora. E intanto provano a farsi una nuova vita

Cinque “pari”, in strada senza distanze di Simona Brambilla Cinque uomini, tre italiani e due stranieri, con un duro passato da senza dimora: sono i protagonisti del progetto “Attraverso la strada”, percorso di formazione sperimentale per “operatori pari” (figure sociali, chiamate a occuparsi di soggetti, di cui condividono o hanno condiviso la condizione) a favore di persone in situazione di grave emarginazione, promosso dal comune di Milano e dalla cooperativa “Comunità Progetto”. Sono uomini forti, che hanno saputo affrontare a testa alta le difficoltà che la vita ha messo loro davanti, e che oggi aiutano persone che, come loro, vivono in strada. «Il progetto, consistito in un percorso di formazione e inserimento lavorativo come “operatori pari”, è partito nel novembre 2011 ed è terminato un anno dopo», spiega Lorenzo Marasco, responsabile dell’iniziativa per Comunità Progetto.

Ahmada, una vita avventurosa Le storie che i cinque protagonisti hanno alle spalle sono tra loro molto diverse: c’è chi soffre di disagio psicologico, chi è stato profugo e clandestino per anni, chi ha voluto scappare da una realtà quotidiana che gli stava stretta. Ahmada, per esempio, è un quarantaquattrenne libico che vive in Italia da dieci anni. «Sono laureato in economia e finanza – spiega in un italiano ancora un po’ incerto –; ho lavorato per anni presso la Libyan Central Bank e con British Petroleum. Nel mio paese però non stavo bene, Gheddafi e il regime non lasciavano libertà e io avevo problemi in famiglia. Così il 14 luglio del 1997, era un martedì, lo ricordo bene, ho deciso di partire». Ahmada non venne subito in Italia; per problemi relativi al visto rimase un anno in Tunisia, paese in cui trovò un lavoro, anche se in nero, per poi trasferirsi a Malta. «Sono rimasto sull’isola cinque anni – continua – e ho imparato benissimo l’inglese. Mi piaceva Malta, ma purtroppo lì è molto difficile riuscire a fare i documenti, l’unico modo è sposare una maltese». Così Ahmada è ripartito, alla volta di Lampedusa. «Abbiamo fatto il viag-

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gio in mare di notte, ma la mia non era una carretta del mare come quelle che si vedono oggi in televisione, era una barca in buono stato ed eravamo solo 12 persone. In Italia siamo subito stati trattati benissimo, soprattutto noi libici; in quel periodo infatti c’erano buoni rapporti economici tra i due paesi». Ahmada si è spostato poi in Francia ma, ancora una volta, ha dovuto andarsene a causa dei documenti. «Nel 2002 sono tornato in Italia, a Cuneo – prosegue –, dove ho vissuto per sette anni nella Comunità Emmaus e dove sono riuscito a ottenere asilo politico». Infine è giunto a Milano ed è proprio nella capitale lombarda che ha conosciuto la vita in strada. «Nel novembre 2009 sono arrivato qui con la speranza di trovare un lavoro. La maggior parte delle notti le passavo da solo nella stazione di Lambrate. Un giorno sono riuscito a entrare nel centro di viale Ortles e lì mi si è aperto un mondo. Ho incontrato un’assistente sociale del comune, che mi ha spinto a partecipare a questo progetto. Sono stati mesi molto belli, facevamo lezione in classe e lavoro in strada con gli educatori. Ho inoltre instaurato un bellissimo rapporto con i miei compagni e con le persone che ho

incontrato in strada, perché hanno condiviso la loro vita con me». Ahmada oggi ha una borsa lavoro per operatore pari in città e sta seguendo un corso di italiano al Ctp (Centro territoriale permanente) di via Oglio. Di notte torna ancora al dormitorio, ma ha dentro una grande forza, che lo accompagna in ogni nuova esperienza. Come lui, anche gli altri protagonisti del progetto “Attraverso la strada” stanno cercando di inserirsi nel mondo del lavoro per ricostruirsi una vita.

Angelo ha scelto di accogliere Angelo ha una borsa lavoro in un dormitorio. «Il mio compito è accogliere le persone, controllare gli ingressi e gestire il momento dei pasti – spiega –. Questo progetto mi ha cambiato la vita, ho imparato a conoscere meglio me stesso e ad aiutare gli altri». Angelo viene da una ricca città del nord Italia, è a Milano dal maggio 1997 e ha vissuto in strada per molti anni. «Il culmine della difficoltà l’ho vissuto proprio qui, perché non sapevo dove appoggiarmi, soprattutto i primi mesi. Non ho avuto nessuno che in quel periodo mi abbia sostenuto, ho dovuto fare tutto da solo, chiedendo in giro quali fossero i centri in cui potevo andare per mangiare, dormire o lavarmi». Angelo ha scelto volontariamente di seguire questo progetto e va fiero di avere portato a termine con successo il percorso formativio. «So come ragiona l’“utenza”, quindi posso essere d’aiuto. Anche se in realtà è l’utente, ovvero la persona senza dimora stessa, che si aiuta davvero, nel momento in cui apre a noi operatori una piccola porta del suo mondo».

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Il progetto

“Attraverso la strada”, formazione e riscatto Il progetto denominato “Attraverso la strada” consistente in un percorso di formazione e inserimento lavorativo di “operatori pari”, individuati tra le persone senza dimora. «Il progetto è partito a fine 2011 su input del comune di Milano, che voleva costruire questa nuova figura d’aiuto – spiega Lorenzo Marasco, responsabile della cooperativa Comunità Progetto, che ha realizzato e gestito “Attraverso la strada” –. Inizialmente c’erano circa 40 candidati, ma dopo un lungo percorso di selezione ne abbiamo scelti prima dieci e infine cinque, tre di nazionalità italiana e due stranieri». Il progetto è stato suddiviso in due segmenti ed è durato un anno, durante il quale sono state attivate per ogni persona due borse lavoro. Nel primo trimestre erano previste nove ore di formazione alla settimana: tre in aula, tre in strada (durante le quali ogni borsista era affiancato da un educatore), mentre nelle tre ore rimanenti erano programmante visite a servizi socio-sanitari, pubblici e del privato sociale, che si occupano di grave emarginazione. «Nel secondo trimestre è stata prevista una giornata di attività in più – continua Marasco –: l’aula è diventata un luogo in cui riflettere sul tirocinio, mentre è stata mantenuta l’attività di visita a servizi. In ogni caso, i borsisti hanno dovuto interagire con chi vive in strada,

insieme a un educatore-tutor che li affiancava. Nell’ultimo mese invece sono usciti da soli o in coppia. E hanno fatto un altro tirocinio integrativo nei dormitori del comune di Milano e nel centro di prima accoglienza di via Ferrante Apporti». Oggi i protagonisti di questo progetto sperimentale, alla luce di tutte le competenze che hanno acquisito e della loro personale presenza in strada, stanno cercando di inserirsi in modo definitivo nel mondo del lavoro. Tre dei partecipanti stanno lavorando grazie a borse lavoro, finalizzate a ottenere un contratto di assunzione. La strada, per loro, sta diventando un luogo di lavoro e riscatto, non dal quale riscattarsi.

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Il Labanof, struttura dell’Università Statale, si occupa di cadaveri non identificati. È l’estremo approdo di molte storie difficili, vissute sulla strada

Il laboratorio dei morti senza nome di Maria Chiara Grandis Una lapide, con su scritto “Sconosciuto”. Così, nei cimiteri dell’hinterland, riposano i morti di cui non si conosce l’identità, e che sono stati trovati a Milano e dintorni. Ogni anno i medici legali del Labanof, laboratorio di antropologia e odontologia forense dell’Università Statale, si trovano alle prese con – in media – cinquanta persone a cui dare un nome. Ma alcune di loro non lo avranno mai, perché non saranno identificate: un destino che spetta a quattro o cinque uomini e donne ogni dodici mesi. Non ci sarà nessuno a piangere la loro morte sulla tomba, a portare fiori, a dire una preghiera. E chi li ha visti sparire nel nulla, da un giorno all’altro, continuerà a cercarli senza risultato. L’ultima vittima senza nome, a Milano, è un homeless settantenne trovato morto in centro, in un giardinetto di Brera. Non aveva con sé nulla di utile a identificarlo. Di solito muore così chi ha se, dalle baracche, dai campi. Solitagià sperimentato l’anonimato in vita: mente vengono portate in obitorio peruomini senza dimora né documenti, di ché la salma è sotto l’interesse dell’aucui i compagni di cartone ignorano il torità giudiziaria, che ha aperto un’innome; prostitute delle quali nessun dagine per stabilire la causa della morprotettore denuncerà la scomparsa te; in caso contrario, il caso viene dalla strada, dove si fanno chiamare archiviato. «Più di 70 persone, sopratMary o Patty; migranti arrivati qui da tutto uomini, ad oggi non sono ancora chissà dove, sui barconi o nascosti nei state identificate – stima Cristina Cattir, e costretti alla clandestinità. I tecnitaneo –. I loro volti sono sul nostro sito ci del Labanof ci provano, a restituire proprio per questo motivo». loro identità e dignità. Addirittura pubblicando i loro volti sul sito del laboraAlla scoperta del Labanof torio: www.labanof.unimi.it. La procedura è standard e la spiega Da«Il laboratorio è nato nel 1995 a scovide Porta, che al Laboratorio è l’esperpo di ricerca, ma dopo poco ci siamo to di ricostruzioni facciali. «Quando arresi conto che qui, dove si eseguono riva un corpo da identificare, i medici circa 800 autopsie all’anno, c’era un aprono una scheda, su cui vengono segrosso problema, anagrafico e sociale: gnalate le caratteristiche della persona. quello delle persone non identificate – L’autopsia, se necessaria, completa le spiega Cristina Cattaneo, ricercatrice, informazioni». antropologa forense e medico legale In generale, se lo sfortunato è inseche dirige il Labanof –. Fino a oggi ci rito in una rete di relazioni sociali, nel siamo occupati di circa 500 accertagiro di una ventina di giorni viene cermenti e siamo riusciti a identificare cato e trovato. Passato questo periodo, l'80% delle persone che sono passate di le ore diventano mesi e poi anni. E a un qui. I senza nome sono quasi sempre certo punto si deve pure procedere aluomini o donne esclusi dalla società. la sepoltura. «Se ci sono indagini in corLa metà di loro è straniera». so è necessario il nullaosta del magiQueste persone arrivano al laborastrato e in genere i tempi dipendono torio dalla strada, dal carcere, dalle caanche dal comune. Quelli grandi come

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Milano, che su questa causa ci sostiene, ci lasciano più tempo per evitare la riesumazione, se qualcuno si fa avanti dopo un po'. Ma solo tre o quattro casi sono stati risolti a distanza di anni». Sul sito del Labanof molti fra i volti senza nome sono solo riproduzioni di quelli reali, messi on line insieme ai dettagli utili al riconscimento della persona, come tatuaggi, abiti e oggetti. «Se il corpo è conservato male, studiamo le ossa per ricavare il numero maggiori di informazioni. Poi si procede a una ricostruzione del volto trasferendo le notizie ottenute, che compongono il profilo biologico, in un’immagine reale. Questo perché per i riconoscimenti è utile vedere le facce, che fra l’altro pos-


scarpmilano sono essere pubblicate sui giornali e passare in televisione, ad esempio in trasmissioni come Chi l’ha visto della Rai».

Sulla strada senza nome «La difficoltà più rilevante finora è stata incrociare i dati degli scomparsi con l’elenco delle persone decedute cui non è stata ancora attribuita un’identità – spiega Cattaneo –. Dopo anni di battaglia insieme a Penelope (Associazione nazionale famiglie e amici delle persone scomparse), siamo riusciti a fare approvare al parlamento una legge che prevede la creazione di una banca dati, in fase di realizzazione, che permetterà il matching. Ma questo non basta per identificare chi muore solo, ai margini della società e senza documenti, perché raramente viene denunciata la scomparsa di queste persone». Ancora, c’è il problema della diffusione delle immagini. «È possibile, anche se non è bello, e i magistrati a volte la sollecitano per risolvere un caso. Ma spesso si fa fatica a ottenere visibilità: magari capita che una donna viene trovata in un lago, come quello di Lecco. Se non si riesce a far arrivare la notizia oltre la provincia è difficile capire chi sia o trovare qualcuno che la conosce. Ecco perché serve fare informazione sui canali che sono a contatto con le realtà dell’emarginazione».

Cacciatrice di identità La homepage del sito del Labanof. Nel riquadro Cristina Cattaneo, ricercatrice, antropologa forense e medico legale. Ma anche scrittrice con quattro libri all’attivo

Il progetto

Mille cadaveri ignoti all’anno, difficile identificare i profughi Ogni anno in Italia scompaiono circa 24 mila persone e vengono ritrovati circa mille cadaveri sconosciuti. Ma la stima è ritoccata per difetto secondo gli esperti, come Cristina Cattaneo, che sull’attività del Labanof ha scritto il libro Morti senza nome. Il fenomeno inoltre, pur essendo diminuito negli anni, potrebbe aggravarsi ora con il crescere dei flussi migratori, soprattutto dopo le guerre civili del Nord Africa. «Non esistono censimenti di cadaveri non identificati a livello europeo, nemmeno nei paesi più evoluti – spiega Cristina Cattaneo –, evidentemente si tratta di un problema che interessa poco a livello politico. Ne parleremo con la Croce Rossa internazionale, che in questo periodo viene contattata da comitati di parenti di migranti che non hanno più notizie del figlio che ha lasciato la Libia per l’Italia o la Spagna, ad esempio. Temono che i loro cari siano morti per strada, ma non sanno cosa fare per ritrovarli». Per i profughi la situazione è ancora più grave che per gli homeless italiani. «Chi perde la vita a bordo dei barconi non viene schedato, perché è difficile stabilire chi se ne debba occupare. Spero che presto i casi di questo tipo vengano trattatti come tutti gli altri, per non creare morti di serie A, B e Z». Altro problema che ostacola le indagini dei tecnici del Labanof sono gli alias, le false identità. «Chi non ha documenti di solito rivela la propria con un’autocertificazione, se viene fermato dalle forze dell’ordine. Ma quel nome spesso è di fantasia e non corrisponde a quello presente nelle banche dati del comune o del paese di origine, ammesso che si riesca a verificarlo, dal momento che molti stati, soprattutto quelli dove sono in corso guerre, non riescono a farsi carico del problema».

Qualche lieto fine Sugli scaffali dell’archivio del Labanof sono allineati scatoloni grigi numerati, con etichette rosse. Lì riposano resti ossei, scheletri non identificati o mai reclamati di persone fra i 16 e i 70 anni, in una sorta di continuità fra morti e vivi. «Affezionati a loro? Il termine certo è particolare, ma in effetti è così... Alcuni sono con noi dall’inizio della nostra attività», spiegano i medici legali. Ogni tanto, nei sotterranei dell’università, si presenta qualcuno che riconosce una faccia sul sito, così si riattiva la procedura per verificare l’identità dello scomparso. «É il caso di Skoklev, homeless bulgaro morto carbonizzato in una baracca alle porte di Milano. Grazie al passaparola i suoi amici l’hanno cercato all’obitorio, attendendo di fronte all’ingresso la notizia della sua identificazione per giorni, fermandosi a pranzo sulla soglia, portando scatolette di tonno... – racconta Cristina Cattaneo –. La moglie e i figli hanno fornito il dna per le verifiche: combaciava. Il problema era come portare la salma in Bulgaria, dato che nessuno poteva pagare. Un giorno abbiamo visto arrivare gli amici di Skoklev con una vecchia au-

to station wagon adibita a carro funebre, ma ovviamente il mezzo non era a norma. È stato il comune di Milano a darci un mano, suggerendo la cremazione del defunto, per procedere al trasporto della salma». È anche il caso di Viola, prostituta ventenne trovata morta dopo anni dalla scomparsa: era sepolta in un bosco del varesotto. Dopo l’autopsia, la ricostruzione dei lineamenti della giovane kosovara e la divulgazione delle immagini, ecco un giorno arrivare Anna in obitorio. «Era l’amica di strada, che nel frattempo si era rifatta una vita, ma che aveva voluto riaprire la porta del passato per restituire l’identità a Viola – ricorda l’antropologa –: questa donna ci ha insegnato l’umanità». Forse chi ha ucciso Viola resterà impunito e sicuramente la famiglia di Skoklev non potrà più parlargli, ma per loro qualcuno si è fatto avanti. Le loro storie non saranno dimenticate. «Restituire a una persona la propria identità è di fondamentale importanza non solo sul piano giuridico, ma soprattutto etico e morale – è la conclusione degli antropologi del Labanof –: la nostra identità è quanto di più caro abbiamo».

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Abbiamo seguito due “ghisa”, durante il turno in zona Ripamonti. Sicurezza, ma anche ascolto dei cittadini, per migliorare la vivibilità

Vigili a due ruote custodi del quartiere di Sandra Tognarini foto di Stefano Merlini Non chiamiamoli più vigili urbani. La polizia locale non si occupa soltanto di traffico, ma di molto altro. Soprattutto in una metropoli come Milano, dove sono 350 gli agenti che, distribuiti su quattro turni giornalieri, pattugliano i quartieri. Gli agenti Francesca Corona e Marco Cuppone si occupano del quartiere Ripamonti (copre solo in parte l’omonima via, che si sviluppa infatti anche nei quartieri Scalo Romana e Bocconi, ndr). Il territorio di loro competenza va sulla direttrice nord-sud, dall’incrocio tra le vie Ripamonti e Quaranta al capolinea della linea 24 in via Gaggini, e da ovest a est tra via Antonini e via Bazzi. Malgrado via Ripamonti sia una strada molto trafficata e con un’alta densità di esercizi commerciali, il resto del quartiere è a carattere residenziale, abitato per lo più da anziani. I turni di pattuglia dalle 7 alle 13.45 e dalle 13.15 alle 20 vengono svolti da di notte, per maggiore sicurezza, da tre. due agenti in bicicletta, per favorire il contatto con i cittadini: si è così svilupL’importanza di ascoltare pato tra il quartiere e la polizia locale Il percorso degli agenti Corona e Cupuna fiducia che si basa sul rapporto copone serve anche a raccogliere i reclastante, con quattro agenti che si altermi quotidiani. «Ogni giorno c’è un po’ nano tra mattina e pomeriggio. Dalle di tutto – raccontano –; si va dalla se17.30 alle 0.15 e dalle 23.45 alle 7.30 di gnalazione di buche pericolose in stramattina viene invece usata l’auto, ocda, a quelle di cartelli rotti, imbrattati o cupata nel turno serale da due agenti e danneggiati, di auto o moto abbando-

nate, della presenza di cani randagi o di rumori molesti nel corso della notte. E poi emergono pure le difficoltà di tipo sociale: problemi familiari, liti tra cittadini, controversie condominiali...». La pattuglia si muove armata e, avendo anche la funzione di pubblica sicurezza (può infatti procedere all’arresto), il raggio di intervento arriva fino all’omicidio escluso (dove è ovviamente necessario chiamare la Polizia o i Carabinieri). In dotazione, un palmare in grado, per esempio, di dare agli agenti (con un download in tempo reale) i dati sulla proprietà di un immobile o di un mezzo di trasporto, e in upload di trasmettere alla centrale operativa, per lo smistamento di competenza, immagini e rapporti su reclami e denunce. «Il nostro lavoro non è per niente noioso», chiosa Francesca Corona.

Presenza che da sicurezza Basta allontanarsi da via Ripamonti, entrando nelle strade secondarie del quartiere, e pare quasi di non essere più in città. Il traffico sparisce all’improvviso, i rumori si attenuano e l’atmosfera è quella di un piccolo paese di provincia. A creare questa oasi di tranquillità è anche la giornata di sole che incoraggia a uscire di casa e a frequentare i molti giardini pubblici della zona. «In via dei Guarneri – raccontano gli agenti – in occasione del mercato ambulante di ogni venerdì (non festivo) assicuriamo un presidio costante dalle 9 alle 13. La nostra presenza serve da deterrente per impedire furti, fornire informazioni e ricevere segnalazioni da parte dei cittadini». Un’altra presenza importante degli agenti nel territorio è quella all’entrata

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I pattugliamenti

Presenza capillare: 111 mila le vie percorse in un mese

Vicinanza e ascolto Alcuni momenti della “giornata” dei vigili di quartiere in servizio in zona Ripamonti

Da un’indagine promossa dal comune di Milano, i cui risultati sono stati diffusi a novembre, è emerso che sono 5.570 le strade percorse in una settimana dagli agenti di quartiere che operano nel capoluogo. Delle 4.194 vie della città, 1.100 sono percorse almeno una volta alla settimana e, di queste, 317 almeno una volta al giorno; in un mese, si tratta di più di 111.400 vie percorse. Il 22 novembre 2010, 183 vigili di zona avevano presidiato solo 183 località tra vie, scuole, luoghi strategici. Lo stesso giorno del 2012, i 240 agenti di quartiere in turno hanno presidiato ben 1.114 strade, numero a cui si aggiungono 110 scuole oltre a mercati settimanali scoperti e altri luoghi. Dallo scorso 29 ottobre, è attivo un database per monitorare percorsi e attività che impegnano ogni giorno gli agenti in servizio nei quartieri. Per esempio, dal 19 al 23 novembre sono stati censiti 14.525 interventi di viabilità e sicurezza stradale (come la rimozione di cartelli divelti e gettati in strada e il riscontro di anomalie di esecuzione di lavori stradali); tra questi, 548 per divieto di sosta. Sono invece stati 1.278 gli interventi per altre cause (animali abbandonati anche all’interno dei veicoli, fughe di gas o incendi, danneggiamenti di marciapiedi e semafori, inquinamento delle acque pubbliche, ecc). Nella stessa settimana sono state 989 le azioni dedicate alla qualità urbana: presenza irregolare di ambulanti, attività commerciali irregolari, anomalie e danneggiamenti di verde pubblico, aree giochi, aree cani, occupazione abusiva di suolo pubblico, abbandono di rifiuti, veicoli abbandonati. Inoltre nella settimana presa in analisi sono stati effettuati 208 controlli su veicoli rubati e aree dismesse e allontanamenti di persone moleste, mentre 194 controlli sono stati dedicati ad allarmi in strada e in appartamenti, oltre a dispute condominiali. Con l’obiettivo di informare i cittadini in merito alle funzioni e all’attività degli agenti di quartiere, è iniziata nelle scorse settimane una campagna di informazione in consigli di zona, biblioteche comunali, centri di aggregazione giovanile, centri di aggregazione multizonale e sul sito del comune.

e all’uscita degli alunni dall’istituto “Morante”, all’incrocio tra via Antonini e via Verro. In caso di assenza degli agenti in bicicletta, la polizia locale garantisce il solo servizio di sicurezza stradale. Proprio via Verro è la “sorvegliata speciale” del quartiere Ripamonti. Oltre la vigilanza quotidiana, gli agenti in bicicletta assicurano la loro presenza al locale centro sociale Cam, il primo e il terzo mercoledì del mese (esclusi i festivi), dalle 17.30 alle 19, per ricevere segnalazioni dai cittadini e fornire informazioni. Di notte, poi, la via viene controllata con molta frequenza dalle pattuglie, perché è stata teatro di varie rapine ai danni di chi stava rientrando a casa.

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l’altra milano Dopo vent’anni di lavoro, si è ritrovato in strada. Ma non ha mai mollato

Pietro tra salite e discese «Il mio collocatore puoi essere tu» di Antonio Vanzillotta

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O INCONTRATO PIETRO PER CASO IN UNA FREDDA MATTINA DI DICEMBRE, A MILANO. Mi ha

colpito perché sembrava un tipo qualunque, ma stava inginocchiato per terra. Accanto a lui un cartoncino, con su scritto: “Sono in difficoltà cerco un lavoro ma è impossibile. Aiutatemi grazie. Cell. 3457829287”. Pietro ha 60 anni ed è arrivato dalla Romania in Italia nei primi anni Novanta. Al suo paese era un perito meccanico, lavorava nelle fabbriche di stato e non ha avuto problemi, in quegli anni, a trovare un lavoro analogo in Italia. Nel frattempo si è sposato con un’italiana che aveva già due figlie in tenera età, diventate subito sue. Per vent’anni la sua vita è filata via liscia e tranquilla. «I primi problemi – racconta – sono arrivati quando mia moglie, dipendente Enel, è andata in pensione. È cambiata, non la riconoscevo più. Pensavo fosse solo un po’ di depressione, ho cercato di non dare peso ai suoi comportamenti». Ma i problemi veri sono arrivati alla fine dell’estate 2007, quando l’azienda per cui lavorava ha messo Pietro in cassa integrazione e poi, a fine anno, ha chiuso definitivamente. «Dopo il licenziamento il rapporto familiare è andato letteralmente in frantumi – racconta Pietro –. Dopo la separazione consensuale, il giudice mi ha intimato di lasciare casa, quella stessa casa che avevo contribuito a comprare e arredare...». Il giudice ha stabilito cha la moglie deve passare a Pietro 500 euro al mese. Ma di quella cifra Pietro non ha mai visto il becco di quattrino: come ha messo piede fuori dalle mura domestiche, la ex moglie ha venduto la casa e ha fatto perdere le sue tracce. Pietro non si è abbattuto: ha trovato alloggio da amici, che lo hanno aiutato con qualche lavoretto in nero. Purtroppo la morsa della crisi stringe ovunque, così alla fine Pietro si è ritrovato in strada. «Ho iniziato a bivaccare in parchi e giardini – racconta –, ma la vita di strada è dura, non riuscivo ad abituarmi. Grazie a un amico romeno ho trovato posto in un dormitorio e ho conosciuto il “giro” delle mense. Almeno così ho vestiti puliti e un letto vero per dormire. Ho sempre cercato lavoro, ma non si muove una foglia» racconta l’uomo con un sorriso: nonostante le traversie vissute, è rimasto sempre positivo e non si è lasciato sedurre dall’alcol. «Ho la fedina penale immacolata – prosegue Pietro –, ma alla mia età in fabbrica non mi prendono più. Però sono forte e paziente, ho la patente, un lavoro come badante mi andrebbe più che bene. Ho tanti amici per strada, sono loro che mi hanno salvato la vita insegnandomi a sopravvivere. Il mio motto? “Dopo una salita c’è sempre una discesa”». E quando non trova un lavoretto, Pietro si inginocchia davanti ai bastioni di Porta Venezia, nei pressi di una banca, e con un filo di ironia, ben vestito, espone il suo documento italiano e un cartello con il numero di telefono perché – dice lui – «il miglior collocatore sei tu, dato che gli uffici dell’impiego sono pieni di disoccupati».

Ho tanti amici in strada, tra i senza dimora: sono stati loro che mi hanno salvato la vita, insegnandomi a sopravvivere

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latitudine como Ricovero per homeless fino al 31 marzo, grazie a comune e associazioni

Sant’Abbondio bis, l’inverno sotto il tendone è meno duro di Salvatore Couchoud

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ENDONE DI SANT’ABBONDIO, SI REPLICA. Nel rispetto di un copione già collaudato e

della logica di un intervento che lo scorso anno, oltre a garantire risultati di estrema efficacia, si segnalò per la buona collaborazione tra istituzioni e associazioni di volontariato. E ora, proprio nel solco di quella felice esperienza, dal primo dicembre la tensostruttura montata dagli operatori del distaccamento comasco della Croce Rossa Italiana accoglie ogni notte una trentina di homeless, in gran parte uomini, i quali, fino al 31 marzo, possono dormire al caldo e tenere lontano per qualche tempo, accanto ai malanni di stagione, quegli inossidabili nemici del senza dimora che si chiamano isolamento e solitudine. «A giudicare dalle richieste, tempestive e in qualche caso addirittura veementi, che abbiamo sinora ricevuto dalle persone che vivono la strada per essere accolte nel tendone – racconta il commissario provinciale della Croce Rossa Italiana di Como, Matteo Fois – l’indice di gradimento dell’esperimento della passata stagione è stato davvero altissimo, e di questo non possiamo che congratularci con noi stessi. Dove per “noi stessi” non intendiamo il personale di Cri, ma i rappresentanti delle diciassette associazioni –tra le quali Caritas, Incroci, la Piccola Casa Ozanam, gli Alpini e varie sottounità della Protezione civile – che si sono attivate anche quest’anno, garantendo il consueto preziosissimo apporto in termini di dinamismo e di entusiasmo. Ma stavolta è d’obbligo un ringraziamento particolare per il prefetto Michele Tortora, che ha creduto nel progetto e gli ha assicurato il suo patrocinio, come pure all’Università degli studi dell’Insubria, che ci ha appoggiati con una generosità che ha dell’incredibile». Se infatti il programma del secondo atto del tendone non contempla novità eclatanti rispetto a quanto messo in pratica nel 2011, ciò deve essere considerata come una semplice e diretta emanazione della necessità di proseguire l’esperimento senza bisogno di emendamenti e correttivi. Anche sotto il profilo economico, quello che in genere fa risuonare le dolenti note in operazioni di questo tipo, non dovrebbero sussistere difficoltà di particolare rilievo per questa stagione. «Ci siamo comunque mobilitati – conclude Fois – contattando anche enti privati, a cominciare dalla Camera di commercio, nella speranza che vengano incontro al progetto e aderiscano all’iniziativa, sostenendola insieme a noi. Questo perchè i 4 mila euro stanziati dal comune (contributo preziosissimo, ma identico a quello dello scorso anno) potrebbero, alla fine, risultare un po’ “stretti” per ottemperare a tutte le esigenze relative ai costi di funzionamento della struttura».

Organizza la Croce Rossa: «L’anno scorso accolti circa trenta senza dimora, quest’anno le presenze non sono diminuite»

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Tetraedro


torino A Natale 2011, una richiesta dalla strada all’arcivescovo: così Caritas sta per aprire un centro diurno per homeless

Luogo di sostegno, spazio di relazioni di Enrico Panero Febbraio è il mese dell’apertura, a Torino, di un nuovo centro diurno, dedicato alle persone senza dimora: ne abbiamo parlato con Carlo Nachtmann, vicedirettore della Caritas diocesana, che ha curato e seguito la realizzazione del progetto. L’idea di dare forma a un nuovo centro diurno a Torino è nata da un fatto accaduto il 24 dicembre 2011. In occasione degli auguri di Natale rivolti dall’arcivescovo di Torino, monsignor Cesare Nosiglia, alla cittadinanza, una persona senza dimora gli chiese espressamente di creare un luogo in cui le persone di strada potessero incontrarsi ed essere accolte durante la giornata. Tale richiesta fu motivata dalla mancanza di un luogo simile in città, aperto tutto il giorno. Per questo, sulla base cioè di una esplicita richiesta giunta da persone che vivono la condizione di senza dimora, si è deciso di intervenire. rato nei periodi critici, offrire un luogo «L’arcivescovo – spiega Nachtper poter ricostruire una socialità che mann – inoltrò la richiesta a Caritas per per strada difficilmente si trova, e metla realizzazione di una struttura di quetere a disposizione uno spazio dove sia sto tipo. Da parte nostra inizià la riceraccessibile una rete di sostegno, al fine ca di uno spazio idoneo: centrale, facildi aiutare le persone nella ricerca di lamente raggiungibile, situato non lontavoro, casa, assistenza medico-sanitaria, no dalla stazione (luogo tradizionalreinserimento sociale. Per raggiungere mente frequentato da persone senza questi obiettivi lavoreranno alcuni opedimora), con locali ampi e in grado di ratori, addetti all’ascolto e alla messa in accogliere dignitosamente 40-50 perrete dei casi. Un traguardo già raggiunsone al giorno. Alla fine, dopo la visione to è aver messo insieme soggetti caritadi vari luoghi, è emersa la possibilità di tivi (Caritas), associativi (gruppi e orgautilizzare alcuni locali di proprietà del nizzazioni che operano nel settore) e comune di Torino, dati in gestione alpubblici (servizi del comune), e ciò rapl’Azienda Torino case (Atc), situati nelpresenta il valore aggiunto dell’iniziatila centrale via Giolitti, al numero 40. Il va. Inoltre, il centro diventerà un’ulteluogo è stato ritenuto idoneo allo scoriore possibilità per i volontari delle po, perché abbastanza ampio per perparrocchie cittadine, che potranno colmettere alle persone di trascorrere il laborare nell’ambito dell’accoglienza, tempo in modo costruttivo, proponendell’intrattenimento e dell’accompado attività, e poter fornire un ascolto dei gnamento delle persone. bisogni. Il comune ha dato il nulla osta per l’utilizzo dei locali a fini caritativi e Nello scorso numero di Scarp, la reCaritas ne è divenuto il gestore». dazione torinese si è confrontata sulle aspettative create da una nuova struttura per senza dimora… Quali obiettivi vi siete posti e in che rapporto intendete porvi con gli altri Ho letto e ritengo importante precisare soggetti cittadini che lavorano con i alcune cose. Il nuovo centro diurno senza dimora? non intende essere un doppione di servizi già esistenti nel territorio: quindi Gli obiettivi sono semplici e molto connon si mangia, non si lavano i vestiti, creti: fornire un luogo protetto e ripa-

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non si fa la doccia, perché esistono già strutture che forniscono, e in maniera puntuale e precisa, questi servizi. Quello che si intende fare è cercare di colmare un vuoto, dare qualche risposta in più rispetto a quelle già esistenti nel territorio. Per il resto, si cercherà di orientare e indirizzare le persone verso eventuali servizi già attivi. I servizi di prima accoglienza necessitano spesso di ritocchi in corso d’opera... In effetti sulla carta si definiscono delle cose e si cerca di pianificare al meglio, ma è sempre possibile che emergano esigenze che conducono in un’altra direzione. A giugno faremo una verifica e valuteremo il conseguente adeguamento della struttura. Deve

Accoglienza cercasi Giornate vuote, per i senza dimora: a Torino, presto un nuovo centro diuno


scarptorino La storia

Bagliori dorati dal tavolo «Vedrai che qualcosa troverai»

però essere chiaro che questa è un’offerta di servizi da migliorarsi sulla base della compartecipazione degli utenti: vuole cioè essere una proposta modulata nel tempo secondo le effettive necessità, che funzionerà meglio quanto più chi partecipa avrà cura di farla funzionare. E per un buon funzionamento riteniamo importante una collaborazione costante e costruttiva con il gruppo di Scarp de’ Tenis Torino, che potrà raccogliere e riportare verso l’esterno le storie, le narrazioni delle vite delle persone che frequenteranno il centro diurno, sia per sensibilizzare la cittadinanza, sia per contribuire al recupero sociale e psicologico di molti. Perché poter dire di sé è anche un modo per rivivere la propria storia e darsi una speranza.

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Certe volte dovrei proprio restarmene zitto. Non faccio che ripetermelo tutte le volte, dopo, quando il danno è ormai fatto. Quello che mi lascia perplesso, poi, è che si finisce per litigare per delle sciocchezze, cose di nessuna importanza, quasi che si abbia paura di affrontare i veri problemi, e ci si riduca a ripiegare su motivazioni di comodo. In effetti, a ripensarci adesso, non c’era neppure da parlarne: sì, è vero che dovevo riparare quella porta da una decina di giorni, ma se Anna non fosse stata così pressante un giorno o l’altro, magari oggi stesso, avrei preso la cassetta degli attrezzi dall’armadio e avrei sostituito quei dannati cardini. Un lavoretto facile, di quelli che un tempo portavo a termine fischiettando la domenica pomeriggio, perché durante la settimana dovevo lavorare… Così adesso sono in mezzo alla strada senza nulla da fare, nessun posto dove recarmi. Devo avere pensato che due passi mi avrebbero calmato, e anche lei credo sia contenta di non avermi tra i piedi per un po’. Forse è una mia suggestione, ma oggi mi pare che tutti quelli che incontro siano depressi quanto me: una progressione di sguardi sfuggenti, occhi bassi in teste insaccate nelle spalle. Forse è soltanto il freddo, sì, deve essere senz’altro per il freddo… A un certo punto incappo in un bar che sembra essersi fermato agli anni Settanta, assomiglia a quello in cui andavo a farmi una birra quando finivo il turno in fabbrica… Già, la fabbrica. Quante volte ho sognato di andarmene, mentre all’alba attraversavo il cancello e camminavo nel piazzale avvolto nella nebbia. Bene, ecco, me ne sono andato. Non proprio come intendevo io; anzi, a voler essere precisi è stata la fabbrica ad andarsene, lasciando a casa me e quasi tutti i miei colleghi. Alcuni sono riusciti a ricollocarsi, per altri avanti negli anni, come il sottoscritto, «occorrerà un po’ di tempo», come amano dire al Centro per l’impiego. Per intanto adesso evito accuratamente anche di passarci vicino, al posto dove ho lavorato per venti e passa anni. In ogni caso posso immaginarmi la scena: uno scheletro svuotato, che attende di essere demolito e trasformato in un ennesimo ipermercato, o Dio sa cosa. Mentre cerco di cancellare con una sigaretta il gusto del pessimo caffè appena bevuto, mi sorprendo a pensare come potrebbe essere se un giorno non potessi più permettermi neppure queste piccole spese: ho un bel ripetermi che non arriverò mai a quel punto, che fra me e Anna riusciremo a condurre una vita comunque decorosa. Mi stringo le falde del cappotto, dicendomi nuovamente che è soltanto il freddo. Già, di nuovo Anna: l’unico punto fermo della mia vita, giunto a questo punto. Sta facendosi sera, forse è meglio che rientri, ma prima devo fare ancora una cosa. Quando attraverso l’atrio la vedo in salotto, sta guardando dalla finestra, appena entro si volta e mi sorride. Provo un sollievo enorme quando capisco che non mi serba rancore, mi stringo nelle spalle e mi avvicino. «Mi spiace», le dico, e spero mi creda, perché mi spiace veramente. Togliendomi il cappotto estraggo dalla tasca il pacchetto che ho appena comprato, lo apro e poso i due cardini di ottone sul tavolo. «Domani mattina li sostituisco». Lei li guarda e annuisce, poi mi prende entrambe le mani: «Non preoccuparti – dice stringendole –. Vedrai che prima o poi troverai qualcosa…». Non le rispondo e continuo a guardare i cardini al centro del tavolo: alla luce della lampada mandano bagliori dorati. Vito Sciacca febbraio 2013 scarp de’ tenis

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genova Successo di uno speciale “ambulatorio”: cura giocattoli vecchi, educa a non temere le terapie e a non cedere al consumismo

Pupazzi in ospedale, contro paure e spreco di Paola Malaspina Mi risponde al telefono con l’entusiasmo di sempre, quello con cui racconta e porta avanti i suoi progetti. E il progetto di cui mi parla oggi è uno dei più importanti per lei. Perché Vanessa, responsabile dell’Ufficio infanzia e adolescenza di Arci Genova, è riuscita a portare un grande regalo ai bambini della sua città: un “ospedale dei pupazzi” tutto per loro, una sorta di “atelier-laboratorio”, in cui anche i più piccoli, riparando bambolotti e peluche, malandati da ore di gioco, possono imparare a prendersi cura dei propri affetti. L’idea di fare qualcosa per l’infanzia, Vanessa l’ha sempre avuta: «Dopo anni passati a fare la maestra precaria – racconta – avevo bisogno di una nuova esperienza a contatto con i bambini. Poi è arrivata questa opportunità, naturalmente ne sono molto contenta. Nel tempo, con il mio gruppo di colleghi, abbiamo lavodiatrici degli ospedali veri. Lì, appositi rato a tante iniziative. L’“Ospedale dei medici “pupazzologi” attraverso “flebo” pupazzi” è l’ultima: ne andiamo orgoe “radiografie” ad hoc, praticate ai pelugliosi, anche perché ci sta dando rispoche, cercano di insegnare ai piccoli paste davvero inattese». zienti a non aver paura delle terapie E queste risposte devono aver sormediche. Come dire: l’ospedale è sempreso davvero un po’ tutti, come spesso pre luogo di cura, mai di punizione. le reazioni dei bambini sanno fare: un L’esperienza, condotta da diversi po’ perché veder tornare a posto un gioanni in paesi come Germania, Inghilcattolo rotto è sempre un prodigio per terra e Olanda, è arrivata nel 2008 in Itail suo proprietario, un po’ perché prolia grazie al Sism, Segretariato italiano porre di riparare un oggetto, anziché sodegli studenti di medicina, che ha forstituirlo con uno nuovo, è un’idea che mato, in diverse città d’Italia, squadre di suona nuova e avventurosa. Anzi, divolontari incaricati di allestire presidi di venta lo spunto di un nuovo gioco. pronto soccorso a disposizione dei pupazzi e dei loro piccoli proprietari. Così, da Pavia, sede nazionale del SiProgetto che nasce dal dialogo sm, queste speciali cliniche, anche gra«Il grande fascino del nostro “Ospedazie all’apporto di altri enti e associaziole” – dice Vanessa – è proprio offrire a ni, si sono diffuse dal nord al sud dello genitori e bambini un tempo e uno spastivale, toccando, tra le altre città, Bari, zio in cui fare qualcosa con cura, conBrescia, Ferrara, Messina, Milano, Pacentrazione e creatività. E usare quella lermo, Roma. E, naturalmente, Genova. che noi pedagogisti chiamiamo la “natura transazionale dell’oggetto”, cioè la sua possibilità di essere usato come caIdea non solo per i ricoverati nale emotivo ed espressivo. I bambini, Da un punto di vista pedagogico, le atattraverso i loro pupazzi, parlano, espritività dell’ospedale sono concepite in mendo l’esigenza di essere curati e di forma laboratoriale, generalmente con curare». la durata di un pomeriggio, secondo un L’idea è antica e arriva da lontano: calendario di appuntamenti aperti a gel’“Ospedale dei pupazzi”, in realtà, nanitori, insegnanti ed educatori. sce per lo più all’interno dei reparti peAll’interno del laboratorio, i bambi-

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Lunga vita alla mia bambola “Dottoresse” impegnate nella cura di un giocattolo, all’Ospedale dei pupazzi promosso da Arci Genova

ni sono seguiti da un “pupazzologo” accompagnatore, che li conduce per mano, insieme ai loro pupazzi, attraverso l’iter della diagnosi e della terapia; durante la visita, i piccoli sono coinvolti attivamente, possono fare domande e sperimentare le indicazioni terapeutiche, che spaziano da coccole e favole a vere e proprie riparazioni con cuciture e


scarpgenova L’esperienza

In città, 35 appuntamenti

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Sono cinquemila i soci italiani del Sism, Segretariato italiano studenti di medicina, che raccoglie studenti volontari di medicina al sesto anno e organizza attività per far passare ai più piccoli la paura del camice bianco.

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bendaggi. In questo modo, i bambini possono acquisire maggior dimestichezza con il contesto medico-ospedaliero, ma con il distacco e la serenità utili a comprenderne meglio significato e scopi. «E non è tutto qui – avverte Vanessa –. Noi abbiamo ravvisato in quest’esperienza un valore che trascende il contesto ospedaliero, portando un messag-

L’“Ospedale dei pupazzi”, ambiente specializzato nell’assistenza a pupazzi, bambole e peluche, è allestito nelle scuole, o in luoghi pubblici frequentati da bambini, in cui i piccoli accompagnano i loro pupazzi “ammalati”, per seguirne l’iter di cura.

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Le attività si svolgono in giornate prestabilite, precedute o seguite da percorsi formativi, in cui il supporto di genitori, insegnanti ed educatori è ritenuto importante e auspicabile.

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Finora, anche grazie ai 33 atenei coinvolti, sono stati circa 100 gli Ospedali dei pupazzi allestiti, in Italia, negli ultimi tre anni. A Genova, l’“Ospedale dei pupazzi”, nel periodo tra dicembre e marzo, ha in programma 35 appuntamenti in tutti i nove municipi cittadini, per fare tappa nell’intera città, visitando circoli, scuole primarie e dell’infanzia. pazzi un po’ malconci». E in effetti, sotto le amorevoli cure della dottoressa Roosevelt (nome d’arte, in omaggio all’omonimo presidente americano Theodore, che diede il nome all’orsetto Teddy Bear), armata di ago, filo e colla a caldo, i pazienti di pezza dell’ospedale ligure riprendono vita, tornando meglio che nuovi; così, l’asino Ciuchino può ritrovare il suo occhio perduto, la bambola Camilla recuperare la gamba strappata. E il tutto senza negare coccole ai bambolotti più in salute, perché, con i materiali del laboratorio, si possono sempre realizzare piccoli letti, vestitini o addirittura peluche! Insomma, ci sono cure per tutti, malati e non.

Entusiamo che fa pensare gio più importante, di lotta al consumismo. Specie in questi tempi di crisi, ci tenevamo a dire: bambini, abbiate cura dei vostri giocattoli. Non serve chiederne sempre di nuovi. Così, abbiamo dato al nostro Ospedale un’impostazione da atelier creativo, in cui mettiamo a disposizione dei nostri utenti bottoni, stoffe e quant’altro, per ridare vita a pu-

Con una città che si estende in lunghezza per 24 chilometri, la dottoressa Roosevelt ha avuto il suo bel daffare, a correre da ponente a levante. E in effetti, in circa due mesi di attività, sono già trenta gli appuntamenti dell’Ospedale dei pupazzi, nei nove municipi del territorio genovese. «La presenza nel territorio è molto importante per noi – pro-

segue Vanessa – anche per poter dare un punto di riferimento alle famiglie. I risultati, in realtà, per ora ci stanno dando grande entusiasmo. Anche in zone più difficili, come Quezzi, in cui peraltro abbiamo dato uno dei primi appuntamenti, hanno partecipato ben 16 famiglie, un numero molto al di sopra delle nostre aspettative». Il che, naturalmente, induce a pensare che l’iniziativa dell’Ospedale abbia risposto a un’esigenza latente, ma molto diffusa in questo periodo di recessione; perché, proprio ora che le possibilità economiche delle famiglie si restringono, si rivaluta l’importanza di coltivare insieme abilità manuali e relazionali, magari passando insieme un pomeriggio a prendersi cura dei propri amici di stoffa. Ed è proprio in questi momenti che si capisce come le cose vecchie che accompagnano la nostra storia siano molto più preziose dei costosissimi, nuovi giocattoli. In altre parole: sono proprio i bambini a ricordarci la legge economica più antica del mondo: quella che smette di guardare al prezzo delle cose, per iniziare a scoprirne il valore.

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vicenza Istituita dal comune una via fittizia: sarà possibile garantire la residenza anagrafica agli homeless, base per gli altri diritti

Io riparto da via Bakhita di Cristina Salviati Dallo scorso dicembre anche a Vicenza le persone senza dimora possono iscriversi all'anagrafe. La residenza anagrafica, necessaria per poter avere un medico di famiglia, entrare in lista per un alloggio popolare o accedere a innumerevoli altri servizi che si danno spesso per scontati, é diventata possibile grazie all'istituzione, da parte della giunta cittadina, di una via che non si trova nelle mappe stradali. La via è dedicata a Santa Giuseppina Bakhita, donna africana che fu portata in Italia come schiava, qui riuscì a ottenere di essere libera e diventata suora dedicò la propria vita ai poveri e agli emarginati. È una grande vittoria per gli homeless vicentini, frutto anche del costante impegno da parte della Caritas diocesana: negli ultimi due anni il direttore, don Giovanni Sandonà, non ha perso occasione per ribadire l’importanza di questo provvedimento, agli assessori competenti e in diverse occasioni pubbliche. «Intitolare questa via a un personaggio storico – ha commentato don Sandonà Un fiore non può nascere – è ulteriore segno di sensibilità e rie vivere nel deserto, spetto per persone che già sono provanon c’è acqua né energia. te da disagi e difficoltà». I tuoi occhi stanchi

tariato. Oggi è la città nel suo complesso che deve interrogarsi”. Il passo successivo è stata la presentazione del documento alla cittadinanza, durante il Festival Biblico 2012, e al mondo del privato sociale. Quindi è stata la volta dell'apposita commissione consiliare, con la quale si stava pensando a un intervento informativo rivolto al consiglio comunale, ma la buona notizia dell’i-

Credi nel fiore

Vittoria delle associazioni A fianco della Caritas ha lavorato un gruppo di operatori sociali della città berica: da un paio d’anni il Sert di Vicenza ha costituito un laboratorio permanente di formazione per operatori e volontari impegnati sui temi della marginalità estrema, e il primo punto messo a fuoco era la necessità di garantire i servizi e l'assistenza a chi, avendo perso la residenza, non ne aveva più diritto. Agli incontri del laboratorio hanno partecipato rappresentanti del comune e della Ulss, della Caritas e di altre realtà di volontariato (tra questi anche Scarp de’ Tenis). Il risultato è stata la produzione di un documento che raccontasse alla città chi sono queste persone, storie che riguardano tutti se è vero, come si legge nel testo, che “il problema della marginalità non può riguardare solo coloro che ne sono coinvolti, o le istituzioni pubbliche, il privato sociale, il volon-

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guardano nel vuoto cercano quell’energia vitale che ti abbisogna. La battaglia della tua vita, che ogni giorno ti porta a conoscere sempre te stessa, la tua battaglia. Il tuo campo di battaglia più piccolo è, maggiore sarà la tua vittoria. La tua grande vittoria che conoscerai, quando riuscirai a far nascere quel fiore nel deserto. Credi in quel fiore e vincerai la tua battaglia. Carlo Mantoan

Capodanno speciale “L’ultimo tra gli ultimi” ha fatto tappa anche alla parrocchia di San Lazzaro, a Vicenza

stituzione della residenza anagrafica è arrivata prima che il programma di incontri fosse terminato. Non avendo un domicilio, gli homeless non risultano infatti iscritti all'anagrafe e quindi è come se esistessero e non esistessero allo stesso tempo, con gravi effetti sul versante del godimento dei diritti fondamentali della persona, a partire dall’assistenza sanitaria e sociale. Infatti a chiedere la residenza ana-


scarpvicenza grafica per gli homeless sono spesso gli assistenti sociali, altrimenti ostacolati nello svolgimento del proprio lavoro.

Tantissimo il lavoro da fare «Il traguardo raggiunto è importante ma ce ne poniamo altri – insiste don Giovanni Sandonà –. Nel vicentino, oltre al capoluogo, solo il comune di Monteviale ha costituito la via anagrafica. Perché i diritti siano rispettati, anche gli altri comuni dovranno arrivare allo stesso risultato». Per ora l’iscrizione all’anagrafe in via Bakhita coinvolgerà le 18 persone senza tetto individuate a Vicenza dall’ultimo censimento. Verrà chiesto loro di dichiarare e dimostrare di essere inseriti in un progetto di inclusione sociale, che abbia come punto di riferimento realtà riconosciute del territorio: non solo i servizi sociali comunali, ma anche iniziative di organismi come Caritas o il Sert. «Si tratta di una questione umanitaria – ha sottolineato la giunta comunale nel comunicato stampa –. Ma anche di si-

L’iniziativa

“Ultimo con gli ultimi”: in 400 per una notte di condivisione Anche quest’anno sono stati 400 i ragazzi che hanno deciso di passare un Capodanno all’insegna del servizio e della solidarietà, partecipando alla sesta edizione dell’Ultimo con gli Ultimi (a destra, la locandina dell’iniziativa). La notte del 31 dicembre, 50 realtà e centri di accoglienza di Vicenza e di Noventa, dove risiedono o che sono frequentate da persone anziane, in disagio fisico o psichico, senza dimora, carcerati in percorso di pena alternativa, tossicodipendenti, sono state visitate da gruppi di giovani provenienti dall’intera provincia, ma anche da altre zone d'Italia, che hanno animato la vigilia e la notte con chitarre, giochi, cibi, brindisi. «Importante non è fare, ma stare – ha sempre sostenuto don Agostino Zenere, vicario cittadino, promotore dell’Ultimo dalla prima edizione –: si va a incontrare e a conoscere persone che prima di tutto hanno tanto da dare a chi si mette al loro servizio». All’allegria dei canti e delle tombolate si sono mescolati momenti di commozione, incontri che resteranno vivi nel ricordo di chi si è lasciato coinvolgere. Al centro diurno San Faustino, proprio nel cuore di Vicenza, i ragazzi accompagnati alla chitarra di don Andrea Guglielmi hanno saputo creare un clima di affiatamento e amicizia, complice anche il fatto che tra gli ospiti non mancava Enrico, noto tra i volontari vicentini come the Voice. «Cosa abbiamo fatto di speciale? – si è chiesto il giovane Alessandro Scaggion, dopo il servizio in una casa-comunità per disabili a Noventa Vicentina –. Nulla, ed è proprio questo che è stato bello. Pensiamo di dover fare chissà cosa, di doverci impegnare con queste persone, trasferire la nostra iperattività, il nostro bisogno di programmi sofisticati. Invece quello che mi colpisce ogni volta è che sono proprio le persone in difficoltà a insegnarci che per stare bene insieme bastano piccole cose: una chitarra, una tombola, sedersi uno vicino all’altro».

curezza sociale, perché includere certe persone all'interno di percorsi assistenziali significa integrarli e far sì che escano dall'ombra, dal degrado e a volte da una vita fatta di regole diverse rispetto a quelle della comunità». Sono parole che dicono molto sull'avvio di un percorso che in periodo di crisi e continui tagli al sociale deve rendersi capace di articolazioni e aperture nel dialogo tra istituzioni.

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Il Club 16, spazio di ascolto e aggregazione per adulti disabili, gestito dalla Caritas Vicentina, per l’occasione si era trasferito a casa di uno dei soci. L’attività principale è stata la preparazione della cena e alla fine per Federico Ambrosini il senso del 31 dicembre è stato proprio la tavola imbandita: «Attorno a una bella tavolata – ha raccontato – si socializza subito». Francesca Benetollo alla mensa Caritas di Santa Lucia, a Vicenza, ha scoperto una parte di sé: «Io che ho sempre bisogno di avere tutto sotto controllo, ho capito che gli altri sono sempre in grado di sorprendermi». La sesta edizione dell’evento ha visto quest’anno un’espansione del progetto. Oltre alla base di Vicenza, da cui sono partiti la maggior parte dei ragazzi, anche Noventa Vicentina ha avuto il suo gruppo: dal cinema parrocchiale “Famiglia” ben 50 giovani si sono sparsi tra le strutture di accoglienza dei dintorni. La decisione di allargare l’evento è un invito ai ragazzi a non considerare l’attenzione agli ultimi come appuntamento sporadico, ma una responsabilità di cui farsi carico durante tutto l’anno. febbraio 2013 scarp de’ tenis

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modena Ogni giorno duecento sacchetti: l’intuizione di alcune suore si perpetua nella parrocchia di S. Agostino, nel centro storico

Poveri al portone, l’amicizia si fa pane di Stefano Malagoli Ogni giorno nella parrocchia di Sant’Agostino, nel centro storico di Modena, c’è chi distribuisce pane ai più bisognosi. L’iniziativa risale a qualche anno fa, quando una delle Suore della carità di Santa Giovanna Antida Thouret, che ora vive in un’altra casa della congregazione, ha cominciato a raccogliere il pane avanzato da una panetteria, per distribuirlo l’indomani a chi bussava al portone e chiedeva da mangiare. All’inizio erano due, sei, dieci persone. Un giorno la suora comunicò alle consorelle: «Oggi c’erano ben 14 persone». Chi chiedeva pane raggiungeva a piedi la parrocchia; più tardi sono comparse le biciclette. In breve: il numero di chi bussava al portone delle suore è andato via via aumentando. Tanto che oggi le religiose, affiancate dai volontari della Caritas parrocchiale, preparano in media circa 200 sacchetti tutti i giorni … e purtroppo ci sono giorni in cui non bastano. Dal 2008, grazie all’intuizione di considerata e accolta. un’altra suora, l’esperienza si è irrobuNella tarda mattinata, la preparaziostita, grazie al “giro” di altri forni mode- ne dei sacchetti viene conclusa. A quel nesi, in cerca delle loro eccedenze, gra- punto, tutto si svolge nel giro di un zie anche al contributo di alcuni volon- quarto d’ora. In sensibile anticipo, sotto tari. Nel tempo le suore si sono avvicen- le finestre, fuori dal portone della canodate, il servizio ha ottenuto il supporto e nica, si sente un brulicare di voci, e alla la collaborazione della Caritas parroc- spicciolata un nugolo di gente si avvicichiale di Sant’Agostino. Attualmente i na e aspetta. Il campanile suona le 11. volontari sono circa una ventina e han- Si apre il portone. La suora, di turno, con no preso a cuore il servizio, gestendo i turni responsabilmente. Tutti i giorni, domenica compresa, si aggirano per i forni attorno alla parrocchia (e oltre…), raccogliere il pane avanzato dalla vendita quotidiana, donato dai titolari dei negozi. Da lì lo portano in parrocchia, dove è organizzato il punto di raccolta e dove, in certi orari, sembra di essere davvero in un forno, tanto è il profumo di pane che si diffonde in canonica. La mattina successiva, due suore e qualche volontario preparano i sacchetti di pane e li dividono con cura. In alcuni scatoloni che contengono i sacchetti si legge, su un foglio bianco scritto a pennarello: “musulmani”. È pane non trattato con lo strutto, pane che possono mangiare senza contravvenire alla loro religione. Anche questo piccolo gesto dice la dignità con cui la persona è guardata, è

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uno o due volontari, ringrazia Dio insieme ai presenti per il dono del pane e comincia la distribuzione. Ciascuno prende e va. Qualche volta, insieme al pane, si riesce a distribuire anche formaggio, verdura e frutta, in base a quanto viene donato dalla Provvidenza. La comunità delle Suore della Carità, per voce di suor Damiana, parla volentieri di questo importante servizio. Quali persone arrivano ogni giorno in Sant’Agostino? Fino a qualche tempo fa si trattava principalmente di italiani del sud in difficoltà e componenti di famiglie numerose, per lo più straniere, oltre a qualche famiglia italiana. Attualmente molti sono islamici (circa il 50% di coloro che si affacciano al portone), ma ci sono anche molte badanti dell’Europa dell’est,


scarpmodena ziativa, al di là del concreto aiuto materiale? Mi sembra di cogliere due livelli: un segno di presenza a fianco a chi è nel bisogno, la possibilità di dare un punto di riferimento a chi non ce l’ha, di aprire uno spazio fatto di incontri, confidenze, sostegno, amicizia. Ma si tratta di un segno anche per la comunità parrocchiale: evidenzia che un cammino di fede non può prescindere dal vivere la quotidianità e dal farsi responsabili della crisi economica, del lavoro che manca, della gente comune con i suoi drammi, i suoi affetti, la sua mediocrità. L’altro è figlio di Dio e ha dignità per il fatto stesso che è amato da Dio. Amato da Dio come me, come te. E Dio non fa distinzione di colore e di nazionalità.

rimaste senza lavoro. Gli italiani che fanno capolino al portone perché hanno perso il lavoro, attualmente sono circa una quarantina. Alcuni hanno alle spalle una famiglia da mantenere. I cosiddetti “senza dimora” in molti casi sono italiani rimasti senza lavoro, dunque senza casa, senza affetti. Gli stranieri sono spesso giovani in cerca di lavoro, venuti dalle loro terre o già in giro per l’Italia da diversi anni. Hanno la famiglia nel loro paese di origine e la devono mantenere. Le badanti sono sole e hanno la famiglia da mantenere nel loro paese, per cui cercano di risparmiare il più possibile e approfittano della distribuzione. Chi vi supporta in questo servizio? I volontari sono giovani, adulti, anziani; sono mamme e papà di famiglia, e anche qualche famiglia che stiamo aiutando e che si rende disponibile per questo servizio. Poi c’è la collaborazione, fondamentale, con i forni che generosamente fanno dono di pane e di altro. Da rimarcare anche il supporto delle parrocchie vicine, che ci portano gli alimenti in esubero, dopo aver risposto alle richieste nei loro territori. Oltre al soddisfacimento dei bisogni materiali, chi arriva in Sant’Agostino manifesta altre necessità? In Sant’Agostino c’è la scuola di italiano per stranieri, che oltre a garantire l’ap-

Poveri in attesa Persone in attesa di ricevere la provvista quotidiana di pane alla Caritas parrocchiale della parrocchia di Sant’Agostino. A sinistra, preparazione dei sacchetti da distribuire

prendimento della lingua, offre un luogo di relazione e raggiunge destinatari giovani. C’è anche un centro di ascolto con distribuzione di alimenti e guardaroba: la richiesta iniziale è di aiuto materiale, poi dalla frequentazione nasce spesso una fiducia reciproca, base per una relazione significativa e, perché no, per un’amicizia. In realtà chi si rivolge a noi non lo fa solo per superare una situazione di povertà materiale, ma perché – appunto – necessita di relazioni, di sentirsi accolto, di riconciliarsi con sé, con gli altri, con Dio. Insomma, la parrocchia con i suoi servizi è un punto di riferimento per molti. E noi suore e volontari sperimentiamo che l’incontro con l’altro rivela il volto di Dio che abita la ferialità, dove la povertà si manifesta in tanti colori: povertà materiale ed economica, di salute, di relazioni, di senso e di fede, di fiducia in sé e negli altri. Che valore riconoscere a questa ini-

Suor Damiana, cosa significa oggi “gratuità”? La parola gratuità dà adito a diverse reazioni. Spesso si pensa che se una cosa è gratis allora prendo tutto: non importa se mi serve o meno, tanto non la pago. Così è inevitabile che succede di trovare vicino al cassonetto dei rifiuti un pezzo di pane mezzo morsicato o un sacchetto con qualcosa ancora dentro. Gratis è anche qualcosa che vale poco: le cose belle e buone si pagano fior di quattrini. E anche qui c’è una svalutazione. Invece il capitolo 13 del vangelo di Giovanni dice che gratuità è deporre le vesti, prendere un asciugamano e cingerselo alla vita, poi mettersi in ginocchio e lavare i piedi a chi mi sta di fronte. Gratis non solo perché nessuno se lo aspettava un gesto così, da Gesù, ma perché Lui sapeva bene che tra i suoi, quelli più vicini, uno lo avrebbe tradito di lì a poco. Eppure deponendo le vesti ha deposto la vita, cioè ha fatto dono della sua vita. Insomma: la gratuità è un dono che viene da Dio e va al di là del “fare volontariato” o del “fare carità”. Per noi cristiani vivere l’eucarestia è accogliere il pane spezzato che si offre a noi, e continua a offrirsi. E questo ci chiede coerenza, ci chiede di diventare noi stessi pane spezzato per i fratelli: pane del cammino, pane della condivisione, dell’accoglienza, della gioia, della fede, della consolazione, del dono, del pianto, della prova, pane dell’amicizia, della solidarietà, del perdono, del dono. Siamo nella dimensione dell’essere, prima che del fare tante cose.

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rimini Convegno Caritas sul disagio abitativo. Che tocca in modo pesante anche la Riviera. E non riguarda solo i senza dimora

Casa, un diritto? «Oggi, un’emergenza» di Alessandra Leardini La casa non è più un diritto e a farne le spese non sono più solo i senza dimora: l’emergenza abitativa «non è più qualcosa di lontano», come si tende a pensare. «Emarginazione e povertà si stanno estendendo talmente, da toccare direttamente ciascuno di noi». Sono i dati a demolire i pregiudizi, secondo Paolo Pezzana, presidente della Federazione italiana degli organismi per persone senza dimora (Fio.Psd), intervenuto in dicembre al convegno “Ma la casa mia dov’è?”, organizzato dalla Caritas diocesana. Una “doccia fredda” a pochi giorni dal Natale, che la Caritas ha voluto proporre non tanto per mostrare una fotografia inedita del territorio di Rimini, ma per sollecitare le istituzioni locali (erano presenti rappresentanti di provincia e comune) provocazioni costruttive. Pezzana ha ricordato che, secondo la ricerca conclusa nel 2012 dall’organi- precarie e che 50 mila si dividono tra la smo che presiede insieme all’Istat, i sen- strada e alloggi provvisori, si arriva a un za dimora in Italia sono stimati in totale di 150 mila persone». 47.648. Ma l’area del disagio abitativo è Il dramma non risparmia Rimini. ben più ampia: «Se si considera che al- Vale la pena ricordare un dato su tutti: tre 67 mila persone – ha affermato il se- le 1.450 persone che nei primi nove megretario della Federazione, Marco Iaz- si del 2012 hanno dichiarato alla Caritas zolino – vivono in condizioni abitative di Rimini di essere senza dimora, contro

le 1.290 dell’anno precedente, con un aumento superiore al 12%. Significativi anche i numeri della Capanna di Betlemme, la struttura voluta da don Oreste Benzi per ospitare i senzatetto. In venticinque anni, ha ricordato il vescovo di Rimini Francesco Lambiasi in apertura di convegno, ha aperto le porte, in media, a duemila persone ogni anno. «La crisi finanziaria che stiamo viven-

Lucca: una rete garantisce l’alloggio sociale Il convegno della Caritas diocesana di Rimini è stato anche l’occasione per presentare una buona pratica: l’esperienza “Per una rete dell’alloggio sociale”, che vede protagonista la Fondazione Casa di Lucca. Alla base di questo progetto di housing sociale condotto nel territorio toscano, ci sono l’incentivazione del canone concordato e l’utilizzo del microcredito. «Abbiamo immesso sul mercato privato 100 alloggi», ha sintetizzato al convegno della Caritas riminese Sara Baldisseri, della Fondazione Casa Lucca –. L’impianto progettuale prende le mosse da un investimento immobiliare che la Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca ha realizzato, per un valore di circa 9 milioni di euro. Gli alloggi sono stati locati a canone sostenibile (circa 350 euro mensili in media) grazie a un bando gestito dalla Fondazione Casa, che in seguito ha utilizzato un contributo emesso dalla regione Toscana (circa 4 milioni di euro) per realizzare ex novo altri 40 appartamenti, utilizzati come alloggi destinati di transizione. Con la collaborazione degli enti locali e dell’arcidiocesi, che ha messo a disposizione una ventina di alloggi, «si è così cercato di dare una risposta non solo ai nuclei familiari che appartengono alla cosiddetta “fascia grigia” (coloro che non rientrano nelle graduatorie dell’edilizia residenziale pubblica, pur non riuscendo a sostenere l’affitto nel mercato privato), ma anche ai casi molto numerosi di emergenza che gli uffici dei comuni affrontano ogni giorno, spesso senza avere risposte da parte dell’edilizia pubblica».

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do – ha aggiunto monsignor Lambiasi – forse è l’ultima occasione per stimolare in tutti noi un cambiamento di mentalità, in modo che si arrivi a garantire una casa a ogni famiglia».

Le nuove povertà In Italia è senza dimora lo 0,2% della popolazione, ma secondo la Fio.Psd. si tratta della punta di un iceberg. «In un paese dove appena il 10% delle fami-


scarprimini glie – ha ricordato Pezzana – possiede più della metà della ricchezza, tutti siamo a rischio». Lo confermano anche le stime, «non ancora diffuse in Italia, a differenza che in altri paesi – ha fatto notare Iazzolino –, di una ricerca continentale sulla diffusione di nove diversi sintomi di povertà». E così, se si considera la privazione materiale, dal 2010 al 2011 si è passati, in Italia, dal 16% di persone colpite al 22,2% (dal 10 al 13% al nord), in linea con la Spagna, mentre la Grecia è al 30%. Il numero di chi è in difficoltà con il pagamento delle bollette è salito dal 12 al 14,2%, quello di chi non può permettersi un pasto proteico (carne o pesce) ogni due giorni dal 4,6 all’8,8%, di chi non riesce a scaldare adeguataTetto, non per tutti mente la casa Case popolari dall’11,2 al a Rimini: 18% (dal 4,8 il disagio abitativo è avvertito al 10,3% al sempre più nord). In auanche nel territorio mento anche della Riviera romagnola le persone

che sono costrette a chiedere aiuto materiale ed economico fuori dalla cerchia dei parenti più intimi: dal 15 al 18%.

Esiste un’altra Rimini A Rimini circa 200 persone, secondo le stime Caritas, dormono ogni notte in rifugi di fortuna. E questo nonostante nel territorio vi siano tanti alloggi sfitti (16 mila nel solo comune capoluogo) e si registri una forte concentrazione di al-

I numeri

Diritto all’abitare? In 2.300 attendono alloggi popolari... Passare dal diritto alla casa al diritto all’abitare. È la sfida che chiama in causa le istituzioni locali. Per l’assessore alle politiche sociali della provincia, Mario Galasso, occorrono sì risorse e iniziative (va in questa direzione il nuovo Protocollo per l’emergenza abitativa, che ha per firmatari provincia, comuni, tribunale, prefettura, parti sindacali e istituti di credito), ma è altrettanto urgente un cambio di mentalità. «L’educazione è basilare – ha avvertito l’assessore al convegno Caritas di dicembre –; molte famiglie che chiedono aiuto agli sportelli sociali, hanno la tv d’ultima generazione. Qualcosa non torna». Tra le azioni messe in campo, il vicesindaco di Rimini, Gloria Lisi, ha ricordato le iniziative che hanno avuto più seguito e quelle su cui c’è invece ancora molto da fare. Se il residence dei padri separati di via Graff è l’ultima novità, sono attivi da tempo una convenzione con Eticredito per la concessione di prestiti per l’affitto e per favorire interventi d’aiuto a famiglie non in carico ai servizi sociali (86 contributi, per un totale di 110 mila euro). Continua invece a non avere il successo sperato il protocollo d’intesa per il canone concordato. In questo caso il comune rilascia una garanzia che prevede il rimborso dei canoni d’affitto non corrisposti dall’inquilino, fino a un massimo di sei mesi. Ma le garanzie rilasciate dal 2009 sono state solo cinque. «Bisogna ancora lavorare molto sulla fiducia tra proprietari e inquilini», ha commentato la vicesindaco. Dal convegno è arrivato anche un richiamo circa l’edilizia residenziale pubblica, sottoposta a criteri regionali a dir poco bizzarri. La risorsa casa va spesso a vantaggio di pochi, per un tempo troppo lungo. E non mancano i furbetti: 59 quelli individuati nel 2012. «E altri 35 sono recidivi – ha ammesso il presidente provinciale di Acer (Azienda casa Emilia Romagna), Cesare Mangianti –. L’altro problema è il turn over che riguarda solo il 3% dei casi, quasi tutti per decessi. Inoltre dal secondo anno in cui si è in casa, l’Isee richiesta come requisito non deve superare i 51 mila euro: una cifra troppo alta». Ben 2.300 persone intanto aspettano da Acer una casa. E le prospettive, stando ai pochi alloggi in via di consegna (135 nel 2013, 63 nel 2014 e appena 27 nel 2015) non sono delle migliori.

berghi che potrebbero aprire le porte ai più bisognosi, almeno nei mesi freddi. Qualcuno lo fa, specie in occasione delle festività natalizie, ma a quanto pare non basta. «Il tetto dell’affitto pari al 30% dello stipendio – ha commentato la responsabile dell’Osservatorio diocesano sulle povertà, Isabella Mancino – andrebbe rispettato, per far sì che non continui a crescere il numero degli sfratti». A questa piaga se ne aggiunge un’altra: “Famiglie insieme”, l’associazione antiusura della Caritas, nel 2012 ha erogato prestiti per 310 mila euro a 300 famiglie, prevalentemente per sostenere le spese di affitto e bollette. E un altro centinaio, pur avendo fatto richiesta, non avevano i requisiti necessari, mancan-

do di residenza o di un garante per accedere al prestito. Contro il caro-bolletta, la Caritas ha voluto porre l’accento anche sulla mancata ristrutturazione degli appartamenti locati, che risultano in gran parte privi degli accorgimenti di risparmio energetico che potrebbero aiutare ad abbattere consumi e tariffe, specie per il riscaldamento. Evitando inutili dispersioni di denaro e risorse.

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firenze Quando è stato accolto nella casa ”Il Samaritano”, voleva tornare a morire in patria. Oggi, ha ripreso a pensare al futuro

Conosco un Uomo, si chiama Ahmed di Francesco Védele Sono tante le persone che vivono all’ombra della società; non li notiamo, a volte li scorgiamo con lo sguardo, quando velocemente passiamo in stazione. In stazione, perché spesso quello è, il loro ritrovo, il loro rifugio, la loro casa. Ma quando avremo l’opportunità di ascoltarli, di guardare negli occhi anche solo uno di loro, allora vedremo un Uomo. Un Uomo che, se lo vorrai, grazie al tuo aiuto, potrà uscire dall’ombra, dai margini della vita sociale. Sarà così che scoprirai un uomo che per anni non è esistito, un uomo con alle spalle un bagaglio fatto di illusioni, di fallimenti, di scelte e fatalità. Io ho conosciuto un Uomo. Si chiama Ahmed (il nome è di fantasia) ed è nato quasi sessanta anni fa in un paese del nord Africa. Attualmente è accolto nella struttura Caritas “Il Samaritano” di Firenze. È arrivato qui, da noi, nella casa, ormai da mesi, da scontare per un vecchio reato. quasi un anno, ma è presente nel terriDopo un primo periodo di osservaziotorio italiano da un ventennio. ne, Ahmed ha iniziato a trovare fiducia Dopo i primi due anni trascorsi in nel servizio educativo e ha abbandonaEmilia Romagna, Ahmed ha perso il lato progressivamente il suo stato di devoro e, con la speranza di nuove opporpressione e sconforto. Durante i motunità, si è spostato verso Firenze. Al suo menti di ascolto sono emerse le sue difarrivo in Toscana è stato coinvolto in un ficoltà: è un Uomo introverso, Ahmed; reato, per il quale ha scontato una pena pensa tanto e parla poco. Con la sua vodetentiva nella casa circondiariale di lontà e partecipazione, è riuscito però ad Porto Azzurro, all’Isola d’Elba. Dalla accettare finalmente l’idea di un interscarcerazione in poi ha vissuto ai marvento cardiaco, che aveva evitato per gini della società, privo di un titolo di mesi. Aveva paura di affrontare questo soggiorno, sino al giugno del 2010, passo; diceva di continuo: «Voglio moriquando lo ha ottenuto per motivi umare nel mio paese». nitari. Quando è arrivata la telefonata dall’ospedale, Ahmed si è impaurito, si è sentito smarrito, ha iniziato a vagare per Accolto in Caritas il corridoio, interpretando la convocaAhmed è stato accolto in passato, duzione dell’ospedale come una condanrante l’inverno, nelle strutture della Cana a morte. Ma in quella occasione Ahritas. In quelle occasioni lo avevo intramed si è accorto di non essere solo; c’è visto e mi aveva colpito il suo sfogliare listato qualcuno, al Samaritano, che ha bri durante la notte, forse per ingannare parlato con lui, che ha ascoltato l’Uomo l’insonnia, o i pensieri. Era sfuggente, che ha conosciuto. Ahmed; cortese e barricato dietro un Effettuato l’intervento, dopo due muro di incomunicabilità, intorno a lui giorni di degenza, Ahmed ha così iniziasolo un silenzio forte e assordante. to una nuova vita; la sostituzione della È stato nel novembre del 2011, che ci valvola aortica gli ha ridato speranza; ci è stato segnalato da un’associazione di sono state le nostre visite in ospedale, lui Firenze, perché potesse beneficiare delora sa di avere qualcuno che lo sostiene l’esecuzione penale esterna, in relazioe non la smette di ringraziare: «Grazie ne a una condanna definitiva di otto

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Sandra, grazie direttore, grazie Samaritano, grazie Francesco, grazie Caritas. Senza di voi sarei morto». Ma il percorso verso l’emersione di Ahmed è proseguito. Mettendo da parte l’orgoglio e l’imbarazzo che lo avevano tenuto lontano dagli affetti per anni, a causa degli insuccessi e della marginalità in cui aveva vissuto in Italia, è riuscito a rimettersi in contatto con quel che resta della sua famiglia, dopo quasi vent’anni. Ha scoperto che i genitori sono ormai morti e anche la sorella è venuta a mancare per gli stessi problemi di salute che Ahmed ha affrontato. Rimane un fratello con figli a carico, che vive in nel paese d’origine e che soffre degli stesssi problemi di salute. Dalla narrazione dei fatti sembra che il familiare sia stato colpito da un ictus che lo ha semiparalizzato; in conseguenza di queste notizie, Ahmed vorrebbe poter tornare a casa per


scarpfirenze La struttura

Dopo il carcere, il Samaritano: percorsi per ricominciare

un periodo limitato. Quando Ahmed ha visto su facebook le foto del nipote mai conosciuto, non ha retto l’emozione. È un uomo, ed è un uomo che oggi esterna le proprie emozioni. Durante le occasioni di ascolto, Ahmed alterna momenti di ilarità a momenti di lacrime liberatorie e tristezza: emozioni forti, flashback del passato, un presente inimmaginato. Al Samaritano l’Uomo ritrova insomma una sua identità, ritrova il coraggio di vivere, si sente un Uomo. Si sveste della sfiducia e si riveste di coraggio. E per aiutare la famiglia in nord Africa, devolve i soldi guadagnati grazie a una borsa lavoro attivata dalla Caritas per qualche mese.

Ahmed pensa al futuro I problemi di salute e la barriera linguistica, rendono ancora oggi Ahmed un soggetto di difficile collocazione nel mondo del lavoro. Davanti alle difficoltà

Il centro di accoglienza “Il Samaritano”, promosso da Caritas Firenze, è rivolto a persone detenute o ex detenute. Accoglie uomini che hanno raggiunto la maggiore età, è aperto 24 ore su 24, offre servizi basilari, ovvero un posto letto in camere confortevoli, ambienti per attività ludico-culturali, tutti i pasti e un servizio educativo strutturato. Il ruolo di questa struttura è mediare il disagio di chi è sottoposto a restrizione della libertà, attraverso l’individuazione di percorsi personalizzati, per favorire un reinserimento nella società della persona accolta. Il target degli ospiti del Samaritano, come è intuibile, è composto da soggetti con difficoltà economiche e carenza di riferimenti parentali nel territorio. Le persone arrivano al centro su segnalazione dei servizi sociali, molto spesso per poter beneficiare dell’esecuzione penale esterna al carcere, oppure dopo aver scontato la loro condanna nel penitenziario fiorentino di Sollicciano. Nel primo caso, vengono accolti in regime di detenzione domiciliare o affidamento ai servizi e devono quindi rispettare alcune limitazioni della libertà, imposte dal magistrato di sorveglianza. La restrizione della libertà è peraltro flessibile, sulla base delle proposte educative avanzate dal servizio Caritas. Il servizio educativo opera seguendo un protocollo standard, che ha l’obbiettivo di conoscere la persona e individuarne le potenzialità; poi, sulla base di questi dati, si procede alla stesura di un percorso specifico per ogni ospite. Solitamente il primo livello d’azione riguarda la richiesta di rilascio o il rinnovo dei documenti: carta d’identità, codice fiscale, permesso di soggiorno, tessera sanitaria, scelta del medico di base, Stp (strumento per l’assistenza sanitaria necessario agli extracomunitari non in regola). Il secondo livello di accoglienza al centro prevede invece la stesura di un percorso formativo personalizzato: sulla base del livello di istruzione di ogni ospite si propongono percorsi di studio da completare, o di formazione professionale e tirocini formativi, al fine di facilitare l’inserimento del mondo del lavoro. Il terzo livello prevede due modalità di uscita: l’autonomia o il sostegno. Il primo caso riguarda coloro che durante l’accoglienza sono riusciti a inserirsi nel mondo del lavoro e sono finanziariamente e psicologicamente pronti per essere autonomi in tutto e per tutto. Il secondo caso riguarda invece quelle persone che, nonostante abbiano seguito un progetto con esiti più che soddisfacenti, non sono ancora nella condizione di poter essere completamente autonomi. In questi casi si indirizzano gli ospiti verso altre strutture di accoglienza, per periodi che verranno valutati in base alle necessità di ogni utente. Con queste modalità, il servizio offerto dal Samaritano si pone l’obbiettivo di tracciare un percorso utile al detenuto o ex detenuto, ma anche alla società che deve nuovamente accoglierlo.

che permangono, si alternano in lui stati di malinconia e di disorientamento. Ora il peggio pare superato, l’obiettivo di un viaggio verso il suo paese lo rasserena, forse gli affetti familiari potrebbe rivelarsi per lui il compimento di un percorso di emersione dalla marginalità. Il progetto di accoglienza di Ahmed ha realizzato le attese, passando attraverso il rinnovo del permesso di sog-

giorno, un percorso sanitario, la regolarizzazione della residenza e l’affidamento ai servizi del territorio. Tutto ciò che Ahmed ha vissuto durante l’accoglienza al Samaritano, ha evitato una detenzione che lo avrebbe reso solo più debole. Un Uomo di cui forse avremmo sentito parlare nella cronaca locale, poiché trovato inerme, apparentemente addormentato, sulla panchina di un parco.

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napoli Una serie di incontri. Con persone affermate. Per far emergere le capacità di chi lavora a Scarp. Primo ospite, Gino Sorbillo

Gente di talento, si parte dalla pizza di Laura Guerra Il talento. Tutti abbiamo un talento, spesso lo ignoriamo, tante volte chi ci vuole bene lo “vede” e ce lo indica e quando accade ci meravigliamo. Fra le mille cose di cui ci occupiamo ce n’è una speciale che riesce meglio, che ci piace fare, che ci gratifica e ci rende unici. E se si incontra la parola “talento” nei laboratori di Scarp, il livello di meraviglia e incredulità è altissimo; come se gli inciampi della vita di strada non la prevedessero, non la comprendessero. Che talento può avere una persona che è finita per strada? Eppure c’è. È un filo sottile, spezzato, nascosto nella matassa ingarbugliata del passato che non passa. E invece dobbiamo farlo passare, ci proviamo dando importanza al tempo pre- paci di metterci. Nei laboratori di giorsente; a quel che stiamo facendo qui e nalismo e di scrittura narrativa ci siamo ora, con tutto l’impegno che siamo ca- dunque messi alla ricerca di quel filo. In

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Tocco magico, successo meritato È stato un incontro piacevole, cordiale e sereno quello con il proprietario della rinomata pizzeria Sorbillo, che si trova nel centro storico di Napoli. Gino Sorbillo, figlio d’arte, arriva in redazione un po’ emozionato, ma si vede che è un uomo sicuro di sé. Dopo le presentazioni ci illumina raccontandoci del suo lavoro, della sua famiglia, con fierezza e trasporto d’animo, sentimenti che solo un giovane di buona famiglia può esternare. Gino da ragazzo si è prodigato con impegno per aiutare la famiglia nella pizzeria, scoprendosi pizzaiolo. Un pizzaiolo di talento, che riesce con le sue mani a dare un tocco magico ai pochi e semplici ingredienti di cui è fatta una pizza: acqua, farina, lievito, sale, pomodoro, mozzarella e olio d’oliva. Gino è sposato, ha due figlie e un terzo è in arrivo, secondo me è una persona molto sensibile, legato alla tradizione della sua famiglia e al posto dove è nato e cresciuto. La sua pizza è molto buona, rinomata, anzi direi famosa, tanto che è impensabile immaginare di dover andare a gustare una pizza da lui senza doversi sorbire un po’ di attesa. Il locale di Gino si divide in due sale su due piani, i tavoli sono di marmo come si usava nelle pizzerie di una volta, tutto è illuminato da luci soffuse di vario colore e sembra di stare in un pub. Quando ci siamo andati noi di Scarp le sale erano piene e l’atmosfera molto calda e piacevole. Abbiamo gustato quattro tipi di pizze che avevano un sapore eccelso, si sentivano gli ingredienti di prima qualità che farcivano un impasto preparato dalle mani talentuose di Gino. Da alcuni anni questa pizzeria è segnalata nelle migliori guide turistiche ed enogastronomiche e Gino è spesso intervistato da giornalisti nazionali e internazionali. Ora che l’ho conosciuto di persona e ho apprezzato il risultato del suo talento e del suo lavoro, dico che merita tutto questo successo. Sergio Gatto

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un percorso che non faremo da soli, ma insieme a tanti amici che il loro talento hanno avuto la fortuna di trovarlo e coltivarlo. Fino a giugno, nella redazione di Napoli, affacciata su Largo Donnaregina, passeranno persone di talento, amici di Scarp che ci racconteranno la loro storia e ascolteranno la nostra. Che poi è la storia di un giornale speciale, che valorizza il talento di persone speciali.

Storica famiglia Per tutto l’anno terremo aperto lo spazio “Gente di talento. Tempo presente” e da queste pagine lo racconteremo ai nostri lettori. Cominciamo con Gino Sorbillo, pizzaiolo. Gino è il discendente di una storica famiglia di pizzaioli napoletani, che lungo tutto il Novecento ha sfornato margherite e marinare in


scarpnapoli via dei Tribunali, nel centro antico della città. «La pizza – racconta Gino –, ancor prima della moda streetfood, è nata a Napoli come cibo di strada, piegata “a libretto”, in modo che il condimento non coli giù per la mano. È sempre stato un pasto veloce e leggero da mangiare, mentre andavi a lavorare, a scuola o per un incontro tra amici».

Vero cibo di strada Il cibo di strada su un giornale di strada: l’accoppiata è venuta naturale. In più Gino, che lo rivendica con orgoglio, è un figlio della strada, proprio di quella strada – via dei Tribunali – sulla quale si affaccia la sua pizzeria, meta ogni giorno di centinaia di clienti italiani e stranieri che assaggiano il suo talento. L’incontro fra Gino e Scarp è avvenuto in due tempi: uno in redazione, quando ci ha parlato di sé, della sua famiglia e della sua pizza, di come la pensa e la fa lui. Di come la impasta e degli ingredienti che sceglie per farcirla. E poi c’è l’impegno per farla conoscere, attrraverso il museo e l’Università della Pizza, e per insegnare ai ragazzi come farla, partecipando anche a diversi progetti sociali in cui conduce laboratori di “arte bianca”, rivolti a persone in difficoltà. Dopo tanto parlarne, siamo poi andati in gruppo ad assaggiarla. Gino ci ha organizzato una bella degustazione e abbiamo passato una bella serata davanti a una serie di pizze gustose.

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Maestro di “arte bianca” Gino Sorbillo, titolare di una delle più famose pizzerie napoletane, al centro con in mano il giornale, insieme alla redazione di Scarp

L’incontro / 2

In principio fu zia Esterina Ci e venuto a trovare Gino Sorbillo, il pizzaiolo più bello di Napoli; è un ragazzo bruno, atletico, ha uno sguardo molto carismatico e profondo. Ma non è solo bello, è anche molto bravo, infatti la sua pizzeria è frequentatissima, davanti al suo locale c’è sempre molta gente che fa la fila per entrare. Non ci vanno solo i napoletani, ma anche tanti turisti che arrivano da tutt’Italia e da tutto il mondo. Il suo motto è «qualità in quantità e prezzi onesti». Infatti da lui la pizza è molto buona, abbondante e non costa molto. Gino è nato in una famiglia numerosa in via Tribunali. Il papà aveva 21 fratelli. La prima era zia Esterina, il papà era il ventesimo figlio. Morirono i nonni e zia Esterina faceva da mamma e papà ai suoi fratelli e iniziò a fare le pizze fritte per la strada, finchè un giorno aprì una pizzeria in via dei Tribunali. Man mano che crescevano, i fratelli iniziarono ad aprire pizzerie in varie città d’Italia. Anche il padre di Gino, che si chiama Salvatore, ne ha avuta una per molti anni, ed è quella che gestisce Gino adesso; il padre gli dà ancora un mano. Si vede che è molto legato e affezionato a suo padre, l’ho pensato quando ci ha detto: «Mi ha insegnato tutto e ancora oggi ascolto molto i suoi consigli; io sono una persona autonoma e testarda, faccio sempre di testa mia, ma mia madre Candida, mia moglie Loredana e mio padre sono gli unici che ascolto sempre, sono dei modelli per me». Gino è un bel ragazzo moderno: veste sportivo, gli piace usare facebook, ma è anche un ragazzo legato ai valori tradizionali. È molto attaccato a Napoli e a via Tribunali, la strada dove è cresciuto; quando parla della sua famiglia gli brillano gli occhi. Anche se lo chiamano in Italia e all’estero ad insegnare come si fa la pizza, anche se incontra i grandi chef, si vede che non dimentica le sue origini popolari. È sposato con Loredana, ha due figlie e un altro è in arrivo. Secondo me Gino Sorbillo, anche se è molto famoso, è un gran lavoratore ed è rimasto un ragazzo semplice, quando l’ho conosciuto ero molto emozionata. E poi fa un pizza molto buona. Maria Esposito

L’incontro / 3

Si aspetta un po’, ne vale la pena Serata meteorologicamente perfetta per uscire dal “guscio”. L’aria tiepida – a Napoli il freddo è un’opinione – ti mette addosso la voglia di fare di più; io e Sergio siamo usciti prima delle 19, orario stabilito per incontrare gli altri compagni di Scarp. Un giro per le bancarelle di Port’Alba per sentire l’odore del “cartaceo”, l’acquisto di una penna stilografica, quindi una visita nella chiesa della Pietrasanta, dove era allestita una mostra presepiale splendida. Poi da Sorbillo, per gustare la sua famosa pizza. Tutti presenti, salvo Maria Di Dato, e la sua assenza si è avvertita – abbiamo sempre bisogno di “pillole di intelligenza”. Pizza di grande bontà: Gino tiene alto il nome della tradizione gastronomica nonostante la guida del Gambero Rosso che non lo abbia posizionato al top della classifica. C’era molta gente che mangiava beatamente pizze di ogni gusto, sempre nel rispetto della migliore tradizione napoletana. Il locale era affollato come sempre, come è affollata la strada davanti alla sua pizzeria, forse lo scrivono anche sulle guide «qui si aspetta un po’ ma ne vale la pena». È stata una splendida serata, chiusa con il ritorno a casa in compagnia di Sergio, Bruno, Maria e Massimo. Ho provato una leggerezza d’animo, grazie soprattutto alla breve passeggiata. In quel tratto di strada ho ritrovato ciò che avevo perso pochi giorni fa. Grazie Gino, anche per questo. Aldo Cascella febbraio 2013 scarp de’ tenis

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salerno Il centro storico: da luogo di degrado ma ricco di botteghe, a sede della vita notturna. Ora bisogna creare chance di lavoro

Il buio è alle spalle, la movida non basta di Antonio Minutolo Il centro storico di Salerno d’inverno è sotto i riflettori dell’Italia intera grazie alle ormai famosissime “Luci d’Artista”, che richiamano un enorme flusso di visitatori. Ma non sempre questa zona della città è stata così scintillante e qualificata: chi vi scrive è una persona che vi risiede da circa 40 anni (precisamente dal 1973) e si è integrato con le persone native di questo pezzo storico della città. Dagli anni Settanta fino all’inizio dei Novanta la situazione era davvero brutta: case fatiscenti e umide, situate anche nei cosiddetti “bassi” (sottoscala, dove ho abitato per quasi trent’anni), senza riscaldamento, e se volevi l’acqua calda dovevi mettere una pentola sul fornello a gas; si assisteva alla comparsa di “interessanti” animaletti, quali topi o scarafaggi. Addirittura, sotto il pavimento di alcune abitazioni c’era il vuoto, essendo tali bassi spesso privi di solide fondamenta: la mia famini (calzolai, fabbri ferrai, “cartonari” e glia fu costretta a cambiare casa, il gior“ombrellai”). Dal 1993 la vita della città e no in cui mia sorella rischiò di precipidel centro storico è cambiata, con l’avtare nel vuoto, a causa del pavimento vento del nuovo sindaco, che (con alcucedevole. Di notte all’esterno l’illuminani intervalli) amministra ancora oggi la zione pubblica era davvero scarsa, donostra Salerno. Egli ha letteralmente tolvevi camminare con la torcia in tasca, e to di mezzo tutto quel marciume di cui potevi incontrare varie persone poco sopra, ha donato un nuovo decoro e dipiacevoli e con cattive intenzioni. Per le gnità a questa parte di città, basandosi strade facevano mostra di sé diverse sisull’esempio urbanistico di una città gnorine, che mettevano in vendita il molto più grande, ma non tanto diversa, proprio corpo. Inoltre, lo spaccio di droga, nella zona, era davvero “vivace”.

Il terremoto ha svuotato il centro In più, il terribile terremoto del 1980, che ebbe come epicentro l’Irpinia, distrusse tantissime abitazioni del centro storico salernitano, provocandone lo sfollamento; da allora, molte famiglie sono state costrette ad abitare, per tanti tristissimi anni, dentro container fatiscenti e pieni di amianto (cancerogeno), prima di ricevere, solo pochi anni fa, un nuovo alloggio dignitoso dal comune. La mia casa, per fortuna, fu solo lievemente danneggiata dal sisma. Comunque, da allora il centro storico ha perso buona parte dei suoi abitanti. Però, nonostante le difficoltà, c’erano diversi aspetti positivi : di giorno c’era un bel numero di botteghe di artigia-

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scarpsalerno come Barcellona; inoltre, ha inaugurato un nuovo modo di vivere il centro storico, aprendolo ai giovani e al loro passeggio, così come ai loro consumi; da allora, questa zona è nota in tutta la Campania, e oltre, per il fenomeno della movida notturna.

Tanti locali, tanto rumore Come funghi sono nati tantissimi pub e locali di ristorazione, e sicuramente è bello vedere tutta questa vitalità in un luogo che sembrava ormai “morto” a causa dei suoi atavici problemi. Tuttavia, le botteghe artigiane dell’epoca sono un po’ alla volta scomparse. Noi, abitanti della zona, siamo sicuramente felici del miglioramento delle condizioni di vita, ma oggi dobbiamo far fronte ad altri problemi: gli schiamazzi notturni causati dai giovani che si ubriacano nei locali della movida, la musica ad alto volume (che in realtà è stata anche vietata da una delibera comunale). Ma il vero problema è la disoccupazione: scomparsi le vecchie botteghe e il commercio, è davvero difficile per noi abitanti trovare lavoro; bisognerebbe migliorare il turismo, magari creando cooperative di operatori turistici per valorizzare il patrimonio artistico della zona (che comprende lo splendido Duomo romanico con la tomba di San Matteo evangelista, e alcuni rarissimi esempi di architettura longobarda). Dopo aver superato il periodo del buio totale, siamo sicuri che si possano risolvere anche questi problemi.

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La denuncia

Periferie, non più ghetti ma servono collegamenti migliori La Salerno di oggi è progredita e avanzata e si presenta molto diversamente rispetto a vent’anni fa. La Salerno orientale, la zona più popolosa della città, quella che dalla stazione ferroviaria conduce fino allo stadio Arechi, tuttavia ancora oggi non gode di queste caratteristiche. Basta fare un giro per le periferie di Mariconda o Fratte per capire che l’armonia non è la stessa del centro, anche se le cose negli anni sono cambiate. Evitando il confronto con la zona centrale, infatti, bisogna riconoscere che nelle zone periferiche le recenti amministrazioni hanno provveduto a intervenire sulle emergenze, come gli edifici pericolanti e la sistemazione della rete stradale. Uno dei problemi maggiori era la presenza di interi quartieri-ghetto, formati da container; si trattava di zone malsane, assolutamente prive di servizi, in cui abitavano le famiglie del centro storico, sfollate dopo il terremoto del 1980. Una di queste zone era il cosiddetto “Villaggio dei Puffi”, in cui risultava una forte incidenza di malattie cardio-respiratorie; oggi questo quartiere, insieme alle altre zone dei container, è stato completamente smantellato e le famiglie sono state sistemate in abitazioni dignitose. Soprattutto, il livello di delinquenza in quartieri difficili come Mariconda è sensibilmente diminuito: oggi chiunque può passeggiare tranquillo anche di notte, nella zona. Tale miglioramento è dovuto anche all’opera delle parrocchie, che in queste aree si danno molto da fare per sottrarre i giovani dai pericoli delle strade. È pur vero che altre zone periferiche oggi presentano forti problematiche, purtroppo in aumento rispetto al passato, come i nuovi quartieri creati a Sant’Eustachio negli anni Novanta; bisogna occuparsi di quei rioni con la stessa sollecitudine che si è avuta per il centro storico. In periferia sono aumentate le aree verdi, ad esempio è stato creato lo splendido Parco del Mercatello, importante polmone naturalistico della zona orientale, luogo di passeggio e di jogging, al servizio delle famiglie. Sono stati incrementati i mercati agricoli, che hanno permesso agli abitanti di acquistare i prodotti necessari senza spostarsi troppo. Sono nati anche centri di accoglienza, come il “Bosco di Bistorco”, un centro diurno per minori con famiglie multiproblematiche, che ha lo scopo di garantire ai ragazzi un sostegno e un’esperienza educativa nelle ore pomeridiane. Sicuramente la strada da percorrere è molto lunga, anche perché in queste zone manca la speranza di una vita migliore, che via via andrebbe alimentata con una pratica volta al cambiamento, da non concentrare solo al centro. Sicuramente ciò che crea il divario non è soltanto il solito contrasto centro-periferia, ma la difficile possibilità di collegamento. Queste zone sono collegate solo dagli autobus di una nota azienda di trasporti salernitana, che attualmente sta attraversando un periodo di profonda crisi e ha ridotto di molto le corse garantite. Non tutti possono permettersi di prendere l’auto, e la metropolitana fantasma (in costruzione da oltre dieci anni, ma non ancora attivata) non si decide a comparire. Forse se ci fosse la metropolitana sarebbe più facile il collegamento, per tutti. Infatti, i ragazzi della periferia potrebbero raggiungere la città semplicemente e magari avvicinarsi alle attrazioni che questa offre, senza lasciarsi andare alle cattive compagnie dei borghi periferici: ma ci auguriamo di non dover aspettare altri vent’anni per fare in modo che ciò si realizzi. Manlio Santoro (ospite del centro Tangram) febbraio 2013 scarp de’ tenis

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catania Murales all’Help Center: la Sacra Famiglia dorme in macchina, come chi subisce sfratti o non riesce a pagare il mutuo...

Gesù è nato dentro l’automobile di Gabriella Virgillito Gesù bambino lo scorso Natale a Catania è nato non nella classica mangiatoia della tradizionale grotta, ma nell’abitacolo di un’automobile. Giuseppe, Maria e il Bambinello, infatti, sono vittime dello sfratto, come purtroppo è accaduto quest’anno a tante famiglie siciliane. Così la natività è stata rappresentata dagli alunni del liceo artistico “Lazzaro” di Catania (foto sotto) come una famiglia senza casa, costretta a dormire nell’auto dopo aver subito lo sfratto. L’attualissimo presepe è stato esposto davati all’Help Center della Caritas, luogo di accoglienza e ascolto alla stazione centrale della città etnea, ultimo approdo di chi perde la casa. Tra gli effetti della crisi economica, infatti, c’è anche un forte aumento degli sfratti. Un fenomeno che nel 2011 (ultimi dati disponibili) ha riguardato 63 mila famiglie italiane; secondo una ricerca pubblicata dall’Unione degli inquilini, tra le nuove sentenze di sfratto 56 mila erano motivate da morosità, Disteso sull’erba per lo più “incolpevole”. a braccia aperte, Catania ha un triste primato: è al quasi ad accogliere quarto posto in Italia per numero di la tranquillità, niente grandine, fulmini e saette, sfratti, con quasi l’87% di sfratti per moniente frastuoni, niente amenità, rosità su quelli emessi. Circa il 65% dellontano da rumori assordanti le famiglie vive a Catania in una casa di da spostamenti frenetici, proprietà. Solo il 25% vive in una casa in dalla città, gli alberi si ergono quasi a giganti. locazione, ma le famiglie in affitto, che Che pace, regna qui la serenità. sono quelle a reddito medio-basso, o Non voglio pensare a niente con un grande numero di componenti, chiudo in un cassetto pagano in media tra i 400 e i 600 euro al antichi rancori, niente notizie di guerre e violenze, metto mese per una casa di circa 80 metri quaal bando sofferenze e dolori. drati (considerata una media tra le zone Accendo per un attimo e la tipologia di contratti sia a canone lila radio, trasmettono bero che concordato). Il resto della poil concerto per la pace, la musica rimbomba polazione vive in alloggi di fortuna, in quasi fossi allo stadio, comodato o in case non dichiarate. una sensazione intensa, mi piace. Allora pace a piccoli Tanti gli sfratti per morosità e grandi, all’umanità, Questo il quadro presentato dal Sunia e che abbia volontà, dalla Cgil di Catania, per bocca del sese ci impegneremo gretario provinciale Giusi Milazzo e del saremo in tanti, sconfiggeremo segretario confederale Luisa Albanella, guerre e avversità. nella presentazione di un “Protocollo La pace più importante d’intesa sperimentale”. Il documento è interiore, aiuta muove dall’evidenza di una realtà in ad affrontar bene la vita, il nostro cuore incontra grande sofferenza. La gran parte delle il Signore, la vera pace procedure esecutive riguarda casi di infinita... morosità del conduttore (89%), deterAntonio Bergarelli

Pace

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minate in larga misura dalla perdita o diminuzione della capacità reddituale delle famiglie, anche a seguito del perdurare della crisi economica e occupazionale; la tendenza per l’anno 2012 è stata un ulteriore, evidente aumento del numero dei casi. Così, nel 2011 gli sfratti emessi nel territorio sono stati 1.004 di cui 867 per morosità (559 a Catania, 308 in provincia), mentre le richieste di esecuzione (relative anche a casi cumulatesi negli anni precedenti) sono state 2.559, e gli sfratti eseguiti 961. L’affitto e le spese per la casa rappresentano d’altronde voci consistenti nei bilanci delle famiglie e arrivano facilmente, nel territorio catanese, ad assorbire anche il 40% del reddito familiare, non solo in presenza di un unico per-


scarpcatania cettore di reddito. Circa il 60% delle famiglie in affitto rientrano in quest’area di grave sofferenza; la soglia di sostenibilità delle spese per la casa è infatti convenzionalmente fissata al 30% del reddito complessivo. Cresce, dunque, in Italia e anche a Catania il numero di persone e di famiglie che hanno bisogno di una casa preferibilmente in affitto a canoni socialmente sopportabili. D’altronde in Sicilia una famiglia su tre vive in condizioni di povertà, e tra i restanti sono molti coloro che hanno difficoltà di accesso al credito.

Perdono casa anche i proprietari Tra coloro che hanno subito uno sfratto, molti non riescono a trovare e affittare un nuovo alloggio, anche perché manca la disponibilità economica per pagare la cauzione, che si aggira intorno ai mille euro. Ma anche tra chi è proprietario dell’immobile in cui vive, sono sempre di più le persone che, magari dopo aver perso il lavoro a causa della crisi, non riescono più a tenere dietro alle rate del mutuo e rischiano di farsi pignorare l’immobile dalle banche. In molti ci hanno messo una pezza ricorrendo al “Buono casa” erogato dal comune o all’aiuto che la Caritas fornisce per coprire l’anticipo della cauzione. Per gli altri, a volte, rimane soltanto la propria automobile. Proprio come quest’anno, a Catania, è accaduto al bambino Gesù.

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La storia

Natale sotto sfratto, ho ricominciato da Scarp Lo scorso 26 ottobre, Sunia, Cgil e Spi Cgil di Catania hanno tenuto un presidio di fronte alla prefettura, a sostegno della piattaforma nazionale per le politiche abitative in occasione della “Giornata nazionale di mobilitazione degli inquilini”. Tra i punti salienti del documento, le richieste al governo di bloccare gli sfratti, di rifinanziare il fondo per il sostegno all’affitto, di introdurre una detrazione fiscale per gli inquilini. A Catania, il costo medio degli affitti è di circa 650 euro per un trivani in zona semicentrale; per un bivani non si va sotto i 500 euro mentre per un monovano sono richiesti dai 400 euro in su. Sono tantissimi i proprietari di immobili che preferiscono, invece, affittare singole stanze a impiegati, studenti o pensionati, purchè possiedano un reddito dimostrabile. In questo caso la richiesta oscilla dai 180 ai 250 euro (dipende sempre dalla zona in cui si trova l'appartamento). Io sto vivendo una situazione di precarietà da circa due mesi, praticamente da quando ho ricevuto la notifica di sfratto per morosità. Vivo da 14 anni nello stesso appartamento che avevo preso in affitto quando avevo un impiego fisso. Quando ho perso il lavoro, ho iniziato ad arrangiarmi con lavoretti saltuari che, comunque, mi hanno sempre consentito di pagare l’affitto, per la verità nemmeno molto alto, nonostante l’immobile si trovi in una zona della “Catania bene”. I veri problemi sono iniziati con l’introduzione dell’Imu sulla prima casa. A causa della nuova imposta il mio affittuario ha pensato bene di aumentare il prezzo della mensilità di locazione. Impossibile per me arrivare a una cifra pari a quasi il doppio di quella precedente e, francamente, ho anche realizzato che era uno spreco vivere da solo in un appartamento molto grande. Mi sono dunque rassegnato a vivere il mio primo Natale con un grosso punto interrogativo, oltre ai tanti dubbi e le infinite ricerche di una nuova sistemazione abitativa. È una situazione che diventa perfino imbarazzante per chi non ha mai preso in considerazione l’ipotesi di vivere in strada. Pensavo che prima o poi sarebbe finita così, soprattutto per alcuni problemi di salute che mi avevano impedito una costante attività lavorativa. Mi sono però accorto che nelle mie condizioni c’è parecchia gente, che il problema dello sfratto tocca un po’ tutte le persone che, vivendo sole, possono contare solamente su loro stesse. In un primo momento mi sono lasciato scoraggiare, poi è successo qualcosa che mi ha ridato fiducia: ho sentito e toccato con mano il sostegno di persone facenti parte delle comunità parrocchiali, che realmente sento accanto a me. Il parroco di una delle chiese che accolgono il progetto Scarp de’ Tenis mi ha aiutato economicamente a risolvere quel grosso problema di salute; poi, attraverso un’altra comunità parrocchiale, ho trovato un nuovo lavoro, a sostegno di una persona gravemente ammalata. In più, grazie sempre all’aiuto di tanti amici delle parrocchie, sono riuscito a trovare un appartamentino a prezzo accessibile per le mie possibilità (con la vendita di Scarp sono riuscito a pagare l’anticipo). È stato il mio primo Natale sotto sfratto, ma poi sono riuscito finalmente ad andare ad abitare in un nuovo appartamento e ricominciare a costruire la mia vita. Naturalmente ringraziando chi ha preso a cuore la mia situazione e chi ha compreso che, a volte, basta poco per far stare bene il prossimo. Roberto De Cervo febbraio 2013 scarp de’ tenis

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poesie di strada La solitudine La solitudine è una grande forza perché offre libertà di pensiero e permette di vivere in tutta tranquillità. Bello nella vita è solo l’impossibile ed è altrettanto necessario essere impassibili ad ogni evento per salvare le proprie capacità di introspezione e mantenere intatta e pura la sensibilità che nutriamo nel cuore. È solo così che vedremo miracoli; amando la vita, il nostro prossimo, le nostre attività, le nostre scelte… Per quanto mi riguarda forse era già nella mia mente la strada che ho intrapreso e che mi piace perché mi permette di inventare e assaggiare l’avventura e i segreti della mia arte e della strada… E questa emozione eccitante che ho dentro l’anima mi accompagna ovunque e mi abbraccia di nascosto… anche durante la notte… e non riesco più a staccarmi da questo mistero profondo che mi avvolge… Silvia Giavarotti

Lago Italia di Garda addio Seduto sull’erba d’un prato mi lascio baciare dal sole, le balze del monte le guardo con occhi incantati. È bello d’autunno ammirare nell’aria sì limpida e pura, le cime dei monti lontani di candida neve imbiancati. Il lago qui sotto è una culla, più azzurro del ciel le poche barchette son come triangoli fermi di carta. A mezza costa dal monte c’è una casa piccina. È certo un rifugio prezioso di semplici cose composto, d’un prato, un lago e un monte coperto da un immenso cielo colorato.

Diplomati, laureati, anni e anni, troppi anni allo studio dedicati, troppe persone nella categoria dei “disoccupati”; persone che dalla loro terra natìa molto presto andranno via per aver di una vita dignitosa una certa garanzia. Andranno via portando con sé l’amaro in bocca e nel cuore un profondo dolore. Mr Armonica

Gaetano Tony Grieco

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ventuno Ventuno. Come il secolo nel ventunodossier La crisi ha favorito quale viviamo, come l’agenda anche in Italia lo sviluppo per il buon vivere, come del microcredito. Molti soggetti l’articolo della Costituzione sulla libertà di espressione. si sono attivati per rispondere alla Ventuno è la nostra richiesta di prestiti di chi, in difficoltà, idea di economia. Con qualche proposta per trova chiuse le porte della banca. agire contro l’ingiustizia e Ora serve una legge. Che tarda... l’esclusione sociale nelle scelte di ogni giorno. di Andrea Barolini

21 ventunostili Nel vicentino l’esperienza del mercato “senza skei”. Dove non si compera, ma si baratta.

di Cristina Salviati

ventunoeconomia Un mercato che muove milioni di euro. Contro i falsi e la contraffazione uno stand che vede protagonisti, insieme, Polizia locale di Milano e venditori di Scarp de’ tenis

di Alberto Rizzardi

ventunorighe Fondo Famiglia Lavoro, risposta alla crisi

di Luciano Gualzetti vicedirettore Caritas Ambrosiana

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21ventunodossier Funziona nel Sud del mondo. Ma è sempre più diffuso anche tra noi: risolleva famiglie dalla crisi, promuove piccole aziende

Il “micro” aiuta, la legge latita dossier a cura di Andrea Barolini

Quando si parla di microcredito, di solito si pensa a forme di finanziamento valide per i paesi poveri. Ma anche in Italia, dove secondo i dati della Commissione europea il 16% della popolazione risultava (ed era solo il 2008!) escluso dai principali servizi finanziari, fioriscono forme di credito a soggetti “non bancabili”. Prestiti a famiglie in difficoltà o a piccolissime imprese: protagonisti sono molti soggetti del non profit. Ora al settore servono regole. Che la politica tarda a definire.

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Dati e analisi

Banche sportelli chiusi, non profit porte aperte Quando si parla di microcredito, si pensa ai paesi meno ricchi del mondo. Dove non solo gran parte dei cittadini non è in grado di rispondere ai requisiti imposti dalle banche per la concessione di prestiti, ma spesso non esiste neppure una rete di servizi finanziari capace di raggiungere l’intera popolazione. Per questo sono fioriti, in varie parti del mondo, progetti di finanza “parallela”, a partire dall’esperienza della Grameen Bank, fondata in Bangladesh dal premio nobel Muhammad Yunus. Da allora, la crescita del feno“non bancabili” (soprattutto giovani, meno è stata impressionante. Secondisoccupati e immigrati che non sodo un rapporto della Microcredit no in grado di fornire garanzie alle Summit Campaign, al 31 dicembre banche per ottenere prestiti) sia sem2009 erano 3.589 gli istituti di micropre esistita nel nostro paese, la dramfinanza operativi nel mondo, capaci matica recessione degli ultimi anni di raggiungere oltre 190 milioni di non ha fatto che incrementare il nuclienti (di cui più di 128 milioni, circa mero degli esclusi. Quelli cioè che gli il 67%, al di sotto della soglia di poeconomisti definiscono “poveri attivertà assoluta, persone che vivevano vi”. Persone che, pur vivendo in concon meno di un dollaro al giorno, pridizioni di difficoltà, avrebbero capama di ricevere l’erogazione del presticità tecniche e un’attitudine all’imto). D’altra parte, come sottolineato prenditoria tali da consentire loro di da un rapporto di Bankitalia del luglio sviluppare un’attività in proprio. O di 2011 (Inclusione finanziaria, le iniziaavere, perlomeno, flussi di denaro cotive del G20 e il ruolo della Banca d’Istanti per ripagare i debiti contratti. A talia), l’esclusione finanziaria riguarpatto, appunto, di riuscire a ricevere da ormai circa 2,5 miliardi di indivile linee di credito di cui hanno bisodui, e 450 mila imprese a livello glogno. bale. Meno “atavico”, più figlio degli ultimi anni di crisi, è invece il boom Gli esclusi? Il 16%... dell’esclusione bancaria nei paesi ricSecondo uno studio della Commischi, Italia compresa. Sebbene infatti sione Europea del 2008 (Financial una quota di soggetti considerati Services Provision and Prevention of


microfinanza

Leva per ripartire Una famiglia discute dei problemi che la affliggono: il microcredito si rivela utile strumento per “sbloccare” situazioni di disagio inasprite dalla crisi

I dati di «Bankitalia, quelli più aggiornati, che risalgono al 2010, ci dicono che l’esclusione dal credito riguarda anche il 10% di lavoratori con occupazioni più o meno regolari

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Financial Exclusion), in Italia ben il 16% della popolazione risultava esclusa dai principali servizi finanziari; nell’Europa a 15, riferisce Social Watch, il dato era pari, nello stesso momento, al 7%. Si tratta dunque di un’ampia componente di popolazione, tra l’altro fortemente accresciutasi proprio a partire da quell’anno (il primo di crisi), a causa del deterioramento delle condizioni economiche medie e, anche, per via del terremoto globale che ha travolto le banche e le ha “costrette” a chiudere i rubinetti del credito. «I dati più aggiornati, quelli di tre anni fa di Bankitalia, indicano che l’esclusione riguarda anche un 10% di lavoratori con occupazioni più o meno regolari», spiega Sabina Siniscalchi, senior advisor di Banca Etica. Il che dà la misura di come la crisi colpisca in modo drammatico anche chi percepisce un reddito: «Spesso si chiedono prestiti alle banche per risolvere problemi urgenti, anche di carattere sociale: dal pagamento del riscaldamento alla riparazione dell’auto con cui si va al lavoro», osserva Bruno Cassola, esperto di microcredito e autore del libro Esclusi! (edizioni Ecra, 2012).

A questa crescente massa di cittadini italiani “non bancabili”, una risposta è arrivata proprio dai numerosi attori della microfinanza (tra questi, molte Caritas diocesane ricoprono un ruolo di primo piano). «Nel nostro paese esistono oggi oltre 100 operatori, ma si possono considerare “specializzate” (ovvero dedite unicamente al microcredito) circa 35 realtà», spiega Giampietro Pizzo, presidente della Rete italiana di micro finanza “Ritmi”. Secondo lo European Microfinance Network (dati aggiornati a settembre 2010), in Italia l’82% degli istituti di microfinanza fa parte del mondo del non profit. L’Emn individua tra i soggetti più attivi cooperative e consorzi, che non solo erogano prestiti, ma offrono anche garanzie per “convincere” le banche a concedere capitali a cittadini e piccole imprese. E ancora istituti specificatamente dediti al microcredito come alcune ong (ad esempio la bolognese MicroBo) o società finanziarie (tra cui realtà ormai celebri, come la torinese PerMicro e la Fondazione Risorsa Donna). «Un ruolo di rilievo – sottolinea Cassola – è poi ricoperto dalle Banche di credito cooperativo. La Bcc febbraio 2013 scarp de’ tenis

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ventunodossier

calabrese di Mediocrati ha avviato un’iniziativa (“Voglio Restare”) rivolta ai giovani che vogliono sviluppare microimprese locali, anziché emigrare. La Bcc della provincia di Vicenza, insieme alla Caritas diocesana ha avviato un progetto di microcredito sociale etico: un fondo rotativo di garanzia, per stimolare piccoli prestiti a tasso agevolato. E non si tratta di casi isolati: iniziative analoghe sono state sviluppate in molte altre aree, ad esempio Crema e Udine. A Olevano Romano il parroco locale segnala alla Bcc della zona i casi più gravi che riscontra nel territorio: una sinergia per sostenere chi è in difficoltà e aiutare a creare nuovo lavoro».

tabella 1 Ammontare complessivo dei prestiti erogati (in milioni di euro, a fine 2010)

tabella 1 Numero complessivo dei prestiti erogati (a fine 2010) Residui di corporativismo Anche in Italia, dunque, il microcredito ha ormai la caratura di un fenomeno finanziario e sociale rilevante. Proprio per questo si attende da tempo una disciplina ad hoc da parte dei legislatori, che tuttavia tarda ad arrivare. Ad oggi, infatti, non esiste una legge dello stato che regoli il microcredito. Il che – oltre a rendere di fatto quasi impossibile un “censimento” dei soggetti che offrono piccoli prestiti a persone disagiate – complica anche il lavoro degli attori del settore, che ad esempio faticano a “distinguersi” dalle comuni finanziarie per il consumo (per intenderci, le società che erogano prestiti per l’acquisto di un’auto o di un computer). Esiste un disegno di legge, attualmente al vaglio del parlamento, che dovrebbe circoscrivere finalità, attività e comportamenti degli attori del microcredito italiano. Ma è fermo nei cassetti delle due camere da tempo, e ormai dovrà attendere i tempi lunghi della prossima legislatura. «Una nuova legge – spiega Pier Paolo Baretta (Pd), tra i promotori del testo in parlamento – aiuterebbe a superare alcuni problemi cronici. In particolare la scarsa visibilità e una sensazione di “non ufficialità” del comparto che deve sparire. Si tratta di dare un attestato di piena maturità all’intero sistema della microfinanza». La proposta può definirsi tripartisan (appoggiata cioè da centrosinistra, centro e centrodestra): «Occor-

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FONTE: Microcredito – Dimensioni e prospettive del prestito sociale e imprenditoriale in Italia, Fondazione Borgomeo, 2012 (i dati si riferiscono a 182 programmi di erogazione di varie forme di prestiti, non tutti ancora attivi. I criteri di analisi del fenomeno scelti dalla Fondazione Borgomeo sono più ampi e inclusivi di quelli adottati da altri soggetti, che dunque “restituiscono” una fotografia più restrittiva della portata del microcredito in Italia)

rerà però superare alcune resistenze e qualche residuo di corporativismo da parte degli istituti di credito», prosegue il deputato. «In ogni caso – aggiunge Sabina Siniscalchi – nella prossima legislatura non demorderemo: ripresenteremo la proposta, perché proprio in questo periodo è fondamentale garantire sostegno a lavoratori e famiglie colpiti dalla crisi, oltre che alle piccole imprese». Già, perché si può dire che esistano sostanzialmente due tipi di microcredito: il primo, quello “sociale”, si rivolge a chi ha bisogno di un prestito per pagare una spesa sanitaria inaspettata, una bolletta, l’affitto. Il secondo, invece, è rivolto a chi vuole av-

viare una microimpresa. Su questo secondo fronte, qualche passo in avanti concreto è stato fatto attraverso la riforma del Testo unico bancario, nell’estate del 2010, «nel quale sono stati specificati ammontare, modalità e beneficiari dei microprestiti – spiega Andrea Limone, direttore di PerMicro –. Purtroppo, però, mancano ancora i decreti attuativi, per cui la riforma è rimasta solo sulla carta». «Il ministro Grilli li ha annunciati a più riprese, e nel corso dell’estate scorsa aveva dichiarato che erano quasi pronti...», gli fa eco Giampietro Pizzo. L’unica “legittimazione” normativa del microcredito approvata, di fatto, dunque non è ancora operativa. Il


microfinanza

che significa che lo stato continua a dare al settore soltanto sostegni “estemporanei”: «È il caso dei fondi pubblici di garanzia istituiti nel Lazio, in Piemonte o in Sardegna – commenta Pizzo –. Oppure dell’iniziativa “Microcredito per l’Abruzzo”, nata dopo il terremoto grazie a fondi di Croce Rossa, Protezione civile e alcuni privati, con l’obiettivo di aiutare la piccola imprenditoria a ripartire».

Iniziative Caritas

A Salerno sponda nelle banche, a Bolzano prestiti in proprio

Persino in Romania Al contrario, a livello comunitario ci si è dati da fare. Commissione europea e Banca europea per gli investimenti hanno da tempo istituito i programmi Jasmine e Progress, finalizzati al sostegno degli operatori della microfinanza. «Il ruolo dell’Ue è stato molto positivo. Anche noi di PerMicro abbiamo ricevuto finanziamenti», sottolinea Limone. E anche alcuni singoli paesi sono più avanti di noi sulla questione: «Uno degli esempi migliori è la Francia – osserva Sabina Siniscalchi –, ma anche in Romania si registrano esperienze positive. In generale, dove esiste una normativa nazionale che facilita e snellisce le procedure, e abbina il prestito ad attività non finanziarie come l’accompagnamento, il tutoraggio e il reinserimento nel sistema creditizio tradizionale, il microcredito funziona. Sono le attività che fa ad esempio la Caritas, ma non sempre possono essere basate sul lavoro dei volontari: a volte servono professionisti del mestiere, il che comporta dei costi». Proprio per questo gli operatori italiani del settore chiedono un riconoscimento chiaro alle istituzioni. Formale e operativo: «Ci aspettiamo tre forme di aiuto dallo stato. Prima di tutto, una comunicazione che faccia comprendere il nostro lavoro ai cittadini. In secondo luogo, l’istituzione di un fondo di garanzia a vantaggio di chi fa microcredito. Infine, sostegno per le attività collaterali», conclude Andrea Limone. Sarebbe un modo per dimostrare vicinanza a chi è “dimenticato” dalle banche. E per combattere la doppia battaglia della prevenzione della povertà, e della promozione di nuove forme di iniziativa e sviluppo in economia.

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Nel 2012 sono state 143 (erano 121 nel 2010) le Caritas diocesane che hanno avviato programmi di sostegno alla popolazione e alle piccole imprese basati sul microcredito. Le esperienze indirizzate a famiglie in difficoltà sono state 137, quelle di cui beneficiano microimprese che stentano ad avere credito dalle banche 61; in molte diocesi, il micocredito viene erogato su entrambi i versanti. «Anche noi abbiamo un doppio canale, rivolto però sempre alle famiglie – racconta don Marco Russo, direttore della Caritas diocesana di Salerno –. La prima iniziativa è un programma di microcredito avviato grazie a una convenzione stipulata con la Banca di credito cooperativo di Battipaglia: abbiamo già erogato piccoli prestiti, fino a un massimo di 15 mila euro, a 150 nuclei familiari. Il secondo progetto si basa sul “Prestito della speranza”, avviato da tempo dai vescovi italiani insieme all’Associazione bancaria italiana: siamo tra i più attivi nel paese, avendo già erogato oltre un centinaio di prestiti». A rivolgersi a don Marco sono soprattutto persone che hanno perso il lavoro, o che non lo trovano da parecchio: «Ma la domanda è crescente, ormai vengono da noi anche piccoli imprenditori, o persone che hanno un lavoro ma sono entrate nel circuito perverso del sovraindebitamento, o che devono fronteggiare spese impreviste, magari a causa di una malattia. Questa crisi è pazzesca, e per il futuro non ci aspettiamo niente di buono: l’anno prossimo scadranno per molti i termini della mobilità e altre forme di ammortizzatori sociali, ci sarà un nuovo boom di richieste». Per questo la Caritas di Salerno sta cercando il supporto di un altro istituto bancario: «Ma non è facile; nonostante la diocesi funga da garante dei prestiti, si tratta comunque di assumersi un piccolo rischio, e non tutti hanno voglia di farlo». Non solo nel meridione Caritas sperimenta con successo interventi di microfinanza. Anche in una regione ricca come il Trentino - Alto Adige è in continua crescita il numero di persone escluse dai canali bancari tradizionali, e che senza un aiuto mirato non possono ottenere il supporto di cui necessitano. Nella provincia di Bolzano il Servizio consulenza debitori della Caritas, attivo dal 1999 per supportare i sovraindebitati, offre ormai un sostegno particolarmente articolato: «Abbiamo la possibilità di concedere donazioni a fondo perduto – spiega la responsabile del progetto, Petra Priller –, così come anticipi o prestiti a interessi zero. In questo modo abbiamo finora seguito 1.500 famiglie, e oggi la crisi ne sta incrementando il numero». Il tutto senza l’aiuto degli istituti di credito: «Nel 2011 avevamo stipulato convenzioni con cinque banche locali, ma abbiamo verificato che per ragioni logistiche, e anche per consentire di erogare prestiti a tasso zero, conviene lavorare autonomamente». Così, la Caritas di Bolzano riesce a concedere donazioni per circa 170 mila euro all’anno, e numerosi prestiti tra i mille e i 5 mila euro ciascuno. Insieme a un’ampia gamma di servizi di accompagnamento, consulenza e assistenza. Un aiuto, che rimette sulle proprie gambe molte persone. febbraio 2013 scarp de’ tenis

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21ventunostili Una pratica economica antichissima, nuove e creative forme per tradurla in atto. Puntando anche a fare cultura e comunità

Il baratto di domani: no skei, sì party di Cristina Salviati

«La cultura è fatta di cose che ci scambiamo». Da qui l’idea, nel vicentino, del “No skei day”, mercato particolare, dove si espone ma non si vende. Semplicemente, si scambia.

di Cristina Salviati

64. scarp de’ tenis febbraio 2013

Il Pil decresce. La crisi incalza. Siamo sempre più poveri, ci dicono, e ne sappiamo qualcosa noi che osserviamo il mondo dal punto di vista della strada. Ma la povertà di cui si parla è solo economica, o è ancor prima una mancanza di solidarietà e di valori che devono essere recuperati? A San Vito di Leguzzano, provincia di Vicenza, credono che la ricchezza sia qualcosa di più di un robusto conto in banca. Qualcosa oltre il denaro – “i schei”, come si dice in Veneto. San Vito è un comune piccolo per numero di abitanti, ma grande per il cuore che ci mettono i suoi cittadini nel far vivere il tessuto sociale. Così è nato il “No Skei Day”: proposta che spicca, per originalità e profondità di significato, tra le iniziative di baratto e di riuso che sempre si diffondono nello Stivale. « No Skei Day – spiega Cristiano Filippi Farmar, tra i principali animatori del progetto – è nato nel 2010. Si tratta di un’iniziativa a carattere culturale e sociale, che ha lo scopo primario di valorizzare l'atto del donare senza secondi fini. I partecipanti possono infatti sperimentare liberamente sia la

gioia di regalare un proprio oggetto, sia quella di ricevere un dono da altre persone. In ciò vi è certamente anche una critica al modello sociale ed economico oggi prevalente, in cui ogni oggetto deve possedere un valore monetario stabilito. Qui, per contro, ogni oggetto viene considerato in base al valore affettivo di chi lo possedeva e lo dona, nonché alla sensazione di piacere di chi lo riceve. No Skei Day vuole porre domande: la società di oggi è ancora capace di esprimere il valore del dono? In quali ambiti e con quali modalità esso continua a essere un valore aggiunto nelle relazioni tra le persone?».

Tra dischi, vestiti e libri... In questa giornata, che si tiene ogni anno all’inizio di giugno, le persone possono circolare tra i banchetti allestiti tra la piazza e le corti, portando il proprio fagotto di giochi, libri, dischi, vestiti, soprammobili da esporre e da scambiare. Può essere l’occasione per cercare l’oggetto che ci tornerebbe tanto utile e del quale invece qualcun altro è lieto di liberarsi. Oppure può


commerci equi diventare un momento di completa libertà per donare o per ricevere, senza l’obbligo della reciprocità, per la sola gioia del dono che è incontro, che è festa, e che viene incoraggiato come gesto « che sta alla base del rapporto di collaborazione, cordialità e amicizia tra sconosciuti, con un intento critico verso una società, la nostra, dell’individualismo imperante.». Al No Skei Day, però, non vengono scambiati solo oggetti, ma anche informazioni, emozioni ed esperienze. « La nostra vita è fatta di scambi. – ricorda Cristiano Filippi Farmar –. Tutte le relazioni sono fatte di scambi: abbiamo sempre bisogno degli altri e gli altri di noi. Non possiamo trovare amici se non scambiamo e non doniamo, che si tratti di oggetti, di quello che sappiamo fare o del nostro tempo. Il No Skei Day ci ricorda l’importanza di questo scambio. E ci invita a riutilizzare le cose che non ci servono più, regalandole o scambiandole, così da renderle di nuovo vive, per ridurre i consumi e per inquinare meno l'ambiente. Infine, ci esorta ad essere più generosi e altruisti, scambiandoci liberamente idee, informazioni e saperi».

Impronta Culturale A realizzare la giornata concorrono le tante associazioni di volontariato locale che si rendono disponibili per dare dimostrazione e per insegnare le attività manuali. Al No Skei Day collaborano anche altri soggetti impegnati nel “fare la cosa giusta”, che con esposizioni, laboratori e incontri diffondono buone pratiche di consumo, di produzione, in generale di uno stile di vita “buono”. Poi, tra uno spettacolo musicale e uno di teatro, a cena ciascuno porta qualche vivanda da condividere e un bicchiere per bere. La giornata rientra nel più ampio progetto “Impronta Culturale”, tramite il quale il piccolo comune vicentino propone attività ispirate proprio al motto “La cultura è fatta di cose che ci scambiamo”. Recentemente il progetto si è aggiudicato il premio nazionale “Comuni virtuosi – Comuni a 5 stelle 2012”, nella categoria “Nuovi stili di vita”. Un’idea diversa di relazione, con le cose e i nostri concittadini. Non resta che farne buon uso.

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Genova

Tutti pazzi per lo “swap”, che poi continua su facebook Arriva dagli Stati Uniti, per ora pare un efficace sistema anticrisi e offre l’occasione di ampliare la propria rete di contatti e amicizie. Un sistema di scambio, che la storia dell’economia conosce sin dai suoi albori: il baratto. Ma uno dei modi più antichi del mondo per fare affari viene riadattato, e diventa una pratica – terribilmente glamour (oltre che a portata di qualunque portafoglio) – per scambiarsi oggetti e abiti usati, in un contesto ricreativo e socializzante: all’interno di feste a tema o di luoghi pubblici di ritrovo. L’idea, di per sé, è semplice ed efficace e non poteva che trovare terreno fertile a Genova, i cui abitanti sono da sempre noti – nel bene e nel male – per la grande attenzione al risparmio.

Cambio stagione. In musica... Al Circolo Arci Belleville, centro storico di Genova, ci si prepara ai cambio di stagione, barattando coperte e vestiti usati.

E così lo scorso anno nel capoluogo ligure è approdato il primo swap party, una vera e propria festa, a cui tutti sono invitati a partecipare, per trovare e scambiare oggetti di ogni tipo. Abiti, mobili, suppellettili, libri: tutto può rientrare nel baratto, purché in buono stato di conservazione e in grado di soddisfare i due “contraenti”. In pratica, tutto ciò che a uno non piace più potrebbe essere perfetto per qualcun altro, basta solo trovare un nuovo proprietario... In tempi di crisi, lo swap party ha trovato larghe adesioni in terra ligure. Il baratto, però, non è solo un sollievo per il portafoglio. Può rivelarsi anche occasione di socializzazione, di conoscenza reciproca, di scambio di idee su una nuova economia sostenibile. Senza contare che anche chi non riesce a partecipare fisicamente all’evento può poi prendervi parte, tramite l’immancabile supporto dei social network. Il gruppo facebook “Te lo regalo se vieni a prenderlo” consente dunque a chi ha qualcosa da “offrire” di pubblicare in bacheca un annuncio che descriva sommariamente l’oggetto e il luogo in cui si trova, preferibilmente con una foto a corredo. Chi è interessato all’oggetto risponde pubblicamente all’annuncio, offrendo un altro bene in contropartita. Si innesca così la trattativa: se va a buon fine, i contraenti si incontrano in uno luogo stabilito per perfezionare lo scambio, confidando nei principi di correttezza e buona fede. Il baratto, dunque, si trasforma: non solo scambio di oggetti a chilometro zero, ma anche occasione di festa e luogo di condivisione virtuale. Non solo affari, insomma, ma una nuova idea di comunità. E la scommessa su un’economia basata sulla collaborazione e la fiducia. [paola malaspina] febbraio 2013 scarp de’ tenis

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21ventunoeconomia La contraffazione muove scambi miliardari. Causando danni a produzione, occupazione e salute. Italia, triste primatista...

Mercato del falso, cifre da capogiro di Alberto Rizzardi

Quando si parla di contraffazione ci si riferisce a un fenomeno transnazionale e a tutto tondo; un mercato magmatico e in continua evoluzione, che solletica gli appetiti criminali e tocca un po’ di tutto, dagli alimentari ai capi di abbigliamento, dai giocattoli alla bigiotteria, arrivando persino ai medicinali, con non poche preoccupazioni, relative ai possibili danni per la salute dei consumatori. Ci sono falsi che girano mezzo mondo prima di arrivare a destinazione, e vanno a intasare e ammorbare mercati che, negli ultimi anni, complice una crisi sempre più mordace, già non godono di una salute robusta... Le stime fornite nel 2009 dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) attestavano il valore del (contro)mercato internazionale della contraffazione ad oltre 250 miliardi di dollari. Un fenomeno capace di estendersi in quattro continenti, mentre le principali aree di provenienza di prodotti falsi sono situate in Asia; su tutte, Cina, Hong Kong, Tailandia e Taiwan. E in Italia? Il nostro paese, fanalino di coda in molte classifiche europee, occupa in questo caso le posizioni di vertice, prima nazione europea consumatrice di prodotti contraffatti e terza produttrice. Numeri niente male, degni di un vero e proprio settore industriale regolare, tanto che le stime del fenomeno

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contraffazione veleggiano, in Italia, attorno ai 7 miliardi di euro, senza contare le perdite derivanti dal cosiddetto italiansounding, ovvero quei prodotti il cui nome rimanda più o meno vagamente a origini italiane, che Federalimentare e Istituto nazionale del commercio estero quantificavano nel 2010 in 21 miliardi di euro per il solo comparto agroalimentare. E contraffazione fa rima anche con perdita di posti di lavoro regolari e mancati introiti per le casse statali. Stando a una recente indagine promossa da ministero dello sviluppo economico e Censis, per esempio, senza la contraffazione ci sarebbero, in Italia, 110 mila posti di lavoro in più e 1,7 miliardi di euro di maggiori entrate per il fisco.

Sequestri, anche on line Un fenomeno, dunque, davvero dai grandi numeri, sul quale i vari paesi hanno giocoforza accresciuto negli anni la loro attenzione, intraprendendo iniziative ora nazionali ora locali per

cercare, se non di debellarne la portata, almeno di comprenderne e contenerne l’espansione. In Europa la Commissione di Bruxelles, tramite la Taxation and Customs Union, raccoglie e pubblica le statistiche relative alle attività di contrasto effettuate dalle dogane dei paesi membri attraverso sequestri delle merci in ingresso. Gli ultimi dati disponibili, relativi al 2011, offrono una fotografia nitida del fenomeno della contraffazione a livello continentale: circa 91mila i sequestri effettuati (in leggero calo rispetto agli anni precedenti, ma con un deciso incremento dei sequestri nelle vendite on line); il 73% delle merci sequestrate è di provenienza cinese; abbigliamento e scarpe sono tra i prodotti più imitati e compongono, insieme a medicinali e sigarette, quasi il 42% del pacchetto dei prodotti confiscati. Iperico, la banca dati sulle attività di contrasto alla contraffazione attivata dal ministero dello sviluppo economico, ha pubblicato a luglio i dati di un’indagine relativa al periodo 2008-2011. Essa svela che in quattro anni l’Agenzia delle dogane e la Guardia di Finanza hanno effettuato oltre 71 mila sequestri, che hanno riguardato oltre 228 milioni di beni falsi. E se cala il numero di sequestri (19.683 nel 2009, contro i 15.304 del 2011) e di beni contraffatti (poco più di 68 milioni nel 2009, attorno ai 54 milioni lo scorso anno), aumenta però la di-


i costi dell’illegalità mensione media dei sequestri. Entrando nel dettaglio del contesto italiano, il maggior numero di sequestri si concentra nel Lazio (21% dei sequestri effettuati in Italia), seguito da Lombardia, Campania e Puglia. A farla da padrone sono capi di abbigliamento, calzature e accessori, che insieme rappresentano il 70% dei beni sequestrati. Tra le città guida la classifica Roma, seguita da Reggio Calabria e Milano. All’ombra della Madonnina, nei primi sei mesi del 2012 sono stati eseguite circa 3.900 operazioni, 2.606 sequestri amministrativi e 680 penali. Nello specifico, secondo i dati della sola polizia municipale, sono stati sequestrati 2.300 chilogrammi di prodotti alimentari contraffatti tra carne, pesce, latticini, verdure e derivati dei cereali; 60 mila tra borse, orologi, cinture, occhiali da sole e foulard falsi; più di 12 mila pezzi di bigiotteria e oltre 25 mila giocattoli non a norImmaginate una bancarella che non vende ma insegna ma e potenzialmente dannosi. E proad acquistare. Soprattutto, immaginate una bancarella animata da agenti prio a Milano, a fine settembre, è nato il di polizia locale e da venditori di strada che, insieme, rispondono alle domande Consiglio milanese anticontraffazione dei passanti. È quanto avvenuto dal 17 al 24 dicembre, nella centralissima (Cma), frutto della via Dante di Milano, a due passi dal Duomo. Lo stand collaborazione tra appariva simile alle tante bancarelle dello shopping natalizio, l’assessorato al ed era anch’esso allestito con abiti di varie fogge e commercio e cttidimensioni, giocattoli e profumi. Gli oggetti avevano tutti vità produttive di una caratteristica comune: si trattava infatti di merce Palazzo Marino e contraffatta. L’obiettivo dell’iniziativa, denominata l’associazione cen“Sentinelle anticontraffazione”, era infatti illustrare gli effetti tro studi Grande della contraffazione e i danni che questo fenomeno arreca Milano. Il neonato all’economia legale. Gli agenti presenti, specializzati Consiglio, oltre a nel combattere questo tipo di reato, spiegavano come promuovere un riconoscere un prodotto originale dalle sue imitazioni. monitoraggio punNei primi 11 mesi del 2012, la polizia locale di Milano ha tuale e costante del sequestrato circa 600 mila oggetti contraffatti tra borse, Alla sicurezza fenomeno contrafcinture, scarpe, portafogli, occhiali, bigiotteria, cosmetici, L’assessore Marco Granelli fazione, decisivo profumi, farmaci e giocattoli, per un valore superiore ai 12 milioni di euro. Contemporaneamente, durante l’iniziativa, i anche in vista di Exvenditori di strada distribuivano i volantini preparati per l’occasione, po 2015, intende porsi come trait d’umostrando con efficacia anche ai venditori abusivi (l’iniziativa non intende nion tra le istituzioni e gli operatori che, infatti criminalizzare, ma diffondere un costume di legalità) come sia possibile a vario titolo, si occupano di contraffauscire dal tunnel del lavoro nero. zione e tutela della proprietà intellettuaI risultati del gazebo sono stati superiori alle aspettative: in una sola le e del made in Italy. settimana sono stati distribuiti 5 mila volantini e circa duemila persone si «Perchè la contraffazione – dice Piesono fermate ogni giorno a visionare gli oggetti e a parlare. Al di là dei tro Giordano, segretario generale di Adinumeri, si è però ottenuto un risultato ancora più importante: è stato consum – è un male da estirpare e non possibile spiegare ai passanti che esistono soluzioni a un problema grave. proviene solo dall’estero, ma nasce anl progetto “sentinelle Anticontraffazione” sarà riproposto da metà febbraio che nel nostro paese. È, dunque, impornei mercati cittadini ed è realizzato grazie alla collaborazione tra assessorati tante monitorare il fenomeno in maniealla sicurezza e coesione sociale e al commercio e attività produttive ra capillare, coinvolgendo anche le asdel comune di Milano, ministero dello sviluppo economico, Associazione sociazioni dei consumatori, che, attranazionale comuni italiani (Anci), Confcommercio Milano, FedermodaItalia verso le loro sedi locali, conoscono in Milano, Consiglio milanese anticontraffazione (Cma) e, naturalmente, profondità il tessuto socio-economico Scarp de’ tenis. [Andrea Carobene] del territorio su cui sorgono».

Milano, a febbraio torna lo stand

Vigili e venditori di Scarp, “sentinelle” anti-contraffazione

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ventun righe di Luciano Gualzetti vicedirettore Caritas Ambrosiana

Fondo Famiglia Lavoro, risposta alla crisi Il Fondo Famiglia Lavoro, il progetto di sostegno alle famiglie come risposta alla crisi, voluto dal Cardinale Tettamanzi e rilanciato di recente dal Cardinale Scola, entra nella seconda fase, con un nuovo obiettivo: creare opportunità di lavoro. Riqualificazione professionale, auto-imprenditorialità, capacità di fare impresa saranno dunque le linee guida della seconda fase del Fondo Famiglia Lavoro. Un salto di qualità rispetto alla precedente iniziativa, perché ha l’ambizione di aiutare le famiglie non solo a fronteggiare la crisi, ma a trovare il modo per uscirne, mettendole nelle condizioni di avere un reddito continuo. Per questa ragione il Fondo Famiglia Lavoro, in questa seconda fase, si avvarrà anche della collaborazione di nuovi soggetti: Compagnia della Opere e Economia di Comunione - Movimento dei Focolari, Confcooperative Confartigianato e Acli, già coinvolta nella prima fase. In tre anni (dal 23 gennaio 2009 al 31 dicembre 2011) il Fondo Famiglia Lavoro ha aiutato circa 7 mila famiglie ad affrontare la crisi. Oggi, la sfida è ancora più alta. Saranno quattro gli strumenti operativi di questa seconda fase: • percorsi di orientamento e formazione mirata di durata indicativa di sei mesi, per i quali sarà prevista anche un’indennità economica. • interventi di microcredito finalizzati alla creazione di una piccola attività attraverso l’erogazione di prestiti personali fino a un massimo di 10 mila euro rimborsabili in 6 anni con un preammortamento di 6 mesi. • fare impresa insieme, uno strumento che non prevede un aiuto economico ma attività di accompagnamento e formazione per le imprese. • contributi a fondo perduto, solo dopo avere verificato l’impossibilità di attivarne gli altri strumenti.

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lo scaffale

Le dritte di Yamada Speriamo che inventino un’app per intrufolarsi tra le pagine di un libro illustrato, perché dentro la storia che sto per presentare ci volerei volentieri. L’Omino e Dio è il libro-prodigio uscito dalla testa Il disagio Gli incivili, e le mani di Kitty Crowther, illustratrice belga che nel ascoltato sbeffeggiati da 80 anni da Fiamma 2010 ha vinto l’Astrid Lindgren Memorial Award (considerato il Nobel della letteratura per l’infanzia) con Essere in rima è Fiamma Satta, questa motivazione: “Maestra del disegno, ma anche un piccolo libro nota al grande degli stati d’animo, riesce a trasformare e rinnovare con poesie e pubblico per la il concetto di libro illustrato. Nel suo mondo, la porta disegni raccolti trasmissione Fabio tra le persone che, & Fiamma su che divide fantasia e realtà è spalancata grazie a una nel disagio, hanno Radio Rai 2, profonda empatia con i meno fortunati”. In Italia i suoi incontrato i servizi andata in onda per libri tradotti sono pochi, e quelli disponibili (per le edidella Fondazione 23 anni, in Diario trici Topipittori e Almayer) smuovono pensieri e Auxilium, che racconta, in modo emozioni davvero forti. L’elaborazione del lutto da a Genova accoglie spassoso, le sue da oltre 80 anni esperienze con parte del bambino, la paura della notte, la capacità di le persone quelli che chiama far evolvere i legami, la depressione, l’amore, la emarginate e gli abilioni, ovvero coscienza di sé: sono solo alcuni dei temi raccontati in difficoltà. gli abili incivili: dalla bravura della Crowther nel modo profondo che i Il verso e il disegno la mancanza di suoi fan, di tutte le età e latitudini, le riconoscono. si confermano rispetto di queste mezzo persone per le A tali temi si aggiungono le tavole e il testo di L’Od’espressione regole civiche e mino e Dio. La storia: un giorno un Omino, durante potente per il prossimo, una passeggiata nel bosco, incontra una “cosa” per chi vive genera difficoltà informe, magica e bianca, circondata da un'aura aranl’emarginazione, insormontabili cione: a domanda, risponde che è Dio. Meglio: «Io non capaci a chi è disabile, di scavalcare come Fiamma sono Dio, sono un dio. Siamo tanti, numerosi come le differenze e Satta, malata di le stelle del cielo, e forse un pochino di più». di abbattere facili sclerosi multipla. L’Omino non se lo figurava così: se lo immaginava classificazioni. Lo fa con ironia e vecchio, con barba e capelli bianchi, l’aria severa, la senza vittimismo. tunica blu-cielo. E Dio, sorridendo, si trasforma Fondazione Auxilium con Fiamma Satta nell’immagine che gli ha appena detto l’Omino. Emmaus Genova Diario. Ma poi si diverte, e prende la forma di un coniglio, Essere in rima Diversamente un cervo, un gorilla (e l’Omino trema dalla paura), Info: Auxilium affabile sempre con l’alone luccicante e arancione tutt’intorno. (010.52.99.528 Add editore Diventa perfino il canuto padre dell’Omino, e l’Osegreteria@fondazio pagine 128 neauxilium.it) euro 7 mino torna a sorridere. Continuano a camminare nel bosco – l’Omino con le mani in tasca e Dio con le mani dietro la schiena – e qualsiasi cosa balugina d’arancione: ora una pietra, poi tocca a un albero, poi a un animale, a un fiore, a una piantina. Tutto è impregnato della luce arancione che s’irradia da (quel) Dio. Che viene invitato a pranzo, nella casa dell’Omino: mangiano un’omelette, che Dio non aveva mai assaggiato. Visto il bel tempo, il pomeriggio prosegue in riva al lago vicino alla casa dell’Omino, dove... l’Omino fa il bagno e Dio cammina sulle acque, prima d’immergersi anche Lui. L’Omino svela a Dio che ama arrampicarsi sugli alberi, Dio confessa che è un po’ maldestro, e preferisce volare sui rami piuttosto che scalarli. E arriviamo alla pagina dove vorrei andare, se un’app ci assistesse. Si vedono Dio e l’Omino, quasi di spalle, a parlare davanti al lago, il cui specchio – divenuto completamente arancione – riflette quieto il paesaggio ormai notturno, cornice di quest’incontro così misterioso, pieno e malinconico, che è arrivato ai saluti... L’Omino e Dio di Kitty Crowther ha la forza di rendere visibile un incontro impossibile: la storia – eccezionale nel segno e nella parola – fa muovere i protagonisti in una dimensione di ascolto e scambio che commuove, rasserena. E rende il libro un “luogo”magico a cui tornare. L'Omino e Dio di Kitty Crowther, Topipittori, 2011

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Immagini e parole, vita di un pastore Il libro fotografico ripercorre l’intensa parabola dell’arcivescovo di Milano. Un libro nel quale Martini torna a “parlare” attraverso le espressioni del suo viso, i momenti ufficiali e gli incontri personali, e attraverso le sue parole, organizzate secondo i filoni che hanno contraddistinto il suo insegnamento. Grazie all’accurata selezione di fotografie emerge in modo sorprendente il pastore lungimirante. Il pastore buono, perché credibile. Carlo Maria Martini. Apostolo della Parola In dialogo e Centro Ambrosiano pagine 168 euro 15,90


Milano

Cucio il bottone, conosco i materiali: i laboratori di Ohibò Una giornata all’insegna del taglia, cuci e fila. L’associazione Ohibò di via Benaco organizza domenica 10 marzo, nell’ambito delle sue iniziative per bambini, un incontrolaboratorio: “Cucio il bottone. Laboratorio spettacolare alla scoperta di quante cose si possono cucire insieme”. Per gli adulti accompagnatori, una lezione gratuita di maglia, con le AmMAGLIAtrici. Un altro corso interessante è il “Laboratorio dei materiali”, per imparare a conoscere, usare, riciclare: il prossimo incontro è il 17 marzo. Ohibò è un’associazione di promozione sociale affiliata all’Arci; propone numerosi corsi per bambini e adulti, diversi sono gratuiti, ma soprattutto non sono i soliti corsi convenzionali. Da visitare. INFO www.associazioneohibo.it

Milano

Incontri formativi per promuovere l’affido in famiglia L’affido familiare è un intervento di aiuto a favore di un minore la cui famiglia di origine si trova temporaneamente in difficoltà. È un intervento a tempo determinato, finalizzato al raggiungimento del benessere del minore e al superamento della situazione di crisi della sua famiglia. L’assessorato alle politiche sociali e cultura della salute del comune di Milano, in collaborazione con le organizzazioni del terzo settore che da anni si occupano di bambini e ragazzi, ha annunciato il progetto “Promuovere e sostenere reti per l’affido nel comune

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di Milano”, finanziato dalla Fondazione Cariplo: un modello che integra intervento pubblico e privato, per diffondere una nuova cultura della solidarietà tra famiglie, allargata e partecipata, e promuovere le esperienze concrete di accoglienza familiare. Per saperne di più sull’affido e sulle nuove forme di accoglienza familiare è possibile partecipare agli incontri informativi (ore 18) che partono dal 13 marzo e durano fino a giugno. INFO Coordinamento Affidi 02.88463012 e 02.88463013

Milano

Letture pubbliche: Ulissi a Milano, odissee di città Il Piccolo Teatro organizza la rassegna Ulissi. Viaggio nelle odissee. Gli incontrispettacolo si svolgeranno fino ad aprile; vi prendono parte alcuni tra i più grandi interpreti del teatro contemporaneo in Italia: Antonio Catalano, Guido Ceronetti, Federica Fracassi, Moni Ovadia, Marco Paolini, Massimo Popolizio, Fausto Russo Alesi, Toni Servillo. Le performance si terranno nei luoghi più inattesi della città: palazzo di giustizia, mercato comunale di piazza Wagner, biblioteca comunale di via Lorenteggio, Casa della Carità. E naturalmente al Piccolo. Negli incontri sono previste letture di autori e di testi che spaziano dall’antichità più remota a oggi: dall’Odissea, naturalmente, a Joyce; dalle Mille e una notte a Platone ed Eschilo; dal Satyricon a Karen Blixen e Mimmo Borrelli; dall’Epopea di Gilgameš a Kavafis e Seferis, e ai racconti degli ospiti della Casa della Carità. Ad affiancare le letture ci saranno le riflessioni di personalità in prima linea nell’impegno civile e sociale. Fra gli appuntamenti segnaliamo: al mercato comunale di piazza Wagner, giovedì 7 marzo alle ore 17.30, in collaborazione con biblioteca comunale di piazza Sicilia, la lettura “Non somigliava a un mangiatore di pane”, tratta dall’Odissea ed effettuata da Marco Paolini; segue un incontro con don Virginio Colmegna ed Eva Cantarella. INFO www.piccoloteatro.org

Pillole senza dimora I senza dimora di Ursus (Polonia) lavorano per circumnavigare il globo Accade a Ursus, un sobborgo della capitale polacca, Varsavia. È il 2006. Un gruppo di senza dimora decide di fare del mare la propria casa. E così hanno cominciato a costruire una nave vera e propria. Adesso sono oltre 60 a essere impegnati nella costruzione. La loro speranza è di realizzare un’imbarcazione a bordo della quale possano navigare intorno al mondo. Si tratta di un progetto che ha il supporto dell’associazione di assistenti sociali Kamilianska. Ma anche i cittadini di Varsavia stanno contribuendo a sostenerli, elargendo fondi privati. L’obiettivo è realizzare una nave a vela da 18,5 metri di lunghezza e 35 tonnellate di stazza; il 70% dell'imbarcazione è già stata assemblata. In attesa di veleggiare, i senza dimora in questo modo hanno trovato un posto in cui lavorare quattro ore al giorno, il loro cantiere navale. E anche un luogo in cui vivere...

Milano

Rete G2 e comune aprono lo sportello per le seconde generazioni Sarà attivo da marzo uno sportello per dare informazioni, sostegno legale e occasioni di confronto culturale ai figli di immigrati nati in Italia. Le seconde generazioni – grazie al sostegno del comune di Milano, che darà


caleidoscopio Miriguarda di Emma Neri

Ludopatia: la malattia del gioco colpisce le persone vulnerabili La nuova emergenza sociale si chiama ludopatia. Si susseguono ormai da tempo inquietanti allarmi, cui si è aggiunto, in gennaio, quello di Caritas Ambrosiana, che ha condotto un’indagine su un campione di propri centri di ascolto. Il 71% degli sportelli che hanno riposto all’indagine afferma che il gioco d’azzardo è molto o abbastanza diffuso tra i propri utenti, il 58% ritiene di aver avuto la percezione che le persone incontrate avessero problemi di gioco d’azzardo problematico, il 48% dichiara di avere incontrato giocatori patologici. Almeno la metà dei centri Caritas ha intercettato da una a 20 persone in un anno rovinatesi con il gioco. E poiché gli utenti dei centri di ascolto sono in maggioranza stranieri, disoccupati, con livelli d’istruzione medio-bassi, l’indagine conferma che le vittime preferenziali del gioco d’azzardo sono proprio le persone con minori risorse economiche e culturali. La ricerca, peraltro, mette in luce soltanto la punta dell’iceberg. La dipendenza da gioco d’azzardo, infatti, non è in genere esplicitamente espressa dalle vittime. Nel 23% dei casi, la ludopatia è stata individuata solo dopo svariati colloqui, nell’11% a indicarla è stato un parente della vittima (in genere la moglie), solo nel 7% è stata confidata al volontario del centro di ascolto direttamente dalla persona interessata, che ha chiesto aiuto. Gli effetti sociali sono facilmente immaginabili: impoverimento ulteriore, indebitamento, solitudine, frantumazione delle relazioni familiari, fino alla collusione con la microcriminalità o la criminalità organizzata. La conferma viene da un altro strumento della rete di assistenza che fa capo a Caritas Ambrosiana: la Fondazione San Bernardino, voluta dai vescovi lombardi per aiutare le persone gravemente indebitate e prevenire il fenomeno dell’usura. Secondo l’analisi della Fondazione, ogni anno almeno un quarto degli utenti accumula debiti soprattutto a causa del gioco d’azzardo. Secondo le stime, i giocatori d’azzardo patologici in Italia sarebbero 700 mila, il doppio di alcolisti e tossicodipendenti assistiti dai servizi sociali. Per loro, tuttavia, non sono previsti ancora percorsi di cura specifici. Infatti, anche se il ministero della salute ha avviato la procedura per l’aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, estendendoli per la prima volta anche alle ludopatie, non vi è ancora certezza sulle effettive risorse che saranno destinate ad assistere i ludopatici e sui percorsi terapeutici. Se i giocatori patologici potranno essere curati, dipenderà dai criteri di priorità che ogni regione individuerà per ripartire le quote assegnate del Fondo sanitario nazionale. Secondo Luciano Gualzetti, vicedirettore di Caritas Ambrosiana e presidente della Fondazione San Bernardino, le responsabilità di questa situazione sono dell’intera classe politica, che per fare cassa non ha esitato a trasformare il gioco d’azzardo in una vera e propria industria, chiudendo gli occhi sul fatto che a pagarne le spese sono le fasce più deboli della popolazione. www.caritasambrosiana.it

gratuitamente i locali di via della Dogana 2 – si organizzano per iniziare «un percorso di consapevolezza», così lo hanno definito i giovani figli di immigrati, aderenti alla Rete G2. Lo sportello sarà gestito da volontari della Rete che forniranno informazioni, per esempio, per raggiungere la cittadinanza italiana. Il passo successivo – e obiettivo della Rete G2 – è trasformare le seconde generazioni in una componente attiva della vita sociale cittadina. Il comune, oltre a fornire i locali, ha garantito la formazione di quattro operatori, che animeranno lo sportello con i volontari. INFO www.comune.milano.it

Milano

“Prima visione”: la metropoli cambia, un solo scatto sociale Fino al 2 marzo è possibile visitare la mostra fotografica “Prima Visione”, tradizionale appuntamento proposto dalla Galleria Bel Vedere (via Santa Maria Valle 5), in collaborazione con il Grin (Gruppo redattori iconografici nazionale). Si tratta di una selezione di immagini realizzate nel 2012 da 42 fotografi, fra cui Gianni Berengo Gardin,

e dedicata alle trasformazioni di Milano. L’attenzione è puntata infatti sui cantieri che stanno cambiando la fisionomia della città, sulle periferie (abitate o silenziose), sugli alberi che resistono, il centro storico nella sua magnificenza. C’è anche una sola foto (qui sopra) che racconta un problema sociale. L’ha scattata la fotografa Francesca Romano, che ha scelto di febbraio 2013 scarp de’ tenis

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Street art

A Torino arte di strada in 3D. Concorso per nuove produzioni da portare nelle piazze d’Italia Fino al 24 febbraio, alla Galleria Square23 di Torino, si possono visitare le urban sculptures degli Urbansolid, per la prima volta nel capoluogo piemontese. Cemento, questo è il titolo dell’esposizione, oltrepassa la bidimensionalità del muro, per invadere lo spazio urbano. Dal graffito all’altorilievo, gli Urbansolid sono considerati i pionieri della street art in 3D. I due artisti che compongono Urbansolid, dopo aver affinato la conoscenza del modellato e delle tradizionali tecniche scultoree, hanno deciso di riadattare la loro esperienza artisticalaboratoriale alle urgenze comunicative dei nostri giorni. Perché l’arte – scrivono – deve parlare al popolo, e il popolo ha bisogno di vedere quali realtà un artista socialmente impegnato sia in grado di smascherare: questa la mission artistica degli Urbansolid. Perché Cemento? Perché è da lì che sbocciano e si sporgono le loro provocazioni, ad alto contenuto caustico. Fino al 24 febbraio a Torino si possono vedere teste umane in gesso emergere dal cemento, da televisori vintage, da pareti giganti, immerse in bidoni di latta... teste al servizio di una coscienza sociale vigile e attenta alle novità. INFO www.urbansolid.org La Fnas (Federazione nazionale arte di strada) organizza la nona edizione di Cantieri di Strada, premio nazionale per la produzione di spettacoli di strada. Il concorso è un progetto che vuol favorire le nuove produzioni del settore, garantendo ai vincitori un numero minimo di repliche. Le produzioni finaliste saranno premiate in uno degli appuntamenti del circuito, in un’occasione da definire. Il premio verrà assegnato secondo due categorie: sezione “Uanmensciò”, per progetti di produzione realizzati da artisti singoli; sezione “Di Piazza in Piazza”, per progetti di produzione realizzati da compagnie composte da almeno due artisti in scena. I vincitori potranno rappresentare la nuova produzione nel circuito dei festival e delle manifestazioni organizzati dai promotori del concorso e dagli aderenti alla federazione; il bando scade il 28 febbraio. INFO www.fnas.org

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rappresentare la Milano con la crisi economica sullo sfondo, immortalando uno dei lavoratori che hanno partecipato al presidio di Cassina de’ Pecchi (presidio ancora attivo) davanti alla fabbrica della Nokia-Jabil. INFO www.belvederefoto.it

Genova

Adesso o mai più, nuovo “musical sociale” con Musicalmente Al Teatro Verdi di Sestri Ponente, a Genova, va in scena il 23 e 24 febbraio un musical dal titolo Adesso o Mai Più, liberamente ispirato alla vita e all’opera del compositore Jonathan Larson, uno dei più celebrati autori di musical degli ultimi decenni, che con Rent ha portato in scena temi complessi quali l’Aids, l’omosessualità, il conflitto tra arte e produttività in una New York anni Novanta molto yuppie. La Compagnia Musicalmente è un’associazione di volontariato, nata nel 2001 per portare l’energia della musica e in particolare la passione per il musical in diversi ambienti sociali, dalla casa di riposo ai centri per ragazzi, e più in generale per trasmettere valori e testimonianza di impegno attraverso il linguaggio immediato dello spettacolo. Con il tempo, crescendo professionalmente, pur rimanendo in una cornice di volontariato, la compagnia ha conquistato un pubblico più vasto affacciandosi nei teatri veri e propri, in cui ormai da anni rappresenta uno o più spettacoli all’anno. INFO www.associazionemusicalmente.com

Vicenza

Aperitivi per conoscere opportunità di lavoro, formazione e viaggio Fino al 30 giugno Informagiovani Vicenza invita a partecipare ai “Giovedì all’Informagiovani”, una serie di aperitivi per approfondire e conoscere iniziative e opportunità offerte da soggetti del territorio, dal lavoro alla formazione, dal volontariato alla mobilità all’estero, dalla creatività a tanto altro ancora! Ogni giovedì sera, dalle 19 alle 21, saranno ospiti di Informagiovani Vicenza professionisti e associazioni


caleidoscopio del territorio per rispondere a dubbi, curiosità e informazioni sulle più diverse tematiche. L’aperitivo sarà offerto di mese in mese da una realtà diversa. Finora hanno collaborato agli aperitivi informativi Caritas Vicenza, Cpv - Servizio nuova impresa, rivista Inchiostro, Cgil, cooperativa Studio Progetto, Cafè del Sole e Bar Al Barco. INFO facebook.com/InformagiovaniVicenza

Catania

Museo e teatro per i grandi pupi dell’“Opira catanese” A Catania, nei locali della Vecchia Dogana, insieme al cineteatro è stato inaugurato recentemente il museo e teatro dei pupi della compagnia marionettistica dei Fratelli Napoli, la celebre famiglia di pupari catanesi che dal 1921 e da quattro generazioni incanta e fa sognare i bambini (e non solo). La “Opira catanese” si distingue per altezza e dimensioni dei suoi personaggi (un metro e trenta di altezza, con un peso di circa 35 chili) e per il diverso sistema di manovra. I pupi catanesi vengono animati dall’alto di un ponte posto dietro i fondali, chiamato ‘u scannappoggiu, con i pruituri d’a ritta e d’a manca, da destra e da sinistra, che porgono i pupi ai manianti per metterli in scena, poggiando i piedi su ’a faddacca, una spessa tavola di legno sospesa a circa

un metro da terra. Nella tradizione catanese è inoltre d’obbligo la voce femminile. Questa arte esclusiva oggi

ha anche un museo, con oltre sessanta pupi, teste di ricambio, cartelli, animali di scena, sipari dei primi anni del Novecento, e un boccascena che venne esposto nel 1931 al teatro Massimo Bellini. INFO Vecchia Dogana, tel. 095.7678888

Cinema

Recensioni per bimbi, studenti in sala con lo sconto «Mio figlio ha soltanto 8 anni, posso portarlo al cinema a vedere il nuovo film di Batman?» Da queste richieste frequenti di mamme e papà è nata l’idea di lanciare un sito dove i film destinati ai piccoli vengano passati ai raggi X. Il sito è movieforkids.it e si avvale della collaborazione di giornalisti che si occupano di cinema e sono tutti genitori. Le recensioni sono arricchite dall’esperienza diretta della visione, vissuta insieme ai figli. La piattaforma online si concentra anche sulle serie tv e sui cartoni animati proposti da reti generaliste e nuovi canali digitali e satellitari. Entro il 2013 in cantiere c’è una guida sul mondo dei videogiochi. Avvicinare i giovani al cinema, favorendone la frequentazione attraverso promozioni e sconti, è invece l’obiettivo di un’iniziativa che riguarda, a partire da quest’anno, gli studenti delle scuole secondarie di secondo grado in possesso della “Carta dello studente – Io Studio” (un bacino d’utenza di oltre 2,5 milioni di ragazzi). Essi avranno diritto a una riduzione del 40% sul prezzo massimo del biglietto praticato nei cinema, nelle giornate da lunedì a mercoledì, in ciascuno spettacolo e per tutti i film programmati. L’iniziativa è nata dalla collaborazione tra due ministeri (istruzione e beni culturali),

Ricette d’Alex

Panettone “riciclato” Alex, chef internazionale, ha lavorato in ristoranti apprendendo l’arte della cucina nell’albergo di famiglia, a Rovigo. Oggi – i casi della vita... – vende Scarp. Prima che scadano i panettoni avanzati dal Natale, utilizziamoli per questa ricetta: tagliamo il panettone a fette di due centimetri dall’alto verso il basso, stendiamole in una pirofila per fare un primo strato. Bolliamo un litro di latte e facciamolo ritirare. In una ciotola amalgamiamo un altro po’ di latte, tre cucchiai di farina, tre tuorli di uovo, tre cucchiai di zucchero, una scorzetta di limone, sei gocce di vaniglia: giriamo il tutto con un frustino. Poi rimettiamo il latte già precedentemente scaldato a bollire, versiamo il contenuto della ciotola nel latte, mescolando con la frusta per evitare grumi. Far bollire tutto insieme per cinque minuti, avendo cura che la crema così ottenuta non attacchi sul fondo. Prendiamo un po’ di acqua zuccherata insaporita con liquore a piacere. Bagniamo leggermente il primo strato, poi farciamo con la crema pasticcera e sopra mettiamo le fette tagliate del panettone. Infine copriamo e mettiamo in frigo. Servire freddo.

Agiscuola, associazioni degli esercenti cinematografici (Anec, Anem, Acec e Fice), insieme alle sezioni produttori e distributori dell’Anica. Il progetto prevede anche attività di formazione per gli insegnanti e un sito internet, collegato al portale del ministero dell’istruzione, dove sarà possibile avere informazioni sui film in uscita e l’elenco delle sale aderenti. INFO www.movieforskids.it www.istruzione.it/studenti

pagine a cura di Daniela Palumbo per segnalazioni dpalumbo@coopoltre.it febbraio 2013 scarp de’ tenis

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street of america Ex carcerato, senza dimora: uno dei primi fruitori della riforma Obama

Medicaid ha guarito Keith ma c’è chi vuole affossarla di Damiano Beltrami da New York

A

Cure sanitarie, diritto umano Così recita il cartello inalberato in una manifestazione pro-Medicaid. A tre anni dall’approvazione e a cinque mesi dalla conferma che è costituzionale, la riforma sanitaria di Obama entra a regime: curerà 30 milioni di statunitensi poveri. Ma alcuni governatori e le assicurazioni cercano di depotenziarla

PPENA USCITO DI GALERA NON SI SENTIVA BENE, così è andato in una clinica gratuita nella zo-

na sud-orientale di Washington D.C. gestita dai volontari dell’associazione senza scopo di lucro Unity Health Care. La dottoressa Ilse Levin gli ha misurato la pressione e si è spaventata: segnava valori altissimi. Dopo alcuni test, la dottoressa ha intuito che la sua ipertensione era causata da un tumore sopra la ghiandola surrenale. Lui si è fatto operare e la pressione è tornata sotto controllo. Keith Snowden, ex detenuto e senza dimora, è uno dei primi americani ad aver tratto beneficio dalla riforma sanitaria voluta dal presidente Barack Obama. Gli esami medici per formulare la diagnosi e il successivo intervento sono stati pagati tramite Medicaid. Informalmente noto come “l’assicurazione dei poveri”, è un piano sanitario federale attivo da diversi decenni, ma prima della riforma Obama forniva aiuti solo a persone con redditi bassi e figli a carico. Adesso la clausola dei figli a carico non esiste più, il piano é stato esteso a tutti. Ne possono usufruire anche categorie come gli ex carcerati (Snowden lo è), che non avendo un posto di lavoro non godono neppure di minima copertura medica (in America, impiego e sanità vanno di pari passo). «Ora che tutti hanno accesso a Medicaid posso dar loro medicine e indirizzarli agli specialisti; é incredibile come abbia cambiato il mio modo di lavorare», spiega la dottoressa Levin, che da anni si occupa di detenuti da poco in libertà e ha notato sostanziali benefici portati dalla riforma. A quasi tre anni dalla sua approvazione e a cinque mesi dalla conferma della sua costituzionalità da parte della Corte Suprema, la riforma sanitaria di Obama sta gradualmente entrando a regime. Così, persone come Snowden, che in passato non avevano accesso alle cure mediche perché disoccupate e quindi senza assicurazione sanitaria, o con malattie troppo gravi per poter ottenere una polizza medica, scoprono l’opzione di farsi visitare. L’estensione della copertura sanitaria a 30 milioni di americani che prima non l’avevano sta sollevando un dibattito acceso nel paese. I governatori di una mezza dozzina di stati dichiarano che non intendono partecipare all’estensione di Medicaid perché, dicono, è un’operazione troppo costosa. Per esempio ogni anno escono di prigione circa 700 mila persone, e ora questi ex detenuti hanno diritto almeno a cure di base, per cui governi federali e strutture mediche dovranno trovare un modo per occuparsi della loro salute. Altri ostacoli alla riforma arrivano dalle compagnie assicurative. In sostanza la riforma realizza l’estensione della copertura sanitaria tramite l’obbligo di attivare una polizza assicurativa privata, che poi viene rimborsata dagli stati. Adesso però, in vista della completa entrata a regime della legge, le compagnie assicurative stanno alzando del 20-25% il costo delle polizze, prima che la legge lo impedisca. A farne le spese rischiano di essere le fasce più povere della popolazione, ovvero la gente per la quale era stata pensata la riforma.

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74. scarp de’ tenis febbraio 2013


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