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numero 174 anno 18 settembre 2013

300€

Spedizione in abbonamento postale 45% articolo 2, comma 20/B, legge 662/96, Milano

il mensile della strada

de’tenis www.scarpdetenis.it

ventuno I forzati del tè

Schiave Un mercato che non tramonta Donne prostituite. Sono 70 mila in Italia. Il fenomeno cambia, si sposta al chiuso. Ma molte continuano a “battere” i marciapiedi. Intanto, denunciare gli sfruttatori è sempre più difficile Milano L’asilo cambia Como Anonimi si ricomincia Torino Non smettere di ridere Genova La vita è una bolla Vicenza Tre notti in baracca Modena Giustizia sia. Riparativa Rimini Scommessa Quinc Firenze Pizza fuori Napoli Luca tra le stelle Salerno Università, delizia e croce Catania Andrea addio



editoriali

Prima casa, bene sacro. Soprattutto per chi non l’ha Paolo Brivio

O

dio l’estate, cantava il cantante. Perché finisce a settembre, verrebbe da aggiungere. Si stava tanto bene, in vacanza... Almeno noi che abbiamo potuto. Molti, al contrario, non ci sono riusciti, a evadere da riti e panorami di tutti i giorni. E alcuni, cronici di città, hanno sperimentato l’emergenza caldo, di cui non si parla mai ma non è meno cruda della ipermediatizzata emergenza freddo: provare, per credere, a passare la giornata all’aperto, sotto il solleone, scollandosi a ogni passo dall’asfalto, lungo le strade della metropoli-forno. Per fortuna, da Novara ad Agrigento, tanti centri di accoglienza per senza dimora hanno fatto fare salti mortali a operatori e volontari. Senza che glielo imponesse nessuna legge, se non quella della solidarietà, hanno potenziato i servizi e issato un bel cartello: “Aperto per ferie”. Roberto Davanzo Insomma noi fortunati siamo tornati dal mare e dai monti, e nelle direttore Caritas Ambrosiana orecchie ci martellava il dibattito sulla casa bene sacro dell’italianità. Per carità: giustissimo e opportunissimo aver eliminato l’imposta sulle quattro mura in cui si risiede, alleggerendo il carico fiscale che miestate dalla quale siamo appena usciti naccia di sderenare il mulo-Italia. L’esser proprietari di abitazione, del sarà ricordata come quella delle donne, resto, in questi anni ha preservato molti dal pernottare al dormitoma delle donne violate, ferite, uccise. Il rio, sotto un ponte, nell’utilitaria di famiglia. Detassare la prima capaese cerca di darsi strumenti giuridici adeguasa, nell’emergenza, può avere corrette implicazioni sociali. Però gli ti e moderni atti a tutelarle, ma la litania mediatialloggi di maggior valore, e i soggetti con maggior reddito, senca denuncia quasi quotidianamente una immaza scandalo avrebbero potuto continuare a produrre gettito: turità sconcertante da parte di molti, troppi maschi, questione di priorità politiche, perimetrate dagli interessi delche diventa arroganza violenta e distruttiva. Degli alla porzione di popolo dalla quale si attinge consenso. tri – meglio, delle altre – e di se stessi. Giova qui ricordare che le persone senza dimora agViene da chiedersi a quale deficit educativo e culgiungono, al danno dell’esclusione dalle anagrafi, la beffa turale possiamo attribuire la responsabilità di compordi non poter votare. Di conseguenza, mentre per un politamenti che vorrebbero avere l’amore alla loro radice, tico è facile e sacrosanto occuparsi di chi è proprietario ma che sono solo l’espressione dell’incapacità a fare i d’abitazione, più ostico risulta preoccuparsi di chi non ha conti con il fatto che l’amore è relazione tra due libertà. E nemmeno un tetto. Ora è vero che nel decreto che ha quando una delle due viene in qualche modo limitata, abolito l’Imu sulla prima casa vi sono anche misure per quella cosa non si può più chiamare amore. incoraggiare l’edilizia sociale. Ma le politiche, in materia, Ma di un’altra violenza vorrei parlare. Quella che non fa restano in generale confuse e timide. Addirittura (vedi sersporcare le mani di sangue ai soliti maschi incapaci di relazioni autentiche con il mondo femminile e che consiste vizio nelle pagine interne) le nostre regioni non riescono a nell’assecondare una delle tante nuove forme di tratta di spendere tutti i soldi che l’Europa gira loro, per provvedeesseri umani. Mi riferisco alle tante, troppe giovani donre allo scopo. Intanto gli sfratti dilagano: e il fatto che a ne che partono da lontani e squallidi villaggi con l'illupagare la Service tax, che dal 2014 sostituirà l’Imu, sasione di poter accedere a un futuro di dignità e di lavoranno anche gli inquilini, di certo non invertirà la tendenza... ro, ma poi finiscono sui nostri ancor più squallidi marMettiamola così: ci affascina un modello di società in ciapiedi, carne sempre fresca per un mercato fatto di cui l’onere di pagare (tasse e simili), per quanto oggettivamaschi dalla dubbia umanità. mente pesante, non viene trasferito da chi ha di più a chi ha Se la violenza che si giustifica con un presunto ecdi meno. Se in ottobre il governo non troverà risorse per ficesso d’amore è intollerabile, ancor più lo è questa, nanziare almeno in via sperimentale il progetto di Reddito di che ha alla base un mercato, una domanda premediinclusione sociale che Acli e Caritas gli hanno presentato a fitata, coltivata e organizzata da mercanti di schiavi senne luglio, e su cui il ministro del welfare ha speso lusinghiere za scrupoli, ma abilissimi a darvi risposta. parole di impegno, comprenderemo con maggior fatica e diNon illudiamoci. Le misure di legge – che pure ci vosappunto la scelta di cancellare a tutti l’Imu sulla prima casa. gliono – potranno solo lenire ferite marginali di una maE non perché siamo ideologici: è che, lo sostengono ormai anlattia ben più devastante: la mancanza di umanità. Conche celebri economisti, una società più coesa, oltre che più tro cui siamo obbligati a combattere. Maschi per primi. giusta, è persino più capace di sviluppo.

Maschi per primi

L’

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sommario Fotoreportage

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Generazione Librino p.6

Scarp Italia L’inchiesta

Cos’è È un giornale di strada non profit. È un’impresa sociale che vuole dar voce e opportunità di reinserimento a persone senza dimora o emarginate. È un’occasione di lavoro e un progetto di comunicazione. È il primo passo per recuperare la dignità. In vendita agli inizi del mese. Scarp de’ tenis è una tribuna per i pensieri e i racconti di chi vive sulla strada. È uno strumento di analisi delle questioni sociali e dei fenomeni di povertà. Nella prima parte, articoli e storie di portata nazionale. Nella sezione Scarp città, spazio alle redazioni locali. Ventuno si occupa di economia solidale, stili di vita e globalizzazione. Infine, Caleidoscopio: vetrina di appuntamenti, recensioni e rubriche... di strada!

dove vanno i vostri 3 euro Vendere il giornale significa lavorare, non fare accattonaggio. Il venditore trattiene una quota sul prezzo di copertina. Contributi e ritenute fiscali li prende in carico l’editore. Quanto resta è destinato a progetti di solidarietà.

Per contattarci e chiedere di vendere

L’inchiesta L’intervista Zoro nel paese degli invidualisti p.28

Speciale L’evento La mia gente: una mostra, spettacoli e un’asta benefica dedicati a Enzo Jannacci p.30 La gente di Jannacci p.75

Scarp città Milano Chiedono asilo, l’accoglienza cambia p.34 Long Wei, eroe perdente di una Milano nerissima p.40

Como Alcolisti anonimi, si ricomincia da trent’anni p.45

Redazione centrale - Milano cooperativa Oltre, via degli Olivetani 3, tel. 02.67.47.90.17 fax 02.67.38.91.12 scarp@coopoltre.it

Torino Cure gratuite, per ridere ancora p.46

Genova

Redazione torino associazione Opportunanda via Sant’Anselmo 21, tel. 011.65.07.306 opportunanda@interfree.it

La vita è una bolla, trasparenza a colori p.48

Vicenza Tre notti al buio, che non dimenticherò p.50

Redazione Genova Fondazione Auxilium, via Bozzano 12, tel. 010.52.99.528/544 comunicazione@fondazioneauxilium.it

Modena Giustizia è fatta. Ed è riparativa p.52

Rimini

Redazione Vicenza Caritas Vicenza, Contrà Torretti 38, tel. 0444.304986 - vicenza@scarpdetenis.net

Scommessa Quinc, spazio al baratto p.54

Firenze

Redazione rimini Settimanale Il Ponte, via Cairoli 69, tel 0541.780666 - rimini@scarpdetenis.net

Pizza Fuori, un altro domani p.56

Napoli

Redazione Firenze Caritas Firenze, via De Pucci 2, tel.055.267701 scarp@caritasfirenze.it

Redazione Catania Help center Caritas Catania piazza Giovanni XXIII, tel. 095.434495 redazione@telestrada.it

L’approfondimento Case per includere, finanzia l’Europa p.18 Ho bevuto. E adesso aiuto p.23

Come leggerci

Redazione napoli cooperativa sociale La Locomotiva largo Donnaregina 12, tel. 081.44.15.07 scarpdenapoli@virgilio.it

Prostituite: destini tragici di donne schiave p.12

Luca tra le stelle, noi coi piedi per terra p.58

Salerno Università, delizia e croce p.60

Catania Addio Andrea, malato come noi p.62

Scarp ventuno Dossier Gli schiavi del tè p.66

Economia In crescita, ma è tutto davvero etico? p.72

Caleidoscopio Rubriche e notizie in breve p.77

scarp de’ tenis

Il mensile della strada Da un’idea di Pietro Greppi e da un paio di scarpe - anno 18 n. 174 settembre 2013 - costo di una copia: 3 euro

Per abbonarsi a un anno di Scarp: versamento di 30 € c/c postale 37696200 (causale AbbonAMento SCArP de’ tenIS) Redazione di strada e giornalistica via degli Olivetani 3, 20123 Milano (lunedì-giovedì 8-12.30 e 14-16.30, venerdì 8-12.30), tel. 02.67.47.90.17, fax 02.67.38.91.12 Direttore responsabile Paolo Brivio Redazione Stefano Lampertico, Ettore Sutti, Francesco Chiavarini Segretaria di redazione Sabrina Montanarella Responsabile commerciale Max Montecorboli Redazione di strada Antonio Mininni, Lorenzo De Angelis, Tiziana Boniforti, Roberto Guaglianone, Alessandro Pezzoni Sito web Roberto Monevi Disegno di copertina Luigi Zetti Foto Archivio Scarp Disegni Luigi Zetti, Elio, Silva Nesi Progetto grafico Francesco Camagna e Simona Corvaia Editore Oltre Società Cooperativa, via S. Bernardino 4, 20122 Milano Presidente Luciano Gualzetti Registrazione Tribunale di Milano n. 177 del 16 marzo 1996 Stampa Tiber, via della Volta 179, 24124 Brescia. Consentita la riproduzione di testi, foto e grafici citando la fonte e inviandoci copia. Questo numero è in vendita dal 15 settembre al 12 ottobre 2013.


Generazione Librino Librino, periferia di Catania. Progettato dal celebre architetto giapponese Kenzo Tange negli anni Sessanta, doveva essere un quartiere modello. Invece è abitato da 80 mila persone che ogni giorno devono vedersela con forme diffuse di criminalità, spaccio, abusivismo, scommesse illegali. Il quartiere è un crogiuolo di vite, che si alimenta di un contrasto di emozioni e percezioni: amore, discriminazione, gioia, droga, coraggio, violenza, amicizia, prigione, ottimismo, indifferenza, sole, solitudine, carisma, cemento, casa, povertà, curiosità, paura, bellezza, buio e vita sono alcune delle parole chiave che hanno fatto da filo conduttore a una ricerca fotografica, che ha provato a illustrare i volti della Librino che non cede all’illegalità. Oltre cento ritratti, confluiti in una mostra che ha toccato le piazze di Catania e ha generato un sito internet (www.generazionelibrino.com). Volti sereni, messi in relazione, in queste pagine, con angoli spigolosi del quartiere. Perché in luoghi come Librino, certi valori sprigionano un’energia particolare. Forse perchè costretti a convivere con il loro opposto. E a resistere. 6. scarp de’ tenis settembre 2013

Fabrizio Spucches L’autore di “Generazione Librino” è nato a Catania, dove si è laureato all’Accaemia di Belle Arti. Nel 2010 collabora con Oliviero Toscani, poi si impegna nel progetto Razza Umana, antesignano di Generazione Librino. Nel 2012 laurea di secondo livello in video e fotografia a Canterbury. Oggi vive a lavora a Milano


fotoreportage

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Generazione Librino

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fotoreportage

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Ferro Comunicazionedesign

P remio Ethic Ethic Award Award Premio pe iniziative a d elevato elevato contenuto contenuto etico. etico. perr iniziative ad

lla a solidarietà solidarietà h ha au una na c carta piÚ arta iin np iÚ Se paghi la tua spesa alla Coop con car ta Equa dai un contributo corrispondente all’1% del valore della spesa a un fondo gestito da Caritas Ambrosiana, che ser ve ad aiutare persone bisognose. Coop raddoppia il tuo contributo. 8Q JHVWR GL VROLGDULHWj VHPSOLFH PD HI ¿FDFH Richiedi carta Equa nei supermercati e ipermercati di Coop Lombardia

Per maggiori informazioni: numero verde

800.990.000


anticamera Aforismi di Merafina AVREI VOLUTO Venezia con l’acqua alta è talmente falsa che sembra vera LE TUE MANI Nel buio più profondo cerco le tue mani LA FAMIGLIA Valore alle donne che danno sempre più di quanto ricevono

La vita è meravigliosa Sei piena di amore sei bella come un fiore mi bruci come il sole tu non mi porti mai dolore. Sei l’unica che io ho e non ti mando mai via

Le spose Quando le vele osano sul lago i gabbiani disegnano la rotta… cantano liturgie per le giovani spose. Loro sfilano agili, eleganti sussiegose vestali candide di sete fluttuanti devotamente assoggettate a Eolo come suore al Signore. Aida Odoardi

perchè io non morirò. E anche in cielo con te sarò. Sonila Bleta

Momenti Momenti vivi nella memoria affiorano puliti e nostalgici. Riflettono, come uno specchio, la tua immagine dal visino impertinente e capriccioso, divertita dalla semplicità del nostro amore. Fermo, immobile non accenno a movimenti che possano far svanire il tuo riflesso, così intimo e desiderato. Osservo la tua bellezza, incantato e fortunato. Osservo il tuo luminoso sorriso che attenua le mie pene. Osservo come mi guardi e mi accorgo che anche tu hai lacrime d’amore. Non posso fare a meno di amarti, non posso pensare a un amore diverso, non posso credere a una vita senza di te. La memoria non mi inganna, ha saputo trovarti, ritorna sempre a te. Saprò farmi amare, saprò, insieme a te, fare grande il nostro amore per vivere nella realtà la mia memoria.

Domenico Casale

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Prostituite. Destini tragici di donne schiave servizi di Ettore Sutti

Il fenomeno cambia. Si sposta al chiuso. Così denunciare gli sfruttatori è sempre più difficile Vittime, non prostitute. Secondo l’ultimo Rapporto mondiale sugli abusi sessuali pubblicato dalla francese Fondation Scelles, la stragrande maggioranza delle donne che nel mondo si prostituisce è alle dipendenze di uno sfruttatore. Quindi non prostitute, ma prostituite. Secondo l’Unodc (l’ufficio Onu sulle droghe e la criminalità) e l’Icmpd (International Centre for Migration Policy Development), la tratta a scopi sessuali ha fatto in Europa 52.340 vittime in soli cinque anni (dal 2003 al 2007); nel mondo, secondo l’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim), le vittime di tratta sono dai 2 ai 4 milioni, l’80% dondere alle agevolazioni che la ne, di cui il 70% destinate allo sfruttalegge prevede. Al punto che mento sessuale. Cifre approssimate per molte comunità di accodifetto: sempre secondo Icmpd, si rieglienza sono mezze vuote. sce a intercettare solo una vittima su 60. Non sono molti i paesi che si sono Senza una regia dati legislazioni contro la tratta e le ri«L’articolo 18 del testo unisorse messe a disposizione per la preco sull’immigrazione del venzione e il contrasto del fenomeno 1998 – spiega Mirta Da Pra non sono altissime. D’altro canto le vitPocchiesa del gruppo Abetime sono restie a denunciare i propri le – era una delle leggi misfruttatori, anche dove esistono leggi gliori al mondo, frutto di un che potrebbero tutelarle. lavoro tra associazioni opeNel nostro paese, continuano a esranti sul campo e i ministeri di affari sosere tantissime le donne, molte giovaciali, pari opportunità e interno, per nissime, destinate al mercato del sesso a aiutare le vittime e contrastare il traffipagamento. Secondo il Gruppo Abele, co di esseri umani. Per un certo periodo sono circa 70 mila (l’8% minorenni) le l’Italia era diventata una terra difficile prostitute in Italia, operanti per 9 milioper i trafficanti: le ragazze denunciavani di clienti (un’enormità), con un giro no e le forze dell’ordine potevano colpidi affari di milioni e milioni di euro. Di re duramente le organizzazioni crimiqueste donne, circa l’80% sarebbero vitnali. Da un certo punto in avanti, però, time di tratta. Eppure sono sempre di è stato uno sfacelo. C’è stato un disinmeno le ragazze che decidono di devestimento generale, enti e associazioni nunciare i propri sfruttatori e di acceche lavorano sul tema si sono trovati

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senza una regia, senza un coordinamento. La decisione di chiudere le postazioni del numero verde anti-tratta (funziona ancora a livello nazionale col 800290290), pensate per lavorare sul territorio sollecitando le questure e incentivando gli enti, è stato un errore enorme. Non a caso sono drasticamente diminuite le chiamate al numero e le conseguenti richieste di aiuto». Intanto il fenomeno sta cambiando radicalmente. Ormai buona parte del


l’inchiesta mercato della prostituzione avviene al chiuso (appartamenti, centri massaggi, night club) e ciò rende ancora più difficile il contatto con le vittime di tratta, complicando non poco il lavoro di inquirenti e operatori sociali.

Ragazze “trattate bene” «L’articolo 18 resta un punto fondante per il nostro lavoro – spiega il capo della squadra mobile di Milano, dottor Alessandro Giuliano –, anche se l’entrata nell’Unione europea di Romania e Bulgaria ha, di fatto, inertizzato l’impatto di tale strumento sulle ragazze che provengono da quei paesi. Senza denuncia da parte delle ragazze, non più incentivate dalla possibilità di ottenere permessi di sog-

La storia

Alina era finita in un pozzo ma sta tornando a sognare Alina viene dalla Romania. Ha capelli neri e grandi occhi scuri. È una ragazza minuta, dimostra ancora meno dei suoi 22 anni. Però il suo sguardo la fa sembrare molto più vecchia. Orfana di madre, è cresciuta in un paesino nei dintorni di Bucarest, insieme al padre e ai fratelli minori. In casa i soldi non erano mai abbastanza e Alina, spesso, non aveva di che dare da mangiare ai fratelli più piccoli. Nonostante il parere contrario del padre, un giorno decise di raggiungere un’amica che lavorava come cameriera in un ristorante. «L’Italia che vedevo in televisione era un paradiso – racconta –. Vestiti, cibo, soldi per tutti. Perchè non tentare la fortuna?». Messa in contatto dall’amica con due connazionali, che forniscono le informazioni per il viaggio, Alina atterra a Milano nel dicembre 2011; qui incontra i due connazionali, che la portano in un appartamento dove vivevano altre due romene. Alina si mette in contatto con l’amica, che le suggerisce di fare ciò che i due uomini le diranno. «Ero felice – ricorda –, avrei potuto mandare soldi a casa. Ho subito iniziato a studiare italiano...». Passati alcuni giorni, però, il sogno svanisce. Uno dei due ragazzi le annuncia che dovrà prostituirsi insieme alle due coinquiline. Alina non ci sta. Non cede alle minacce. Ma alle violenze sì. E, alla fine, finisce in strada a prostituirsi. Tutte le sere i due romeni accompagnano Alina in strada, la controllano dall’auto e la riportano a casa all’alba, dove le ritirano tutti soldi che ha con sé. Le viene sottratto anche il cellulare, per impedirle di fare telefonate. Alina riesce a entrare in contatto con gli operatori di un’unità mobile, ma i colloqui sono veloci perché la ragazza è vigilata strettamente. «Però – racconta la giovane – sono riuscita a nascondere un volantino con indicati i contatti delle persone che volevano aiutarmi». Benché la ragazza sia controllata in ogni suo movimento, anche di giorno, un giorno avviene la svolta. In strada Alina conosce un italiano che, a febbraio 2013, una notte la aiuta a scappare e a mettersi in contatto con gli operatori dell’unità mobile, che l’accompagnano in una comunità di pronto intervento. Lontana dai suoi sfruttatori, Alina decide di denunciare le persone che l’hanno ingannata, e accetta di cominciare un percorso di protezione e integrazione sociale. «È stata dura – racconta Alina – ma nulla al confronto di quanto vivevo in strada. Ho ricominciato a studiare italiano. Mi hanno anche proposto di seguire un corso serale per fare gli esami di terza media. Li ho superati, non mi sembrava vero: ce l’avevo fatta. E da sola».

giorno, diventa difficile provare che siano sfruttate. É anche cambiato il modus operandi di chi sfrutta: ora la tendenza è “trattare bene” le ragazze, garantendo loro vestiti e parte dell’incasso, per disincentivare le denunce. Altra complicazione deriva dal passaggio in appartamento della prostituzione. Abbiamo casi in cui gli sfruttatori intestano il contratto di affitto direttamente alle ragazze: così è quasi impossibile intervenire. Noi continuiamo a fare il nostro lavoro.

Alina ha frequentato anche un corso professionale come addetta alla ristorazione e alla sala bar, concluso brillantemente. E si è trasferita in una struttura di seconda accoglienza, per affrontare una nuova fase del suo percorso. La relazione con l’uomo che l’ha aiutata a scappare è diventata un legame stabile. «Ho capito che era una storia seria – confessa Alina – quando mi ha presentato alla sua famiglia, che mi ha accolto come se fossi una figlia. Per me è stato come rinascere». Alina ora vive in un piccolo appartamento nella zona di residenza del fidanzato e lavora come cameriera in un agriturismo. «Ero finita in un pozzo buio – conclude Alina – finchè qualcuno è venuto a salvarmi. Da qualche tempo ho anche ricominciato a sognare...». settembre 2013 scarp de’ tenis

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Destini tragici di donne schiave Le indagini si allungano un po’, perché necessitano di solide basi su cui poggiare le accuse (serve la prova del passaggio di denaro tra ragazze e sfruttatori). Il vero problema, però, è che la prostituzione non si risolve certamente con l’intervento delle forze dell’ordine. Noi lavoriamo per far finire in galera gli aguzzini. Ma come sanno bene le associazioni che operano nel settore, e con cui noi collaboriamo in un proficuo lavoro di rete, le soluzioni stanno altrove».

Investire, non criminalizzare «Se esiste una grande richiesta di sesso a pagamento – dice ancora Mirta Da Pra Pocchiesa –, è evidente che c’è un problema circa le modalità di relazione tra i sessi: una parte dei clienti cerca un rapporto a pagamento per non avere impegni. Esiste poi un problema di divario tra nord e sud del mondo: la percentuale di persone migranti che si prostituiscono è molto alta. E c’è un problema di genere: la prostituzione fa emergere lo scarso accesso al mercato

Affare per molti 70 mila le prostitute in Italia

9 milioni i clienti di prostitute in Italia

80% percentuale delle persone che si prostituiscono vittime di tratta

4,6 miliardi ricavo annuo dallo sfruttamento della prostituzione da parte delle organizzazione criminali in italia

Fonti: Trascrime, Gruppo Abele

del lavoro da parte delle migranti e, oggi, anche delle donne italiane, che stanno tornando a vendere il proprio corpo. Di queste cose bisognerebbe parlare, perché la prostituzione è un fenomeno che ci è molto più vicino di quanto non sembri. Perché i clienti non sono solo “quelli lì”, ma magari sono compagno, nostro padre, o il nostro vicino di casa...». Come combattere il fenomeno allora? «Innanzitutto senza criminalizzare nessuno a priori: né i clienti né le pro-

stitute – conclude Mirta Da Pra –. L’unico criminale è chi traffica esseri umani. Quindi è importante distinguere tra vittima (consapevole o meno) e carnefice. Poi credo, dato l’altissimo numero di clienti nel nostro paese, che sarebbe importante iniziare a discutere in maniera seria su come si fa educazione sessuale e affettiva nella nostra società. E poi bisogna che la politica abbia la volontà di investire risorse in progetti di formazione-lavoro e di inserimento lavorativo davvero efficaci, da mettere a disposizione di chi ha bisogno. Le donne che incontriamo in strada hanno tutte una grande volontà di riscatto ed emancipazione – molte sono fuggite da situazioni terribili –, e lo stesso vale per alcune donne italiane escluse dai circuiti del lavoro e finite sulla strada perché non hanno altre possibilità. Se noi fossimo in grado di garantire opportunità di inclusione davvero percorribili, avremmo persone inserite nella società: non più assistite, anzi in grado di impegnarsi nel lavoro e generare ricchezza».

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Caramelle sul marciapiede Una notte con l’unità mobile “Avenida”, lungo le strade della prostituzione a Milano Alla fine Matilde perde la pazienza. Ha sopportato tranquilla fino a quel momento ma ora non ce la fa più. E inizia a sgridare le due ragazzine che ha davanti. Va avanti così per un po’, poi le guarda di sottecchi, sfodera un sorriso, ne accarezza una e offre due caramelle. Alle ragazzine brillano gli occhi e si alzano dal marciapiede per salutare. Sì, dal marciapiede. Perché le ragazzine che Matilde ha davanti sono sedute quasi alla fine del viale Sarca, periferia nord-ovest di Milano, vestite con abitini che non lasciano immaginare quasi nulla. Sono le 2 di una notte come tante e i marciapiedi della città sono invasi da giovani donne che vendono il proprio corpo in cambio di denaro. Tanto denaro. Che finisce nelle tasche di chi le sfrutta, le ospita o, più semplicemente, permette loro di stare su quel marciapiede. Matilde è una delle operatrici di Avenida, unità mobile di strada di Caritas Ambrosiana, che due sere a settimana, per 52 settimane all’anno, esce per

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moldave e bulgare, le africane che provengono, al 95%, dalla Nigeria, e qualche donna cinese di età medio-alta». Le operatrici di Avenida, affiancate da volontarie, cercano di intercettare le ragazze, per cercare di offrire loro un’alternativa alla strada. Ma non è facile rompere la corazza in cui le ragazze si avvolgono per continuare a fare quella vita giorno dopo giorno, vendendosi al primo che capita. Lasciarsi andare, raccontare le proprie paure, sarebbe troppo doloroso per persone che, nella maggioranza dei casi, hanno alle spalle storie lancinanti di maltrattamenti e violenze, a partire anche dalla famiglia. le strade di Milano per contattare le ragazze che si prostituiscono. «Le ragazze in strada sono sempre tante – racconta Matilde – e sempre più giovani. É cambiata un po’ la geografia, da quando le ragazze sudamericane si sono trasferite, in massa, in appartamenti. In strada sono rimaste le ragazze dell’Europa dell’est, principalmente rumene, albanesi,

Aggancio con le cure «L’aggancio lo tentiamo con le cure mediche – racconta ancora Matilde –. Queste ragazze non si curano, si lasciano andare e vanno in strada in qualsiasi condizione. Il mese scorso ho trovato una ragazza in strada 48 ore dopo aver subito un aborto, per non parlare della ragazza che continua a prostituirsi no-


l’inchiesta

Casa Lirì, dai riti della quotidianità la forza di “lasciare” “Lirì” (libertà, in albanese) è una comunità protetta a indirizzo segreto per ragazze che hanno denunciato i loro sfruttatori, attiva da 15 anni. La comunità è gestita dalla cooperativa Farsi Prossimo e ci lavorano tre operatrici e due religiose. Ospita un massimo di otto donne, al momento sono solo in tre, “inviate” dai servizi sociali del comune di Milano o segnalate dal Sed, il Servizio donne che fa capo a Caritas Ambrosiana. Le donne che arrivano qui passano prima dal “pronto intervento”, servizio che accoglie le donne contattate dalle unità di strada o che “scappano”, chiamando il numero verde contro la tratta. Spomenka e Claudia, operatrici di Lirì, sono convinte: se si garantisce un’opportunità, tutte vorranno lasciare. «Sono in tanti a credere che ci si prostituisca per scelta. La nostra esperienza a stretto contatto con questa donne, invece, ci dice che la stragrande maggioranza delle ragazze che si vendono sulla strada sono costrette. In buona parte sono vittime di tratta, tutte le altre sono vittime del contesto sociale in cui sono nate. Se devo scegliere tra morire di fame e vendere il mio corpo, si può parlare di libera scelta?». Il quadro delle ospiti della casa si evolve sulla base dell’offerta in strada. «Se prima entravano solo albanesi e rumene – raccontano le operatrici –, ultimamente abbiamo ospitato quasi solo nigeriane. Ed è cresciuto anche il numero delle cinesi. Un dato significativo è che tutte le donne che arrivano da noi hanno alle spalle situazioni nostante sia al quinto mese di gravidanza. Con i clienti che sono disposti a pagare il doppio, pur di ottenere prestazioni senza alcun tipo di precauzione». Le operatrici lasciano alle ragazze volantini con un numero di cellulare attivo 24 ore su 24 e l’elenco dei laboratori che effettuano visite mediche gratuite. «Cerchiamo di accompagnare le ragazze la prima volta – spiega Matilde – per creare un rapporto che possa durare nel tempo. Non è semplice, perché la maggior parte non ammette di essere costretta. Hanno sempre una scusa: il padre malato, la madre anziana, la figlia che deve pagarsi gli studi, il fratello in carcere, la casa da costruire... E così vanno avanti per anni, fino a perdersi». Per questo le operatrici insistono con le ragazze giovani e appena arrivate. Per questo Matilde si è arrabbiata. Perché in strada si guadagna molto, è vero, ma la maggior parte dei soldi finisce nelle tasche di chi vive sulle spalle di queste donne: protettori, affittacamere (una ragazza ha raccontato di vivere

famigliari disastrate. La violenza è l’unico linguaggio che molte di loro hanno conosciuto. Inoltre, quasi tutte sono analfabete o appena scolarizzate. Chi sfrutta queste ragazze conosce bene le dinamiche da cui provengono e quali effetti generano. Se si è cresciuti in un ambiente in cui promiscuità sessuale e violenza gratuita sono la norma, se poi si viene sbattute su un marciapiede e non si è nemmeno in grado di leggere un biglietto nella propria lingua, diventa difficile fare qualcosa per se stesse...». Le operatrici di casa Lirì cercano di lavorare su questo: garantire una normalità a donne che non sanno cosa significhi questa parola. Cruciale, allora, la proposta di giornate scandite da riti quotidiani, in cui si impara a leggere e scrivere, a cucinare, a pulire la casa, a stare insieme agli altri in maniera “gratuita”, a prendersi cura di loro stesse... «Scolarizzazione e professionalizzazione sono importanti – concludono le operatrici –: è la molla che può convincere queste donne a denunciare i propri sfruttatori. Un lavoro umile non è una prospettiva allettante per nessuno, figuriamoci per chi si è vista passare tra le mani migliaia di euro al giorno. Ma non dimentichiamoci che ci troviamo di fronte a ragazze che hanno spesso accettano di attraversare deserti a bordo di camion e il Mediterraneo su un gommone con la speranza di avere un lavoro da parrucchiera. Quello che cercano e che vogliono sono semplicemente una casa e un lavoro. Come tutti noi».

con altre 12 in un appartamento in zona Dergano: 500 euro a testa al mese in nero), famiglie più o meno allargate. A loro rimane poco.

L’unico linguaggio conosciuto C’è chi poi in strada ci finisce per poter continuare a vivere. Come Donatela che, appena vede l’auto di Avenida, inizia sbracciarsi e a sorridere. Venuta in Italia sei anni fa per fare la badante, ha seguito due anziane fino allo scorso anno. Morta la signora che assisteva, non ha più trovato nulla. Al pomeriggio, grazie ad alcune amiche, fa le pulizie ma i soldi non bastano per mantenere i due figli in Romania. Allora, tramite un non ben precisato amico, alla sera si vende sui marciapiedi della circonvallazione. Poco più in là, nelle zone più isolate, si apre il “girone” delle nigeriane. Girone, perché sono le ragazze disposte a fare tutto per meno soldi, anche ad avere rapporti non protetti. Atikah ride sempre e quando parla non sembra rendersi conto di quello che sta viven-

do. Dice che sta bene, che va tutto bene, che è stata a trovare la sorella in Sicilia che voleva non farla tornare a Milano. Ma lei è scappata perché non ha ancora finito di pagare il debito con la maman. Dice proprio così. Pagare il debito con chi l’ha portata in Italia a prostituirsi. «Quello su cui noi insistiamo molto, soprattutto con le ragazze rumene e bulgare, che non hanno più problemi con il permesso di soggiorno e perciò non hanno un interesse diretto a denunciare gli sfruttatori, è la possibilità di avere un lavoro e una vita normale – conclude Matilde –. Devono trovare il coraggio di sfidare tutto e tutti e cercare di rifarsi una vita nuova, tra mille difficoltà. Per loro non è semplice pensare a un futuro diverso: provengono da esperienze di vita degradate, alcune hanno anche lievi ritardi mentali, molte non parlano italiano e l’unico linguaggio che hanno conosciuto nella loro breve vita è quello della violenza. E c’è ancora chi pensa che si vendono per scelta...».

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Destini tragici di donne schiave

«Volevo studiare, ma ho sognato i serpenti» Juliet: avvicinata in Nigeria da un’amica, blandita da una maman, stordita da un rito ju ju, ha vissuto un terribile viaggio per l’Italia. Dove oggi corre. Verso il nuovo lavoro

testimonianza raccolta da Giuliana Bacchione (Responsabile, per la Fondazione Auxilium, del progetto “Liguria in Rete” ) Il mio nome tradizionale è Osarime, quello inglese Juliet. Sono nata in Nigeria, in una famiglia di contadini, siamo quattro fratelli e cinque sorelle. Sono riuscita a terminare le elementari. Nel 1990 la mamma è morta, aveva quarant’anni. Mio papà non riusciva a mantenerci tutti. Sai, nel mio paese la scuola si paga... A me piaceva andare a scuola e quando sono partita per l’Europa ho pensato che avrei potuto studiare. Nel 1997 anche papà si è ammalato ed è morto. Sai, nel mio paese le cure si pagano... Un giorno incontro un’amica, Blessing, che abitava non lontano da casa mia. Mi parla della possibilità di partire per l’Italia, che la connection (l’organizzazione) avrebbe pensato a tutto, ai documenti e al lavoro, se avessi voluto avrei potuto anche studiare. Il mio sogno: studiare e lanendomi a un rito ju-ju. vorare, per cambiare la mia vita e aiutaRicordo che c’era poca luce e il fure la mia povera famiglia. Ho incontrato mo grasso delle candele era intenso, sul Blessing altre volte, parlavamo dei miei tavolo qualcuno aveva disteso una toproblemi e dei miei desideri: lei apparivaglia rossa. Avevo paura. Obo, il native va comprensiva. Attraverso i suoi racdoctor, era potente, conosceva l’arte conti mi sono convinta di essere vicina della cura e del sortilegio. Mi disse di a una svolta: volevo partire. Blessing, alspogliarmi e di indossare il telo. Prese lora, mi ha accompagnato da una donuna ciotola e la immerse in un contenina che si chiama Mama Monday. Più tore posto dietro al tavolo, raccolse actardi avrei scoperto che era la sorella qua putrida, la mescolò alla cola che della mia sfruttatrice. Mama Monday aveva versato, alle noci africane e al gin; mi raccontò che una sua amica, che abimi ordinò di togliere il telo, mi tagliò un ta in Italia, aveva avuto fortuna. Gestiva ciuffo di capelli e un ciuffo di peli del un negozio da parrucchiera e aveva bipube e poi le unghie, che ripose in un sogno di un’aiutante. Ma non dovevo sacchetto di stoffa. Mi spiegò che dovedirlo a nessuno, per non generare invivo mantenere la promessa: non dovevo dia... Io l’ho pure ringraziata, inginocscappare, ma avrei dovuto restituire 45 chiandomi e inclinando la testa, come mila naira alla mia nuova Mama, che si si fa con le persone che ti aiutano e che trovava in Europa. Prese una gallina e la sono importanti: «Giuro, giuro, giuro sgozzò, il sangue lo versò nella ciotola; che manterrò il segreto». dopo aver pestato le noci, mescolò con gli altri ingredienti, mi disse di bere. E io Bevvi quell’intruglio bevvi, bevvi, bevvi. La frenesia dei tamNel dicembre 2006, in gran segreto soburi mi accecò, il corpo era tutto un freno partita per la capitale, Lagos, insieme mito. Prima di cadere, ascoltai le ultime a Sam, un trolley man conosciuto in zoparole: «Se non rispetterai la promessa, na: aiutava le persone ad andarsene e a brucerai come la sterpaglia del deserto». fare i documenti. Arrivata da Mama Monday, lei mi disse che prima della partenza c’era ancora una cosa da fare: Vedevo morti per sete “assicurare” la mia buona fede, sottopoPoi un giorno Sam, il trolley man, mi

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chiamò: mi disse che sarei partita, di non dire nulla a nessuno, di non portare valigie, ma la solita borsa. Quella notte sognai serpenti, cattivo presagio nella nostra cultura. All’alba Sam e io prendemmo la corriera, verso il nord. Arrivati a Sokoto, trovammo una Toyota bianca. Cominciò un viaggio di settimane. Passato il confine, entrammo in Niger. Poi in Algeria, verso Agadez, nel deserto, quindi verso Dirkou. Sam aveva con sé dei dollari e riuscimmo a dormire in una casa dove c’erano uomini e donne nigeriani, ghanesi e del Niger in attesa del “passaggio”: corpi consunti, polverosi e assetati, in attesa. Finalmente, dopo due mesi, arrivò


l’inchiesta la nostra macchina. Viaggiammo di notte. La polizia libica ci fermò, finse di controllare i documenti, menò le mani. Proseguimmo. Qua e là vedevo morti per sete nel deserto, molte donne e bambini, inginocchiati e rattrappiti, la carne disidratata dal sole e le ossa che si conservano perché la sabbia le avvolge come fosse garza. Sono mummie, mummie a cielo aperto. Molti di essi, forse, si erano persi, o erano rimasti indietro. La marcia infernale proseguiva. All’improvviso, un controllo di polizia. Quelli sprovvisti di passaporto dovevano proseguire a piedi…

Sam mi aspettava fuori dal Cie Invece i passeggeri con il documento furono tutti arrestati e mandati in una prigione di nome Gatrau. Anche io e Sam. Ho trascorso circa quattro mesi in quella prigione: le malattie ci tenevano compagnia, mancava il cibo, l’acqua, i servizi igienici erano luoghi non raccomandabili. Ricordo il giorno in cui provai a fuggire. Corsi, corsi, corsi a perdifiato, poi caddi e mi ferii a una gamba. Ma proseguii. Incontrai una famiglia di pastori, mi accolsero e mi curarono. Nel gennaio 2006 riuscii a partire da Tripoli e sbarcai a Lampedusa. Vi risparmio il viaggio. Finii al Cie di Bari. Due mesi dopo mi fecero uscire. E fuori, ad aspettarmi, chi trovai? Sam, insieme alla sorella di Mama Monday, Love.

L’educatrice

«Si liberano quando elaborano quanto hanno fatto a se stesse» Mara Poggiali è un’educatrice, responsabile del centro di pronta accoglienza “Maria Maddalena”, creato nel riminese dalla Comunità Papa Giovanni XXIII di don Oreste Benzi. Sempre in prima linea per l’aiuto alle donne sfruttate, da due anni, in un luogo segreto sulle colline romagnole, l’associazione ha aperto questa struttura, che accoglie chi decide di denunciare. Mara racconta delle “sue” nove ragazze (40 ne sono passate da quando la casa è aperta) e delle loro difficoltà. La maggior parte sono d’origine africana: instaurano rapporti di fratellanza e cercano di ripartire. Come arrivano qui le ragazze? Qual è il loro percorso? I canali sono molti, da quelli istituzionali (forze dell’ordine, servizi sociali e sanitari) a quelli del passaparola. Il mio cellulare gira come una trottola, molte associazioni mi contattano da diverse parti d’Italia per mandarmi le ragazze che hanno deciso di dire basta allo sfruttamento. Accogliamo soprattutto ragazze provenienti da fuori Rimini. Questione di sicurezza. Il loro percorso è molto duro. Noi le aiutiamo e le sosteniamo sia dal punto di vista burocratico (documenti, copertura sanitaria), sia per la formazione, magari con la scuola di lingua. Ma è la parte psicologica la più complicata. Ferite difficili da guarire... Quello che raccontano tra queste mura, al sicuro, è una realtà ben diversa da quella che raccontano quando le incontriamo in strada con le unità mobili. Emergono storie di sfruttatori, e maman, sfruttatrici anch’esse. Quando entrano qui hanno modo di elaborare quanto è successo, quello che hanno fatto a loro stesse. E allora si liberano di tutto. Raccontano anche come sono arrivate in Italia? Il copione è sempre lo stesso. Si tratta di ragazze che arrivano da famiglie semplici, povere. Avvicinate da persone che conoscono, molto spesso donne, che propongono in Italia lavori di cura della casa. Poi, una volta qui, sono buttate in strada. Tra l’altro hanno già accumulato un debito di 40-50 mila euro per il viaggio e sono prive di documenti. Molte ragazze in strada hanno problemi sanitari... Quasi tutte. Malattie sessualmente trasmissibili, perché i clienti pagano di più se non si usa il preservativo. La parte economica acquista importanza soprattutto per le africane, che non vanno molto di moda e vendono una prestazione sessuale per 10-15 euro. Solo in poche denunciano: perché? Paura. Gli sfruttatori conoscono le famiglie. Si vendicano con pestaggi ai familiari e omicidi. Come facciamo noi ad agire in Africa? A contrastare la diffusa corruzione tra le forze dell’ordine? Poi c’è un altro fattore per loro vincolante: i riti voodo che le maman praticano loro. Angela De Rubeis Mi presero in consegna. Sono stata prostituita per due anni. All’alba, quando rincasavo, consegnavo l’incasso. A proposito, ho scoperto che il debito non era in naira, ma in euro. Dovevo a Love quarantacinquemila euro. Gliene ho consegnati ventimila. Inoltre pagavo 600 euro d’affitto, dove vivevamo io, Love e il suo fidanzato, che prostituiva altre ragazze. Pagavo le bollette di luce e gas. Pagavo il cibo. Pagavo il marciapie-

de, duecento euro al mese. Un giorno ho deciso di raccontare la mia storia e sono stata ascoltata. Ho ottenuto il permesso per ragioni umanitarie. Spero che altre donne possano essere ascoltate, spero che la crisi non le inghiotta, perché tutti lo sanno, quando c’è povertà la criminalità impera. Oggi continuo a camminare. Qualche volta corro, per non arrivare tardi al lavoro.

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Destini tragici di donne schiave

Schiavitù e ritorno, Blessing ce la farà Nigeriane. Vittime di tratta a scopi sessuali. L’associazione “Slaves no more”, con il supporto di Cei, Caritas e religiose, costruisce per loro progetti di rimpatrio assistito

di Anna Pozzi Blessing, poco più di vent’anni, è stata deportata dal Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Ponte Galeria, a Roma. Joy, mamma di quattro figli, è stata abbandonata dal marito. Queen ha subito abusi e violenze ed è stata perseguitata dai suoi aguzzini. Tre storie diverse, ma con alcuni denominatori comuni: tutte e tre queste donne, infatti, sono nigeriane e tutte e tre sono vittime di traffico di esseri umani per lo sfruttamento sessuale. E, in modo volontario o coatto, hanno fatto ritorno in Nigeria. Tutte e tre, infine, sono state assistite dall’associazione Slaves no more onlus, fondata e presieduta da suor Eugenia Bonetti, per lottare contro il traffico di esseri umani, per proteggere le vittime e dare loro una chance di vita nuova. Anche nel paese di origine. Blessing è stata la prima beneficiaria di un progetto di rimpatri assistiti promosso dall’associazione e rivolto in parloro paese. Anche perché, con la crisi ticolare alle donne nigeriane che tornaeconomica che sta attraversando l’Itano a casa. «Vorremmo che potessero rilia, non riescono in alcun modo a rencominciare con dignità una vita nuova – dersi autonome qui da noi...». spiega suor Eugenia, missionaria della Consolata, che da oltre vent’anni si occupa di questo fenomeno –. Ci stiamo Come fosse una criminale provando con Blessing, che è stata deQuello di Blessing è un caso molto parportata contro la sua volontà dal Cie di ticolare e drammatico: portata in EuroPonte Galeria. E ora ci stiamo attivando pa da trafficanti di esseri umani, è stata con altre due donne, che invece hanno costretta a prostituirsi in Grecia, per riscelto autonomamente di tornare nel pagare un debito enorme. Centinaia di

prestazioni sessuali, abusi e violenze. Finché è riuscita a fuggire in Italia, dove però il suo sogno di libertà si è infranto contro l’ottusità della forze dell’ordine, che hanno visto in lei solo una clandestina priva di documenti e non una vittima di tratta e riduzione in schiavitù. Così Blessing è finita a Ponte Galeria, dove un’altra associazione, BeFree, ha avviato le procedure previste dalla legge, presentando con lei denuncia-

Speranza a Benin City Suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata visita i progetti di reinserimento di donne in Nigeria

L’associazione

Slaves no more, tornare per ricominciare Il progetto-pilota di rimpatri assistiti socio-lavorativi nasce dalla collaborazione tra l’associazione Slaves no more onlus e Caritas Italiana, con il contributo economico della Conferenza episcopale italiana (Cei). Il progetto viene realizzato anche grazie alla rete di collaborazione con le religiose nigeriane, che hanno creato un apposito Comitato per il supporto della dignità della donna (Cosudow), con due case di accoglienza a Lagos e Benin City. Quest’ultima è stata costruita grazie a un altro contributo Cei e inaugurata nel 2007. Le storie di queste donne, delle violenze subite, ma anche dei percorsi di riscatto, sono state raccontate da suor Eugenia Bonetti in due libri: Schiave (San Paolo 2010) e Spezzare le catene (Rizzoli 2012). Slaves no more onlus Casa di accoglienza Maria Maddalena – via Falzarego 20, Nettuno (Rm) slavesnomore@libero.it

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querela per il reato di traffico di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale presso la procura di Roma e avvisando l’ufficio immigrazione presso il Cie della presa in carico della ragazza. «Nonostante fosse ancora in attesa di un provvedimento della procura – spiega suor Eugenia –, Blessing è stata espulsa


l’inchiesta e deportata in Nigeria. Come se fosse una criminale. È solo grazie alla rete di collegamento che abbiamo con le religiose nigeriane che abbiamo potuto mandare qualcuno in aeroporto ad accoglierla. Ora, dopo alcuni mesi passati in una casa di accoglienza di Lagos, comincerà un nuovo progetto di vita e di lavoro a Benin City, la sua città di origine, con il nostro appoggio e quello delle suore locali».

Ribaltare il fallimento Joy e Queen, invece, hanno deciso di tornare volontariamente in Nigeria, anche se per entrambe si tratta in qualche modo di una scelta obbligata. «Joy – spiega suor Monika Chikwe, delle Suore ospedaliere della Misericordia, responsabile dei progetti di Slaves no more –, dopo essere stata trafficata e costretta a prostituirsi, aveva provato a ricostruirsi una vita qui, con un marito nigeriano che però l’ha abbandonata insieme ai suoi quattro figli. Per Joy è impossibile mantenerli in Italia, tanto più che il lavoro è diventato estrema-

mente precario. Per questo, attraverso i servizi sociali che l’hanno seguita, ha chiesto il nostro aiuto. E ai primi di settembre è rientrata in Nigeria con i suoi bambini, accolta dalle religiose nostre partner, che l’aiuteranno a ricominciare una nuova vita a Lagos». Per Queen è relativamente più sem-

Genova

Meno sostegno a chi denuncia «Ma continuiamo a lottare» L’articolo 18 non è morto. Mantiene la sua forza, è un caposaldo della protezione sociale ed è stimato e apprezzato a livello europeo. L’articolo 18 prevede e disciplina il permesso di soggiorno finalizzato a consentire allo straniero che denuncia i suoi sfruttatori di sottrarsi alla violenza e ai condizionamenti di particolari organizzazioni criminali, e di partecipare a un programma di assistenza e integrazione sociale. «Ma certamente questo strumento nel corso del tempo ha perso un po’ del suo lustro – racconta Giuliana Bacchione, coordinatrice operativa, per la genovese Fondazione Auxilium, del progetto “Liguria in Rete”, varato dalla provincia di Genova –. I tagli governativi susseguitisi negli anni e quelli effettuati dalle amministrazioni locali hanno inferto un duro colpo ai servizi territoriali dedicati, che si sono progressivamente svuotati. Sè è registrata una contrazione della domanda di accesso alle procedure dell’articolo 18 e si è prodotto un rigonfiamento della criminalità. La conseguenza: le strade sono strapiene di donne». Prostituite. Che rinunciano a denunciare. Le donne sulla strada sono quindi aumentate. Ne è prova la mappatura del territorio condotta da Giuliana e dai suoi collaboratori: «Nella sola zona del sestiere della Maddalena (luogo estremamente circoscritto, ndr) abbiamo rilevato la presenza sulla strada di una ottantina di donne. Per non parlare dei quartieri di Sampierdarena e della zona periferica di corso Perrone». Le strade si riempiono, i progetti territoriali si svuotano, fiaccati dalla scure del bilancio: è stato chiuso parzialmente il numero verde antitratta e gli altri servizi hanno subìto un ridimensionamento, a causa del dimezzamento dei fondi e della fatica di ridefinire i servizi. Il lavoro, però, continua a essere portato avanti con grande qualità, professionalità ed esperienza. In particolare, i progetti “Liguria in Rete” e “Sunrise” proseguono il loro percorso. Il primo fa capo alla provincia di Genova e riguarda i programmi di emersione e prima assistenza per le vittime di tratta. Il secondo vede come ente attuatore il comune di Genova e si occupa dei programmi di assistenza e integrazione sociale. In entrambi i casi, la gestione dei progetti è affidata alla partnership con associazioni e cooperative del privato sociale: in prima linea Fondazione Auxilium, Afet Aquilone, Consorzio Agorà, San Benedetto. «Fondamentale è la fase di accoglienza e ascolto – prosegue Giuliana –; vi è poi una valutazione sul caso, successivamente si porta avanti la richiesta del permesso di soggiorno». Si apre così un periodo, intenso e lungo in media tre mesi, di assistenza e integrazione che avrebbe bisogno di maggior sostegno e al quale, invece, nel tempo, sono state drasticamente diminuite le risorse. Ma Giuliana e gli altri operatori sono sempre sul campo. Ad ascoltare, progettare, lottare. Stefano Neri plice tornare da sola, per riunirsi ai due bambini che aveva lasciato in Nigeria. Era venuta in Italia per tentare la fortuna e aiutare la famiglia. Ed era finita pure lei nelle maglie di trafficanti e sfruttatori. Ma nonostante le brutture vissute qui, il rientro è comunque molto sofferto; viene sempre vissuto come il fallimento di un progetto migratorio, su cui la donna stessa e tutta la famiglia ave-

vano riposto grandi speranze. «Di qui l’importanza di questo progetto di rimpatri assistiti – continua suor Eugenia –, affinché non si sentano sole e non si lascino scoraggiare dalle difficoltà e, magari, dall’ostilità che incontrano al ritorno. Si tratta di un progetto-pilota, che speriamo dia buoni frutti e possa aiutare in futuro molte altre donne vittime di tratta».

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Italia senza soldi per vincere povertà e disagio abitativo? In realtà, ci sono ingenti fondi Ue. Anche per gli homeless. Sappiamo usarli?

Case per includere? Finanzia l’Europa... Le regioni, nella pancia dei loro bilanci, tengono nascosto un tesoretto da quasi un miliardo di euro per interventi di housing sociale. Sono soldi dei contribuenti europei, che servirebbero per costruire o ristrutturare case per chi non le ha o vive in condizioni abitative precarie: sfrattati, senza dimora, rom dei campi nomadi. Un forziere sepolto sotto una tale coltre di burocrazia, che è difficilmente raggiungibile

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di Francesco Chiavarini e Chiara Lucchin Nell’Italia di oggi non ci sono più soldi per aiutare senza dimora e gravi emarginati. Le poche risorse che ancora rimangono nelle casse vuote di una pubblica amministrazione sovraindebitata servono a pagare pensioni e cassa integrazione. Agli ultimi delle fila non restano più nemmeno le briciole che in epoche più felici il nostro un tempo generoso welfare state riusciva a dispensare. Se vi dicessero che queste affermazioni sono false? Stentereste a crederlo. E invece vi sbagliereste. Nella pancia dei loro bilanci le regioni tengono nascosto un tesoretto da quasi un miliardo di euro per interventi di housing sociale. Sono soldi pubblici, dei contribuenti europei (quindi anche nostri), che servirebbero per costruire o ristrutturare case per chi non le ha o vive in condizioni abitative precarie, ad esempio gli sfrattati, i senza dimora, per le comunità emarginate” (tra le i rom dei campi nomadi. Il piccolo proquali vengono citate espressamente le blema è che quel forziere è sepolto sotcomunità rom). to una tale coltre di burocrazia, se non In un documento firmato da Federaddirittura di insipienza amministraticasa, si calcola che nei Por (Piani opeva, che è difficilmente raggiungibile. E rativi regionali) per la programmaziose non si ritroverà presto la mappa per ne regionale 2007-2013 ci sono a diraggiungerlo, l’Europa – che lo ha alimentato – lo rivorrà indietro.

Un miliardo in cassa Quel miliardo di euro è una piccola parte del Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr). Il Fesr è il più importante tra i fondi con i quali l’Unione europea aiuta gli stati membri a perseguire gli obiettivi di coesione economica, sociale e territoriale. Istituito nel 1975, finanzia la realizzazione di infrastrutture e investimenti produttivi per l’occupazione e le imprese. Prima nel 2009 e poi nel 2010, l’Unione ha ampliato la sua operatività, ammettendo la possibilità che una piccola percentuale della sua cospicua dote potesse essere impiegata anche per interventi di edilizia residenziale. In particolare, il regolamento 437/2010, approvato dalla Ue il 19 maggio 2010, ha dato facoltà alle regioni di utilizzare il 2% del Fesr per interventi abitativi “nell’ambito di un approccio integrato


l’approfondimento Gli strumenti

Fondi strutturali e di coesione, seconda voce del bilancio Ue Fondi strutturali. Costituiscono gli strumenti finanziari della politica regionale dell’Unione europea, contribuendo all’obiettivo della coesione economica, sociale e territoriale.

Fesr. Il più importante, tra i fondi strutturali, è attualmente il Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr), istituito nel 1975. Finanzia la realizzazione di infrastrutture e investimenti produttivi generatori di occupazione, a favore in particolare delle imprese.

sposizione 917.170.188 euro. Quasi, dunque, un miliardo di euro, una cifra che corrisponde, più o meno, alla metà del valore della prima rata dell’Imu che a giugno è stata soppressa. A pochi mesi dalla fine dell’anno, nessuno sa esattamente quanto resta in cassa, perché le “casse” sono tante, una per ogni regione, e nessuna rende conto né frequentemente né direttamente allo stato centrale – e già questo la dice lunga sull’efficienza del sistema. Poiché, tuttavia, grandi interventi di edilizia pubblica o privata a favore dei gravi emarginati non si sono visti, in questi ultimi tre anni, è facile supporre che questa opportunità non sia stata utilizzata.

Fse. Il Fondo sociale europeo, istituito nel 1958, favorisce l’inserimento professionale dei disoccupati e delle categorie sociali meno favorite, finanziando in particolare azioni di formazione.

Fondo di coesione. Per accelerare i tempi della convergenza economica, sociale e territoriale, nel 1994 l’Unione europea ha istituito il Fondo di coesione, destinato ai paesi con un Pil medio pro capite inferiore al 90% della media comunitaria. Il Fondo di coesione finanzia progetti infrastrutturali nei settori dell’ambiente e dei trasporti. Gli aiuti sono tuttavia soggetti ad alcune condizioni: se lo stato membro beneficiario presente un deficit pubblico superiore al 3% del Pil (regole di convergenza dell’unione monetaria) non verrà approvato alcun progetto nuovo fino a quando il deficit non sia di nuovo sotto controllo.

Programmazione 2007-2013. Per il periodo 2007-2013, la dotazione finanziaria assegnata ai fondi strutturali è stata di 278 miliardi di euro. Nello stesso periodo, il Fondo di coesione è stato dotato di 70 miliardi. La somma di tali fondi ha rappresentato il 35% del bilancio comunitario, ovvero la seconda voce di spesa.

Rimarranno inutilizzati? Formez, l’agenzia di formazione del ministero della pubblica amministrazione, ammette che la spesa per progetti per persone disagiate o senza dimora, sino a oggi, è stata molto bassa e che, dunque, prima della fine della programmazione, parte dei fondi rimarranno inutilizzati. Ciò accadrà soprattutto nelle regioni del sud, che sono quelle che hanno beneficato anche delle risorse maggiori, ma dove si riesce anche a spendere meno. Invece nel centro-nord – dove ci sono più competenze, ma meno fondi pubblici – le risorse sono state impiegate per far fronte agli effetti sociali della crisi produttiva che ha colpito, in particolare, l’industria. Così con il Fondo sociale europeo, anziché finanziare progetti di inclusione sociale, si sono pagate la cassa integrazione alle persone che perdevano il lavoro.

Comunque sia, sperare di farsi finanziare un progetto con quei fondi è sempre una gara a ostacoli. Chi ha provato a farsi avanti, si è scontrato con un muro di gomma. Le Caritas del Triveneto, per esempio, speravano di potere ottenere un contributo per la ristrutturazione o la costruzione ex novo di quattro piccoli centri di accoglienza per persone senza dimora: due a Venezia, uno a Verona, uno a Padova (per un totale di 100 posti). «Abbiamo fatto mesi di anticamera, passando da un funzionario all’altro. Alla fine ci hanno risposto che non c’erano più soldi, ma nessuno ci ha detto a chi erano stati dati e per fare esattamente che cosa, né se avremmo potuto accedere a qualche altro bando», racconta Michele Trabucco, della Caritas di Venezia.

Due partite aperte In epoca di bilanci pubblici in rosso, i settembre 2013 scarp de’ tenis

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Case per includere? Finanzia l’Europa... fondi Fesr e Fse sono, tuttavia, una grande opportunità, forse la sola, anche per le organizzazioni del terzo settore che promuovono progetti e interventi a favore dei senza dimora. Per questa ragione la Fio.psd (Federazione degli organismi per le persone senza dimora) ha organizzato nei mesi scorsi incontri di formazione, ha invitato i propri associati a studiare i nuovi regolamenti europei e ha messo a disposizione i propri esperti per affiancare chi desidera conoscere meglio queste opportunità. Sono, infatti, ancora due le partite aperte. I soldi non spesi della programmazione 2007-2013 possono essere impiegati ancora nei prossimi due anni. C’è tempo, quindi, fino al 2015 per poterli richiedere, prima che scadano i termini e l’Europa li destini altrove. C’è poi un altro fronte, ancora più determinante. Entro la fine dell’anno si definirà la nuova programmazione con la quale si decide come ripartire i fondi strutturali dei prossimi sette anni. Qui i giochi sono ancora tutti aperti e pare che via siano spazi di manovra maggiori.

Infatti, constatate le gravi carenze nell’impiego dei fondi strutturali, l’ex ministro Fabrizio Barca (governo Monti) ha introdotto innovazioni per aumentare la nostra capacità di spesa in vista della prossima programmazione, quella relativa agli anni 2014-2020. Tra le novità volute da Barca, e sposate anche dal governo in carica, c’è il maggior peso dato all’accordo di partenariato, già adottato da altri paesi europei, che permette ai diversi soggetti in causa di essere coinvolti nel processo decisionale già nelle fasi di ideazione ed elabora-

zione, dunque a monte del percorso che compiono le risorse per arrivare a destinazione. Tale cambiamento di approccio, secondo i tecnici, dovrebbe accrescere l’efficienza del sistema. Inoltre, inclusione sociale e lotta alla povertà sono messe esplicitamente tra gli undici obiettivi tematici e non occupano più, dunque, un’attenzione residuale. Ma, soprattutto, il metodo Barca, dovrebbe garantire una gestione più razionale dei fondi. Tutto ciò consentirà di realizzare azioni integrate in cui, ad esempio, il supporto, l’accompagnamento e la formazione sono finanziati dal Fondo sociale europeo, mentre gli interventi strutturali (ad esempio la ristrutturazione di edifici, abitazioni, o la costruzione di centri di accoglienza) saranno sostenuti dal Fesr. Secondo Fio.psd questo nuovo criterio potrebbe portare a un effettivo superamento dei dormitori pubblici e favorire la realizzazione di interventi più moderni ed efficaci, secondo i nuovi principi dell’housing first. Dall’Europa, oltre alle idee nuove, arrivano anche le risorse per realizzarle.

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l’inchiesta

Ho bevuto. E adesso aiuto Sempre più numerosi i casi di chi chiede di convertire una condanna per eccesso di alcol in lavori di pubblica utilità. Un’opportunità, però non priva di complicazioni...

di Stefania Culurgioni Una festa con gli amici e qualche bicchiere in più. La Polizia che ti ferma, la patente sequestrata. La prospettiva del carcere, alla peggio, che però ti viene convertita in “lavori di pubblica utilità”. E quindi, inaspettata, una porta che si apre. E ti offre un’occasione d’oro. Brando aveva 22 anni. Prese il motorino e andò a una festa a Milano, dove incontrò molti amici. Si fece prendere dall’atmosfera, si lasciò portare da una spinta incosciente a sganciarsi dalle cose reali, una spinta alimentata efficacemente dai superalcolici. Parlò e bevve, bevve e parlò. E alla fine si ritrovò ubriaco in motorino, di ritorno a casa. In viale Abruzzi, la pattuglia della sfortuna (ma poi avrebbe rivalutato il concetto): i vigili lo beccarono subito, col caschetto storto e la faccia ebete, gli fecero l’etilometro e gli levarono la papo, infatti, mi è arrivata una lettera dal tente. Motorino sequestrato, ritorno a Tribunale: mi diceva di presentarmi con casa a piedi in piena notte, un avvocato un avvocato, per discutere come fare...». da cercare al più presto e la prospettiva Sono centinaia le persone che, ogni di una multa salata, o di qualche giorno fine settimana, soprattutto di sabato, in prigione. «La mia storia è cominciata quando si intensificano i controlli sulle così – racconta Brando, al telefono della strade, vengono fermate per eccesso di Caritas Ambrosiana –. Ero pure recidialcol nel sangue. Italiani e stranieri, giovo, mi avevano già beccato ubriaco. Posvani o di mezza età, professionisti o diso dire che non ho problemi di alcolisoccupati, single o con famiglia. L’idensmo, ma che ho avuto pura sfortuna tikit non esiste: in seguito all’inaspri(oppure no, ndr). Alla seconda volta, le mento delle norme, bastano due birre cose si sono messe male. Però da lì è coper essere fuori, senza necessariamente minciato tutto». avere problemi di alcol. Un provvedimento giusto e utile, dati soprattutto i Brando pensò “Che sfiga” numeri delle morti sulle strade: una traIn un giorno afoso di luglio conosciamo gedia costante e quotidiana in Italia che Brando mentre sta finendo la grafica di un volantino per un’iniziativa della Caritas. «È uno in gamba – dice di lui Ivan Nissoli, responsabile dell’area giovani – e ha avuto fortuna». Primo perché non si è schiantato in motorino, secondo perché la sua storia è finita bene. «Quando mi hanno fermato ero studente all’Accademia delle Belle Arti di Milano – racconta –; ero uscito a divertirmi, avevo bevuto, quando ho visto la pattuglia ho pensato “che sfiga”. Era la seconda volta. Siccome mi avevano già fermato, non guidavo la macchina ma il motorino, sapevo che la pena sarebbe stata più salata. Un anno e tre mesi do-

lascia per terra migliaia di vite. E spesso gli incidenti sono causati dall’alcol. Ma il provvedimento, allo stesso tempo, mette in ginocchio molte persone. Con la macchina sequestrata e la patente ritirata, è dura continuare ad avere una vita normale, soprattutto se la si usa per lavorare. E poi c’è il capitolo della pena da scontare.

La fedina torna candida Ivan Nissoli, referente di Caritas Ambrosiana in materia e tutor di Brando, spiega: «Quando una persona viene fermata da una pattuglia e si fa l’etilometro, le conseguenze possono essere tante. Se l’alcol nel sangue supera gli 0,5 milligrammi ma non arriva a 0,8, c’è una sanzione amministrativa. Se invece supera lo 0,8, allora scatta il reato penale. La pena dipende da molti fattori: l’effettiva quantità di alcol nel sangue (se si superano i 1,5 milligrammi il reato si aggrava ulteriormente), se si è causato o meno un incidente, se si è recidivi, se si è neopatentati, se la macchina è di proprietà... Insomma, tutto dipende, ma la sanzione può arrivare fino a 15 mila euro di multa. A quel punto scatta il calcolo». In pratica, la pena pecuniaria che viene inflitta dal giudice corrisponde al totale dei giorni di carcere che in teoria bisognerebbe scontare per aver bevuto. Ogni giorno di carcere corrisponde a 250 euro, quindi se la multa è di 15 mila euro, significa che si sarebbero dovuti fare 60 giorni di carcere. A quel punto ci sono due opzioni: si può pagare la multa, e non fare neanche un giorno di prigione, ma il reato resta sulla fedina penale e si cancella dopo 5 anni. Oppure si può convertire la pena in lavori di pubsettembre 2013 scarp de’ tenis

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Ho bevuto. E adesso aiuto blica utilità, e raddoppiando i 60 giorni ottenuti dal calcolo. Ne risulteranno 120 giorni: ogni giorno corrisponde a 2 ore di lavoro, quindi in totale fanno 240 ore di volontariato da svolgere in un ente disponibile ad accogliere il “sanzionato”. Se si sceglie questa opzione, non solo si estingue la pena, ma viene anche cancellato il reato dalla fedina penale: che torna pulita come un lenzuolo appena lavato.

Enti convenzionati: tantissimi Questa è la scelta che ha fatto il giovane Brando: «Sono stato fortunato – racconta –, sono andato con il mio avvocato in Tribunale e siamo riusciti a trovare un posto in Caritas. Sono in un ufficio e sviluppo brochure e volantini. Faccio quello per cui ho studiato, mi piace. È lavoro gratis, ma sto imparando moltissimo e per me è una grande occasione. In tutto ho 370 ore da fare, perché sono recidivo, ancora la strada è lunga e da settembre avrò meno tempo. Ma ho scoperto un mondo che non conoscevo». Quello che ha fatto Brando è quello che devono fare tutte le persone che vengono fermate, se vogliono convertire la pena in pubblica utilità: devono trovarsi un avvocato e andare dal Gip, presentando la richiesta di conversione. Devono trovarsi da soli un ente convenzionato con il Tribunale che abbia posti e che li accetti, e se il giudice approva, possono partire nella nuova avventura. Gli enti convenzionati con i Tribunali sono elencati nel sito del Tribunale, nella sezione “lavori di pubblica utilità”, e sono tantissimi. «Certamente entrare non è facile – spiega Ivan Nissoli – perché le richieste sono elevate. Un esempio? Caritas è uno degli enti principali, abbiamo 50 posti qui da noi e smistiamo tutti gli altri a enti e associazioni che conosciamo. Da dicembre a luglio solo io ho incontrato 240 persone, e 80 le ho già mandate a lavorare». Tutto bello, tutto facile? In realtà, i problemi non mancano. «Il primo – avverte Nissoli – sono i tempi della giustizia: la pratica viene depositata in Tribunale, e l’iter parte. Ma prima che il giudice chiami per presentare la richiesta di conversione possono passare anche due anni. Così succede spesso che gli orari di disponibilità della persona fermata sono diversi, e le esigenze dell’ente che aveva accettato pure. E bisogna

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E alla fine Luigi si trasformò in volontario Le prime parole sono quasi sempre una giustificazione non richiesta: «Sono stato sfortunato»; «Era il mio compleanno»; «Mi hanno fermato a 50 metri dal ristorante»... E altre scuse, più o meno credibili, per spiegare il perché di tutte quelle ore di “Lpu”. Per alcuni si tratta di poche decine, per altri anche di qualche centinaio. Per tutti diventano l’occasione per incontrare, per poche settimane o molti mesi, una realtà nuova, complessa e multiforme. Come la Casa della carità, a Milano. E, a volte, anche per restarci come volontari. Da quando, nell’aprile 2011, la fondazione è stata uno dei primi enti della provincia a firmare una convenzione con il Tribunale ambrosiano, sono passati per la Casa 34 lavoratori di pubblica utilità e altri 14 stanno di cominciare. Marco è un videomaker e, per oltre sei mesi, ha passato un giorno alla settimana all’ufficio comunicazione. Impegnato soprattutto nella pubblicità, ha conosciuto meglio molte realtà di cui sapeva poco, tra cui quella di un gruppo di scalmanati minori stranieri non accompagnati. Giulia invece è un’animatrice turistica e si è ritrovata a lavorare con le famiglie rom. Se prima avesse dei pregiudizi contro “gli zingari” non è dato sapere, ma è certo che, dopo poco, la si vedeva girare per la Casa spupazzando i bambini piu piccoli, aiutando quelli più grandi a fare i compiti, parlando con i genitori totalmente a suo agio. C’è poi chi aiuta con la manutenzione, chi sta nell’affollata portineria o chi supporta gli educatori nel lavoro con le persone accolte. «Di solito – spiega Diego Mazzocchi, dell’accoglienza maschile – chiediamo di dare una mano con il lavaggio dei vestiti o con il cambio delle lenzuola, ma molti stabiliscono una relazione con gli ospiti e vanno oltre. Li aiutano nel cercare lavoro o nell’apprendimento dell’italiano. Alcuni hanno anche proposto uscite o gite». Luigi, per esempio, ha deciso di restare anche dopo aver scontato la sua pena. E ora viene ogni giovedì sera. «I casi positivi – conclude Diego – sono più dei negativi. Poi, certo, c’è anche chi si limita a fare il compitino». Oppure chi non comincia nemmeno. Una ragazza che avrebbe dovuto stare all’ufficio fund raising, durante l’incontro che tutti i “condannati” sostengono, ha confessato che lei, prima di arrivare alla Casa, «gli stranieri li aveva visti per strada, ma da lontano»... [p.r.]


l’inchiesta rifare daccapo. Oppure non sempre le persone sono facili da piazzare e non sempre rendono felici le associazioni. I profili che arrivano sono diversi: c’è l’ingegnere informatico che può dare una mano in ufficio, ma c’è anche lo straniero senza lavoro e senza professionalità a cui non si sa cosa far fare. C’è il macellaio italiano che sai dove piazzare o il professore che non sai dove mandare. A volte è un bene per le associazioni, altre volte è un peso. Il più delle volte, in ogni caso, ci si trova di fronte a persone “normali”, senza problemi di alcolismo. Sono usciti a cena, sono andati al bar, hanno bevuto troppo e sono stati fermati. Vivono questa condizione con vergogna e con difficoltà, non sanno come gestire le ore di pubblica utilità. Noi cerchiamo di agevolarli: qualcuno lo abbiamo mandato nella parrocchia del suo quartiere a fare le pulizie, altri in oratorio, altri al centro di ascolto o a fare il doposcuola ai bambini. Qualcuno al rifugio Caritas per i senza tetto, altri a smistare i pacchi alimentari per i poveri. Da fare ci sono tante cose...».

Manodopera gratis? La legge prevede che il lavoro di pubblica utilità vada svolto per almeno due ore di fila e per non più di otto ore al giorno. La maggior parte delle persone concentra le sue ore nei fine settimana, e questo inceppa un po’ la macchina: in questo periodo gli enti hanno meno bisogno, quindi i tempi di disponibilità si allungano. La legge vorrebbe regalare alle associazioni manodopera gratis. Ma non sempre tutto fila liscio. Severina Panarello è la responsabile dell’Uepe (Ufficio di esecuzione penale esterna), struttura del dipartimento di amministrazione penitenziaria del ministero della giustizia che si occupa delle pene per un reato che devono essere scontate fuori dal carcere: arresti domiciliari, affidamenti, appunto lavori di pubblica utilità. «L’articolo 186 del codice della strada prevede – spiega – che se la persona viene trovata con un tasso alcolico superiore alla soglia, gli si

La storia

La seconda chance di Antonio, dalla condanna all’assunzione Da un’azienda in proprio a una cooperativa sociale. Da lavoratore di pubblica utilità a caposquadra. Dalla condanna all’assunzione. Quella di Antonio è una storia singolare, forse non ordinaria, ma paradigmatica dei circuiti virtuosi che una bevuta di troppo, attraverso l’istituto dei Lpu, può mettere in moto. Quarantenne, alle spalle un'esperienza da piccolo imprenditore nel settore delle pulizie, Antonio ha iniziato i lavori di pubblica utilità dopo che la sua impresa aveva chiuso. Disoccupato, si è accordato per scontare le oltre 200 ore di pena con una cooperativa sociale dell’hinterland milanese, operante nella manutenzione del verde, in attività di lavanderia e nel settore delle pulizie. «Quando è arrivato – ricorda Luigi, uno dei coordinatori della cooperativa – non ci ha raccontato nulla della sua esperienza precedente. Ci siamo accorti che era del mestiere quando l'abbiamo mandato a fare i primi lavori e, grazie a lui, venivano completati in breve tempo». È nata allora, complice la fase di ristrutturazione che la cooperativa sta attraversando, l’idea di proporre ad Antonio un contratto, inizialmente di collaborazione. «Se dal punto di vista lavorativo era super – prosegue Luigi –, avevamo qualche perplessità sulla capacità di relazionarsi con le persone più fragili». Antonio invece si è dimostrato attento e coinvolto. «I due colleghi con cui si è trovato meglio sono un uomo di mezza età e un giovane con storie di vita abbastanza complesse. Il primo lavora con noi da anni e non l’avevo mai visto così motivato; il secondo ha fatto una borsa lavoro e poi abbiamo deciso di assumerlo». E così, per l’ex condannato, è arrivata la conferma: prima un contratto a tempo determinato, poi uno indeterminato con la qualifica di caposquadra. «Alcune gelosie – conclude Luigi – ci sono state da parte dei colleghi, ma credo sia inevitabile. Dal canto suo, Antonio ogni tanto si arrabbia per certi atteggiamenti tipici del non profit, per la verità non sempre positivi, che ancora fa fatica ad accettare. Nel complesso però credo che abbia preso questa opportunità come una sfida, come una seconda chanche dopo la chiusura della sua azienda. E se, da un lato, la sua presenza ci risolve molti problemi, mi sembra che il lavorare qui stia arricchendo anche lui». Paolo Riva

sequestra il veicolo, gli si ritira la patente e si va davanti al Gip che, in base alla richiesta della persona, può accettare di convertire la pena. I tribunali hanno stretto convenzioni con centinaia di enti, associazioni, cooperative, ma certamente più ce ne sono e più posti si aggiungono. Da quando l’istituto di pubblica utilità, che già esisteva ma per altri reati penali, è stato esteso al codice della strada nel 2010, il numero di richieste è aumentato. Il nostro ufficio gestisce 4.604 casi in totale: 604 sono persone fermate in macchina che vorrebbero la conversione della pena. Persone che non hanno niente a che fare con la delinquenza, ma hanno bevuto qualche bicchiere di troppo». Damiana Isonni è la responsabile del settore volontariato della Fondazio-

ne Sacra Famiglia di Cesano Boscone, ente che, alla periferia di Milano, si occupa di persone con gravi disabilità fisiche e cognitive e di anziani non autosufficienti: «Al momento – spiega – è operativa una persona e altre cinque sono in attesa dell’ok del giudice. In base alle professioni cerchiamo di trovare un impiego adeguato. Per esempio adesso abbiamo un imbianchino e gli abbiamo chiesto di scrostare e ridipingere le panchine in giardino. Sono persone che si vergognano per la loro condizione, vivono la cosa come un marchio, noi cerchiamo di rassicurarle e non farle sentire giudicate. Qui trovano un’occasione e ce ne sono sempre grati. Per la Sacra Famiglia dare questa opportunità è fare un servizio alla comunità».

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Il mondo intero sospende il caffè Bevi una tazzina e ne paghi un’altra, per offrirla a uno sconosciuto che non ha soldi. Tradizione tutta napoletana, che – con vari nomi – si va diffondendo. Pure in Cina... di Stefania Culurgioni

Bevi un caffè, ne paghi due. Non è il racconto di una fregatura in salsa italiana, ma la bella abitudine nata a Napoli tanti anni fa e che ora sta tornando di moda, allargandosi a macchia d’olio in tutta la penisola, e persino oltre confine. Si chiama “caffè sospeso” ed è la gentile usanza di offrire un espresso a uno sconosciuto che non ha i soldi per pagarselo. Come? Ti bevi la tua tazzina e ne paghi una seconda, il barista la riserverà a chi, nel corso della giornata, ne avrebbe una gran voglia ma non saprebbe dove prendere quei pochi centesimi. Un gesto di prossimità e condivisione, insomma, che in tempi di crisi, quando tutti pensano a loro stessi, sono chiusi nelle loro insicurezze e bardano il portafoglio per i consumi essenziali, rivela che comunque esiste ancora l’attenzione agli altri. Un’azione di altruismo, anche se di poco conto, che risuscita un senso La poesia di questo gesto, tornata di di umanità troppo spesso sepolto. moda con l’istituzione a Napoli della Nei vicoletti di Napoli è pratica difGiornata del caffè sospeso, ha fatto fusa da tempo, perché del caffè – fulmibreccia anche all’estero. In Spagna, donea tregua emotiva allo stress, alle cattive stanno nascendo accordi tra locali verie crude dell’esistenza – all’ombra del per i cosiddetti cafes pendientes; in Vesuvio hanno saputo fare un’arte. Il Francia, dove lo chiamano Cafés en atprofumo dell’espresso è una cosa che ci tente; persino in Cina, dove lo hanno si regala, che si prende a pretesto per facopiato dai napoletani. Ovunque si usa re due chiacchiere, per voltarsi al monla stessa tecnica: il numero dei caffé sodo. Perché mai, allora, non regalarlo anspesi, cioè pagati da qualche benefattoche a chi non se lo può permettere? re in più, è annotato su una lavagna die-

tro al bancone e mano a mano scala durante la giornata. Sulla stessa scia, anche se non si tratta poi di bersi un caffé, c’è un’altra iniziativa meritoria: la si trova sul sito internet www.1caffe.org, che propone ogni giorno un progetto di solidarietà, cui è possibile contribuire con un sms che costa come un caffé. Un piccolo gesto per sostenere tante iniziative di associazioni nazionali o internazionali che lavorano nel non profit.

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A Napoli il “sospeso” fa Rete. E la pizza diventa “oggi a otto”... Il rito del caffè a Napoli conserva una consuetudine solidale che, dopo essere stata relegata per qualche lustro a nobile tradizione del passato, sta tornando in uso nei bar della città partenopea. Ci sono clienti, in genere clienti abituali, che al banco consumano la prima colazione o il caffè e alla cassa ne pagano uno in più, per qualcuno che non conoscono e che non può permetterselo. Sarà il barista, che nel quartiere conosce tutti (inclusi gusti, preferenze e possibilità economiche), a scegliere a chi destinarlo. Il “caffé sospeso” è un gesto di condivisione nato sotto il Vesuvio all’indomani della seconda guerra mondiale: quando un avventore era particolarmente contento e aveva qualcosa da festeggiare, pagava un caffè «all’umanità». Da qualche anno, in tempi di aggressiva crisi economica, è un gesto di condivisione che sta riguadagnando consensi. Una contromisura spontanea alle statistiche che testimoniano il calo di consumo di tazzine di caffè nei bar: i baristi di alcuni locali del centro storico raccontano che clienti

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generosi se ne contano abbastanza spesso. Evidentemente hanno risposto all’appello della “Rete del Caffè sospeso. Festival, rassegne e associazioni culturali in mutuo soccorso”, costituita a Napoli nel novembre 2010 dalla Rete dei comuni solidali, dall’Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) e da sette festival: “Festival del cinema dei diritti umani” di Napoli, “Valsusa Filmfest”, “Lampedusainfestival”, “Festival S/paesati” di Trieste, “Filmfestival sul paesaggio” di Polizzi Generosa, “Marina Cafè Noir. Festival di letterature applicate” di Cagliari e “Riaceinfestival”. «La rete è nata – raccontano i promotori – ispirandosi all’antica tradizione popolare di solidarietà, per riproporla in chiave moderna, in un’epoca in cui i tagli voluti dai governi del nuovo millennio hanno mortificato il welfare e anche le grandi tradizioni di incontro e confronto popolare. Si tratta di una rete costituita per unire le forze attraverso lo scambio di idee, progetti e prodotti culturali, in modo da sopravvivere


esperienze Torino

Shenouda regala kebab: «Aiuto, mi pare normale» Questa è una storia minima. Una di quelle che compongono la trama della vita quotidiana, talvolta così piccole da passare inosservate. Eppure, così come l’ordito di un tessuto si regge sul singolo filo che lo costituisce, storie piccole come questa talvolta celano un’importanza ben più grande di quanta possa apparire a prima vista. Il quartiere Crocetta di Torino è uno dei rioni più rinomati della città. Basta percorrerlo e osservarne l’eleganza delle abitazioni per rendersene conto. Un quartiere sede, oltre che del Politecnico, di studi professionali e uffici, lontano anni luce dai borghi operai popolati di piccole officine, così comuni nel capoluogo piemontese fino ad alcuni anni fa. Così la pizzeria di Shenouda Makar appare un po’ dissonante rispetto alla zona: un ingresso con pochi tavoli, il bancone, dietro esso il forno a legna. Il tutto ordinato e lindo, accogliente nella sua modestia. Però Shenouda ha un’abitudine paticolare: dona cibo a chiunque entri nel suo locale senza i soldi per pagare. Shenouda è in Italia da 17 anni; sposato, due figli di 3 e 6 anni, è laureato in legge in Egitto, il suo paese natale. In Italia ha percorso la solita trafila: piccoli lavori, lavapiatti in diversi locali, aiutocuoco in pizzeria fino a sette anni fa, quando ha deciso di “fare il salto” e ha aperto una pizzeriakebab che ha chiamato “San Giorgio”, il santo cui è devoto. «Sono cristiano – racconta Shenaouda dopo molta insistenza da parte mia –, cerco di fare ciò che è scritto nel Vangelo. Non mi sembra una notizia così importante da finire su un giornale. Quando sono venuti i primi giornalisti non riuscivo a credere che potessero interessarsi a un fatto così banale. Le persone hanno bisogno. Io cerco di aiutare secondo le mia possibilità. Tutto qui». All’inizio Shenouda non voleva rilasciare nessuna intervista ma poi, racconta, «ho pensato che se la notizia fosse stata diffusa forse sarebbe stata d’esempio ad altri, che si sarebbero sentiti

spronati ad aiutare il prossimo». Per Shenouda donare un panino o una pizza è naturale, e non gli costa granché: in questa zona, fra clienti normali e studenti riesce a lavorare, nonostante la crisi. «Mi ritengo fortunato – conclude –: mi è sempre piaciuto stare in mezzo alla gente e il mio locale mi permette di svolgere un lavoro che amo in un paese che amo. Tra qualche mese dovrei anche ottenere la cittadinanza: una cosa a cui tengo molto, italiano mi sente da tempo!». Prima di accomiatarmi aggiunge un’ultima cosa: «Mia madre mi ha sempre raccomandato di mettermi nei panni dell’altro e io ho fatto tesoro di questa raccomandazione: solo così è possibile la comprensione reciproca». Vito Sciacca

e crescere, in questi difficili tempi di crisi». Da due anni la rete ha anche istituito e lanciato, il 10 dicembre, la “Giornata del Caffè sospeso”, per proporre la ripresa dell’antica usanza partenopea in bar e locali della penisola. Sono una quarantina in tutta Italia, da Aviano all’Aquila, da Scilla a Varese, da Este a Campobasso, da Lampedusa a Trieste, gli esercizi che hanno aderito e che invitano a donare un caffè. E l’esempio del caffè si segue anche in pizzeria, altro luogo simbolo del buon cibo popolare. Lo racconta Monica Piscitelli, food blogger e autrice di una seguitissima Guida alle migliori pizzerie di Napoli e della Campania. «Gino Sorbillo – spiega la giornalista – ha voluto rispolverare l’antica usanza della “pizza oggi a otto” che si mangia oggi e si paga dopo una settimana, mentre da Oliva, storica pizzeria detta “Concettina ai tre Santi” alla Sanità, con il contributo di clienti generosi, fra i quali l’attore Francesco Paolantoni, è stato istituito un vero e proprio fondo per pizza sospese che funziona esattamente come per il caffè». Nonostante le difficoltà nuove e vecchie, a Napoli una buona pizza e un buon caffè restano un diritto popolare e solidale. Laura Guerra settembre 2013 scarp de’ tenis

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Zoro nel paese degli individualisti Diego Bianchi è diventato un volto noto tv. «Continuo perché mi diverto. A raccontare le fissità della politica. Le frustrazioni della sinistra. Il menefreghismo della società»

di Daniela Palumbo

Crisi finita? «Non mi sembra che ci sia questa percezione. Io non ce l’ho. Anche le persone che frequentano il mercato dove sto girando in questi giorni hanno tutt’altra percezione

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A un certo punto cercava un nome d’arte. Il cognome Bianchi è penalizzante per uno che vuole essere ricordato. L’anonimato non è un valore nel mondo dello spettacolo. Invece, chiamarsi Diego ed essere nato negli anni Sessanta – «quando ancora non c’era Maradona» – ha avuto il suo peso per Diego Bianchi. Che, avvicinandosi l’era digitale, voleva lasciare un segno indelebile, come Zorro, vendicatore col mantello nero. «Ma essendo nato a Roma, sono diventato Zoro. Va da sé». Dopo aver fatto per un po’ di anni il content manager per Excite Italia, portale internet, Diego nel 2003 esordisce come blogger: Tolleranza Zoro è un successo. Lui si diverte, ma è sempre meno solo. I follower aumentano a dismisura. L’ironia, implacabilmente segnata dall’accento romanesco, è amplificata dal disincanto (anche questo eredità del popolo capitolino): i che interprete principale. Di Fandango suoi personaggi sono quasi fermi anche la produzione. Non sa ancora quando quando tutto intorno è il caos; il moviuscirà, forse in primavera forse prima. mento slow di Diego, il suo sguardo caCon la crisi si accorciano le certezze antatonico possiede la lucidità indispenche nel favoloso mondo del cinema. sabile per rappresentare la politica e la società italiana nella sua fissità, nell’incapacità di rinnovarsi. Di che parla, Arance e Martello? L’attualità e i salotti della politica diDi una giornata del 2011 al mercato rioventano così il palcoscenico dove Diego nale di San Giovanni, quartiere storico definisce la mappa dell’italianità. Guardi Roma. Una sezione del Pd organizzò dando Zoro, ci si specchia in tanti. In la raccolta di firme per far dimettere pochi anni le sue cronache sulla sinistra Berlusconi. Ci mobilitammo tutti sache si fa del male, che non dice niente pendo che non sarebbe servito a niente. di sinistra, che è invisibile e che sembra Con il film ripercorro quello che accadsopravvivere a se stessa solo per accorde in quella giornata: il rito della sinistra ciare le distanze con la destra, diventano che non va da nessuna parte, la fotogragag amatissime proprio dal popolo delfia è sempre attuale. È un film politico la sinistra, che si sente rappresentato ma anche storico. nelle sue eterne frustrazioni. E Zoro vola. Sconfina dalla Roma caDa blogger a uomo di satira, giornalipitolina: lo vuole la Dandini nel suo Parsta, conduttore televisivo e adesso la con me, poi lo scorso anno arriva una regista e sceneggiatore. In quale ruotrasmissione tutta sua, Gazebo. Quelo ti senti più a tuo agio? st’anno riparte a ottobre: tre giorni a setMa sai che non lo so cosa sono? Tutte timana, sempre con lo schema dello queste professioni hanno una loro noscorso anno. Che evidentemente ha biltà, alla maggioranza di esse devi defunzionato. dicare un percorso verticale di studi e Quando lo intervistiamo, Zoro è al gavetta che io non ho. Ho fatto scienze mercato di San Giovanni, zona di Roma politiche, la mia formazione non è spedove abita fin da bambino. Sta girando il cifica. Ufficialmente non sono niente di suo primo film, Arance e Martello. Suoi tutto questo. Però mi sono molto applisceneggiatura, soggetto e regia. Ne è ancato perché sono cose che mi piaccio-


testimoni cose come le vedono. Dunque, attenzione a generalizzare. Televisione. L’affannosa ricerca di molti: lavorare in televisione. A te hanno chiesto qualcosa in cambio per fare satira in tv? Finora non ho mai avuto problemi, sono stato lasciato libero, ho raccontato nel modo in cui mi piace e scegliendo gli argomenti che mi interessano. Se mi dovessero chiedere sconti, direi basta. Non perché io sia un puro, semplicemente perché non mi divertirei più. Sono molto tranquillo: io un lavoro ce l’avevo, ci sono capitato un po’ per caso, in tutto questo. Ma come sono entrato posso uscirne.

no. Mi diverto a farle e mi interessano. Credo che se ho fatto qualcosa di buono, pur non avendo una preparazione ad hoc, è perché mi diverto io per primo. Al di là di questo, credo di avere una certa propensione all’informazione, molte delle mie cose hanno un sapore giornalistico. Cosa in particolare? Mi è piaciuto fare i servizi su Pomigliano, le discariche in Campania, il postterremoto all’Aquila, tanto per dirne qualcuno. Magari c’è una certa leggerezza nel modo di presentare i contenuti, ma restando nel mio stile ho parlato di realtà su cui si erano spenti i riflettori. Quando sono andato all’Aquila – volevo già farlo di mio, ma sono stato anche sollecitato dagli abitanti – era passato un anno dal terremoto. Ho riportato le telecamere e, a parte il racconto del disastro che era – ed è – ancora lì, la cosa che mi è rimasta impressa è che non c’era più nessuno a raccontarlo. Dopo il circo mediatico delle copertine urlate, tutto si ferma. In realtà, spesso non cambia niente, ma chi lo dice? Già. Chi lo dice? Omissioni come questa sono una responsabilità pesante del sistema dell’informazione... Io non ce l’ho con i giornalisti, voglio chiarire. In un certo senso faccio parte

Catatonico romanesco Immagini di Diego Bianchi, in arte “Zoro”: nato come “blogger”, è approdato alla tv con Serena Dandini. Da ottobre, torna il suo Gazebo: tre serate a settimana su RaiTre

anche io di questo mondo, però oggettivamente questo è un limite della nostra informazione: quando si spengono le luci il problema resta come prima ma nessuno lo racconta più. Perché il circo mediatico si è spostato altrove, a volte seguendo logiche di convenienza politica. Detto questo, vanno anche citati i giornalisti che stanno in strada per portare le notizie, i fotoreporter che prendono le botte dalla polizia turca senza avere nemmeno la certezza che qualcuno gli pubblichi il reportage, o quelli che prendono due lire eppure resistono perché pensano che sia loro dovere dire le

Questa estate i politici raccontavano che la crisi in Italia è finita. Se n’è accorto qualcuno, secondo te? Non mi sembra che ci sia questa percezione. Io non ce l’ho. Anche le persone che frequentano il mercato dove sto girando il film in questi giorni di fine estate, hanno tutt’altra percezione. Ci sono i lavoratori della Metro C che confinano con le nostre troupe cinematografiche. Qualche giorno fa mi hanno chiamato per raccontare di loro. Sono finiti i soldi per la metro. Si fermano perché è da giugno che non li pagano. Mi sembra che siamo lontani dalla fine della crisi. Il tuo blog era Tolleranza Zoro. Cosa è intollerabile per te in questa Italia? È il fatto che sia tutto tollerabile, che i principi costituzionali su cui questo paese è stato fondato sono calpestati, ma chi li vede più? Intollerabile è che non li difendiamo. Intollerabile è l’individualismo sempre più evidente, tutti se ne fregano degli interessi collettivi, del bene comune: politici e cittadini. Ognuno di noi pensa al proprio privilegio e pensa a proteggere questo o quello perché è mio. Il resto, chissenefrega. Tu ormai hai un osservatorio speciale su italiani e italianità. Ma questo nostro paese è messo più male dentro i palazzi del potere o fuori? Sono due mondi comunicanti, molto simili. Io non sono fra quelli che pensano che la società civile sia migliore della classe politica che la rappresenta. Sono affini, vicine, contigue. D’altra parte è la società civile a votare i politici.

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LA MIA GENTE ENZO JANNACCI, CANZONI A COLORI Mostra e asta di fumetti, omaggio in musica e a teatro Partner ✹ Scarp de’ tenis [www.scarpdetenis.it] ✹ Wow – Spazio Fumetto di Milano [www.museowow.it] ✹ ReNoir Comics [www.renoircomics.it] ✹ Cooperativa Oltre [www.coopoltre.it] Il 17 ottobre si celebra la Giornata mondiale di lotta alla povertà. Scarp, insieme ad altri soggetti e operatori culturali di Milano, vuole cogliere l’occasione per ricordare Enzo Jannacci, scomparso a marzo dopo essere stato cantore, per mezzo secolo, della Milano e dell’Italia dei margini sociali, delle periferie geografiche ed esistenziali, di biografie sfortunate, stralunate, trascurate. Il ricordo, che riprende il titolo di un disco di Jannacci, avrà luogo attraverso molteplici linguaggi artistici: in primis fumetto e illustrazione, ma anche musica e teatro. Oltre a un intento commemorativo e di animazione culturale, l’iniziativa avrà un risvolto solidale: i fondi raccolti saranno destinati all’accompagnamento sociale dei venditori di Scarp de’ tenis. Rivista che nella testata – e non solo – conserva un radicato spirito “jannacciano”.

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LA MIA GENTE

ALTRI EVENTI

50 personaggi illustrati dalle canzoni di Jannacci

Showcase di presentazione dello spettacolo

Mostra di tavole originali dei principali fumettisti italiani WOW Spazio fumetto di Milano

giovedì 17 ottobre – domenica 17 novembre

ASTA DI BENEFICENZA delle tavole originali della mostra a favore di Scarp de’ tenis progetto di Caritas Ambrosiana Partecipano artisti amici di Jannacci

Casa d’aste Sotheby’s

palazzo Broggi - via Broggi, Milano martedì 12 novembre, ore 19

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Giovedì 17 ottobre, ore 19

II saltimbanco e la luna. Le canzoni, il giornalismo, Enzo Jannacci concerto teatrale con Susanna Parigi e Andrea Pedrinelli (Wow Spazio Fumetto Milano)

Giovedì 24 ottobre, ore 21 Serata di cabaret

Bove & Limardi e Osvaldo Ardenghi, allievi di Jannacci (Wow Spazio Fumetto Milano)

Giovedì 7 novembre, ore 21 Serata musicale con ospiti a sorpresa (Wow Spazio Fumetto Milano)

Giovedì 14 novembre, ore 21 II saltimbanco e la luna

Concerto teatrale a favore di Scarp de’ tenis (Sala teatrale di Milano)


BRUNO PER ENZO Un regalo per l’iniziativa “La mia gente”, in memoria di Jannacci: una tavola del grande cartoonist Bruno Bozzetto


La mia gente

Il saltimbanco non traffica con la coscienza Le canzoni, il teatro, il mestiere di giornalista: come è nato lo spettacolo che attinge all’arte di Jannacci, e che ha in “Scarp de’ tenis” il suo “partner sociale”

di Andrea Pedrinelli

A settembre sul lago Il Saltimbanco e la Luna

sabato 14 settembre ore 20.30 Moniga del Garda (Brescia) Sala consiliare piazza San Martino

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Tutto, in fondo, è iniziato in un tinello. Una nonna che riordina, un bambino che sceglie, fra i giochi, un mangiadischi. E vi inserisce un 45 giri. Giovanni, telegrafista, era il titolo della canzone più apprezzata. Enzo Jannacci, il cantante. Il bambino ero io. Tutto iniziò nei primi anni Settanta. Poi venne Milano canta, lp diviso tra Jannacci e Milly. Indi Secondo te… che gusto c’è?. Poi L’animale. E successivamente L’importante, Parlare con i limoni, Se me lo dicevi prima, La fotografia.Infine il bambino divenne giornalista musicale: e un giorno intervistò Enzo Jannacci. «Attento, Pedrinelli, se non gli gira bene chiude il telefono», mi dissero. Io chiamo, lui: «Ho dieci minuti». Vabbé, tanto valeva provare. «Senta, Dottore, partiamo dal cane con i capelli». Silenzio. «Oddio, ha messo giù». No: iniziò a ridere. E disse: «Pedrinelli, se uno conosce Il cane con i capelli può chieMamma che luna dermi quello che vuole». Già, ma “come”? Jannacci narra la vita Parlammo un’ora e mezza. Poi venvera, è eterno presente, è classicità nero tante altre interviste, fra canzoni d’autore. Bisognava cantarlo. Occorree valori. E sempre, squarciata la timiva uno bravo, ma soprattutto puro, che dezza del Dottore, sentirlo e vederlo rine sposasse intenzioni e valori. Il bimcordare il padre, la guerra, le censure, i bo mi suggerì: Susanna Parigi. Giusto. suoi pilastri: altruismo e dignità. Fino Non pensavo però che avrebbe acceta parole che mai da altri artisti ho sentato subito, che si sarebbe commossa tito. «C’è bisogno, di chi da saltimbanascoltando Mamma che luna che c’era co vive. E muore. Perché ricordatelo, stasera, che avrebbe trovato coerente Pedrinelli, con la coscienza non si trafcoi propri ideali Come gli aeroplani, fica. Mai». Poi, un giorno, Enzo già lonche si sarebbe imposta un lavoro cinetano dal palco, l’esigenza di riascoltarse per trascrivere le canzoni di Enzo dai lo con calma. E ridere, piangere, rifletdischi, arrangiarle per pianoforte (non tere, accorgersi che forse le sue canzoper pianobar), farle sue senza tradirle. ni girano poco, alcune magari non le Susanna l’ha fatto. E intanto io scriconosce nessuno. E arrabbiarsi, perché vevo: su come siamo ridotti, ma soconoscerle aiuta a vivere, a capire, a prattutto sull’alternativa morale a ciò, dare nome alle paure, senso alle incontenuta nelle parole e nelle canzoni quietudini. di Enzo. Così tutto divenne teatro. E ocFu allora che il bambino tornò, e correva una regia. Il bimbo mi strattonò bussò al cervello del giornalista. «Invee disse: gli Eccentrici Dadarò, Rossella ce di arrabbiarti, perché non le racconRapisarda, la loro vocazione a un teatro ti tu, queste canzoni? Perché non lo dietico ed educativo che non rinunci alle vulghi tu, Jannacci? Il tuo mestiere non emozioni. Bravo! Rossella arrivò, sforè raccontare quanto non va di moda, è biciò i testi, pianse anche lei per Mampoco noto, rischia l’oblio?». Aveva rama che luna che c’era stasera, mise orgione. Fu allora, due anni orsono, che dine nel mio caos… Così è nato Il Salnacque il progetto per parlare di Enzo timbanco e la Luna. Saltimbanco in Jannacci, di emozioni e valori sin tropquanto Enzo, autodefinizione della vopo sviliti, riportandoli alla gente. cazione di raccontare da un palco la vi-


l’evento to certe parole, le viveva. Quindi bussammo alla porta di Scarp de’ tenis, la faccenda solidale più vicina alla sua opera, per metterci a disposizione della Caritas e di quelli che Enzo ha cantato. La terza cosa era debuttare. E vedere se funzionava anche con un pubblico “vero”. Al Teatro Menotti, che ci rivedrà in scena a marzo 2014, ha funzionato. Tutto: anche dire che no, un uomo che muore, i suoi sentimenti, la sua dignità, non è “roba minima”. Anche se è un barbone, anche se El portava i scarp del tennis, anche se intorno a lui c’è indifferenza. Ha funzionato tutto. E quindi, con amore e con pudore, Il Saltimbanco e la Luna andrà avanti. Anche per via della farfalla. La farfalla, sì. Una farfalla nera e dorata che per tutto il tempo della “prima” ha volato sul palco. Tra il pianoforte, il taccuino zeppo delle parole di Jannacci e la sua giacca rossa da Saltimbanco. Quasi fosse, quella farfalla, a casa sua. Ma forse, lo era.

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ta; ma anche in quanto Andrea e Susanna, un giornalista e un’artista che svicolano dalle convenienze del loro mestiere per ridargli – nel loro piccolo – un senso. E la Luna? Beh, la Luna è la vita. Quella che il Saltimbanco guarda, che le sue canzoni mostrano, che noi da allora proviamo a capire, con pudore, insieme alla gente. La gente, già: quella che veniva alle prove aperte e poi ci inondava di lacrime. Come a dire «Non conoscevamo abbastanza bene Jannacci», e però anche «Avevamo bisogno, di lui, di andare oltre le miserie del quotidiano».

Saltimbanchi e venditori Andrea Pedrinelli e Susanna Parigi (sopra), protagonisti del concerto teatrale; sotto, con due promotori di Scarp

Per via della farfalla A quel punto mancavano tre cose. La prima era essere certi che a Enzo la faccenda piacesse. Gli scrissi, stava già molto male, rispose. Di essere commosso e onorato, di andare avanti. La seconda cosa era non dimenticarci che Enzo, dopo aver cantato e detsettembre 2013 scarp de’ tenis

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milano Il sistema lombardo di accoglienza dei rifugiati si è trasformato negli ultimi anni. Sulla scia di una realtà in costante evoluzione

Chiedono asilo, l’accoglienza cambia Como Alcolisti anonimi, insieme si ricomincia da trent’anni Torino Cure gratuite ai denti per non smettere di ridere Genova Trasparenze a colori: Michele, la vita è un bolla Vicenza Tre notti in una baracca, non le dimenticherò Modena Giustizia sia fatta. Meglio se riparativa Rimini Scommessa Quinc, il baratto si fa spazio Firenze Da gennaio “Pizza fuori”, il lavoro cambia il futuro Napoli Luca in volo tra le stelle, noi con i piedi per terra Salerno Università: luci e ombre dopo un passato glorioso Catania L’addio ad Andrea, malato come voleva lui

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di Alberto Rizzardi Era il 26 luglio del 2001. A tre anni dall’entrata in vigore della legge 40 del 1998, nota come Turco-Napolitano, a Varese veniva presentato lo sportello per i rifugiati politici, che sarebbe stato attivo dal giorno seguente all’aeroporto internazionale di Malpensa, affidato alla prefettura di Varese con una concessione a carico di Caritas e del Consiglio italiano per i rifugiati. Lo sportello, dove all’atto dell’apertura lavoravano sette operatori per fornire ai rifugiati accoglienza, assistenza giuridica e aiuto nella sistemazione in centri comunali convenzionati, rispondeva a forti esigenze sociali, certificate anche dai numeri. Nei primi due anni di vita del valico di frontiera di Malpensa si era, infatti, registrato un deciso aumento nelle richieste di asilo politico: dalle 5 del 1998 alle 137 del 2000. Dati che poi sono saliti costantemente negli anni, fino a toccare quota 354 nel 2005, 1.039 nel 2006 e Se, infatti, fino a qualche anno fa la 1.082 nel 2007. Poi, dall’anno seguente, maggior parte di richieste alle frontiere un cospicuo calo (516 nel 2008, appena erano nuove domande per lo status di 147 nel 2009). La causa? Il depotenziarifugiato, negli ultimi tre anni sono aumento dell’aeroporto di Malpensa, che mentati considerevolmente i cosiddetti nel marzo 2008 cessò la sua funzione di “casi Dublino”, ovvero rifugiati e richiehub internazionale per Alitalia, con la denti asilo rinviati da altri paesi europei maggior parte dei voli del vettore proveperché si sono allontanati dal paese che nienti da molte località del sud del monli ospita. Rifugiati, nel caso italiano, che do dirottati allo scalo romano di Fiumicino. A cinque anni da quel de-hubbing, come funzionano i servizi d’accoglienza per i rifugiati in Lombardia?

Sempre più “casi Dublino” «La situazione è piuttosto diversificata a seconda dei territori – spiega Luca Bettinelli, responsabile della segreteria stranieri di Caritas Ambrosiana –. Varese per molti anni è stata un modello, con una filiera di servizi che partiva già dall’accoglienza in aeroporto e arrivava fino alla piena autonomia del rifugiato, passando per la varie procedure di formalizzazione della domanda, con un inserimento parallelo in strutture di prima accoglienza. Questa eccellenza varesina si è, però, un po’ persa negli anni, per una serie di motivi: da un lato sono cambiati alcuni appalti, dall’altro c’è stato un mutamento nella tipologia di richiedenti».


scarpmilano già hanno goduto della prima accoglienza e che, dunque, non possono accedere una seconda volta alla stessa. «Al momento si è cercato di tamponare la cosa con il Fondo europeo per i rifugiati – spiega Bettinelli – ma occorre un ripensamento del sistema. L’anno scorso, solo dalla Svizzera, sono arrivati in Italia oltre tremila “dublinanti” e il sistema d’accoglienza non sempre è in grado di dare risposte». Nel resto della Lombardia il quadro è ancor più frammentato. Sparsi nel territorio ci sono piccoli-medi esempi di Sprar, il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e i rifugiati, nato nel 2001 con un protocollo d’intesa tra ministero dell’interno, Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione, Anci (l’Associazione nazionale dei comuni italiani) e Acnur (Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati). Enti locali e realtà del terzo settore si uniscono, sotto l’egida dell’Anci, per realizzare progetti di accoglienza integrata, nell’ambito del Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell'asilo, che è, di fatto, un trait d’union tra prima e seconda accoglienza dei rifugiati, della durata di sei mesi. A Varese è attivo un progetto Sprar gestito da Caritas Ambrosiana, con una ventina di posti. In provincia di Varese progetti territoriali analoghi sono a Samarate, Saronno, Cardano al Campo, Caronno Pertusella, Sesto Calende e Malnate. Così come Sprar esistono a Lo-

Il caso

Assolti gli operatori Caritas: come nacquero accuse infondate? Dieci anni di scrupolose indagini non sono bastati a convincere il Gip-Gup (Giudice per le indagini preliminari - Giudice dell’udienza preliminare) del tribunale di Varese che gli operatori delle cooperative di area Caritas, impegnati nell’accoglienza dei profughi, avessero commesso i reati che venivano loro contestati: truffa aggravata ai danni dello stato e favoreggiamento di immigrazione clandestina. Un anno fa, il giudice Giuseppe Battarino smontava il castello di accuse, chiudendo il caso, addirittura prima che arrivasse a processo, ed emettendo una sentenza di “non luogo a precedere”. Nessun addebito, dunque, poteva essere ascritto agli operatori della cooperativa Le Querce di Mamre e della onlus Casa Solidale, che operavano dal 2001 sul fronte dell’accoglienza e integrazione dei rifugiati nel’area di Varese e Malpensa. L’episodio, nonostante l’esito, ha prodotto conseguenze negative per le persone e le organizzazioni coinvolte. Ha incrinato le vite professionali degli operatori, ma ha anche rischiato di far scricchiolare un sistema di accoglienza e tutela spesso indicato come modello dalle stesse istituzioni che ne sarebbero state danneggiate. Una vicenda paradossale, insomma, su cui i diretti interessati vogliono vederci chiaro. Per questa ragione, a un anno dalla conclusione giudiziaria, si preparano a presentare un esposto alle autorità competenti, per capire le motivazioni reali che portarono alla formulazione di quelle gravi accuse. Esattamente un anno fa, il Gip-Gup del tribunale di Varese emetteva sentenza di “non luogo a procedere” nei confronti di di Roberto Guaglianone, Milena Minessi, Piero Magri e Davide Bossi per Le Querce di Mamre ed Elena Casalini, Angelo Tettamanzi e Gaetano Guaglianone per Casa Solidale. Il Gip-Gup, Giuseppe Battarino, riconosceva che i fondi pubblici concessi dallo stato alle cooperative, in virtù delle convenzione in essere tra prefettura e centri di accoglienza, erano stati correttamente impiegati. Inoltre il giudice, contrariamente a quanto sostenuto dalla procura, appurava che a norma di legge i richiedenti asilo diniegati (ovvero i richiedenti asilo cui è stato negato lo status di rifugiato) che avevano opposto ricorso, potevano svolgere tirocini lavorativi e che, non essendo equiparabili a immigrati clandestini, potevano legittimamente stipulare contratti di affitto. Nella motivazione della sentenza, dunque, il Gip-Gup proscioglieva gli imputati dalle accusa perché «il fatto non costituisce reato». Le Querce di Mamre e Casa Solidale gestivano, per conto di Caritas Ambrosiana, cinque centri di pronta accoglienza per richiedenti asilo (per un totale di 70 posti) in convenzione con la prefettura di Varese, centri di accoglienza e appartamenti (per un totale di 73 posti) in convenzione con i comuni di Caronno Pertusella, Saronno, Varese, Sesto Calende, Malnate, Cardano al Campo, nell’ambito del programma nazionale di accoglienza Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), nonché lo Sportello di accoglienza nell’aeroporto di Malpensa. In questi anni Caritas, forte del credito conquistato presso le istituzioni, ha continuato nel territorio la propria attività di aiuto ai richiedenti asilo, affidando la rete dei centri e degli appartamenti di “pronta”, “prima” e “seconda” accoglienza a un’altra cooperativa. L’organismo diocesano ha perso, invece, la convezione per la gestione dello sportello dell’aeroporto, passato ad un’altra organizzazione. In estate Caritas Ambrosiana ha reso noto con un comunicato che «ha sempre creduto nella correttezza dei suoi operatori» facendosi «carico delle spese processuali» e non facendo «mai venire meno il proprio appoggio economico e morale». E che dunque «ora sosterrà la volontà degli operatori di Le Querce di Mamre e Casa Solidale nel volere appurare le singolari motivazioni alla base di questa vicenda, affinché fatti del genere non accadano più ad altri operatori impegnati ad aiutare i più emarginati con professionalità e abnegazione». settembre 2013 scarp de’ tenis

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scarpmilano di, Lecco, Bergamo, Mantova e nel Bresciano, a Cellatica e Breno, per un totale di circa 150 posti. E poi c’è Milano, dove, nel dettaglio, i servizi d’accoglienza si snodano seguendo due binari paralleli: di nuovo un progetto Sprar, gestito dal consorzio Farsi Prossimo, con 44 posti a disposizione; e il cosiddetto “Accordo Morcone”, attivato nel 2007 dal ministero dell’interno in quattro città (Roma, Milano, Torino e Firenze) e scaduto nel maggio di quest’anno, ma prorogato di un anno.

Le strutture di Milano «A Milano – spiega Paolo Grassini, responsabile dell’Area stranieri e prima accoglienza del consorzio Farsi Prossimo – sono 400 i posti in cinque centri d’accoglienza (quattro dedicati a uomini adulti, uno a mamme single o con bambini), più una struttura in viale Ortles gestita direttamente dal comune». Qui le persone che non hanno goduto finora di servizi di prima accoglienza possono restare per un massimo di 300 giorni con vitto e alloggio garantiti, più altri servizi volti all’integra-

zione: abbonamenti per i mezzi pubblici, corsi di lingue e percorsi ad hoc per l’attivazione di tirocini e borse lavoro. «Al termine dei dieci mesi di permanenza – continua Grassini – se la persona è autonoma e autosufficiente, prosegue il suo percorso d’inserimento nel tessuto sociale da sola; in caso contrario, può entrare in strutture del terzo settore per un percorso di ulteriore sostegno». Sono circa 600 le persone che annualmente ruotano nelle varie struttu-

re milanesi, anche se il numero è ondivago e segue, va da sé, l’andamento delle crisi internazionali (si pensi alla recente ondata di arrivi dal nord Africa), con picchi comunque certificati nei mesi invernali e cali in estate, quando si cerca spesso lavoro al sud. Dai dati del terzo Rapporto annuale sui rifugiati, pubblicato dal comune di Milano nel 2012, le persone accolte nel 2011 sono state 887, di cui 498 entrate nei centri, con un incremento del 3% di presenza rispetto al 2010, dovuto, tuttavia, a un maggiore turn over degli ospiti accolti. E lo sportello di Malpensa? Esiste ancora. Il depotenziamento dello scalo ne ha ridotto sensibilmente l’attività, oggi concentrata sui già citati “casi Dublino”. A gestirlo oggi è la cooperativa varesina Mediazione-Integrazione, che ha preso il posto di Cir e Caritas, usciti di scena rispettivamente nel 2009 e a fine 2011.

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I FRATEL ETTORE DI OGGI / 4. Da più di vent’anni si dedica a chi vive ai margini. La conoscenza di Gastone e di fratel Ettore ha rafforzato il suo impegno

Don Leonello, incontri trasformati in una Casa di Sandra Tognarini «Non sono le scelte lungamente meditate che ti stravolgono la vita, ma gli incontri casuali che fai». L’esistenza del sacerdote guanelliano don Leonello Bigelli, originario di Ancona, all’istituto San Gaetano di Milano dal 1990, è cambiata subito dopo il suo arrivo nella metropoli lombarda: oltre al lavoro con i ragazzi ospiti dell’istituto, ha iniziato a recarsi, di notte, sui luoghi del degrado, per portare un panino o un tè caldo ai senza tetto della stazione Centrale. Ha potuto così conoscere anche i tanti giovani che, nelle ore fredde delle notti d’inverno, portano sciarpe, guanti e coperte a chi non ha un riparo. Tra questi volontari ci sono gli “Amici di Gastone”, associazione nata attorno a un personaggio che aveva fatto della Centrale di quegli anni la sua “casa”: Gastone Pupeschi. Poteva essere il nonno ideale di tanti bambini. Raccontava non ha più voluto vedere nessuno. Fistorie fantastiche, che incantavano tutno a quando si è addormentato, per

Comunità che educa Ospiti e volontari della Casa di Gastone

ti. Era un caso psichiatrico e ogni giorno cambiava personalità: extraterrestre, Gesù Cristo o il direttore capo delle poste di piazzale Cordusio. Proprio grazie ai giovani che ascoltavano i racconti delle sue avventure immaginarie, Gastone ha potuto un giorno abitare in una casa vera, di ringhiera. Ma a un certo punto vi si è barricato dentro e

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non risvegliarsi mai più.

Insieme per fare di più Gli “Amici di Gastone”, dopo la sua morte, non hanno interrotto la loro attività. Anzi. Don Leonello li ha raccolti al San Gaetano, incamminandoli sulle orme di don Guanella, per «dare pane e dire il Signore a chi vive sulla strada».

Arriva così una sera piovosa di fine febbraio 1998. Carlo, un volontario degli Amici di Gastone, durante uno dei suoi giri in stazione Centrale raccoglie un uomo da una pozzanghera della piazza Duca d’Aosta. Si chiama Gino. È bagnato fradicio, febbricitante, sporco, ubriaco. Carlo lo porta all’istituto San Gaetano di via Mac Mahon, da Leonello: «Tienilo almeno due giorni, finché non gli passi la febbre e la sbornia». «Va bene, ma solo per due giorni», risponde il don. Gino viene portato in via Monte Ceneri 1, dove c’è una villetta che tempo prima aveva ospitato delle suore, ma allora era invasa dalle ragnatele e non aveva riscaldamento. I volontari iniziano a pulirla. Trovano poi un letto, delle lenzuola, un cuscino, delle coperte e Gino ha infine una sistemazione decente. Non per due giorni, ma per due anni. Intanto, in una notte particolarmente fredda del 2002, don Leonello fa un altro incontro molto significativo tra i mezzanini della metropolitana, tenuti aperti dalla protezione civile. Gli Amici di Gastone stanno finendo di distribuire del tè ai senzatetto, quando arriva fratel Ettore, in cerca di qualcuno da portare al suo rifugio di via Sammartini. Don Leonello gli porge la mano e si presenta. Gli manifesta l’intenzione di aprire una casa per i senza tetto e chiede qualche consiglio. Fratel Ettore gli dice semplicemente: «Comincia ad accoglierne uno». Pochi giorni dopo (il 14 gennaio 2002) don Leonello apre ufficialmente la Casa di Gastone nei locali già “inaugurati” tempo prima da Gino. Quella stessa sera entrano i primi due ospiti, il giorno dopo arriva il terzo. A giugno so-


no in sette. A novembre, allo scattare del piano “Emergenza freddo” del comune di Milano, gli ospiti della Casa sono ormai 17. E in totale sono stati 123, dal 14 gennaio 2002 a oggi. Attualmente sono 14.

Una comunità educativa Oggi la Casa di Gastone non offre solo un pasto caldo e un letto pulito, ma un progetto di recupero educativo condiviso, che riguarda tutte le dimensioni della persona, in modo che essa ritrovi la propria dignità. Non è un progetto identico per tutti, ma segue percorsi individuali a seconda delle aspirazioni, attitudini e capacità di ciascuno. Si parte dall’igiene personale, che è il primo aspetto da curare per chi viene dalla strada. Gli ospiti vengono abituati al mattino, appena alzati, ad aerare la propria stanza, rifare il letto e dedicarsi all’igiene personale e del loro ambiente. A turno si dedicano alla pulizia della camera e del bagno, provvedono alla raccolta della biancheria sporca, imparano a utilizzare la lavatrice e a usare anche il ferro da stiro. Altro aspetto importante della vita degli ospiti è la rieducazione al lavoro. Esso, oltre a essere un mezzo di espressione e di sviluppo della creatività dell’individuo, è anche occasione di socializzazione, perché rappresenta la ripresa della relazionalità con gli oggetti, con le persone, con il mondo. Gli ospiti lavorano nel laboratorio, dotato di tre macchine di traforo elettrico, una levigatrice, un bancone con morsa per la scultura del legno, un forno per le terrecotte e l’occorrente per incorniciare stampe o costruire icone. Nella Casa di Gastone si dà anche valore alla dimensione spirituale della persona, che si alimenta attraverso la preghiera, il silenzio e l’ascolto della Parola di Dio e si esprime in momenti celebrativi dalle forme semplici, ma ricchi di segni che parlino al cuore, oltre che alle menti delle perso-

Accoglienza, c’è spazio anche nel “Portico” Poiché in tempi di crisi l’aumento del numero dei senza dimora dipende in buona parte dalla perdita del lavoro, la Casa di Gastone, voluta da don Leonello Bigelli (nella foto) conduce dal 2006 un altro progetto, il “Portico della carità”. Un locale seminterrato ristrutturato è oggi un piccolo appartamento con tre posti letto singoli e un bagno in comune: offre alle persone che sono sulla strada la possibilità di trascorrere la notte al riparo, di consumare un pasto caldo, di dormire su un letto comodo e di curare la propria igiene personale per presentarsi, puliti e ordinati, alle agenzie di lavoro o a consegnare il proprio curriculum. L’accesso, rispetto alla Casa di Gastone, è meno “rigido” e non richiede l’intervento dei servizi sociali. Dalla sua apertura al 2012, il Portico ha avuto 45 ospiti.

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Long Wei, eroe perdente di una Milano nerissima Per la prima volta, in Italia, il protagonista di una serie a fumetti è un immigrato. Viene dalla Cina, aiuta lo zio nel ristorante. E deve fare i conti con una città violenta

di Ettore Sutti L’urlo di Long Wei terrorizza Milano. O meglio, i cattivi di Milano. Già, perchè Long Wei, prima serie a fumetti italiana con protagonista un ragazzo immigrato, è un paladino degli ultimi. Arrivato dalla Cina per aiutare lo zio, proprietario di un ristorante cinese in via Paolo Sarpi e finito in un giro di scommesse, Long Wei finirà per diventare il difensore dei più deboli. Nato dalla fervida matita di Diego Cajelli (già autore Bonelli) per Editoriale Aurea, il fumetto è molto milanese. Tutte le storie sono ambientate in una Chinatown fantastica, ma con la presenza di importanti punti riferimento meneghini: dal grattacielo Pirelli alla Fiera di Rho, dal Duomo alle fermate della metro. Un efficace miscuglio di fantasia e realtà: l’ambientazione delle storie, nonostante sia del tutto inventata, appare familiare, come se fosse appena dietro l’angolo di casa. Cajelli, come è nato il progetto Long Wei? Sono stato contattato da Editoriale Aurea, tramite Roberto Recchioni. Cercavano un autore in grado di sviluppare un concept: un eroe immigrato nell’Italia di oggi. Ho elaborato la storyline di Long Wei, è stata approvata, siamo partiti. Long Wei è un attore fallito in patria. Perchè scegliere un “perdente” come protagonista principale? La narrazione moderna si è un po’ distanziata dall’eroe puro, senza macchia e senza paura. L’eroe per caso, l’eroe perdente, è una figura molto contemporanea, dal grande potenziale narrativo. Prevale l’eroe con problemi, con qualcosa di oscuro e non risolto nel suo carattere e nel suo passato. I cinesi non sono visti benissimo a Milano e in Italia in generale. Una fatica doppia far emergere il vostro eroe... In realtà le difficoltà per “fare emergere” Long Wei non sono artistiche o produttive. Non ci sono problemi con la comunità cinese o con il concept del

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personaggio. Ci sono problemi, ma sono strutturali, legati al momento storico, alla crisi delle edicole, che devono vendere le sigarette elettroniche e non i prodotti editoriali. Non ultimi, problemi distributivi. Come hai fatto per documentarti sui luoghi in cui la storia è ambientata? Ci racconti un episodio divertente? Sono nato nella chinatown milanese, è una zona che conosco, legata al mio passato e alla mia storia personale. Ho fatto diversi sopralluoghi, per “respira-

re” il quartiere e scattare le foto servite come documentazione fotografica. Sono appassionato di cucina e chef amatoriale. La cucina cinese ha una parte fondamentale nel fumetto. Quando sono andato a “fare la spesa” in un supermercato cinese uno degli addetti mi ha spiegato come cucinare quello che stavo comprando. I figli della seconda generazione cinese sono spesso molto più milanesi dei milanesi. Come hanno accolto Long Wei? Abbiamo molti lettori cinesi. Al nostro ultimo evento se ne sono presentati diversi, tra cui un ragazzo uguale uguale a Long Wei. Il personaggio piace molto alle ragazze, lo trovano molto carino. Il ristorante cinese dello zio di Long Wei è in via Sarpi, le arti marziali la fanno da padrona dentro la storia, avete collaborato con l’Associazione Italia-Cina: non si rischia di fare uno steccato e cadere nello stereotipo? Il fumetto viaggia attraverso la rappresentazione di stereotipi. La cosa importante è il come vengono raccontati. In questo caso il rispetto e l’amicizia verso il popolo cinese porta in secondo piano quelli che sembrano luoghi comuni. Comunque, niente di più e niente di meno di quello che accade in un episodio televisivo qualunque dei Soprano’s, per quanto riguarda l’archetipo dell’italiano. La Milano del fumetto è una città in cui i cattivi imperversano e i buoni non sembrano avere possibilità di scamparla. Una Milano che somiglia a quella “calibro 9” di Scerbanenco. Com’è nato questo filo narrativo?


Botte a MIlano Long Wei, il protagonista del fumetto targato Aurea Edizioni, insieme all’amico e compagno di sventure Vicenzo Palma in una tavola creata apposta per Scarp de’ Tenis. A sinistra la copertina del primo numero della serie

Arriva dai miei lavori precedenti come la serie Milano Criminale. Adoro il noir urbano e l’ambientazione milanese. Milano, da un punto di vista narrativo, non ha nulla da invidiare a metropoli più “raccontate” come New York o Londra. Dietro ai balordi e alla “manodopera” di basso livello appare una cupola pronta a tutto pur di spartirsi la città, con relativa Expo. Una visione cruda della realtà...

Le trame sono realistiche. Molto. Racconto quello che vedo. Molti episodi di Long Wei sono stati anticipati dalla cronaca nera. Di base, però, nella serie il realismo “dura” fino a un certo punto, poi viriamo sulla fiction pura, infilando nel fumetto quello che non ti aspetti.

La strada, intesa come palestra di vita, luogo dove ci si conosce, si creano o distruggono reputazioni e ci si mena, è un elemento fondante della storia... Da Paolo Sarpi, a metà degli anni Ottanta, la mia famiglia si è trasferita in zona viale Certosa. A pochi passi da piazza Prealpi. Essere un adolescente, in quel periodo e in quella zona, ti portava a conoscere per forza le regole della strada. E io in strada ci stavo, a cercare casini, mettendomi anche nei guai. Ho imparato molto, sono ancora vivo e ho la fedina penale pulita.

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Tetraedro


scarpmilano

Un’apecar, prodotti “a chilometro zero”, la tradizione reinventata: con Gelape due giovani milanesi portano freschezza sulle strade d’Italia

Gelato ambulante, il gusto ha tre ruote di Simona Brambilla Un’ape, due giovani milanesi e tanto buon gelato a chilometro zero: sono gli ingredienti di Gelape, una gelateria ambulante che da un anno a questa parte gira per le strade e i litorali italiani, regalando golosità e sorrisi a grandi e piccini. «L’idea di Gelape nasce dai ricordi e dalla passione per le cose sane e semplici – spiega Gennaro Gallo, uno degli ideatori –. Dal vecchio e amato gelataio che passava con la sua “apecar” dal rumore inconfondibile e dal quel suono metallico del megafono che attirava l’attenzione di tutti. La vecchia “ape” serviva pochi gusti, ma tanta bontà. Noi abbiamo rivisitato la vecchia “ape” e l’abbiamo trasformata in “Gelape”, una vera gelateria ambulante». Gennaro, per tutti Rino, insieme al suo socio, Angelo Maucione, non producono il gelato, ma sono in contatto con le migliori gelaterie artigianali italiane preringraziavano. Scoprimmo dopo il persenti nelle località in cui Gelape sosta. ché di tanta emozione: era stato proprio «Serviamo, oltre a gelati, anche frappè, davanti a una “ape gelato” che si erano granite, semifreddi e altre leccornie – ha dati il primo bacio. Dopo alcune setticontinuato Rino –. Il gelato offerto da mane ci hanno chiamato perché desiGelape è ricercato e attento alla natura: deravano Gelape davanti alla chiesa un gelato a chilometro zero, nonostandelle loro nozze d’oro». te sia una vendita ambulante. AcquiI ragazzi di Gelape infatti non lavostiamo il gelato sul posto, con attenziorano solo come ambulanti, ma anche ne a qualità, stagionalità e prodotti lonei catering di matrimoni, feste di laucali». Il successo per il “gelato di strada” non manca: le persone rimangono affascinate e incantante dall’unione di tradizione e modernità.

rea o di compleanno. «Cerchiamo di mantenere i prezzi convenienti, per fare in modo che anche con un solo euro sia possibile mangiare un ottimo gelato». Certo, mantenere i prezzi bassi è difficile, soprattutto perché Gennaro e Angelo sono sempre alle prese con tasse da pagare per poter sostare in luoghi pubblici o partecipare come società privata (Gelape è una srl) a eventi o manifestazioni. «Lavorare in eventi organizzati è molto difficile per via dei prezzi troppo alti – conferma Gennaro –. Solo per avere un posto dove vendere si parte da 150, 200 euro giornalieri, che aumentano in base all'evento. Noi siamo abbastanza in difficoltà per via di un basso guadagno finale: se al costo di gelati e altre spese, si aggiunge il prezzo da pagare per il posto, a noi rimane poco...».

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Tra magia e divertimento «Gelape è magia e divertimento – continua Rino –. La soddisfazione più grande è vedere il sorriso nelle persone, quando arrivano i bimbi con i genitori, o magari accompagnati dai nonni che si fermano a gustare un gelato che sa di vecchi ricordi. Ricordi felici, che non sembrano mai passati. L’estate scorsa, nel salernitano, in qualsiasi luogo fossimo, veniva sempre a trovarci una coppia non più giovane ma tanto innamorata, una di quelle coppie da cui vorresti prendere esempio per una vita futura. Questi due anziani arrivavano abbracciati come dei ragazzini e ogni volta ci settembre 2013 scarp de’ tenis

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Tetraedro


latitudine como Un aiuto a chi vuole smettere di bere: anniversario in riva al Lario

Alcolisti Anonimi, si ricomincia da trent’anni di Salvatore Couchoud

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OMINI E DONNE CHE, ammettendo di essere vittime di una grave patologia e rico-

noscendo di avere bisogno di terapie, hanno lanciato la sfida all’abuso di alcol. E un programma di recupero che ha restituito alla vita milioni di persone nel mondo. Nato nel 1935 negli Stati Uniti, Alcolisti Anonimi è sbarcato a Como nel 1983 e festeggia dunque quest’anno il suo trentennale, rinnovando nel tempo una sperimentazione che ha dato frutti copiosi e tangibili, e consolidando una presenza nel territorio che ne fa un punto di riferimento nell’area del disagio sociale, anche per coloro che vivono indirettamente l’esperienza dell’abuso di alcol. «Abbiamo ammesso di essere impotenti di fronte all’alcol e che le nostre vite erano diventate incontrollabili – racconta uno dei membri comaschi dell’associazione, che abbandonò la bottiglia nel 1989 e da allora è tra i collaboratori più impegnati e dinamici di AA Como –. Il nostro obiettivo primario è rimanere sobri e aiutare altri che lo vogliano a raggiungere la sobrietà. Non imponiamo a nessuno la nostra esperienza, ma la condividiamo con chiunque ci inviti a farlo. Nell’associazione confluiscono uomini e donne di ogni età, professione ed estrazione sociale, che vengono inseriti in gruppi di autosoccorso da cui hanno origine percorsi differenziati, fondati sul programma di recupero di Alcolisti Anonimi: dodici passi e dodici tradizioni, per ritrovare la luce in fondo al tunnel». Sono migliaia le testiEternità tradita monianze di questo tipo, C’era un castello di sabbia, immerso nel Paradiso, tutte volte a confermare con dei fiori nel Giardino dell’Infinito, l’efficacia di un modello, dove tutti si tengono per mano per l’Eternità. C’era una fune che collegava ai mortali; la forza di un gruppo, il chi l’avesse percorsa cadendo nel vuoto dell’Infinito, valore delle tante vite salavrebbe perso l’Eternità. vate, anche attraverso Tutti sappiamo che non bisogna sfidare l’ignoto, l’ammenda nei confronti ma ne siamo affascinati. delle persone offese o Allora il Prudente guardò con un binoccolo Il pianeta dei mortali, danneggiate all’epoca dee vide la Poesìa, ne rimase affascinato; gli abusi. poi guardò più in là e vide delle Rose, Perché il primo passo capì che quello era vivere; verso la liberazione è reavide che c’era il Pianto lizzare un bilancio morale che scorreva nel tempo e si trasformava in profondità, riconoscenin un sorriso, grazie all’Amicizia. Allora si lasciò andare nel vuoto dell’Infinito, do gli errori commessi e si tuffò nel Pianto, individuando quelli da evie riemerse in un Sorriso. tare in futuro. Senza paura Tonino Filippazzo e senza vergogna.

«Dodici passi: non imponiamo a nessuno la nostra esperienza, ma siamo pronti a conviderla con chi ci invita a farlo»

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torino

Cure gratuite per ridere ancora In città due laboratori offrono cure odontoiatriche agli indigenti

di Aghios In Italia le cure odontoiatriche sono parzialmente escluse dai Livelli essenziali d’assistenza (Lea), il che significa che il servizio sanitario nazionale eroga soltanto alcune prestazioni di base. Per usufruire di tali prestazioni, il cittadino deve versare un ticket che, però, non comprende i costi degli impianti, delle protesi mobili e fisse e dei relativi materiali che sono a carico del cittadino. Mediamente l’importo del ticket relativo a una prestazione si aggira intorno ai 36 euro, ma raggiunge i 700-1000 euro in caso di protesi. Questo significa che le fasce di popolazione più povere sono, di fatto, escluse da determinate cure, con le complicazioni che sono intuibili. Un problema che oggi, per effetto dell’impoverimento generato dalla crisi economica, ha assunto proporzioni allarmanti. Negli ultimi anni sono state lanciate diverse iniziative, nell’ambito del volontariato, tese ad assicurare alle fasce meno abbienti la possibilità di accedere a cure dentistiche. A Torino sono attivi un ambulatorio odontoiatrico agli “Asili notturni Umberto I” di via Ormea Una buona notizia stamattina, 119 e il suo omologo situato all’interno che mi dia la motivazione del “Sermig – Arsenale della Pace” di via a vivere. Borgo Dora 61. Entrambi svolgono la Una voce sincera, oggi, loro opera gratuitamente, al servizio dei più bisognosi, fornendo uno spettro di che mi faccia pensare prestazioni che spazia dalla cura alche anche oggi l’implantologia.

Buona notizia

Ormea, l’impegno dei volontari In via Ormea sono attivi tre ambulatori, dal lunedì al venerdì, gestiti a titolo gratuito da 24 medici dentisti, tra cui quattro docenti universitari e tre primari ospedalieri, oltre a venti odontotecnici e sei paramedici. Attivo dal 2007, l’ambulatorio ha effettuato nel 2012 più di 3.700 interventi, ma per quello in corso ne sono previsti 5 mila. «Si tratta di cifre importanti – spiega il presidente della struttura, Sergio Rosso –, rese possibili grazie all’impegno dei volontari, giacché la struttura non percepisce alcuna forma di finanziamento pubblico». D’intesa con l’assessorato alle poli-

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vale la pena tentare. Un rumore strano, che mi faccia capire che forse non sono sola. Un piccolo segno che possa dare un senso, anche minimo a tutto questo caos. Qualcosa almeno, oggi, perché io non riesco a guardare. Sole

tiche sociali del comune di Torino, è stato recentemente attivato il progetto “Bambini ri-denti” finalizzato alla cura e alla prevenzione di patologie odontoiatriche in pazienti pediatrici in condizioni di fragilità sociale e socio-economica. L’accesso alla struttura è subordinato alla documentazione dello stato di disagio economico ed è aperto a tutti i cittadini, italiani e stranieri. Un altro fiore all’occhiello della struttura è il corso di formazione professionale per assistenti alla poltrona, che da due anni è tenuto negli studi di via Ormea in collaborazione con il comune. «Riconosciuto dalla regione e totalmente gratuito – conclude Rosso –


scarptorino

Il ricordo

«Dovetti fare le estrazioni, ma se fossi stato in strada?» Circa sei anni fa mi sono visto costretto a “mettere mano“ alla mia dentatura, dato che la situazione, con l’andare degli anni, era degenerata al punto da rendermi impossibile masticare correttamente. Considerata la mia situazione economica, decisi di rivolgermi a una struttura di volontariato, che mi avrebbe curato gratuitamente. Raccolta la documentazione necessaria (attestazione dei servizi sociali dimostrante la condizione di disagio economico, attestazione Isee, ecc), dopo circa 15 giorni sono stato visitato dal dentista. É stato allora che ho scoperto che necessitavo di una radiografia panoramica, che avrei però dovuto eseguire all’Asl. Dopo altri 15 giorni, munito della radiografia mi sono ripresentato, ma a quel punto mi è stato detto che era necessario impiantare una protesi e che, per fare ciò, sarebbe stato necessario rimuovere i pochi denti rimasti, dal momento che erano compromessi. Fin qui tutto bene (si fa per dire), ma è a quel punto che le cose si sono complicate parecchio, poiché ho scoperto che in quella struttura non si effettuavano estrazioni, ma si limitavano a realizzare e impiantare protesi. Toccava a me farmi fare un’impegnativa dal mio medico e prenotare all’Asl per le estrazioni. Così ho fatto, e al ritmo di un’estrazione ogni 20 giorni, dopo qualche mese, finalmente, il lavoro venne completato. Oggi grazie a quel lavoro posso sfoggiare un bel sorriso. Tuttavia non sono riuscito a liberarmi da un dubbio: all’epoca dei fatti ero ospite di una casa-alloggio, e in quanto tale potei contare sul supporto degli educatori che la gestivano per quanto riguardava la parte burocratica di tutta l’operazione. Ma se al mio posto vi fosse stata una persona che viveva per strada, sarebbe stata in grado di seguire un iter così complicato? Aghios

è un modo per creare nuove professionalità e possibilità lavorative da condizioni di bisogno».

Sermig, sempre più italiani Nato nel 1999 a seguito di una donazione dell’Ufficio Pio della Compagnia di San Paolo, l’ambulatorio del Sermig opera in una delle aree più multietniche della città. Questo significa che i suoi fruitori sono in prevalenza stranieri anche se, ultimamente, gli italiani sono in aumento. «Nel 2012 – racconta il responsabile dell’ambulatorio, dottor Danilo Asero – abbiamo effettuato 670 interventi mentre a luglio di quest’anno erano già più di 600, con un incremento del 17% di pazienti italiani». Da segnalare è il fatto che la terapia estrattiva non costituisce la maggioranza delle prestazioni, ma è data priorità agli interventi conservativi, che richiedono tempi di cura più lunghi. Dotato di due unità operative e di una radiologica, gestite da una decina tra medici odontoiatrici e stomatologi, l’ambulatorio opera tutti i giorni e non prevede la presentazione di documentazione del reddito dei pazienti. «Nel nostro centro – conclude Asero – operano medici e personale sanitario di altissimo livello professionale e tutte le attività sono interamente autofinanziate senza apporto di fondi pubblici».

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Teatro alla Fraternità, lo scambio si fa dialogo Laboratori teatrali e artistici per trasformare le azioni e i pensieri in cambiamenti, attraverso processi creativi, e contrastare la povertà di relazioni. È quanto avviene alla Fraternità dei Frati Minori di via Sant’Antonio da Padova, a Torino, luogo che da qualche anno ospita anche la vendita di Scarp. L’idea di creare un laboratorio teatrale nacque per coinvolgere i giovani del quartiere, poi però è stato aperto a tutti quelli che volevano partecipare, comprese persone in situazioni di disagio, per garantire a tutti una possibilità di espressione. «La vita è un teatro nel quale ognuno deve recitare la propria parte – dice Diana, volontaria che dirige il laboratorio –. Il teatro è condivisione, serve a far emergere ciò che si ha dentro e che troppo spesso si nasconde. È occasione di incontro e talvolta anche scontro positivo, confronto continuo con se stessi e con il prossimo. Permette di accrescere le proprie capacità relazionali e le proprie competenze». La domenica, poi, al convento si tiene anche un laboratorio artistico-creativo, dove ognuno può “dare forma” a ciò che ha dentro. «È uno stare insieme facendo: si crea un vero e proprio scambio che diventa dialogo, ascolto e conoscenza, permettendo così di liberare la mente dai propri pensieri – spiegano i promotori dell’iniziativa –. A ogni incontro si creano oggetti diversi, che nascono dall’iniziativa dei partecipanti e dalla loro voglia di esprimersi». Nemesi

Info: Fraternità Frati Minori, via Sant'Antonio da Padova 7, Torino - tel: 011.5621917 - info@pgvpiemonte.it

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genova Michele Cafaggi, genovese, “mago” delle bolle di sapone. Artista di strada, attivo anche nei luoghi della sofferenza

La vita è una bolla, trasparenza a colori di Paola Malaspina Il rosso, il verde, l’azzurro, un’enorme volta affusolata sopra le altre volte di piazza De Ferrari, proprio davanti alla fontana. Un’iridescenza sollevata in aria, poi – d’improvviso – più niente. E subito il misterioso personaggio con un grande cappello si mette a produrne un’altra, e altre ancora, dieci, forse cento, a farle crescere e scomparire nel vento. Vorrei raccontargli che è questo ricordo, la suggestione di una miriade di bolle di sapone vista per caso anni fa, ad avermi interessato al mondo dei busker, pazienti e coraggiosi teaMedrano, che per primi hanno propotranti senza palco che girano il mondo sto un numero con bolle di sapone portando il loro mestiere. Ma poi lascio estratte da un pozzo, oppure il malincospazio a lui, al filo misterioso di mille nico trio di italo-francesi Fratellinì, così aneddoti divertenti, alla voce affabile, amati dal pubblico d’oltralpe. gentile, con quelle “c” e “g” dal suono roIl suo ritorno alle bolle è segnato – tondo che restano a noi genovesi anche neanche a dirlo – dal caso: «Mi ero rotquando ce ne andiamo di casa. to un tendine, sono rimasto fermo per Via da Genova, lui c’è andato da un bel po’. Ti parlo di quindici anni fa, tempo, per seguire lo studio, l’interesse, non c’era internet, non era facilissimo all’inizio, forse solo il sogno del nobile e documentarsi, ma vengo a scoprire che antico mestiere della clownerie. E così c’è un artista di Barcellona, Pep Bou, Michele Cafaggi, quarantenne, milaneche ha costruito un intero spettacolo se d’adozione, nel tempo, oltre che con le bolle di sapone. Scopro anche clown, è diventato teatrante, busker. Ma che, a Milano, al Museo della scienza e soprattutto artista delle bolle di sapone. della tecnica, c’è un laboratorio didattico per bambini dedicato proprio alle Da clown, per fare sul serio bolle. Da lì a recuperare il “marchinge«Come sono arrivato al teatro, non me gno per le bolle” il passo è breve. E così, lo ricordo proprio – attacca ridendo –. nella convalescenza nasce una nuova Un giorno mi capita di andare a Milano idea. E un nuovo spettacolo». a seguire uno stage tenuto dal grande clown Jango Edwards. Da lì decido di proseguire, seguo per un mese una Con le persone senza filtri scuola di circo, vado a Parigi, mi compro Ouverture des saponettes – questo il titutta l’attrezzeria, incluso quello che altolo scelto, un po’ per ironia, un po’ per lora mi pareva solo uno strano marevocare la suggestione della musica, chingegno che serviva a fare le bolle. Ma che delle bolle ha la stessa fascinosa era difficile, le bolle mi venivano male… evanescenza – è lo spettacolo che renInsomma, l’ho lasciato da parte per un de Michele famoso come artista delle po’ di tempo». bolle di sapone, in Italia e anche all’eQuesto è solo l’inizio della grande stero. «Con l’Ouverture ho girato città, avventura di Michele, un’avventura teatri, ho anche fatto dei laboratori disempre vissuta all’insegna di una grandattici. È stata la prima creatura tutta de serietà, anche se con leggerezza… Il mia, quella che veramente mi ha fatto suo racconto è fitto di personaggi che confrontare con il pubblico, nata come hanno fatto la storia della clownerie: ad una serie di gag, all’insegna del varietà, esempio, la coppia di pagliacci del circo del divertimento puro, con me che

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chiamavo spettatori sul palco, o mettevo bambini sotto le bolle». Quando parla del pubblico, Michele si emoziona, come quando si parla di qualcuno che si conosce molto bene, e si ha molto caro: «Amo sentire quello che le persone posso restituire. L’esperienza del busker in questo senso è La magia delle bolle Michele Cafaggi durante uno dei suoi spettacoli

straordinaria, perché ti mette a contatto con le persone in modo diretto senza il filtro di un palco o di una quarta parete. La gente guarda il tuo spettacolo, se ne appropria, gli dà significati suoi. È il contatto con il pubblico che mi ha fatto preferire la scelta di questo tipo di arte, rispetto, ad esempio, alle performance televisive, che danno la garanzia di maggiori guadagni e successi. Certo, è difficile: ci sono artisti di strada, anche molto bravi, con uno stile quasi aggres-


scarpgenova sivo, nel senso che è molto insistente la ricerca di coinvolgimento del pubblico. La vita del busker, già di suo, è difficile, bisogna anche saper vivere con poco. Però questo è quello che mi piace fare, e così provo a rivolgermi a tutti».

Anche su palchi difficili Teatri italiani, stranieri, persino una tournée con Fabrizio de André, nel tour di Anime salve: Michele è molto riservato nel parlare dei suoi successi. «Il genovese illustre è lui, non io», si schernisce parlando di Faber. E ama ancor meno lodarsi quando si tratta di parlare della sua esperienza a contatto con le persone che soffrono. Da anni impegnato come “clown di corsia” per la Fondazione Theodora, non ha mancato di esibirsi presso case-famiglia, carceri, case di riposo. «L’esperienza con le persone che soffrono è sempre traumatica, richiede

preparazione e non sei mai pronto abbastanza». Ma forse è proprio il contatto con persone che guardano il mondo da un “interno” chiuso ad aver ispirato Michele nel suo nuovo spettacolo L’omino della pioggia, storia di un uomo solo in un appartamento, vessato dal maltempo, che si trova ad affrontare una strana pioggia di bolle dalle finestre, dalle porte, dal tetto… «È un po’ uno spunto su come affrontare la solitudine – accenna Miche-

Il caso

Tagli al welfare forse rientrati Doria: «Saranno più contenuti» Sullo scorso numero di Scarp avevamo dato conto dei possibili tagli al welfare da parte del comune di Genova. Il bilancio comunale registra infatti un buco di 30 milioni di euro, su un budget previsionale per il 2013 di 882 milioni, per via di mancati trasferimenti dallo stato agli enti locali. Nei mesi scorsi, allarmanti voci di corridoio indicavano un taglio per il welfare tra i 4 e gli 8 milioni di euro, di cui 900 mila per la sola voce “servizi alle persone senza dimora”. E, in un primo tempo, l’atteggiamento del comune, accusato di rassegnarsi all’evidenza dei calcoli senza una visione politica a favore dei cittadini più fragili, aveva finito per rafforzare la protesta degli enti del terzo settore, preoccupati sia per il mantenimento dei servizi che per la precarietà dei posti di lavoro sociale. Bisogna infatti considerare che “i soggetti di terzo settore gestiscono il 96% dei servizi sociali pubblici rivolti ai cittadini”, come sottolineano i dati forniti dallo stesso comune. Di fronte al consiglio comunale dello scorso 11 luglio, però, la giunta si è impegnata a tagliare il meno possibile. Quanto? Al momento in cui andiamo in stampa non è dato sapere, perché la chiusura del bilancio 2013 era prevista tra agosto e settembre. A questa assunzione di impegno, che è comunque un primo passo, si è arrivati con il moltiplicarsi degli incontri tra terzo settore, uffici del comune e il sindaco, Marco Doria. E grazie alla delibera bipartisan con cui il consiglio comunale ha impegnato la giunta a non penalizzare il welfare e a mettere in atto alcune azioni programmatiche: una forte pressione, anche attraverso l’Anci, per ottenere dal governo che le politiche economiche nazionali non penalizzino gli enti locali e le voci della spesa sociale; il rafforzamento della co-progettazione tra comune e organizzazioni di terzo settore e la razionalizzazione condivisa della spesa; il reperimento di nuovi fondi, tra cui quelli europei e delle fondazioni bancarie; la sensibilizzazione della cittadinanza per far capire che una città che disinveste sul welfare patirà gravi conseguenze in termini di convivenza civile, coesione sociale, prevenzione e sicurezza. Nel suo intervento di fronte al consiglio, il sindaco Doria ha riaffermato una prospettiva politica. «Questa giunta sta cercando di gestire la ridotta disponibilità economica con una visione coerente dell’insieme, che talvolta i singoli settori non colgono appieno. Non voglio affrontare questa partita contrapponendo spesa a spesa, settore a settore, ente a ente». Il riferimento è ad altri comparti penalizzati, ugualmente sul piede di guerra contro il comune, e alla protesta montante tra i cittadini per l’aumento dell’Imu, fino al 5,8 per mille. «Detto ciò, sono contento della delibera presentata dal consiglio, che trova d’accordo tutti e tutti ci impegna – ha concluso il sindaco –. La giunta farà dunque il possibile per arrivare all’approvazione del bilancio con tagli quanto più contenuti al comparto sociale. Oltre ai cittadini più emarginati, penso agli operatori sociali: perché se è vero che i lavoratori hanno tutti gli stessi diritti, è vero anche che gli operatori del welfare hanno tutele e trattamenti economici inferiori rispetto ad altre categorie. Dobbiamo tenerne conto».

le –. Altro non saprei, non mi piace spiegare i miei spettacoli. Preferisco dire che sono un clown, uno che, come dicono i libri, fa sì che il pubblico si riconosca in lui. Uno che soffre insieme a loro, in-

somma». Uno che soffre insieme a loro. Uno che porta, a questo dolore, una leggerezza carica di intelligenza, la trasparenza piena di colori di una bolla di sapone.

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vicenza Sola. In una città estranea. In una baracca. Esperienza terribile. Effetto di una convivenza sbagliata. Per fortuna durata poco

Tre notti al buio, non le dimenticherò di Giulia Mi chiamo Giulia e faccio fatica a raccontare la mia esperienza in strada, perché vissuta con un disagio che fatico a esprimere a parole. Tutto è iniziato da una convivenza sbagliata: abitare con quello che era il mio uomo è stata un’esperienza davvero negativa. Ancora mi fa soffrire e non voglio raccontare, tornare con la memoria a quei momenti così dolorosi. Così ho cambiato città, per fuggire dal passato, dall’incubo in cui mi sentivo immersa, e sono arrivata a Vicenza. Era il 2009 e sono andata ad abitare in casa di una ragazza straniera, mamma di un bambino. L’accordo tra noi era che avrei badato al piccolo mentre lei lavorava, nel frattempo mi sarei cercata un’occupazione che mi garantisse la sicurezza economica. La convivenza non durò molto, litigammo e la mia amica mi cacciò di casa. Ero spaventatissima, dove avrei potuto andare? Dove avrei passato la notte? Chiesi un po’ in giro e mi fu indicata una casa abbandonata ai margini della città. E così fu: io, Giulia, quella notte la passai da sola in un rudere scricchiolante, sperando che nessun alCosa nasconde tro entrasse con l’intenzione di farmi del male. Era inverno e faceva molto la maschera della vita? freddo, ma quel rudere era preparato a Amarezze, delusioni, ricevere persone senza un tetto. C’era cose belle, cose a cui dare valore, un letto a due piazze fornito di coperte, e farle volare. e c’era un divano pieno di vestiti lasciaA volte si tramuta in un sorriso. ti lì da qualcuno, forse più di una persona. Quelli che mi avevano accompaPer coprire gnato nel tugurio mi lasciarono ben quello che non vuol presto, avrei dovuto cavarmela da sola.

La maschera della vita

Una notte lunghissima Le coperte erano tre e dopo essermi vestita a vari strati, mi sono avvolta e stesa sul letto, ma dormire non se ne parlava. La casa era piena di rumori, scricchiolii, battiti, rumore di passi. Me ne stavo lì all’erta, aspettando di veder entrare qualche malintenzionato da un momento all’altro. Poi passi furtivi, rumore di zampe, fruscii, e io mi chiedevo quanti topi, scarafaggi, strane bestie condividevano con me quel luogo. A un certo punto non ce la feci più e cominciai a chiamare le poche persone che conoscevo a Vicenza. Cristina e Elena si offrirono di ve-

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far conoscere. Un sorriso che lascia intravedere e illude. La maschera della vita, un gioco folle al quale mi piace giocare per conoscere quello che sono veramente. Illusione, gioco e delusione. Questa è la maschera della mia vita.

Carlo Mantoan

nirmi a trovare per portarmi qualcosa di caldo e un po’ di compagnia, ma io ero terrorizzata che qualcuno, vedendo entrare altre persone, altre donne, scoprisse il mio nascondiglio.

La paura di essere scoperta Così pregai le mie amiche di non venire, avevo così paura che non dissi nemmeno dove si trovava la catapecchia. Mi sentivo male e continuavo a pensare a com’ero stata mandata via in malo modo. A me pareva che il litigio con la mia ospite fosse nato da incomprensioni che potevano essere chiarite, questi pensieri non facevano che aumentare l’amarezza e il disagio. A un certo punto della notte sentii


scarpvicenza La testimonianza

«Ho rubato ma ho pagato: sono un cristiano riabilitato»

il bisogno di andare in bagno. Ma il coraggio di scendere dal letto e girovagare per quelle stanze buie, per uscire nella notte, non mi venne mai. Rimasi fino a mattina in quelle condizioni, senza muovermi da dov’ero e trattenendomi fino a farmi venire mal di pancia. Non rimasi a lungo in quella situazione, passai soltanto tre notti in quella catapecchia. Poi, per fortuna, la mia ospite straniera tornò a cercarmi per fare la pace. Così ricominciammo ad abitare insieme e ad aiutarci a vicenda. Ma quelle notti al buio, da sola e con il terrore che qualcuno potesse arrivare e farmi del male, non le dimenticherò mai più.

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È il racconto del mio passato e della mia gioventù. In cui ho sbagliato gravemente verso il mio prossimo, verso le autorità, ma anche verso me stesso, rovinando così un pezzo della mia vita. Ho pagato le conseguenze e mi sono pentito amaramente, ma il passato non si può recuperare. Compiendo dei furti ero consapevole che i soldi erano guadagnati illegalmente, però non mi rendevo conto del pericolo a cui andavo incontro. In un solo secondo mettevo a rischio tutto quanto: la mia libertà, il rispetto dei miei famigliari e la mia dignità, per aver messo le mani su quel denaro sporco. Nessuno mi aveva spiegato cosa vuol dire codice penale e quindi non sapevo il rischio che correvo per un furto. Sono stato beccato e arrestato e ho vissuto per due anni chiuso in carcere. Quando sono uscito ero riabilitato, diciamo all’80%, perché sappiamo che la vita è dura e il pensiero di rubare tornava spesso a farmi visita. Però in carcere ho imparato a lavorare. Ho avuto questa possibilità: ogni giorno di lavoro era uno sconto sulla pena. Così ho accettato. Uscivamo fuori dai cancelli, in mezzo ai campi, sotto la custodia dei guardiani. Tante volte mi coglieva anche la tentazione di scappare, ma ero consapevole che un nuovo sbaglio avrebbe peggiorato la mia condanna e cancellato la buona condotta guadagnata con il lavoro. Quando sono stato rilasciato mi sentivo come un leone, di nuovo libero, e la mia gioia era tanta che non sapevo più a chi sorridere. Ma la presenza che mi ha dato la forza di superare tutto quanto e che mi ha ridato la speranza è stato Dio, e adesso posso dire di essere diventato un esempio nella società. In altre parole ora sono un “cristiano riabilitato”. Sergiu Antonoaea

Il ricordo

Mohamed, simpatico giovanotto: la gentilezza non ha bandiera Anni fa, quando ancora ero un ragazzetto, andavo al mare tutte le estati a Sottomarina, in compagnia di alcuni parenti e amici. È stato mentre ero in spiaggia che ho avuto modo di conoscere un simpatico giovanotto africano di nome Mohamed. Arrivava in Italia tutte le estati e cercava di vendere svariate cose come ambulante, passando di spiaggia in spiaggia. Con i soldi che riusciva a guadagnare a fine stagione tornava a casa sua e manteneva la famiglia per tutto il resto dell’anno. Ero molto giovane, ma ricordo, contrariamente ai luoghi comuni, che non imbrogliava e non disturbava nessuno. Mohamed era gentile, educato, gradevole, e faceva volentieri due chiacchiere con chiunque. Mi viene ancora in mente la volta che tentai di prendere in spalla il sacco pieno delle sue cose: non riuscii a smuoverlo nemmeno di un millimetro. Eppure Mohamed non era un energumeno. Per altri quattro o cinque anni consecutivi lo incontrai ancora, sempre sulla stessa spiaggia, a guadagnare un po’ di denaro. Raccontava di sé, della sua famiglia, degli amici. Tutti lo rispettavano. Quando sento persone fare affermazioni razziste o xenofobe penso a Mohamed, e mi piacerebbe che avessero l’occasione di conoscerlo, per scoprire che l’educazione e la gentilezza non hanno colore né bandiera. Stefano Frazza settembre 2013 scarp de’ tenis

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modena Buon esito del progetto Sicomoro, che ha fatto incontrare vittime di reati e detenuti della casa circondariale Sant’Anna

Giustizia è fatta. Ed è riparativa di Laura Solieri Sono eccellenti i risultati del progetto Sicomoro, presentati in estate a Modena alla casa circondariale Sant’Anna, dove il percorso di rieducazione dei carcerati è stato realizzato grazie al sostegno e alla cooperazione tra il direttore del carcere, Rosa Alba Casella, e Marcella Reni, presidente di Prison Fellowship Italia onlus (Pfit), l’associazione nata dall’omonima organizzazione statunitense, che opera per la riqualificazione delle condizioni di vita dei detenuti, anche attraverso l’evangelizzazione all’interno degli istituti di pena. Con la presentazione degli obiettivi raggiunti e la condivisione di testimonianze dei detenuti e delle vittime coinvolte nel progetto, si è ribadita l’importanza delle misure alternative e il ruolo della giustizia riparativa nell’ambito del sistema pe-

«Tutti vittime, che camminano insieme» «Se avessi incontrato Sicomoro vent’anni fa – scrive un uomo in carcere per rapina – mi sarei risparmiato sofferenza e solitudine». Una presa di posizione condivisa da Cosimo: «Questa esperienza ci ha fatto sentire considerati come persone: grazie a chi ha partecipato, abbiamo fatto i conti con la nostra coscienza». Le vittime dei reati si sono accostati agli incontri spesso con perplessità, rabbia, pregiudizi, diritti non ancora esercitati: «La pena detentiva però – ci dice Alberto – da sola non dà soddisfazione, il giudizio legale non sempre restituisce verità. Questi incontri non invitano a un generico buonismo, ma alla verità: tutti abbiamo bisogno di trovare la pace nel cuore, e questa si realizza attraverso l’incontro». «Il progetto – spiega Marella Reni – è aconfessionale, sono coinvolti detenuti di diverse religioni. Il perdono serve a riumanizzare l’uomo, perché la persona non è riducibile al suo errore». Nelle parole di Luigi si legge il percorso compiuto: «Ero incerto e anche riluttante all’inizio, volevo però testimoniare la mia quotidianità sconvolta: chi mi ha ascoltato ha capito la mia sincerità e ha risposto allo stesso modo, cominciando ad aprire la sua intimità. Così le cose sono cambiate: siamo vittime, in modo diverso, noi e loro, che nel confronto hanno imparato a camminare insieme». Il percorso di Luigi è esemplificato dalla domanda rivoltagli all’inizio da uno dei detenuti: «Ma tu mi assumeresti?». Esitazioni e incertezza, la prima volta. L’ultimo giorno, la domanda rinnovata: «Ma tu mi assumeresti?». E finalmente la risposta: «Ti porterei a casa con me anche adesso». Il lavoro, infatti, è il vero grande problema di chi esce dal carcere. «In Calabria abbiamo dato vita a “Cangiari”, “cambiare”, produzione di capi di alta moda etici, con la collaborazione della cooperativa Goel – prosegue Marella Reni –. Il desiderio è allargare l’esperienza. Il progetto Sicomoro genera anche un’evoluzione nelle relazioni in carcere. Uno dei detenuti, dopo un’offesa ricevuta, ha reagito senza violenza: «Mi sento offeso da quello che hai detto, ma ti perdono». Così ho risposto, e facendolo mi sono sentito un uomo libero. Sicomoro intanto è alla ricerca di persone vittime di reato, per proseguire l’esperienza nel carcere modenese.

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nale e penitenziario. Il progetto, un programma già sperimentato con successo dalla Pfi in più di 25 paesi del mondo, prevede l’incontro all’interno delle mura di un carcere tra detenuti e vittime di reati analoghi, con l’obiettivo di creare una riconciliazione e una riumanizzazione degli uni e degli altri. A Modena – come anche nel carcere di Opera a Milano e nella casa circondaTestimoni di riconciliazione Un momento della conferenza stampa di presentazione del progetto Sicomoro

riale di Rieti, altre strutture in cui è stato realizzato il progetto – sono stati conseguiti “eccellenti risultati”, come hanno ribadito i responsabili dell’iniziativa. Il dialogo tra il detenuto e la vittima consente infatti al carcerato di avviare un percorso di responsabilizzazione e alla vittima di avvicinarsi, tramite il confronto, al perdono.


scarpmodena Sabato speciale

Detenzione e terremoto, piccoli attori oltre le paure

Vittime e detenuti insieme Per partecipare all'iniziativa, sono stati selezionati detenuti che non hanno commesso reati che hanno prodotto conseguenze sulla persona fisica. Nonostante le iniziali perplessità sull'esito del progetto, espresse dalla direttrice della casa circondariale modenese, «l'interesse che la popolazione carceraria ha espresso nei confronti del-

l'iniziativa – ha aggiunto Rosa Alba Casella – ha placato ogni dubbio sull'utilità di un simile strumento. Di solito un detenuto è chiamato a interrogarsi sulla propria vita e sulle conseguenze prodotte dal crimine commesso, questa volta ha potuto farlo anche sulle conseguenze sulle vite altrui. Abbiamo voluto anche una conferenza stampa in uno

Ci sono alcuni sabati speciali al Sant’Anna, la casa circondariale di Modena, nei quali ci si prende cura del legame più profondo che possa coinvolgere l’essere umano: quello fra genitori e figli, bambini – anche piccolissimi – nati quando già uno dei genitori era recluso, e adolescenti che hanno piena percezione dei luoghi, delle circostanze, della crudezza della verità. In questi sabati si cerca, nel teatro del vecchio padiglione della struttura carceraria “rivestito a festa”, di ricreare un’atmosfera familiare, di organizzare giochi con pagliacci, spettacoli con burattini. Per i piccoli ospiti, i bambini. Lo scorso 29 giugno è stato un sabato speciale, perchè hanno voluto partecipare all'iniziativa del Sant’Anna altri bambini. Anche loro bambini “speciali”. Si tratta dei piccoli attori del Teatro sociale di Finale Emilia, uno dei comuni colpiti dal terremoto del maggio 2012. Bambini delle scuole primarie, organizzati e diretti dall’insegnante Antonella Diegoli, scrittrice e autrice di un testo teatrale dal titolo Gatto pompiere. I bambini hanno raccontato se stessi e la notte della grande paura attraverso una “favola di paese”, che vuole essere messaggio di speranza: partendo da una rete di solidarietà e affetti è possibile allontanare la paura e l’angoscia e rinascere dalle macerie del terremoto. Anche nel carcere ci sono altre macerie e altre paure, ma pure da quelle si può rinascere. «Questo – hanno spiegato l'autrice e i volontari di “Carcere-città”, che hanno organizzato l'iniziativa – è un giorno nel quale, come allora, a maggio 2012, l’aria profuma di rose. Piccoli attori in un teatro a parte: bambini della torre spaccata a metà, quella di Finale Emilia, che recitano per altri bambini, dal cuore spaccato a metà. Salti, balli, canti per il blues del bel gattino dal cappello rosso da pompiere, che nella notte nella quale “il cielo parve stancarsi della terra e la terra cominciò a scuotere”, salvò un rondinotto intrappolato nel crollo della torre. Un rondinotto come un bambino, con le ali troppo piccole per poter volare, per poter scappare. Un rondinotto, un bambino, un germoglio di vita: per poter ricostruire i muri, rinsaldare affetti, ricucire legami. Che cosa resta, nascendo fra le rovine, quando qualcosa si spezza, quando qualcuno ti viene portato via, quando tutto cambia? La nostra umanità più profonda. La parte migliore di noi e i bambini, i nostri figli. Loro che sono la nostra speranza di futuro, di riscatto. Loro che sono il nostro coraggio. Per ricominciare».

spazio pubblico, e non in carcere, perché detenuti e vittime avessero lo stesso peso e lo stesso spazio per raccontarsi. I familiari hanno scoperto che i sentimenti negativi non sono i soli da nutrire, che la rabbia, la vendetta e l’odio bloccano in primo luogo la loro stessa vita. Speriamo che l’iniziativa possa ripetersi: la detenzione è un problema sociale, non solo di chi è in carcere; le vittime si riappropriano, attraverso i percorsi riparativi, del ruolo che la società civile deve avere nel percorso di socializzazione dei detenuti». L’esperienza, che a Modena ha pre-

so il nome di “Sicomoro”, si è articolata in otto sessioni di incontri di circa due ore ciascuno e ha coinvolto nove detenuti, con storie diverse alle spalle, ma accomunati dallo stesso tipo di reato commesso, quello contro il patrimonio. Giusy, Alberto, Luigi, Lina e Carla sono invece i nomi delle cinque vittime che hanno accettato di incontrare i detenuti colpevoli di reati analoghi a quelli da loro subiti. Sul sito dell’associazione Pfit (www.prisonfellowshipitalia.it) è possibile leggere le testimonianze delle vittime e quella di un detenuto che ha partecipato al progetto.

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rimini

Scommessa Quinc, spazio al baratto Dalla camera di commercio, una rete per dare ossigeno alle aziende, potenziando gli scambi locali. Idea con radici antiche di Alessandra Leardini Le banche concedono sempre meno prestiti e per le aziende investire in un nuovo macchinario o servizio diventa particolarmente problematico. Senza contare che i soggetti che vendono un prodotto a un’altra azienda o a una pubblica amministrazione rischiano di essere pagate dopo qualche mese, se va bene. Una soluzione a questo circolo vizioso può arrivare dalla moneta più antica al mondo: il baratto. A crederci, tanto da spendersi in prima linea, è la Camera di commercio di Rimini, promotrice di un progetto pilota insieme alla provincia e alle associazioni di categoria del territorio. Il progetto si chiama “Quinc” (dal nome della moneta romana Quincunx usata anche nell’antica Arimunum) e altro non è che una rete economica di scambio tra imprese, con un chiaro obiettivo: aumentare gli scambi fra le aziende del territorio riminese attraverso forme di vengano tutte le innovazioni che possotransazione non monetarie, capaci di no risolvere i problemi delle aziende». dare impulso alla collaborazione e ai La rete, che sarà gestita da due partner rapporti commerciali locali. tecnici (Serint Group e Openlinea) funIl segretario della camera di comziona così: ogni azienda appartenente mercio riminese, Maurizio Temeroli, ha al circuito potrà vendere i propri proaffermato in estate, in occasione della dotti o servizi ad altre aziende aderenti presentazione del progetto, che «in un applicando uno sconto volontario. Il momento di grande difficoltà d’accesso quale non corrisponderà a una perdita al credito e di mancanza di denaro, ben di valore per il venditore, ma sarà quan-

E all’orizzonte c’è un’altra proposta... Una moneta locale, non per sostituire l’euro, ma per aiutare le aziende in crisi di liquidità. Il progetto del riminese Lucio Gobbi, ricercatore alla Bocconi, era arrivato niente meno che sulla scrivania del prefetto Claudio Palomba nell’ambito del tavolo anti-crisi. Poi tutto è tornato nel dimenticatoio. «Ci sono stati due incontri, prima con le imprese, poi con le banche locali, ma speranze di un’implementazione a breve non ne vedo a Rimini», racconta Gobbi. E pensare che il principio alla base della sua idea è molto simile a quello presentato dalla Camera di commercio di Rimini con “Quinc”: creare un meccanismo di compensazione multilaterale di crediti e debiti tra un gruppo di imprese dello stesso territorio e di settori diversi, per riadattare in chiave moderna una pratica antica come il baratto. Due i principali ostacoli al progetto di Gobbi: «Far capire che questo sistema è diverso da altre iniziative di moneta locale, nate in Italia con scarso successo, e convincere una banca a gestire tecnicamente le transazioni». In Lombardia e a Nantes, Gobbi e i colleghi della Bocconi sono riusciti a trovare un terreno fertile, non a Rimini. Ma presto qualcosa potrebbe smuoversi: «Abbiamo incontrato due Confidi locali, potenzialmente interessati, che raccolgono complessivamente 16 mila imprese. Siamo però ancora a una fase embrionale».

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scarprimini La tendenza

La Banca del Tempo fa proseliti: «Crisi da battere. E relazioni...» Liquidità. È il problema principale, insieme alla disoccupazione, che la crisi determina da cinque lunghi anni. Dalle imprese alle pubbliche amministrazioni, fino ai singoli cittadini che, a causa della perdita del lavoro o di stipendi arretrati, si trovano a dover ritardare a loro volta i pagamenti, il canone d’affitto o la rata del mutuo, perché non sanno dove andarli a prendere, quei “maledetti” euro... La crisi però aguzza l’ingegno riminese anche su questo fronte, favorendo iniziative di compravendita o scambio di servizi che provano a fare a meno del contante.

tificato in unità di conto virtuali (Quinc) utilizzabili all’interno del circuito per acquistare altri beni o servizi. «Per iniziare – spiega Enzo Mataloni di Serint Group – occorre avere un numero sufficiente di aziende appartenenti a diverse categorie merceologiche. In questa prima fase di sperimentazione, l’obiettivo è coinvolgere, attraverso le associazioni industriali, artigianali, commerciali e alberghiere, un centinaio di imprese». Un primo workshop formativo ha coinvolto le aziende interessate. Hanno confermato la loro adesione, tra le altre, la ditta santarcangiolese di packaging Adriaplast, la cooperativa sociale La Formica, l’albergatore riccionese Gianmario Ferrari (Hotel Little, Hotel Nelson e L’Hotel) e il commercialista Paolo Gasperoni.

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Il tempo è denaro. Lo sosteneva il giornalista e scienziato statunitense Benjamin Franklin nel “secolo dei lumi”. Difficilmente, però, il luminare avrebbe immaginato che nel XXI secolo questo detto sarebbe stato declinato in una vera necessità. Ne sanno qualcosa molti riminesi che hanno aperto un conto “speciale” per pagare alcuni servizi (dal corso di ginnastica a quello di bricolage, dalla riparazione sartoriale a piccole manutenzioni) non in soldi, ma sottoforma di ore e minuti. È questa la mission della Banca del Tempo, associazione che favorisce lo scambio di prestazioni attraverso questa “moneta” insolita. In periodo di crisi, si è registrato un grande aumento di iscrizioni: oggi sfiora i 500 soci. «Sia chiaro, l’obiettivo principale restano le relazioni – precisa Leonina Grossi, presidente della Banca del Tempo di Rimini e componente del direttivo dell’associazione nazionale –, ma è pur vero che, nella difficoltà, sempre più persone si uniscono a noi per trovare un supporto nella gestione dell’emergenza». Nell’ultimo anno, in particolare, tra i soci è aumentato il numero di giovani (disoccupati e precari) e di pensionati che, grazie alla Banca del Tempo, riescono a ottenere qualche servizio senza dover gravare sullo scarno assegno mensile, ma dando in cambio quello che si sa fare meglio. In un popolo di “correntisti” predominato da donne, anche gli uomini si stanno facendo largo. «Si tratta di persone che hanno bisogno di risparmiare, ma prima ancora sentono il bisogno di una rete di relazioni per non rimanere emarginati – aggiunge Grossi –. C’è l’idraulico che cambia le guarnizioni a un rubinetto, l’elettricista che ripara un ferro da stiro o altri elettrodomestici (prima di buttarli, si tenta il tutto e per tutto per recuperarli), la mamma venezuelana che cura un laboratorio di educazione fisica o la socia colombiana che si presta ad attività di baby sitting o a piccole commissioni domestiche e di trasporto per i soci non autosufficienti. Una grande famiglia, dove le relazioni di buon vicinato rivivono a sostegno dei più deboli». Non a caso, ai momenti di convivialità che tutte le settimane trovano spazio nei locali del Centro Giovani di Santa Giustina, si affiancherà da ottobre un’importante novità: la “Locanda della sesta felicità”. «Una volta alla settimana la cena sarà servita a tutti i presenti con in cambio solo un’offerta libera e volontaria – conclude Leonina Grossi –. Non si tratta di un ristorante, ma nemmeno di una mensa per i poveri, bensì uno spazio dove chi è in difficoltà potrà gustarsi anche qualche spettacolo di intrattenimento oltre a un piatto caldo in compagnia. I giovedì di luglio, in occasione di “La festa è mia”, sono stati raccolti fondi utili all’iniziativa. Per aggiungere un posto a tavola e, magari, anche in... banca. A.L. settembre 2013 scarp de’ tenis

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firenze

Pizza Fuori, un altro domani Da gennaio, grazie all’Opera Madonnina del Grappa, ristorante gestito da detenuti: chance di futuro per chi non ne ha avute. E ha sbagliato strada...

di Daniela Palumbo Aprirà il prossimo gennaio il ristorante “Pizza Fuori”, a Firenze. Non è ancora possibile gustare i suoi piatti, ma già fa notizia. L’esercizio – duecento coperti, una ventina fra camerieri e cuochi – sarà infatti cogestito da detenuti a Firenze che attualmente stanno beneficiando di pene alternative al carcere. I detenuti saranno i veri protagonisti del progetto sociale voluto dall’Opera Madonnina del Grappa, realtà della diocesi di Firenze che nacque come orfanotrofio nel 1924, grazie a don Giulio Facibeni e alla sua vocazione di accoglienza dei più deboli, ma che con il tempo, man mano che la società è cambiata, ha mutato la sua mission, fino a diventare la complessa struttura di accoglienza che è oggi. «Nel corso degli anni, il campo di azione dell'Opera si è allargato ad altre zone scure del degrado e dell'abbandono – racconta don Vincenzo Russo, vera anima dell’organizzazione e del ristorante “Pizza Fuori” –. In particolare l’Opera si è aperta a progetti di reinserimento soDolcemente, mi svegliava ciale dei soggetti che sono ai margini la mattina, quel tenero bagliore della società. Dai detenuti, agli anziani, prima del caffè. agli adolescenti, la nostra azione va nelSorridente lo accettavo, con la direzione delle persone fragili». lo sguardo un po’ socchiuso, che nascondevo fra le dita, Attenzione ai bambini e non sapevo mai il perché. Era bello da guardare si faceva In questa ottica l’Opera ha avviato nel assai ammirare, si mostrava da 2008 il progetto Casa Caciolle (www.camodello, e col tempo sacaciolle.it), un centro educativo e repoi ho imparato ad ascoltarlo lazionale che offre un appoggio e un dentro me. aiuto a chi, proveniente dal carcere, cerIl cinguettare degli uccelli, ca un reinserimento sociale. Il tempo di la voce dei mercanti, permanenza dipende dal residuo di pele campane che na, che può andare da un mese a quatchiamavano a pregare tro anni. A Casa Caciolle attualmente le vecchiette sono ospitati dodici detenuti in regime nella chiesa. residenziale e sei in semilibertà. Casa Piano piano, quel bagliore si faceva Turri, a Scandicci, accoglie invece sei sempre forte, e nel donne detenute con le stesse modalità freddo del mattino si di Casa Caciolle. espandeva su di me. Senza una casa, come si sa, è difficiLo sentivo ogni mattina le reinserirsi nella società. «Noi cerchiae così dopo ho imparato mo di rispondere alla difficoltà di reinche era il canto del sole serimento dei detenuti – spiega don che cantava per me. Vincenzo – fornendo loro innanzitutto un alloggio, perché la casa è la prima diFabio Schioppa

Il canto del sole

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gnità che un soggetto, soprattutto quando ha affrontato una lunga reclusione, fatica a recuperare. Ma si cerca di andare oltre, venendo incontro all’altra dignità fondamentale, sancita dalla costituzione, che è il diritto al lavoro. Sapendo quanto sia difficile il reinserimento lavorativo, per motivi generali, data la scarsità di lavoro in questi tempi, ma anche per motivi particolari, dati le difficoltà e i pregiudizi che gli ex detenuti devono affrontare, abbiamo pensato di sviluppare, all’interno della comunità di Casa Caciolle, un percorso lavorativo attraverso la realizzazione di una pizzeria-ristorante con uno spazio apposito di intrattenimento e anima-


scarpfirenze Il luogo

La sede a Casa Caciolle in mezzo al parco e agli ulivi

zione per i bambini delle famiglie che verranno a mangiare da noi. “Pizza Fuori” nasce così».

Scontare parte della pena in misura alternativa si rende possibile se ci sono un lavoro da svolgere e una casa che accoglie la persona detenuta. Con l’apertura di Casa Caciolle, l’Opera Madonnina del Grappa ha voluto dare una risposta concreta a questa necessità e a questo diritto. La Casa non riceve contributi pubblici nè privati. La struttura si trova in un'antica villa nel quartiere di Novoli – Ponte di Mezzo, con annesso un grande giardino e un terreno di circa 7 mila metri quadrati, arricchito da una trentina di ulivi. Questa villa appartiene all’Opera Madonnina del Grappa: proprio qui nascerà Pizza Fuori. www.madonninadelgrappa.org

Viaggio nelle periferie Lo scopo della nuova iniziativa è duplice: in primo luogo, offrire alle famiglie uno spazio in cui, attraverso la socializzazione e le attività proposte, il bambino e il genitore possano trovarsi a proprio agio e sentirsi accolti; in secondo luogo – obiettivo non meno importante – affidare tutte le mansioni, anche le più delicate, a ex detenuti, riconsegnando loro una nuova e definitiva Aperto da gennaio I detenuti ospiti di casa Caciolle si “allenano” alla gestione del nuovo ristorante. Sopra il logo di Casa Caciolle

dignità, ovvero la liberazione dai pregiudizi degli altri nei loro confronti, ma anche l’evasione dalla gabbia personale di separazione dalla società in cui gli stessi detenuti, per vari motivi, finiscono per “recludersi”. Conclude don Vincenzo – che dal 2007 è anche il cappellano della casa circondariale di Sollicciano e lavora a stretto contatto con don Corso Guicciardini, presidente dell’Opera Madonnina del Grappa – raccontando la sua estate in giro per l'Italia: «Ho fatto un viaggio, in questi mesi, nelle periferie delle grandi città del nostro paese: Pa-

lermo, Napoli, Bari, Roma, Milano, Torino, per conoscere i quartieri e il tessuto sociale dal quale vengono i nostri detenuti, quelli che faranno parte del progetto “Pizza Fuori”. Ho incontrato le loro famiglie, parlato con le persone, ho visto dove abitano. E allora mi chiedo: cosa stiamo costruendo? Cosa ci si aspetta da persone che vivono l’insicurezza abitativa, l’insicurezza economica, la mancanza di percorsi scolastici adeguati (è sempre più alto il numero di drop out), l’assenza di proposte culturali? Questi quartieri sono diventati luoghi di abbandono, produttori di devianza, contenitori di morte civile. È da questi territori devastati che proviene la maggior parte della popolazione detenuta». Ma è da “Pizza Fuori” che alcuni di loro proveranno a rientrare, in quell’orizzonte di prospettive e opportunità, dal quale troppo presto si sono trovati esclusi.

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napoli Parmisano è il primo italiano a raggiungere la Stazione spaziale internazionale. Il suo volo suscita riflessioni. Anche dalla strada

Luca tra le stelle, noi coi piedi per terra di Laura Guerra C’è un uomo fra le stelle. È un italiano. Il primo – da fine maggio – sulla Stazione spaziale internazionale. Si chiama Luca Parmitano, è siciliano e rimarrà nel cielo per sei mesi. Da lì , fra un esperimento scientifico e una passeggiata in assenza di gravità, anche rischiosa (un pericoloso incidente al casco ha turbato la sua seconda esplorazione fuori dalla Stazione), fotografa albe, nuvole, isole, deserti, vulcani. È un appassionato fotografo e pubblica i suoi scatti su twitter (@asto_luca) e in internet (www.lucaparmitano.it). Noi, a Scarp Napoli, abbiamo codendoci molte cose. Un’esperienza così minciato a parlare di lui così, ammiranunica ha suscitato domande e riflessiodo le sue foto suggestive, uniche e belni: certo, siamo di fronte a uno scienzialissime. Da lì sono nate tante curiosità e to preparato e allenato, ma è pur semabbiamo cominciato a scriverne, chiepre un uomo come noi. Come si viene

Aguzzo la vista, plano sulla luna, sono felice Nell’ultimo secolo l’uomo ha iniziato a navigare nello spazio a bordo di navicelle spaziali per cercare di scoprire i misteri dell’universo. Gli astronauti vogliono scoprire come si vive nella dimensione celeste: che “aria” si respira lassù, se si soffre di vertigini o meno, cosa si avverte stando a milioni di chilometri dalla terra e oltre le rotte solcate dagli aerei. Oltre tutto, oltre anche le nuvole. Noi qui, creature della terra, sogniamo a occhi aperti, aguzzando la vista, scrutando il cielo, ma avvistiamo soltanto punti luminosi, incandescenti, che sono le stelle e le loro meteore. Sognare un altro mondo, oltre quello terreno, è suggestivo, mi affascina, mi mantiene con la mente sospesa, a immaginare anche un orizzonte celeste. Scruto il cielo a occhio nudo e vedo stelle a gruppi nell’infinito, che dissipano le tenebre della notte e fanno annegare gli attimi di malinconia. La luna, lassù nel firmamento, sembra sorridermi, mi fa compagnia e mi ispira i versi per qualche bella poesia. A volte la osservo e mi sembra di vederci il volto del mio amore che mi sorride, infondendomi gioia e serenità. I pensieri della giornata appena conclusa, sia belli che brutti, si sciolgono come batuffoli di neve al sole. A volte le stelle mi sembrano sciami di api che corrono tutte verso la luna in cerca di protezione, a volte immagino di essere anche io una stella che sorvola le montagne e le nuvole per poi poggiarmi sulla luna e vedere così da lassù tutta la volta celeste. E solo così mi sento veramente felice e libera di volare, come un uccellino. Ma è una sensazione che dura solo l’arco di un momento; sono una creatura terrestre, devo stare con i piedi fermi sulla terra, anche se spesso annego la mia malinconia e sopprimo la tristezza facendo nascere sul mio viso l’ombra di un sorriso. Maria Di Dato

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scelti, come ci si trova in un’avventura che va oltre le nostre abitudini, le nostre conoscenze e le nostre esperienze ordinarie delle spazio e del tempo? Luca Parmitano non è solo in quest’avventura: con lui sono partiti il 28 maggio il russo Fiodor Yurchikhin e l’americana Karen Nyberg: come passano il tempo nella navicella? Cosa fanno, cosa mangiano, hanno paura, hanno nostalgia della terra dove ritorneranno dopo 166 giorni di missione fra le nuvole? Protagonisti di un viaggio “impensabile”: per quanto lontanissimo, un trasferimento, per noi è sempre verso luoghi o città che stanno su una cartina geografica terreste. Non nello spazio. E non per un tempo così lungo. Lassù ogni giorno, pur durando 24 ore, attraversa 16 albe e altrettanti tramonti. E si


scarpnapoli Un uomo nell’infinito

La riflessione/1

Guarda, guarda lassù, c’è una navicella spaziale, dondola, dondola, ondeggia. va verso la sua meta: l’infinito. È partita dalla terra: destinazione Universo. A bordo un uomo ha scelto di sentirsi parte di questo immenso mistero. I suoi occhi fotografici stanno conquistando il nostro pianeta, lo aprono e ce lo mostrano come una scatola piena di segreti. Marianna Palma

studierà proprio sul corpo di Luca come un essere umano reagisce a questo cambiamento fra notte e giorno. Ma noi – come dice il nostro redattore di strada Umberto – non siamo scienziati. Questa grande avventura scientifica l’abbiamo raccontata a modo nostro, dalla strada: immaginando di volare, ma stando coi piedi per terra.

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Twittiamo e siamo nello spazio! Siamo tutti delle meteore… e come le meteore veniamo da qualche parte e andremo da quella opposta. Ma intanto, nel frattempo, ci illuminiamo, siamo visibili, diciamo, facciamo, agiamo gli uni con gli altri seguendo, anzi segnando la nostra vita. Quante volte, quante notti le ho viste le meteore, quelle vere, e da piccolo non avrei potuto immaginare che un dì lontano qualcuna di quelle luci avrebbe potuto essere abitata. Una navicella fatta dall’uomo e guidata da lui come un’auto qualsiasi, un motoscafo, una “nave spaziale”, appunto. Proprio in questi mesi, lassù c’è una navicella con a bordo una donna e due uomini, fra loro un italiano, Luca Parmitano. E proprio lui, forse, in questo stesso istante fra tutte le sue faccende sta dedicando un pensiero a noi di Scarp. Sembra incredibile, eppure devo crederci: da qui twittiamo con lui, vediamo le sue bellissime foto dal profilo @astro_luca. Altro che senza dimora e invisibili barboni: il nostro giornale è nello spazio! Bruno Limone

La riflessione/2

Una luce da un’altra galassia Luca Parmitano ha scoperto una nuova stella. Una stella del cinema? Del teatro? Ma no: è una stella, una vera stella che a un tratto luccicava in modo intenso richiamando l’attenzione dei tre passeggeri della navicella – Luca, Fiodor, Karen –, distogliendoli dai loro esperimenti scentifici. E richiamando anche lo sguardo degli abitanti della terra, che alzavano gli occhi al cielo meravigliati. Tutti a guardarla con lo sguardo attento e scrutatore, quella insolita stella birichina, che con fare scherzoso si beffava di tutti, allontanandosi e avvicinandosi. Dalla terra la gente gesticolava e la invitava ad abbassarsi verso il mare per farsi riconoscere. La invitavano a parlare, a dire qualcosa, le chiedevano da dove arrivasse, forse da una galassia lontana e sconosciuta, e se avesse smarrito la retta via. La nuova stella ha accettato l’invito ridendo e si è abbassata verso il mare calmo e pacato, che le ha sorriso dopo il suo inchino. Poi, dopo aver osservato tutti con uno sguardo luccicante, ha esclamato: «Vengo da un’altra galassia ma non ho smarrito la retta via. Sono arrivata da molto lontano per esortare il genere umano a vivere con sapienza, amore, fratellanza e grande senso di umanità; solo così i valori e gli ideali e i buoni propositi prevarranno sulle avversità e sulla vita disordinata ed egoistica. Invece la luce deve illuminare il cammino degli uomini». Sergio Gatto

La riflessione/3

Stella ritornerai, con te dormirò

Acrobata dello spazio Luca Parmisano si diverte a bordo della Stazione spaziale internazionale

Stella mia diletta fammi compagnia stasera nel vuoto di un bicchiere vedo la mia malinconia; stella mia diletta fammi compagnia stasera in questa serata splendida che mi illumini la via verso mondi remoti dell’universo; tu puntino luminoso ma grande come una galassia piena di soli e pianeti, la tua luce viaggia tanto veloce che io la guardo e mi parla di te, te che sei lontana da me ma tanto vicina da sentire il tuo calore, io dormo e sogno che vengo da te, stella del mattino che mi hai fatto compagnia per tutta la notte nel mio letto di solitudine e rivedo il sole mentre te ne vai via e penso alla sera quando ritornerai molte cose mi racconterai e in quel letto con te dormirò. Antonio Casella settembre 2013 scarp de’ tenis

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salerno L’ateneo, uno dei più grandi del mezzogiorno, vanta facoltà di eccellenza. Ma il territorio non sa far fruttare tali risorse

Università, delizia e croce di Angelo Pierri

A te Un dolce pensiero lo dedico a te che mi fai sorridere ed emozionare con un semplice sguardo. Sei consapevole di tutto ciò e, forse, ci giochi... Ma non ti accorgi che ogni giorno il mio cuore ha bisogno di un tuo sorriso e gesto per battere e farmi vivere. Cinzia Rasi

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Dieci facoltà e numerosissimi corsi di laurea, oltre 40 mila studenti iscritti, un milione duecentomila metri quadrati di estensione in un vero e proprio “campus”, terzo ateneo dell’Italia meridionale peninsulare. Sono i numeri dell’Università degli studi di Salerno, che ha sede (per la maggior parte delle sue facoltà) nel comune di Fisciano, distante dieci chilometri dal capoluogo. Si tratta di un ateneo in forte crescita, che ogni anno aumenta il numero degli iscritti e migliora l’offerta di aule e laboratori, ingrandendo sempre di più il campus di Fisciano. Numeri importanti, se si pensa che l’Unisa (abituale diminutivo dell’ateneo) ha soli 70 anni di vita, essendo stata fondata nel 1944; una fondazione avvenuta in un momento particolarmente importante della città, quando essa (per circa sei mesi) fu capitale dell’Italia, liberata dagli alleati. L’allora ministro dell’idavvero tutti i servizi agli studenti e renstruzione, il salernitano Giovanni Cuodere ottimali i momenti di aggregaziomo, volle fortemente l’istituzione di una ne. Ma, ovviamente, le cose non vanno prima facoltà di magistero in città, cui esattamente in questo modo. seguirono, a partire dagli anni Sessanta, tutte le altre discipline. Difficile arrivare a Salerno Il campus di Fisciano è un complesI problemi ci sono e sono piuttosto rileso molto moderno, atipico per il Mezvanti. Ad esempio, difficili sono gli spozogiorno d’Italia; oltre ad aule e laborastamenti degli studenti verso l’ateneo da tori, vi hanno sede varie altre strutture, tra le quali spicca la biblioteca di ateneo, la più grande biblioteca universitaria “a scaffale aperto” d’Italia. Al di là delle attività accademiche, la vita all’interno del campus è piuttosto stimolante: varie sono le associazioni studentesche che, oltre a fornire servizi agli universitari, organizzano eventi ed iniziative artistiche e culturali; particolarmente rilevanti sono le attività musicali (con la presenza a Fisciano di orchestre e cori), le attività teatrali (con il teatro di ateneo funzionante tutto l’anno) e le attività sportive (che si svolgono presso le ottime strutture sportive del campus, gestite dal Cus). Vi sono, inoltre, bar e punti-ristoro, una mensa universitaria con tariffe popolari, e ben 284 unità abitative per studenti, dotate di tutti i comfort. Un’idea di ateneo davvero molto moderna che, almeno sulla carta, dovrebbe fornire


scarpsalerno quando il Cstp, l’azienda pubblica salernitana dei trasporti su gomma, è in crisi. E nonostante le efficienti residenze universitarie, non se la passano benissimo i tanti studenti fuorisede, anche a causa delle carenze socio-culturali del territorio, che non offre servizi.

Territorio non all’altezza Una recente statistica ha stimato Salerno come una delle peggiori mete per gli studenti europei del progetto Erasmus che vengono in Italia a studiare. Ma soprattutto, nonostante l’offerta formativa sia di buon livello, le percentuali di laureati all’ateneo salernitano che poi trovano lavoro sono basse. In sintesi: non è tanto l’università ad essere carente, ma il tessuto sociale che la circonda, incapace di assolvere alle necessità degli studenti e incapace di valorizzare i talenti “formati”, creando opportunità di sviluppo e occupazione. Un vero peccato, visto che anche l’attività di ricerca che si svolge a Fisciano è di alto livello: ad esempio, di recente il dipartimento di informatica è stato premiato come il migliore d’Italia (su 40 in classifica) dall’Anvur, l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca. Tale riconoscimento è stato assegnato in base alla produzione scientifica in matematica e informatica, produzione che avviene in sinergia con enti di ricerca accademica e industriale di fama mondiale.

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Campus moderno. E attorno? L’università di Salerno: buona formazione, discutibile rapporto col territorio

La storia

La Scuola medica salernitana, progenitrice illustrissima L’Università di Salerno ha una storia breve, essendo stata fondata nel 1944. Ma la storia accademica della città è antichissima. A Salerno, a partire dall’ottavo secolo dopo Cristo, si sviluppò la famosa Scuola medica salernitana, ritenuta la prima facoltà di medicina d’Europa e la vera e propria antesignana delle università europee. Salerno nel Medioevo fu una delle città più importanti d’Italia: la corte longobarda e quella normanna si circondarono di intellettuali provenienti da varie zone d’Europa e del Mediterraneo. In questo contesto, si incontrarono la cultura medica greca (che si rifaceva a Ippocrate – ancora oggi Salerno è detta hippocratica civitas, come scritto nel suo logo), la medicina latina, quella ebraica e quella araba. Così nacque la gloriosa Scuola medica, tanto importante che per secoli i sovrani e gli intellettuali di tutta Europa avrebbero fatto ricorso ai medici di Salerno. In età longobarda svariati medici operavano all’interno di laboratori privati; costoro curavano i pazienti in maniera pratica, ma accoglievano presso di sé allievi, che apprendevano a loro volta le tecniche mediche. I medici attivi a Salerno si riunirono poi in una corporazione, che fu il primo nucleo della Scuola medica. La tradizione si tramandò per secoli, finché nell’undicesimo secolo i medici salernitani cominciarono a elaborare testi scritti, che formarono un corpus vastissimo di nozioni medico-scientifiche, diffusesi in tutta Europa e considerate “massime” da seguire per molti secoli. Tali scritti furono riuniti nel Regimen Sanitatis Salernitanum, insieme di norme mediche e igieniche. Nel 1231 l’imperatore Federico II ordinò che l’attività di medico potesse essere svolta solo da chi si fosse diplomato alla Scuola medica di Salerno. Ma proprio con Federico II, che fondò l’Università di Napoli, lo Studium cominciò a perdere importanza e iniziò una lenta decadenza, fino allo scioglimento ufficiale, avvenuto nel diciannovesimo secolo. La Scuola medica salernitana si rifaceva alla “teoria degli umori” di Ippocrate: secondo il medico greco, vi sono quattro umori nel corpo umano (bile gialla, bile nera, flegma e sangue) che si collegano ai quattro elementi della natura (aria, acqua, terra e fuoco). Le malattie venivano curate attraverso erbe officinali (coltivate dalla Scuola nei suoi orti, uno dei quali è il Giardino della Minerva, oggi visitabile), che a seconda della prevalenza di uno dei quattro elementi, curavano lo scompenso di cui soffriva il paziente. L’uso di erbe officinali segna l’inizio ufficiale della medicina moderna, intesa come prescrizione di sostanze (oggi dette “medicine”) capaci di guarire il paziente. La teoria degli umori è stata poi confutata dagli scienziati e medici delle epoche successive, ma la medicina omeopatica e la naturopatia hanno ripreso parte di quegli insegnamenti. La Scuola medica salernitana è poi celebre per aver diffuso nel mondo la “sintomatologia”, ovvero lo studio dei sintomi dei malati, e per aver diffuso gli esami medici, come quello delle urine. Sistemi “scientifici”, utilizzati ancora oggi dai medici di tutto il mondo. Ippocrate in Grecia fu il primo a studiare la “cartella clinica” e inventò i concetti di “diagnosi” e “prognosi”, ma fu con la Scuola medica salernitana che tali metodologie si diffusero in tutta Europa. Infine, la Scuola fu la prima ad accogliere le donne medico. La più nota delle mulieres salernitanae fu Trotula de Ruggiero: autrice del trattato De passionibus mulierum ante in et post partum”, che segna la nascita della ginecologia moderna. La speranza è che la Facoltà di Medicina dell’Università di Salerno, sorta solo nel 2006 tra mille problemi, possa rinverdire i fasti dell’antica Scuola medica. Michele Piastrella settembre 2013 scarp de’ tenis

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catania Non voleva cure, diceva di sentirsi libero in strada. Dove l’avevamo conosciuto. E dove è morto. Vittima dell’indifferenza

Addio Andrea, malato come noi dalla Redazione Se ne è andato come aveva annunciato. Togliendosi la vita. Ce lo aveva gridato mille volte in faccia, in faccia alle nostre convinzioni e rassegnazioni. Le nostre facce non piangeranno lacrime per Andrea, ma continueranno a pensare a se stesse, dicendosi che non si è potuto evitare che un uomo morisse di rabbia mista a dolore, di solitudine mista a rancore. Qualcuno si giustificherà e cavalcherà il momento per dire che la legge è la legge e nessuno può essere rinchiuso, come se questa avrebbe potuto essere la soluzione. Ma la legge diceva altre cose: parlava di luoghi, di altri luoghi, luoghi accessibili, possibili, parlava di relazioni, di capacità, parlava di vita. Le parole sono importanti e allora la legge parlava di altre parole, non solo di chiusure e di vigili e di obblighi e di terapie e di Tso. La legge parla di vita e ne parla con parole di vita. Andrea questo non lo sapeva, perché tante volte ha sbattuto contro la legge e contro chi voleva l’Enel, prima di esserne “sfrattato”. Avefargliela rispettare, a lui malato. va problemi psichici. Non riusciva a essere malato come volevamo noi, era Malato come voleva lui malato come voleva lui. Forse non era Andrea Verdura era una persona senza lui il malato, ma questa comunità di perdimora. Da anni frequentava il centro di sone, di leggi, di funzionari, di impiegaCatania, nei pressi della stazione, per un ti che trattano da malate le persone: e ci po’ aveva abitato anche una cabina del-

Il vichingo non c’è più, colorava l’ambiente Aveva 47 anni, volto da vichingo, lunghe chiome al vento con annessa sontuosa coda di cavallo, poi hare krishna style e infine look da indiano metropolitano. Nato a Barrafranca, in provincia di Enna, cresciuto in Germania, dove era probabilmente stato rinchiuso in un istituto per disagiati psichici molto duro, Andrea era giunto a Catania tre-quattro anni fa. Viveva nella zona della stazione centrale e frequentava spesso l’Help Center della Caritas. Il più bello e intenso ricordo che ho di lui risale a una mattina di tre estati fa, quando giunsi a Catania all’alba, di ritorno da un viaggio in Austria e in una piazza della stazione deserta trovai lui, che con il suo casino organizzato colorava l’ambiente in sé un po’ grigio. Quella mattina conversammo lungamente in tedesco e lui mi raccontò la sua ultima disavventura: era stato “sfrattato” dalla sua “abitazione”, una cabina dell’Enel in disuso, che lui usava come una vera e propria casa, con meticoloso e teutonico ordine. L’ultima volta che lo vidi fu la sera prima in cui è morto. Mi vide e mi chiamò per offrirmi una sigaretta di tabacco. Poi, dopo pochi istanti, cominciò a urlare in direzione delle auto in sosta e si inginocchiò sull’asfalto in una sorta di delirio psichedelico. Mi ha rattristato molto la morte di Andrea, spero che questa tragedia possa sensibilizzare un po’ la gente e le istituzioni. Angus Mc Fadden

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può anche stare, ma non se le si tratta solo come malate, senza pensare alla vita, a come essa possa svolgersi, nonostante le malattie, se il territorio si attrezzasse per la cura e la presa in carico, e non fosse invece un deserto di servizi. Andrea è morto in strada il 6 luglio. Da tempo aveva preferito la strada: il luogo del suo teatro, della sua eterna scena, del suo dolore, del suo valore di uomo tra gli uomini, senza regole, senza costrizioni, senza terapie, con l'anima a fior di pelle. Possiamo voltare lo sguardo. Ma non avvertiamo dei doveri? Può essere che tutti noi ci sentiamo diversi e lontani da questa storia e da questa morte? Può essere che non si debba discutere di come curiamo e aiutiamo a vivere i più deboli tra noi?

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scarpcatania Fiaccolata per dire basta alle morti di strada Noi della redazione catanese di Scarp de' tenis abbiamo deciso di ricordare Andrea Verdura e tutte le persone che sono morte a Catania in strada, perché sole, senza un riparo e senza possibilità di uscita da una condizione che non è una scelta per nessuno. Dopo la morte di Andrea, avvenuta il 6 luglio, abbiamo quindi organizzato una veglia di preghiera (foto sotto) e una breve processione, insieme a un gruppo di volontari del Cope, della parrocchia del Crocifisso della Buona Morte e della Ronda dell’Amicizia. Con le candele accese, abbiamo percorso le strade della nostra città e abbiamo deposto un fiore nel posto dove è morto Andrea, per dire a tutti che occorre non rimanere indifferenti di fronte alla sofferenza dei fratelli più poveri, nella speranza che nessuno mai debba più morire come è successo al nostro amico Andrea

Il ricordo

Un amico senza notorietà, ma in noi ultimi c’è un po’ di lui Quando posso, bazzico i social network limitandomi a curiosare, fare una sorta di cernita di stati d’animo e opinioni su quello che accade: il risultato è che si chiacchiera sempre e soltanto di cose o persone conosciute, astenendosi dal commentare qualcosa che “non crea consensi”. Così come nei notiziari televisivi e nelle testate giornalistiche più vendute, ci si limita a parlare (spesso fino all’ossessione) della scomparsa di personaggi illustri. Sono consapevole che è giusto che sia così, perché la notorietà lascia sempre ricordi forti, talora incancellabili, al punto che a distanza di anni ci si ritrova a leggere qualche cinguettio su Twitter o qualche status su Facebook, in occasione di un anniversario “eccellente”. Andrea Verdura, invece, non era un attore o uno sportivo di grande fama, né un cantante o un’icona politica; quindi nessuno spazio per lui, nessun ricordo, nessun accenno alla sua scomparsa (fatta eccezione per le pochissime testate che se ne sono occupate subito dopo il ritrovamento del corpo). Ho scritto un breve saluto, dopo la sua scomparsa, in un gruppo abbastanza seguito su Facebook, ottenedo solo due timidi “mi piace”, come a significare: «Chi era costui?». Sicuramente Andrea non possedeva la notorietà che coinvolge le masse, ma a tutti noi amici, semplici conoscenti e redattori di Scarp ha lasciato un ricordo difficilmente cancellabile, un ricordo che magari si assottiglierà col passare degli anni ma che, insieme a quello dei tanti fratelli scomparsi sulla strada e nell’indifferenza, diventerà motivo di riflessione ed emozione. Perché dentro ognuno di noi “ultimi” c’è comunque un po’ di Andrea. Roberto De Cervo

La parrocchia

Padre Giovanni e i domenicani, amici che credono in noi San Domenico è una parrocchia nel centro storico di Catania, precisamente nella zona sovrastante piazza Stesicoro, dove si trovano i resti dell’anfiteatro romano risalente al secondo secolo dopo Cristo. La chiesa ha annesso il convento dove dimorano i frati domenicani, partendo dal priore padre Damigella, e poi padre Fabio, padre Rosario e, naturalmente, padre Giovanni Calcara (nella foto, insieme ad alcuni redattori di strada), molto vicino al progetto Scarp. Padre Giovanni ha un grande carisma, con lui ho instaurato una bella amicizia. Un giorno sono stato invitato, insieme a tutta la redazione, al 25° anniversario del suo sacerdozio. Durante la messa, la chiesa straripava di gente: padre Giovanni è davvero molto benvoluto. Alla fine della celebrazione ho letto una poesia che avevo composto per l’occasione. Poi tutti noi abbiamo partecipato a un ricevimento nel cortile della chiesa. Sono stato felice di aver condiviso quel bel momento; esso rimarrà per sempre impresso nella mia memoria e nel mio cuore, come uno dei più bei ricordi della mia vita. Tony Bergarelli settembre 2013 scarp de’ tenis

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poesie di strada

Andrea Un senza dimora se n’è andato, partito per un ultimo viaggio, vicino la stazione è stato trovato impiccato. Se è stato lui ha avuto un bel coraggio. Di nome Andrea e di cognome Verdura, non era come gli altri poveretti. Alcuni lo sbeffeggiavano, era trattato come spazzatura. Gridava: «Siete sicuri che voi siete perfetti?». Soffriva di un disagio mentale, aveva il cervello in eterna vacanza, una cabina elettrica come dimora abituale, l’unità di strada lo soccorreva con costanza. Ora ti ricordiamo con affetto, credendo che dove sei hai trovato pace il cielo illuminato per tetto. Siam sicuri che questo ti piace. Ciao Andrea!

Tony Bergarelli

Triste Vieni risveglio con me Al ristorante era solito pranzare per un abbondante pasto consumare, poi nella sua azienda il dirigente tornava soddisfatto e sorridente, ma una palla in testa, tirata per caso da un bambino l’aveva svegliato e lui capiva che dalla stanchezza si era appisolato, aveva sognato, dalla stanchezza per il troppo girovagare al fine di uno straccio di lavoro trovare, ma da tutti la solita risposta: «Siamo al completo, altrove può trovare». Egli sfiduciato tornava verso casa portandosi appresso il suo stato d’animo sempre più depresso. Mr Armonica

Il carisma Per trovare il vero amore non è necessario conoscere molti cuori, oppure consultare gli oroscopi, e nemmeno prendere per modello qualcuno. Il vero amore lo riconosci quando per prima cosa guardi dentro te stesso. Comprendi veramente chi sei, ti accetti per come sei e sai cosa cerchi. La persona che hai davanti come uno specchio rifletterà la stessa cosa; e ti accorgi di aver trovato il vero amore. Salvatore Saraceno

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Vieni con me in quel paese e scoprirai tante belle sorprese. Le strade sono di cioccolato E i lampioni di panpepato. Vieni con me in quel paese; son di torrone fatte le chiese. La gente danza, sorride e canta, e cresce un giocattolo su ogni pianta. Vieni con me in quel paese dove la gente è felice e cortese, e aspetteremo, seduti sui prati, che quei giocattoli sian maturati. Mary

Ore 21 C’è un silenzio nella nostra stanza il sonno ad accostarsi indugia quasi temendo gli aspri suoni che nella mente sciolti tumultano. La testa adagio sulla tua spalla a cercare l’improbabile pace come per incanto l’accento disarmonico tace. Le carezze delle tue mani quietano le membra. Mutamente mi parli ripeti parole, le stesse da anni, ed è sempre quel canto l’offerta d’amore di allora che rigermoglia ogni sera e non è più canzone è preghiera. Gaetano Tony Grieco


ventuno Ventuno. Come il secolo nel ventunodossier L’inferno verde quale viviamo, come l’agenda dei forzati del tè. Viaggio nelle per il buon vivere, come piantagioni dello Sri Lanka, dove l’articolo della Costituzione sulla libertà di espressione. si producono le preziose foglioline, Ventuno è la nostra vendute nel mercato globale idea di economia. Con qualche proposta per controllato dalle multinazionali. agire contro l’ingiustizia e Tra diritti dei lavoratori calpestati e l’esclusione sociale nelle scelte di ogni giorno. profitti irrisori per i raccoglitori

di Marta Zanella e Beppe Pedron

21 ventunoeconomia Finanza etica, investimento sul futuro. In Italia, Etica sgr compie dieci anni, mentre l’Europa trascina il mercato mondiale dell’investimento responsabile.

di Andrea Barolini

ventunorighe Votare con il portafoglio

di Mauro Meggiolaro analista finanziario – Il Fatto quotidiano

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21ventunodossier Foglie che valgono oro. Mercato dominato dalle multinazionali. Ma che cosa resta ai coltivatori di tè? E come vivono?

Schiavi della tazza più popolare testo di Marta Zanella

È la bevanda più consumata al mondo dopo l’acqua: se ne bevono ogni secondo 70 mila tazze. La Cina principale produttore, Kenya e Sri Lanka maggiori esportatori. Cosa si nasconde dietro una tazza di tè? Una realtà spesso dura per i raccoglitori delle foglioline verdi e i piccoli coltivatori: salari in diminuzione, condizioni di vita e lavoro durissime, speculazione sui prezzi. Il commercio equo si dà da fare, ma fatica, più che con altri prodotti, a ottenere risultati 66. scarp de’ tenis settembre 2013

Mercato colossale

Foglie d’Oriente, in mano alle multinazionali Ogni secondo, nel mondo, se ne bevono 70 mila tazze. Stiamo parlando del tè, la seconda bevanda più consumata in assoluto sul pianeta, dopo l’acqua. I numeri che ruotano intorno a questo prodotto sono impressionanti: che si parli di guadagni, di tonnellate prodotte, del numero di lavoratori nel settore o di consumatori. Si tratta di un mondo talmente vasto, che è difficile trovare cifre chiare, che facciano luce sul mercato del tè. Secondo stime Fao, sono circa 4,1 milioni le tonnellate di tè consumate ogni anno sul pianeta. Più di un terzo della produzione viene dalla Cina che, sempre secondo i dati Fao, aggiornati al 2012 ma riferiti al 2010, è arrivata a produrre 1,467 milioni di tonnellate. In pratica quanto India, Kenya e Sri Lanka (secondo, terzo e quarnano la maggior parte della produzione to produttore mondiale, rispettivamente al mercato interno: la Cina esporta solo con 991 mila, 399 mila e 282 mila tonnelun quarto di quanto produce (circa 400 late) messi insieme. Seguono, nella clasmila tonnellate), l’India solo un quinto sifica dei produttori, Vietnam (235 mila), (162 mila). I più grandi esportatori interTurchia (198 mila) e Iran (165 mila). nazionali sono invece Sri Lanka e Kenya, La produzione di tè è in costante auche mandano oltre confine quasi la totamento, anche se sta subendo una frenalità della produzione. Meta principale, ta: si prevede che la produzione di tè nel’Europa, che importa circa la metà del ro crescerà dell’1,8% l’anno (in leggero totale mondiale. calo rispetto al 1,99 % di crescita medio I bevitori più accaniti sono, come si annuo nell’ultimo decennio) e che arripuò immaginare, i britannici: soprattutverà a toccare quota 3,36 milioni di tonto inglesi, ma anche irlandesi, che connellate nel 2021. A questo bisogna agsumano in media (e si calcolano quindi giungere la cifra del tè verde, che si stima anche i neonati) intorno ai due chiloraggiungerà le 2,6 milioni di tonnellate grammi di tè pro capite all’anno. In totanel 2021, crescendo molto più rapidale il consumo mondiale di tè è aumentamente del “fratello” nero. to del 5,6 % nel 2010, ultimo anno per il Ma i due produttori “giganti” destiquale sono disponibili i dati.


Il mercato del tè

La borsa ha 170 anni I prezzi mondiali attuali del tè si aggirano sui 2,5 dollari al chilo, in calo rispetto ai 2,84 dello 2012. Ma nonostante i prezzi di mercato siano elevati, dopo aver raggiunto il loro massimo storico nel biennio 2009-2010, il prezzo pagato ai produttori continua a essere pari, se non inferiore, a quelli di trent’anni fa. Un anno chiave è stato il 2008: per il tè un anno di prezzi in costante ascesa. Questo in parte perché la domanda è stata superiore all’offerta, in parte perché una forte siccità ha colpito duramente le piantagioni di India, Sri Lanka e Kenya (in difficoltà anche a causa di disordini politici). Ma il prezzo non obbedisce solo a regole pure di mercato. Gli attori principali che scombinano l’equilibrio di mercato sono, come spesso capita quando si parla delle materie prime che arrivano dal Sud del mondo, la speculazione e le multinazionali. Anche nel mondo del tè, oggi, più che l’economia pesa la finanza: il destino delle foglie d’oriente, infatti, si gioca all’asta. Sono i broker, gli intermediari tra i produttori e gli importatori, che tentano di piazzare i diversi lotti di tè al miglior

offerente. Negli ultimi anni è aumentata l’importanza delle aste di alcuni paesi esportatori (India, Bangladesh, Sri Lanka, Kenya, Singapore e Indonesia), ma da sempre la storia del tè è legata alla Borsa del tè di Londra. Fondata nel 1834, si tiene una volta alla settimana. È pubblica, ma è dominata da un pugno di giganti: Unilever (nota grazie ai nomi delle sue controllate, Brooke Bond, Lipton e Ati) e poi Premier Brands, Allied Lyons, Cooperative Wholesale Society e Tata Tea (costola del gruppo indiano Tata, con il marchio Tetley). Il commercio mondiale è dominato dalla Unilever. Possiede 76 mila ettari di piantagioni in 13 paesi del sud del mondo, tra cui India, Kenya, Malawi. Da queste piantagioni ricava tè, ma anche cacao, noci di cocco, palma da olio, gomma e fiori. Oltre a essere il primo commerciante al mondo di tè, quindi, Unilever si assicura, attraverso Brooke Bond, anche la fase di produzione. Miscelazione e confezionamento arrivano a pesare anche per il 50% sul prezzo finale del prodotto, e ciò garantisce un bel malloppo nelle tasche delle aziende multinazionali. La sola Lipton ha un vo-

lume di vendite a livello mondiale di circa 3 miliardi di euro. Altra firma nota e prestigiosa delle tazze di tè è Twinings, dell’inglese Associated British Food, che a sua volta fa capo alla britannica Wittington Investment Ltd. In Italia è presente direttamente attraverso la Twinings, controlla il 21% del mercato nazionale e si contende il primato delle vendite con Lipton e le italiane Star e Infrè.

Prodotto equo? Mica tanto Le piantagioni in India, Sri Lanka e Africa orientale risalgono all’impero britannico e costituiscono ancora oggi una delle primarie fonti di sostentamento delle economie di quei paesi. A livello globale, sono circa 50 milioni le persone coinvolte nella coltivazione del tè. Ma le condizioni di vita cui sono costretti i lavoratori delle piantagioni, da sempre molto dure, sono peggiorate negli ultimi trent’anni. I salari sono rimasti più o meno costanti, mentre il costo della vita, l’inflazione e la svalutazione delle monete locali nei confronti del dollaro hanno colpito duramente il loro potere d’acquisto. Il tè viene generalmente coltivato in settembre 2013 scarp de’ tenis

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70 mila le tazze di tè bevute ogni secondo nel mondo

4,1 milioni le tonnellate di tè consumate ogni anno sul pianeta

1,47 milioni le tonnellate di tè prodotte ogni anno dalla Cina; seguono India, Kenya e Sri Lanka

2,5 dollari il prezzo attuale al chilo

50 milioni le persone coinvolte, in tutto il mondo, nella coltivazione di tè

250 mila i lavoratori raggiunti dal commercio equo (0,5% del totale)

Pilastro economico un uomo sorseggia tè per le vie di Colombo, capitale dello Sri Lankache esporta il 90% del tè prodotto (Ap Photo / Eranga Jayawardena); nella pagina precedente, lavoratrici indiane attendono il loro turno per scaricare le foglioline di tè raccolte (Ap Photo / Anupam Nath)

grandi piantagioni, meno frequentemente in cooperative di piccoli produttori. Anche se le condizioni lavorative e le retribuzioni sono spesso regolate a livello statale, storicamente il lavoro dei coltivatori è considerato come non qualificato, quindi pagato ai livelli minimi. A causa dei loro scarsi redditi, i lavoratori dipendono dai proprietari delle piantagioni anche per esigenze di base: assistenza sanitaria, alloggio, servizi pubblici, accesso all’acqua e istruzione primaria per i propri figli. Anche la situazione ambientale è divenuta più complessa. Le coltivazioni di tè dipendono fortemente dalla stabilità delle precipitazioni. Oggi, a causa della deforestazione e dei mutamenti climatici, violenti acquazzoni si alternano a lunghi periodi di siccità, impedendo al terreno di assorbire correttamente l’acqua e riducendone la produttività. Chi ha cercato di portare condizioni di vita e lavoro più eque nelle piantagioni è stato, anche nel caso del tè, il commercio equo. Ma l’impresa si è rivelata più difficoltosa che nei casi di altre materie prime, come caffè o cotone. Fairtrade International, attraverso un sistema di standard stabiliti a livello internazionale, opera perché ai piccoli produttori sia garantito un prezzo minimo (Fairtrade minium Price) per la materia prima, indipendente dalle fluttuazione del mercato, e un margine aggiuntivo, Fairtrade Premium, da investire in progetti di sviluppo a beneficio delle comunità: borse

Coltivatori in Sri Lanka

Nirmali e Sudesh, forzati nell’inferno verde di Beppe Pedron Da una vita Anna sorseggia ancora assopita, con le papille gustative attente alle più piccole sfumature, il tè della mattina. E in quella tazza calda ci sono anni di risvegli, cure materne, emozioni sedimentate dall’infanzia, corse rapide verso l’autobus, momenti rubati a una giornata intensa di lavoro, riposi dopo le fatiche. O anche solo milioni di parole condivise con gli amici di sempre. Da una vita Nirmali raccoglie, ogni giorno, almeno quattordici chili di foglie, per portare in baracca la magra paga quotidiana. Da vite e generazioni porta nelle ossa i dolori reumatici, appartenuti già alla nonna e alla mamma. E, con essi, storie perse nel fumo del mito di terre lontane: il mito di un’India magica e prospera, a cui non soPer la prossima vita, quella di gna nemmeno più di tornare. Jeyakanthi, la sua quarta figlia, 12 anni,

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di studio, fondi pensione, miglioramento delle strutture scolastiche. Nel 2011 il Fairtrade Premium corrisposto è stato pari a 5 milioni di euro. I produttori vengono inoltre sostenuti nell’adozione di pratiche di coltivazione sostenibili, rispettose dell’ambiente, e nell’individuazione di tecniche capaci di mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici. Rigorosamente vietati, per ottenere la certificazione, sono il lavoro forzato e quello minorile. Inoltre, grazie al marchio Fairtrade e al supporto fornito dal sistema, i produttori sostenuti dal commercio equo riescono ad accedere a nuovi mercati, esportando il proprio prodotto. Le vendite di tè Fairtrade a livello mondiale hanno mostrato nel 2010-2011 un incremento del 15% rispetto al biennio precedente, principalmente grazie alla crescita dell’impegno di grandi retailer (distributori) inglesi e tedeschi. In Gran Bretagna, inoltre, ormai quasi tutte le maggiori catene di caffetterie servono tè e caffè a marchio equo. Il risultato è che oggi il 10% del tè venduto nel Regno Unito è Fairtrade. Questo spicchio di settore, però, è ancora una goccia nel mare: i lavoratori coinvolti nel sistema Fairtrade sono infatti circa 250 mila, cioè lo 0,5% del totale dei coltivatori del tè (dati: Fairtrade international, 2011).

Una tazza amara A differenza di molti altri prodotti provenienti dai paesi in via di sviluppo, che sono stati oggetto di campagne di sensibi-

Nirmali spera in strade diverse, in panorami senza le verdeggianti piantine di tè: senza colline pittoresche, senza piogge battenti e soli cocenti, senza padroni e padroncini, senza le botte di un marito ubriaco e stanco di esserci. E senza il buio assordante della notte. Nirmali, Sudesh suo marito, Jeyakanthi e gli altri tre figli, vivono in una delle moltissime piantagioni di tè dello Sri Lanka, sulle colline intorno a Badulla. Ma potrebbe essere anche la zona di Kandy, o sulle alture di Denyaya o Nwara Elyia. Sarebbe assolutamente lo stesso. *** Le piantagioni di tè – ma anche di gomma e noce di cocco – in Sri Lanka sono un settore trainante dell’economia. E il tè, particolarmente, è stato per decen-


Il mercato del tè

lizzazione o boicottaggio delle multinazionali su scala mondiale, il tè in questi anni ha mosso solo azioni locali o sottotono. Sicuramente il fatto che la coltivazione di questo prodotto sia al momento fatta solo in grandi piantagioni ha reso più difficile il lavoro di un’organizzazione internazionale come Fairtrade, che finora ha lavorato sodo nel quotidiano, ma non ha promosso azioni eclatanti. Di iniziative locali si ha traccia nel Regno Unito, dove il tè è un’istituzione e ha un enorme mercato. Due ong britanniche che si occupano di diritti del lavoratori e sfruttamento a livello globale, War on Want e Unite, hanno realizzato nel 2010 una ricerca, finanziata anche dall’Ue, sullo sfruttamento dei lavoratori. In Gran Bretagna si bevono 165 milioni di tazze di tè al giorno, 60 miliardi all’anno. La ricerca calcola che in questo enorme mercato oltre il 50% dei guadagni va ai rivenditori e ai supermercati, mentre meno dell’1% ai raccoglitori di foglie. Così è nata una campagna, destinata a sensibilizzare l’opinione pubblica e incentivare azioni nei confronti del governo, a cui si chiede di istituire una commissione che possa indagare e perseguire il mancato rispetto dei diritti umani del lavoratori del settore. Alle maggiori catene di distribuzione britanniche si chiede di rispettare standard che eliminino la discriminazione nei posti di lavoro e riconoscano i diritti minimi dei lavoratori nei contratti. Obiettivi sacrosanti. Ma è una battaglia difficile.

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ni un prodotto che ha portato nel paese milioni di rupie e reso famoso il nome dell’isola all’estero. La pianta del tè venne introdotta per la prima volta nell’isola di Ceylon nel 1824, ad opera dei colonizzatori inglesi, che si resero conto rapidamente che la nuova coltivazione avrebbe generato interessanti profitti e vantaggiose occasioni di commercio. La prima piantagione vera e propria fu creata e istituita sulle colline al centro del paese, dove il clima mite favoriva la crescita delle tenere, verdi foglioline. Da lì, le coltivazioni si sono poi diffuse in altre aree, con caratteristiche climatiche simili. Grazie a produzioni sempre crescenti fino alla recente crisi economica, lo Sri Lanka si è issato al terzo posto, nel mon-

do, per la produzione di tè. E ogni anno le sue esportazioni, che sono il 90% della produzione totale di tè, risultano in aumento. Sin dall’inizio, e come sempre accade, per mantenere un margine di profitto elevato si sono resi necessari lavoratori a basso costo, “necessariamente” poco protetti. La popolazione di etnia cingalese, maggioritaria nell’isola, non si è mai troppo prestata alle condizioni di lavoro richieste dai proprietari delle piantagioni e delle industrie, perciò i coloni inglesi portarono dal vicino Tamilnadu, stato meridionale dell’India, gruppi di lavoratori resi malleabili dall’ignoranza e dalla disperazione della fame. E disposti a sottostare a condizioni di vita e di lavoro al limite del disumano. Da quasi due secoli, dunque, le piantagioni so-

no abitate da lavoratori tamil, che tentano faticosamente di condurvi un’esistenza dignitosa.

Una lamiera per tetto Jeyakhanti dovrebbe andare alla festa del tempio questa sera, le altre famiglie ci vanno e le sue amiche anche. Sarà bello: la musica, i colori delle decorazioni, il sari giallo regalato per il compleanno di tre anni fa e i dolcetti di latte e zucchero che la nonna cucinava sempre nel giorno di Tai Pongal. Ma Suresh, il papà, non è ancora rientrato, sembra che faccia tardi. E quando fa tardi vuol dire che si è fermato all’angolo dove Indunil vende l’alcol fatto in casa. E dove tutti i papà e i nonni della zona si trovano per ridere, cantare, bere e divertirsi. Salvo poi tornare a casa barcolsettembre 2013 scarp de’ tenis

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ventunodossier

Le piantagioni

Diverse alture, grandi estensioni Lo Sri Lanka produce tè durante tutto l’anno. Le sue coltivazioni si trovano principalmente nella zona collinare del paese, al centro dello stesso. Le piantagioni si classificano in base ad altitudine e proprietà. Vi sono le coltivazioni di alta quota (sopra i 1.200 metri), di media quota (tra 600 e 1.200 metri) e di bassa quota (sotto i 600 metri di altezza sul livello del mare). La differente ubicazione comporta diverse qualità di tè, e variazioni nel guadagno conseguente. Il tè prodotto in altura è maggiormente venduto in Germania e Giappone; quello dalle medie altezze in Australia, Nord America ed Europa, quello di bassa quota in Asia e negli Emirati Arabi. Le piantagioni si dividono poi in grandi (dette estate, di proprietà di grandi compagnie industriali) e in quelle dei piccoli proprietari. Ma il termine non deve trarre in inganno: solo raramente di tratta di produzioni a livello familiare, nella maggior parte sono coltivazioni estese, anche se non tanto quanto quelle possedute dalle industrie. La produzione dei cosiddetti piccoli proprietari, oltre 370 mila, se sommata è maggiore di quella delle compagnie, e copre il 65% del totale del prodotto.

Lavoro da donne Raccoglitrici all’opera in una piantagione indiana (Ap Photo / Dexter Crueza); a destra, raccoglitrice tamil in Sri Lanka

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lanti, sotto il peso di sacchi di botte da distribuire a larghe mani nella baracca o, se va bene, per stramazzare al centro dell’unica stanza e cadere in un sonno così profondo da sembrare coma. Così non ci sarà festa stasera, solo la solita serata di sempre. E gli sguardi protettivi ma terrorizzati della mamma a far da rifugio. E il desiderio sempre più forte di volare via, con la leggerezza delle foglie di tè seccate nel setaccio. *** La maggior parte delle oltre 900 mila persone che vivono nelle piantagioni srilankesi, abita nelle cosiddette line rooms, corridoi in muratura coperti da tetti in lamiera o cartone pressato, divisi in stanze, ciascuna delle quali abitata da un intero nucleo familiare con figli, e spesso genitori anziani al seguito. Per ogni line room, dodici famiglie, un solo bagno (meglio, una latrina alla quale fare i turni alla mattina prima del lavoro) e un angolo per cucinare in ciascuna stanza, con conseguente annerimento delle pareti e irrespirabilità dell’aria. Manco a dirlo, le abitazioni – così come tutti gli edifici, le piante, il terreno e le risorse idriche – sono di proprietà del padrone della piantagione: senza il suo permesso nessuna modifica, riparazione o miglioria è possibile. Da oltre vent’anni il governo srilankese, che in precedenza gestiva e legalmente possedeva tutte le piantagioni del paese, ha affidato a privati con un contratto di leasing (prima di 5 anni, poi di 50) la gestione degli appezzamenti, la raccolta delle materie prime, la produzione del prodotto finale. E le numerose necessità sociali. Esse sono delegate alle welfare societies, da cui dipendono tutti i servizi legati ai bisogni dei lavoratori: educazione, sanità, eventi comunitari, cura dei più deboli. Nella realtà, queste organizzazioni faticano molto nel raggiungere i destinatari finali. Per mancanza di fondi, le scuole sono poche, con edifici fatiscenti e spesso con pochi inse-

gnanti ed esclusivamente fino al ciclo elementare; per eventuali cicli superiori, è necessario spostarsi all’esterno, nei villaggi o nelle città. Analogamente, i dispensari sono praticamente inesistenti e i malati devono percorrere molti chilometri per raggiungere le strutture governative, e ciò aggrava le loro condizioni di salute, mentre comporta costi elevati e insostenibili per il trasporto. È evidente e noto, però, che non mancano solo i fondi per fornire servizi minimi, ma anche la volontà. E la causa è un preciso intento: tenere i lavoratori, per quanto possibile, inconsapevoli e incapaci di vedere un presente e un avvenire diversi da quelli che hanno davanti a sé da generazioni. L’alcolismo è di conseguenza altamente diffuso tra i raccoglitori di tè, e con esso le violenze domestiche, la prostituzione delle ragazze al di fuori delle piantagioni, l’abbandono scolastico, la promiscuità sociale e i suicidi. Uno dei diritti fondamentali, tra i più sistematicamente violati, è quello all’esistenza legale: moltissimi lavoratori non


Il mercato del tè

hanno documenti di identità validi e sfuggono cosi, oltre che al computo della popolazione, anche alle possibili agevolazioni, alle eredità e (soprattutto) ai minimi servizi di base.

L’ultimo bicchiere di Sudesh Sudesh, dopo la giornata di lavoro a sistemare la massicciata di pietre che contiene le radici delle delicate piante di tè, dopo aver camminato prima sotto il sole e poi all’imbrunire verso la pesa e aver controllato che ognuna delle donne portasse davvero 14 chili di foglie ciascuna e che le punte più delicate fossero intere e staccate delicatamente, come si fa al pomeriggio con i pidocchi sulle teste dei bambini, ha decido di andare da Sunil. È il sindacalista, quello che, due anni fa, promettendo case e acqua corrente, ha ottenuto la maggioranza dei voti. Quello che da allora ha sempre un sorriso sornione che ti chiedi se stia ridendo con te o solamente di te. Sunil siede fuori dalla sua casetta piccola ma carina, su una sedia di plastica

rossa, con lo schienale alto, di quelle che costano un poco di più, e fuma con pacifica calma un bidi. Sudesh parla e lui sorride, Sudesh alza la voce e lui promette, Sudesh alza le mani e lui rassicura. Sudesh se na va sconfitto e lui aspira placidamente il suo bidi. E tutto, se non nel torace di Sudesh, resta immobile come prima. Come l’espressione del viso del padrone alla richiesta di un aumento. Come le piantine sotto la nebbia di questa sera. *** Sono numerosi i gruppi sindacali o le formazioni in difesa dei lavoratori nel settore del tè srilankese. Ma raramente gli stessi riescono nello scopo per cui vengono votati dai lavoratori e per cui sono chiamati a operare. Le infiltrazioni della politica, gli interessi personali e le adesioni ai partiti di maggioranza e opposizione di fatto paralizzano il settore. E continuano a riempire di illusioni e vane parole persone già provate dalle dure condizioni di vita e dalle bassissime paghe. Recentemente, nell’aprile di que-

st’anno, il governo, grazie a una delle poche battaglie di successo dei sindacati, ha alzato le paghe minime per i lavoratori, portandole a circa 2,8 euro al giorno, per un totale di circa 70 euro mensili, solo però se il dipendente lavora per almeno 21 giorni al mese. A questo salario si possono aggiungere incentivi, nel caso di straordinari orari o di raccolta di foglie superiore ai chili minimi. Come spesso accade, a essere maggiormente discriminate sono le donne: la loro paga è inferiore e lavorano più degli uomini, che dopo le mansioni pesanti della mattina hanno il pomeriggio quasi libero. I salari sono del tutto insufficienti alla conduzione di una vita dignitosa, e ancor di più se i figli devono studiare oltre il ciclo elementare, o se ci sono spese sanitarie urgenti. Perciò molti dipendenti preferiscono non lavorare nella piantagione, e cercare impieghi a giornata come braccianti nei villaggi che la circondano. A causa di questa migrazione, i dirigenti e le welfare socities dicono di essere incapaci di realizzare cambiamenti, in quanto costretti a pagare anche per chi non produce nell’industria del tè, ma vive ancora alle sue dipendenze. Un circolo vizioso, che vede sempre i lavoratori come ultimo, fragilissimo anello della catena. *** Oggi Nirmali non lavora, accompagna Sudesh, insieme a una sparuta folla di abitanti della piantagione, nell’ultimo viaggio. Lo diceva sempre, Sudesh, quando il kasipu gli dava il coraggio di buttare fuori il mondo di dentro, che non sarebbe diventato vecchio in quella baracca, sempre tra gli stessi sentieri di sabbia e rocce, sempre a mendicare lavori alternativi a giornata nel villaggio accanto, a seguire nei macchinari della fabbrica quelle fragili foglie di tè a cui il padrone della ditta dava maggior peso che alle anime. E la lamentela era per tutti, moglie, figli e compagni di bevute, il solito mantra giaculato nell’alcol per esorcizzare il terrore dell’ineluttabile ripetersi di quanto accaduto a generazioni passate. E invece Sudesh, per una volta almeno, ha cambiato la nenia in realtà, e al posto del solito alcol da 50 rupie ieri sera ha bevuto il veleno per topi da 150. Intanto Anna, anche questa mattina, all’altro capo del mondo, sorride al futuro sorseggiando il suo tè.

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21ventunoeconomia L’Europa guida il mondo del risparmio responsabile, mentre in Italia si festeggiano i primi dieci anni di Etica Sgr

In crescita, ma è tutto davvero etico? di Andrea Barolini

Nel 2011 il valore stimato del mercato globale degli investimenti sostenibili, in forte espansione, era pari a 13.600 miliardi di dollari: più di un quinto degli asset gestiti da fondi e banche 72. scarp de’ tenis settembre 2013

Può non essere facile pensarlo, dopo gli anni di crisi che abbiamo vissuto, ma l’etica si fa strada anche nel mondo della finanza. E lo fa a un ritmo che lascia ben sperare per il futuro. Certo, questo non significa che i grandi colossi del settore – dalle banche “globali” ai super-fondi di investimento – siano in procinto di cambiare rotta e rinunciare a speculazioni e investimenti dannosi per l’ambiente così come per lo sviluppo delle popolazioni, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Al contrario, la storia recente e le notizie di attualità confermano la predisposizione della finanza al cercare ancora il business a ogni costo, benché questo rischi di mettere nuovamente in pericolo la tenuta del sistema economico globale. È necessario dunque non abbassare la guardia e fare, ciascuno di noi, la nostra parte affinché queste pratiche vengano sempre più stigmatizzate, proprio perché responsabili di vantaggi appannaggio di pochi e di svantaggi a carico di tanti. Già, ma come si può, concretamente, agire contro colossi multimiliardari? La risposta è semplice: scegliendo, appunto, la finanza etica. Orientando cioè il proprio risparmio in modo tale da evitare che finisca nel calderone della “finanza-casinò”. Una scelta responsabile, condivisa da un numero sempre più alto di risparmiatori in tutto il mondo. Secondo il rapporto Global Sustaina-

ble Investment Review 2012, redatto dalla Gsia (Global Sustainable Investment Alliance), il valore stimato del mercato globale degli investimenti sostenibili era pari, infatti, a non meno di 13.600 miliardi di dollari al 31 dicembre 2011. Ovvero il 21,8% del totale degli asset gestiti da fondi e banche in tutto il mondo. Cifre che denotano un interesse sempre più ampio nei confronti delle cosiddette istanze di Esg (governance sociale ed ambientale). Sulle quali occorre però soffermarsi: c’è chi potrebbe giudicarle eccessive, non in grado di fotografare in modo fedele la realtà.

Ma chi è davvero responsabile? Già in passato, Scarp aveva parlato delle difficoltà che lo stesso mondo della finanza etica trova nel definire con chiarezza il concetto di “investimento responsabile”. Pochi anni fa l’organizzazione non governativa francese Les Amis de la Terre aveva lanciato una domanda, e al contempo una provocazione, chiedendo quali tra i fondi di investimento che si richiamano a valori etici potessero davvero essere considerati tali. Nello studio Investissement Socialment Responsable: l’heure du tri, l’associazione puntava il dito contro numerosi fondi francesi, considerati sulla carta socialmente responsabili. Su un totale di 89 fondi esaminati, secondo l’analisi ben 71 non avrebbero dovuto essere


risparmio responsabile Grafico

Le banche tradizionali propongono fondi “verdi”. Ma poi “strafinanziano” l’industria del carbone...

Gli investimenti responsabili nel mondo (dati in milioni di euro) Fonte: Gsia Global Sustainable Investment Review 2012

considerati “etici”, perché investivano in almeno una delle 15 imprese – individuate dalla stessa ong transalpina – che si sono contraddistinte negli anni per «pratiche sociali e ambientali disastrose». Tra le aziende che avrebbero dovuto essere escluse figuravano colossi bancari e assicurativi come Axa, Bnp Paribas e Deutsche Bank; compagnie petrolifere come Total, British Petroleum e Royal Dutch Shell; industrie farmaceutiche come Bayer e Novartis. E ancora le “nucleariste” Areva e Gdf Suez, insieme a France Telecom, Andritz, Rio Tinto, Nestlé e Bmw. La considerazione di Les Amis de la Terre era semplice: «Se non si eliminano queste aziende dal proprio orizzonte d’investimento, l’appellativo di “responsabile” risulta totalmente illegittimo». Eurosif ha per questo tentato di determinare in modo più chiaro il concetto di investimento etico, ma con scarsi risultati: «Abbiamo organizzato un gruppo di discussione per rivedere la classificazione e le definizioni soggiacenti ai nostri studi, anche al fine di aggiornarle rispetto ai recenti sviluppi del mercato. Ad oggi, però non siamo riusciti a raggiungere una definizione unificata dell’investimento socialmente responsabile in Europa, quale che sia la prospettiva dalla quale si parte per determinarla», si legge nell’introduzione al rapporto Étude sur le marché européen

de l’Isr del 2012. È dunque difficile tracciare in modo chiaro e univoco il confine tra un investimento “tradizionale” e un investimento “etico”. Numerosi colossi bancari, ad esempio, da tempo propongono fondi green, che promettono di dedicare le risorse raccolte, ad esempio, allo sviluppo delle energie rinnovabili. Di qui la domanda: è davvero utile all’ambiente e all’umanità scegliere fondi “verdi” proposti da banche “nere”? Nel 2011 un rapporto redatto da un gruppo di ong – tra cui Urgewald, Earthlife Africa Johannesburg e la rete internazionale Banktrack – intitolato Bankrolling Climate Change (Finanziando il cambiamento climatico), ha puntato il dito contro l’intero gotha delle grandi banche globali. Definendole senza mezzi termini “assassine dell’ambiente”. Nel mirino delle associazioni erano finite le grandi banche americane JPMorgan Chase, Citigroup, Morgan Stanley e Bank of America; le inglesi Barclays, Rbs, Hsbc; la tedesca Deutsche Bank; le svizzere Credit Suisse e

Ubs, nonché l’italiana Unicredit. Molte di loro propongono fondi ambientalmente sostenibili. Ma tutte, in forma e misura differenti, hanno concesso importanti finanziamenti all’industria del carbone: centinaia di miliardi di euro che hanno consentito di continuare a produrre energia, generando miliardi di tonnellate di biossido di carbonio, contribuendo al cambiamento climatico e, di conseguenza, agli eventi catastrofici a cui si assiste sempre più di frequente. Proprio il carbone, infatti, è responsabile di circa l’80% del surriscaldamento globale (dato indicato nei suoi studi da James Hansen, direttore del Goddard Space Institute della Nasa). «Ciò mette in serio pericolo l’obiettivo che ci siamo posti, ovvero limitare l’innalzamento delle temperature a un massimo di 2 gradi celsius nel prossimo futuro», ha ammonito Faith Birol, capo economista dell’International Energy Agency, in una nota ufficiale del maggio 2011. «Nella nostra analisi – ha spiegato Heffa Schücking di Urgewald – abbiamo preso in considerazione in particolare i finanziamenti erogati alle centrali alimentate a carbone, dal momento che esse costituiscono il pericolo maggiore per l’ecosistema». Il risultato è che, grazie a 1.405 transazioni individuate dal 2005 a oggi, le banche hanno elargito qualcosa come 232 miliardi di euro: in particolare prestiti e investimenti, che costituiscono l’88% del flusso totale di capitali. E, in

Tabella 1

Il mercato degli investimenti responsabili in Europa (dati in milioni di euro)

2009 7.375,484

2011 11.661,404

Cambiamento +58,1%

Fonte: Eurosif - Étude sur le marché européen de l’Isr 2012. settembre 2013 scarp de’ tenis

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ventunoeconomia

Tabella 2

Il mercato degli investimenti responsabili in Italia (dati in milioni di euro)

2009 314.430

2011 784.488

Cambiamento +149,5%*

Fonte: Eurosif - Étude sur le marché européen de l’Isr 2012. * Il dato è frutto, in parte, di una riclassificazione di alcuni asset, non considerati come investimenti responsabili nel 2009

barba alle preoccupazioni ambientali, il trend è persino in aumento.

L’Europa guida il mondo È chiaro, perciò, che orientare le proprie scelte non è così semplice. Né lo è valutare l’andamento della finanza etica nel suo complesso. Ciò che si può fare, però, è confrontare dati simili tra loro. Ad esempio quelli raccolti da Eurosif nello

Studio sul mercato europeo degli investimenti socialmente responsabili, che analizza il trend dal 2009 al 2011 (vedi tabelle 1 e 2) e che registra un incremento di ben il 58,1%. Il dato complessivo, infatti, passa dai 7,37 miliardi di euro gestiti nel 2009 agli 11,66 miliardi del 2011. Cifre che non solo denotano un interesse crescente per la finanza etica, ma che consolidano l’Europa al vertice della “classi-

Fondi sovrani. E responsabili?

Investimenti sostenibili a portata di governo Anche numerosi stati posseggono un fondo di investimento pubblico, dunque anche loro hanno la possibilità – almeno sulla carta – di gestire i loro capitali in modo responsabile. I fondi sovrani (è questo il nome delle “braccia finanziarie” di cui si sono dotati alcuni governi), anzi, avrebbero la capacità di muovere enormi quantitativi di denaro. Basti pensare che il valore degli asset in loro possesso ammontava a fine 2011 a circa 3 mila miliardi di dollari, cifra che è prevista in crescita nei prossimi anni (alcune stime parlano di 12 mila miliardi raggiungibili entro il 2015). Il problema è che spesso i Sovereign Funds vengono utilizzati al solo fine di massimizzare i profitti, nonché per operare speculazioni, o ancora a fini politici (per acquisire, ad esempio, il controllo di aziende strategiche in altre nazioni). Legittimi dubbi in questo senso aleggiano attorno al China Investement Corp. (Cic), il fondo sovrano cinese che non rivela alcuna informazione ufficiale sulla composizione del proprio portafoglio. Esistono però anche casi virtuosi, come quello del Government Pension Fund of Norway. Dotato di asset di un valore pari ad oltre 712 miliardi di dollari (dato rilevato al 31 marzo), è stato concepito per accantonare e fare fruttare i proventi delle vendite del petrolio, essendo quest’ultimo una risorsa in via di esaurimento. Gli investimenti sottostanno a una serie di regole, e devono essere approvati da un comitato etico composto da esperti di diritti umani, politiche ambientali, diritto internazionale ed economia. Ciò ha portato all’esclusione di un lungo elenco di grandi aziende: dai produttori di bombe a frammentazione (tra cui Lockheed Martin Corp e Textron) a quelli di armi nucleari (comprese Boeing e Eads); dalle industrie del tabacco (tra le quali British American Tobacco e Philip Morris) a quelle che si sono macchiate di gravi reati ambientali (da Rio Tinto a Norilsk Nickel). Sulle scelte relative alle esclusioni e alle inclusioni si possono, ovviamente, avanzare critiche. Ma per lo meno la Norvegia dimostra di non essere indifferente alla responsabilità sociale ed ambientale dei propri business pubblici.

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fica” globale. La Gsia, infatti, ha tracciato una mappa degli investimenti responsabili nel mondo (vedi grafico nella pagina precedente), dalla quale si evince la netta prevalenza di tali business nel Vecchio continente, con oltre 8.700 miliardi di dollari. Al secondo posto ci sono gli Usa, con 3.740 miliardi, mentre il Canada sfiora i 600 miliardi. Meno alte le cifre dell’Asia: solo 74 miliardi, compresi i 10 a cui arriva il Giappone. Attenzione, però, perché le cifre potrebbero ingannare. Il primato europeo, infatti, non denota necessariamente maggiore sensibilità nella popolazione sui temi della governance ambientale e sociale. Se si analizza la provenienza degli investimenti, infatti, si scopre che in Europa la stragrande maggioranza di essi proviene da soggetti istituzionali: ben il 94%. Un dato legato soprattutto alla forte presenza di grandi fondi pensione, che hanno attivato programmi di investimenti sostenibili. Negli Usa, invece, il mercato retail è più ampio, e raggiunge gli 840 miliardi (sul totale di 3.740).

L’Italia a che punto è? C’è dunque ancora molto lavoro da fare per “avvicinare” la finanza etica ai risparmiatori. Un discorso valido in particolare per l’Italia, dove le allocazioni continuano a essere dominate dai soggetti istituzionali, la cui porzione è anzi cresciuta dal 92 al 94% nel periodo 20092011. In ogni caso, resta significativo il dato relativo alla crescita assoluta, che ha toccato un +149,5% in due anni, passando da 314,4 miliardi a 784,4 miliardi di euro (frutto però, sottolinea Eurosif, anche di una riclassificazione di alcuni asset). Un risultato positivo, arrivato anche grazie alla “storica” propensione degli italiani ad accantonare i propri capitali: il tasso di risparmio dalla fine della seconda guerra mondiale fino agli anni Novanta è stato compreso in media tra il 20 e il 30% dei redditi percepiti, contro un livello europeo che si è attestato attorno al 12%. Proprio per tale ragione, se nel nostro paese si sviluppasse un solido mercato retail degli investimenti responsabili, la quantità di capitali che potrebbero essere indirizzati verso la finanza etica sarebbe in grado di muovere in modo significativo gli equilibri del settore.

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risparmio responsabile

Il direttore di Etica Sgr

«Rigore e coerenza, ma anche performance. Vogliamo “contagiare” di più il mondo ecclesiale» Alessandra Viscovi (nella foto), direttore generale di Etica Sgr, racconta i primi dieci anni di vita della società di gestione del risparmio di Banca Etica, tracciando un quadro della finanza responsabile in Italia e nel mondo. Ancora oggi è difficile definire in modo univoco gli investimenti etici. È dunque complicato anche valutarne l’andamento? C’è indubbiamente un problema. Per quanto riguarda i dati, noi ci atteniamo per l’Italia a quelli di Assogestioni (l’associazione di categoria, ndr), che sono aggiornati trimestralmente, mentre per l’Europa utilizziamo i rilevamenti di Vigeo, che però purtroppo sono aggiornati una volta l’anno. È chiaro che una definizione univoca sarebbe utilissima, e per questo come presidente del Forum della finanza sostenibile ho promosso un gruppo di lavoro proprio con l’obiettivo di adottare una sintesi condivisibile da tutti. Siamo al lavoro da febbraio e credo che entro fine anno potremo avvalerci di due definizioni: una per il grande pubblico, che aiuti i risparmiatori a capire meglio il senso degli investimenti etici, una invece più tecnica, ad uso degli addetti ai lavori. A suo avviso, ad esempio, investire in un fondo dedicato totalmente alle energie rinnovabili, ma che è di proprietà di una banca che finanzia il nucleare o il carbone, si può considerare un comportamento “etico”? Credo di sì. Noi non possiamo arrogarci un’esclusiva sulla finanza etica. Però è inevitabile che la coerenza del soggetto abbia una sua importanza. Noi alle spalle abbiamo Banca Etica, e non credo sia un caso se intercettiamo circa il 40% del mercato degli investimenti responsabili: la clientela comprende e premia la nostra coerenza e il nostro rigore. Poi, certamente, penso che anche chi non segue la nostra strada, ma propone comunque investimenti etici, rappresenti in ogni caso un tentativo positivo. Etica Sgr compie dieci anni: qual è il bilancio di questo traguardo? Decisamente buono. Solo nei primi sei mesi di quest’anno abbiamo aumentato la raccolta netta di 64 milioni di euro. Nel 2012 abbiamo avuto 3.300 clienti in più e nel solo primo semestre del 2013 ne sono arrivati 6 mila in più. Ciò anche grazie al successo di alcune iniziative con le quali abbiamo cercato di indirizzare i clienti a “riscoprire” il risparmio attraverso una razionalizzazione della spesa. Per questo incentiviamo molto i piani di accumulo: se una famiglia mette da parte anche solo 50 o 100 euro al mese, rinunciando magari a una pizza, può garantirsi, ad esempio, le risorse per gli studi dei figli. Qual è stata la risposta dei clienti? Negli ultimi dodici mesi abbiamo aperto 7 mila nuovi piani di

accumulo, più che raddoppiando il totale di quelli attivi. Inoltre abbiamo condotto un sondaggio per comprendere l’apprezzamento della nostra clientela, su un campione di 600 persone. Il risultato è stato sorprendente: il 73% si è dichiarato molto soddisfatto, e il 22% abbastanza soddisfatto. In termini di pura performance, la finanza etica è conveniente? È anche migliore rispetto a quella tradizionale. Il rendimento del nostro fondo azionario a cinque anni, al 30 giugno è stato del 6,75%, contro un benchmark (il riferimento della categoria, ndr) del 6,29%. A tre anni saliamo al 9,44%, mentre a un anno al 19,82%. L’ultimo anno è stato infatti molto positivo, ma in ogni caso noi sconsigliamo gli investimenti “mordi e fuggi”: è molto più utile e prudente orientarsi in un’ottica di tre-cinque anni almeno. Quanto basta per far sì che la finanza etica contagi quella tradizionale? Rispondo con un fatto. Etica Sgr è consulente della Fondazione Cariplo, e proprio grazie a questa collaborazione abbiamo fatto sì che circa 6,5 miliardi di euro non vengano investiti in una serie di aziende presenti in una “lista nera” che rivediamo trimestralmente. Ne fanno parte gruppi che producono bombe a frammentazione o che ledono gravemente i diritti umani o l’ambiente. Ma certamente non basta. Spero ad esempio che il prossimo mondo a essere contagiato da noi sia quello religioso, che ci è molto vicino in termini morali, ma che può avvicinarsi ancor di più in termini pratici. Certo molte congregazioni, parrocchie e associazioni sono già nostre clienti, ma se tutto l’universo degli istituti diocesani o degli ambienti vicini alla Chiesa seguisse lo stesso percorso di sostenibilità, si tratterebbe certamente di una svolta. Come è già accaduto, del resto, in Francia, Germania, Gran Bretagna o Stati Uniti. Allo stesso modo, auspichiamo una scelta di responsabilità da parte dei fondi pensione, che costituiscono un driver molto importante per la finanza. settembre 2013 scarp de’ tenis

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ventun righe

di Mauro Meggiolaro analista finanziario – Il Fatto quotidiano

Finanza etica, votare col portafoglio A Berlino, nei bar o sulla metropolitana, compro spesso il giornale di strada motz, venduto dalle persone senza dimora. Costa 1,20 euro. 80 centesimi vanno al venditore, che in questo modo acquisisce una propria dignità senza essere costretto a chiedere l’elemosina. Iniziative come questa nelle varie città della Germania sono spesso finanziate da banche etiche. In tutta Europa le banche etiche danno ossigeno all’economia sociale, alla tutela dell’ambiente, alla cultura. È un primo ottimo motivo per affidare loro i nostri risparmi. Gli altri buoni motivi sono solo un corollario: la finanza etica non è beneficenza, ma un investimento che rende come e più della finanza tradizionale; si sottraggono risorse alla speculazione; si può risparmiare per la pensione investendo in imprese che si sforzano di migliorare l’ambiente in cui vivremo in futuro; si ha la possibilità di promuovere l’azionariato attivo e il microcredito. La crisi finanziaria ha inoltre dimostrato che in genere le banche etiche sono più sicure. Perché continuano a fare le banche, in modo tradizionale, raccogliendo risparmi e concedendo prestiti senza speculare su complessi titoli tossici. Ultimo motivo, non meno importante: la finanza etica ci stimola a interrogarci sull’uso del denaro e ci permette di votare con il portafoglio per il mondo che vogliamo.

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lo scaffale

Le dritte di Yamada Sul balcone della cucina dei miei, c’è il motore gigantesco del condizionatore installato alla fine degli anni Ottanta – un parallelepipedo di metallo color crema – che io ho sempre chiamato “il cassero”: mi Diritti umani: Nero viaggia trovo nel posto giusto per scrivervi del nostro libro del in Italia e scopre come va? le diversità mese. Che comprai subito, quando è uscito nel 2009. Ne avevo letto un pezzettino e poi era finito sperso I diritti umani Nero è un bimbo nella mia libreria fino a qualche settimana fa quando, e il ruolo delle africano: la sua cercando un titolo da proporre a mio nipote Pietro, queistituzioni che pelle è scura e lui sto piccolo libro mi è caduto in mano. Ne ho riletto li promuovono sono si chiede perché. al centro di questo Per avere una l’inizio: ma sì, era il libro per il mio scimmiottino d’oro. libro, pensato per risposta dovrà O forse no, perché andavo avanti, una riga poi un’alragazzi dai 16 anni affrontare un lungo tra, non mi fermavo: ero io che volevo/dovevo leggerlo. in poi. La libertà viaggio fino al La prefazione del libro fa scoprire che Tre Scene di associazione e saggio Albero da Moby Dick è il testo di una lettura teatrale andata di manifestazione; della vita. Lungo il la tutela delle cammino incontra in scena a Roma nel 2007 – in una sola serata e senza persone in carcere molti animali e pause – da un progetto di Alessandro Baricco (che ha e la tortura; tutti hanno tradotto le tre scene estrapolate, lette da Paolo Rossi, l’impunità; domande sul Stefano Benni e Clive Russell). Le scene s’intitolano Salla responsabilità proprio aspetto. pare, Il Doblone e L’Ultima Caccia. e il ruolo che ogni Perché la giraffa persona può ha il collo lungo? Seduta sul cassero del balcone, seguo Ishmael: ha svolgere nel Perché la balena la giovinezza con le sue promesse a scorrergli nelle vene debellare le non cammina? e vuole imbarcarsi, dar caccia alle balene e vedere la ingiustizie: sono Perché lo struzzo parte acquea del mondo. Sta camminando sulla bani temi di questo non vola? A tutti china del porto di Nantucket, e scruta le baleniere lavoro di Amnesty l’Albero della vita International. darà risposte... stazzate lì, in attesa di partire per lunghi viaggi. Trova I testi, poetici, ingaggio sul Pequod che gli sembra da subito una nave Amnesty sono ispirati segnata dalla malinconia, “il segno che accompagna International ai contenuti di tutte le cose nobili”. Nantucket era una comunità di Diritti umani e L’origine delle quaccheri e cacciatori di balene: i precetti religiosi applipolizia in Italia. specie di Charles Guida per Darwin. cati con ardore perizia e spericolatezza alla caccia, educatori e docenti avevano permesso ai suoi abitanti di avviare un business Infinito Edizioni Yeo-Ul Kang florido e condiviso (la sua gente investiva i soldi nelle pagine 96 L'albero della vita baleniere, come oggi noi con titoli e fondi). Lo scopo 12 euro Sironi editore della caccia era trattare il grasso delle carcasse per ricapagine 40 14,90 euro vare un olio combustibile che poi diventava luce. Cacciavano per avere la luce e fare le cose della vita. “Quel che è meraviglioso, mai riusciamo a raccontarlo”. Trascrivo questa frase – dedicata da Ishmael al timoniere Bulkington che fa salpare il Pequod verso il mare aperto – perché ho solo più briciole di spazio per dirvi che leggere il Moby Dick deve essere un’esperienza-impresa meravigliosa e complessa. Si ha l’impressione di trovarsi in mezzo a tanti stili diversi, a una continua forzatura dei limiti del romanzo e della scrittura, passando dall’enfasi enciclopedica alla poesia drammatica, dal monologo teatrale allo stile (tragi)comico. Per scoprire che l’ossessione di Melville, l’autore del Moby Dick, erano il suono e la forza della poesia drammatica shakespeariana: della tensione drammaturgica del Bardo era tessuta l’ispirazione devota di Melville. Tutto il Moby Dick, io, non l’ho ancora letto, ma queste tre scene così tradotte e introdotte da Baricco mi han dato la voglia di provarci, di andare all’imbarcadero della sua prima celebre frase, e mettermi – cheta cheta – in mare. «Stammi vicino, Starbuck, lasciami guardare negli occhi di un uomo: è meglio che guardare il mare, o il cielo». È Achab a dirlo e a tacerlo, un attimo dopo. Tre Scene da Moby Dick Fandango Libri – tradotte e commentate da Alessandro Baricco con Ilario Meandri

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Senza solidarietà siamo isole Un gruppo di bambini sul molo aspettano una storia e il cantastorie comincia a raccontare del giorno in cui i mari vollero separarsi... e di quando scomparve tutta l’acqua e si creò un immenso deserto. Per fortuna era solo una leggenda e il mare, bello e profondo, lo dimostrò. Ballata di parole, musica e colori per raccontare ai bambini cos’è l’egoismo e a cosa può portare la mancanza di solidarietà fra gli uomini. Gianmaria Testa Ventimila Leghe (in fondo al mare) Gallucci editore pagine 32 + Cd 16,50 euro


Pillole senza dimora

Miriguarda di Cristina Salviati

Vicenza: i luoghi degli homeless nascondono un tesoro. Da trovare

Iniziativa benefica o street marketing? Capita che nella quotidianità non vediamo più le persone che abbiamo intorno: il senza dimora che chiede spiccioli per mangiare, all’angolo della piazza, sta lì tutti i giorni e dopo un po’ diventa invisibile. Per renderlo visibile può essere utile un cambio di immagine. È quello che devono aver pensato Christopher Hope e Kenji Nakayama quando hanno dato vita a un progetto documentato sull’account Tumblr: Signs for the homeless. Cosa hanno fatto i due? Dopo aver intervistato alcune persone senza dimora nel Massachussetts, hanno offerto loro una donazione di 10 dollari e hanno proposto uno scambio. Le frasi grigie e sciatte scritte sui cartelli di cartone dei clochard sono state dipinte a mano su nuove insegne vivaci e colorate, con l’intento di attrarre in modo più efficace l’attenzione dei passanti. L’intento (dichiarato) è stato sensibilizzare le persone sulle condizioni dei senzatetto. L’iniziativa però ha ricevuto anche aspre critiche: qualcuno ha osservato che i due si sono fatti pubblicità sfruttando la condizione dei senza dimora.

Domenica 29 settembre la città di Vicenza si animerà per un’agguerrita caccia al tesoro “nei luoghi dei senza dimora”: partenza alle ore 15 da piazza dei Signori, salotto di città. Le squadre saranno composte da chiunque voglia partecipare, giovani, adulti, anziani e ragazzi. A lanciare la sfida è la struttura comunale “Albergo cittadino”, con la complicità di tutti i centri che si prendono cura degli homeless: Mezzanino, San Faustino, Casa Santa Lucia, Casa San Martino, Stazione dei treni, panchine varie e, naturalmente, Scarp de’ tenis. Il nostro mensile, infatti, sarà determinante per riuscire a risolvere i quiz e gli indovinelli del gioco. La caccia al tesoro è pensata dalla cooperativa Cosep per dialogare con la città in maniera giocosa e allegra, e nello stesso tempo per far conoscere la realtà di persone troppo spesso invisibili agli occhi dei cittadini. INFO cacciailuoghisenzadimora@yahoo.it - cell. 3471240552.

Milano

Il topino migrante fa ballare i piccoli nel settembre di Mito Mito, il festival internazionale di musica, in programma con più di duecento appuntamenti fino al 21 settembre sull’asse Milano-Torino, farà ballare anche i bambini, sulle note di una tango-fiaba. “Il Tango e il topo” è la storia di un piccolo topino lavoratore che è partito dal porto di Genova per arrivare in Argentina e cambiare in meglio la sua vita. Ma la notte dell’arrivo non riesce a prendere sonno, eppure ha fatto tanta strada per arrivare lì... La fiaba è prodotta da Musicamorfosi, e farà danzare bambini e ragazzi tra Italia e Argentina il 21 settembre, al teatro Martinitt, ore 17. INFO www.mitosettembremusica.it

Milano

La fotografia cattura l’identità profonda della metropoli

Milano Città Aperta - Journal of Urban Photography è la prima rivista on line di fotografia dedicata a Milano. Un progetto complesso e articolato, per raccontare il capoluogo lombardo, per cambiarlo, per ascoltarlo, per amarlo. Tanti fotografi, la maggior parte giovani, collaborano al progetto partecipato. Milano Città Aperta accoglie i reportage sulla città, corredati

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da brevi testi: tutti possono inviare ma non è detto che il giudizio sia positivo e venga pubblicato. Un luogo dove la passione per la fotografia si coniuga spesso con un’intenzione e uno sguardo “sociali”, attenti ai margini, ai luoghi e alle manifestazioni del disagio, ma anche alle energie per superare il degrado. L’iniziativa è nobilitata da una missione ardua ma possibile: raccontare l’identità di Milano oggi e consegnarla al futuro, senza dimenticare la storia che l’ha percorsa. INFO www.miciap.com

Milano

Le tombe paleocristiane della Milano imperiale aperte al pubblico In autunno apre un nuovo percorso archeologico, ideato per valorizzare le sepolture paleocristiane che sono sotto l’antica basilica di Sant’Eustorgio, cuore antico della Milano cristiana. L’apertura al pubblico di questa importante testimonianza della Milano imperiale costituisce la prima tappa del progetto Milano Archeologica per Expo 2015: percorso che renderà fruibili trenta siti del patrimonio archeologico di Milano. A dispetto delle trasformazioni urbanistiche che nei secoli hanno mutato la fisionomia della città, tracce dell’urbe romana sopravvivono nel tessuto edilizio: testimonianze superstiti di monumenti pubblici e privati,


caleidoscopio realizzati tra la seconda metà del primo secolo avanti Cristo e l’età tardoantica, in cui Milano fu sede della corte imperiale. Il progetto si propone di favorire la conoscenza e la conservazione delle realtà archeologiche presenti nelle aree del centro storico, mediante azioni di manutenzione, promozione, comunicazione, attraverso un

sistema a rete che ne incrementi la conoscenza. Tra le sepolture recuperate e rese accessibili, anche alcune interessanti manifestazioni del cristianesimo delle origini. A cominciare dal complesso monumentale di epoca tardo-antica di Sant’Eustorgio, dove secondo la tradizione si riuniva (ed è stata sepolta) la comunità dei primi cristiani.

Bergamo

Festival della scienza, focus sui paradossi dell’alimentazione Dal 4 al 20 ottobre si svolgerà

l’11ª edizione di BergamoScienza. La rassegna di divulgazione scientifica propone conferenze, spettacoli, concerti, laboratori, mostre, open day e incontri con premi Nobel, scienziati di fama internazionale e ricercatori: per adulti e bambini. Gli eventi sono aperti e gratuiti. L’obiettivo della manifestazione resta avvicinare il grande pubblico alla scienza. Il tema di quest’anno riguarda l’alimentazione: “Nutriamoci di scienza”. In occasione di questa giornata l’ong Cesvi ha organizzato un incontro dal titolo: “I paradossi della fame: è possibile l’accesso a un cibo adeguato per tutti?”. Secondo il Barilla Center for Food and Nutrition, siamo di fronte a un paradosso: i bambini obesi superano a livello globale quelli sottopeso, con un totale di 155 milioni contro 148 milioni. Senza contare che il nostro stile di vita è sempre meno sostenibile, a causa dello sfruttamento delle risorse naturali (terra, acqua ed energia) e di pratiche agricole che portano al degrado del suolo, nonché all’eccesso e spreco di cibo, con 222 milioni di tonnellate di alimenti buttati nei paesi ricchi: una cifra pari all’intera produzione alimentare dell’Africa subsahariana, circa 230 milioni di tonnellate (secondo i dati Fao): il festival affronterà questi paradossi. INFO www.bergamoscienza.it

On Nasce un movimento di cittadini che dicono basta alle slot machine La moda del flash mob rivista e adattata al servizio della battaglia

contro le slot machine: l’associazione “Next. Verso una nuova economia”, lancia il primo “slot mob”: a Biella il 27 settembre e a Milano il 28 settembre, gli aderenti all’iniziativa si troveranno per una colazione nei bar che hanno scelto di non avere le macchinette rovina-famiglie (le slot machine, appunto). È un modo concreto per dare consistenza al movimento che vuole sostenere i bar virtuosi (dire no agli introiti sicuri delle slot è una scelta coraggiosa e controcorrente) e riaffermare la dannosità del gioco d’azzardo, incluso quello “sponsorizzato” dallo stato. INFO www.nexteconomia.org/slots-mob

Off Giocattoli e indumenti tossici, salute dei bambini a rischio Solo nei primi sei mesi del 2013 sono state bloccate dai Nas dei carabinieri 848 mila merci fuori regola, con sostanze chimiche rischiose soprattutto per i bambini: moltissimi i giocattoli e i vestiti per bambini sequestrati, perché risultati realizzati con sostenze chimiche altamente tossiche. Certamente sono aumentati i controlli del Nucleo antisofisticazioni rispetto agli anni passati, ma non c’è dubbio che alimenti e sostanze nocive alla salute aumentano anno dopo anno, almeno tendenzialmente, nel nostro paese.

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quattro domande a... Marco Pontecorvo di Danilo Angelelli

«L’oro di Scampia, combattimento che genera valori» «Un film appassionante e pieno di umanità, come il posto che ci ospita». Twittava così Giuseppe Fiorello qualche mese fa mentre girava il film L’oro di Scampia, a breve in onda su Raiuno. Si tratta di una delle prime produzioni del nuovo corso della fiction italiana, decisa a proporre un paese che si riconosce in valori condivisi. Non a caso dietro la macchina da presa del film ispirato alla storia di Gianni Maddaloni, che con la sua palestra toglie i ragazzi alla strada e alla camorra, e del figlio Pino, judoka medaglia d’oro alle Olimpiadi del 2000, c’è Marco Pontecorvo, 47enne regista e direttore della fotografia, figlio di Gillo, che dal padre, grande Scuola di Judo, scuola di vita autore scomparso qualche anno fa, ha ereditato la I protagonisti di L’oro passione per il cinema e i temi di impegno civile. di Scampia: a sinistra, padre Dopo i ragazzi di strada di Bucarest che Miloud e figlio Capuano (ovvero Oukili aiuta nel film Pa-ra-da, Pontecorvo racconta i Maddaloni) esultano dopo ragazzi della palestra di Maddaloni (nel film Enzo la vittoria olimpica; in alto Capuano coi ragazzi della Capuano, interpretato da Fiorello) a Scampia, palestra; sotto, attore periferia problematica di Napoli. protagonista (Beppe Fiorello) Da Miloud a Maddaloni. Figure reali, che danno e regista (Marco Pontecorvo) speranza ai giovani... Sicuramente due figure non troppo lontane tra loro. Certo, le situazioni non sono paragonabili: i minori di Bucarest vivono un disagio enorme, ma la difficoltà di chi vuole fare qualcosa a Scampia è aggravata dal fatto che lì i ragazzi, spacciando, hanno la possibilità di avere soldi in tasca, quindi è difficile dare loro una motivazione. Nel film a un certo punto un ragazzo dice al maestro: «Con gli altri prendevo un pacco di soldi». E il maestro: «Ma qui ti puoi guardare allo specchio». «Non è molto». «Invece sì, lo capirai più in là». Maddaloni è riuscito a creare un centro di aggregazione che si oppone a sale giochi e bar. E a trasmettere valori. Conosciamo Scampia da immagini e parole dei media, quasi sempre negative. Nel film emerge anche il buono di quel quartiere? Non è accettabile l’equazione Scampia uguale camorra. Quella c’è, ed è un’industria. Ma nel quartiere vivono tante persone oneste, che sanno cos’è l’accoglienza. E comunque adesso le cose a Scampia sono migliorate: lo stato è più presente rispetto agli anni in cui la fiction è ambientata, cioè il 1999-2000. Come ha scelto di descrivere Maddaloni-Capuano? In un film destinato a una rete generalista si corre sempre il rischio di costruire personaggi semplificati... Il personaggio lo abbiamo mosso, ha i suoi difetti. Infatti Capuano è un po’ accecato dalla meta che vuole far raggiungere al figlio. Attraverso il ragazzo intende dimostrare che si può arrivare ovunque anche partendo da Scampia. Pur volendogli bene lo tratta quasi come un oggetto, però poi si rende conto dell’errore e il rapporto migliora. Il film documenta questo percorso. Il judo diventa una metafora perché nel judo si sfrutta la forza dell’altro a scopo di autodifesa; è un’arte marziale nata non per attaccare. E la vita dev’essere una sorta di combattimento leale. Cosa resta a Marco Pontecorvo di questo incontro con Scampia e la sua gente? I ragazzi del film li abbiamo cercati nelle palestre della periferia di Napoli: era necessario che conoscessero il judo, ma anche quella realtà. Con alcuni siamo rimasti in contatto. Anche con il poliziotto che ci ha fatto da guida i primi giorni, quando ho cercato di vedere, annusare, capire, perché volevo rappresentare le cose così come sono. Restano dunque le relazioni e la bellezza di aver conosciuto un posto, come ha scritto Giuseppe Fiorello, pieno di umanità.

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caleidoscopio Genova

Ricette d’Alex

Luzzati orrorifico e Pazienza visionario: il disegno si fa dark Fino al 13 ottobre si può vedere la mostra di Emanuele Luzzati al museo cittadino omonimo. Di Luzzati si conoscono soprattutto i colori e la fantasia che ha trasmesso nelle illustrazioni per i libri e nei film d’animazione destinati ai bambini. Ma la sua creatività contemplava anche un lato oscuro, a tratti orrorifico, comunque affascinante. Questi ultimi lavori sono in mostra al museo Luzzati: manifesti, bozzetti per scenografie, illustrazioni, un patrimonio che non ha niente da invidiare al ricco immaginario di Tim Burton. L’altro artista che si può ammirare al museo Luzzati fino al 7 ottobre è Andrea Pazienza. Il mondo satirico delle serie Pentotal, Zanardi, Pompeo e Pert e tanti altre tavole sono un’occasione per guardare la nostra storia recente con gli occhi di un artista visionario e sensibile, scomparso prematuramente a 32 anni. INFO www.museoluzzati.it

Scuola

I libri costano troppo? Possibile donarli a chi ha bisogno L’iniziativa nasce dall’associazione “Ci siamo anche noi”, fondata nel 2004 da un gruppo di donne per aiutare concretamente le famiglie con disagio economico, in particolare quelle colpite dalla disoccupazione e con figli in età scolastica. Il costo dei libri, per questi

Carpaccio di polipo Alex, chef internazionale, ha lavorato in ristoranti apprendendo l’arte della cucina nell’albergo di famiglia, a Rovigo. Oggi – i casi della vita... – vende Scarp.

nuclei fragili, è tutt’altro che indolore e l’associazione di Pavia ha lanciato il progetto “Questo libro è di... un amico che ne ha bisogno”. Si cercano libri e materiale scolastico da donare. INFO cisiamo-anchenoi@libero.it

Concorso

Narrativa “SpelUnder”: racconti per avvicinare i ragazzi al sottosuolo La Società speleologica italiana ha indetto un concorso letterario di narrativa per ragazzi aperto a tutti: si intitola SpelUnder. Non alla luce del sole il concorso che si ripromette di far nascere nei ragazzi la curiosità nei confronti del mondo sotterraneo (grotte e universi ipogei), un mondo che via via rischia di perdere adepti. I racconti di narrativa (o racconti illustrati) devono essere destinati a

Piatto per quattro porzioni. In una pentola bollite circa un chilo di polipi grossi, mezzo limone, due foglioline di alloro, sale. Cuoceteli bene. Per accelerare la cottura e rendere più morbidi i polipi, aggiungete nella pentola un tappo di sughero. A cottura ultimata, scolateli e riponeteli in un recipiente quadrato che possa contenerli a strati; posateci sopra un peso, in modo da compattare il tutto. Poneteli in frigo per 24 ore. Con questa procedura l’indomani potranno essere affettati molto facilmente. Coprite i piatti con il polipo affettato, aggiungete rucola, pomodoro ciliegino, sedano bianco e succo di limone. Salate con moderazione.

bambini e ragazzi non oltre i 12 anni. Manca infatti una letteratura di divulgazione scientifica e di intrattenimento rivolta ai ragazzi, che non conoscono affatto gli ambienti sotterranei e le loro peculiarità. I lavori devono pervenire entro il 30 settembre. INFO www.ssi.speleo.it

pagine a cura di Daniela Palumbo per segnalazioni dpalumbo@coopoltre.it

Tarchiato Tappo - Il sollevatore di pesi

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street of america La fortuna dal gratta e vinci: la dirotta su altri senza dimora come lui

Dennis resta in tenda, con la vincita farà beneficenza di Damiano Beltrami da New York

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Una vincita da 50 mila dollari Dennis Mahurin (nella foto) vive in una tenda in un bosco nei dintorni di Bloomington, Illinois, dal lontano 1978. Con un gratta e vinci ha vinto 50 mila dollari: visiterà il figlio, andrà dal dentista, aprirà un piccolo conto in banca. Tutto il resto, per aiutare altri homeless

UANDO DENNIS MAHURIN, RIMASTO SENZA DIMORA, decise di andare a vivere nei boschi intorno a Bloomington, in Illinois, il presidente degli Stati Uniti era Jimmy Carter. In radio spopolavano We Are the Champions dei Queen e Stayin’ Alive dei Bee Gees. Era il 1978. Per oltre vent’anni, Dennis ha abitato sotto le stelle, in una rabberciata tenda da campeggio circondata da fili per stendere la biancheria, pentole e padelle scrostate. Svolgendo lavori saltuari, tirando a campare, in bilico tra indipendenza e indigenza. Recentemente gli è capitata la fortuna della vita. Ha comprato un gratta e vinci in una stazione di servizio vicina al suo bosco, e con sua enorme sorpresa ha pescato il jolly. Prima pensava che si trattasse di mille dollari (750 euro). Poi l’impiegata della ricevitoria gli ha dato una notizia ancora migliore. La vincita non era di mille, bensì di 50 mila dollari (38 mila euro). Ecco, si direbbe, la sorte per una volta non è stata cieca, ci ha visto bene. Quel gruzzolo è andato a una persona che di quel denaro ha veramente bisogno. Con i 50 mila verdoni, che una volta detratte le tasse si riducono a 35 mila, Mahurin può buttare via la tenda malconcia e affittarsi un appartamentino con porte e finestre, e dormire su un vero materasso, con un vero tetto sopra la testa. Dennis, che dopo la vincita è divenuto una sorta di celebrità locale, ha però deciso diversamente. Ha deciso di restare dov’è, nella sua tenda blu rattoppata. Ha deciso di restare a vivere sotto le stelle. E quei soldi? Ne vuole devolvere gran parte in beneficienza. A persone senza dimora che stanno peggio di lui. «C’è tanta gente qui che non ha una casa e vive al limite, ci sono tante persone che conosco e hanno bisogno d’aiuto – ha detto alla stampa locale, fiondatasi nel bosco per raccogliere la sua reazione alla vincita –. Darò loro questo denaro, forse lo troveranno utile». Dennis Mahurin conta anche di investire qualche quattrino per far visita al figlio che abita nella parte settentrionale dell’Illinois. Vuole fare un salto dal dentista per mettere un po’ a posto la dentatura e sta valutando di aprire un conticino in banca, che non ha più da anni. Chi conosce questo nomade benefattore dice che si tratta di un gentiluomo, una persona per bene. «È un bravo ragazzo, ha uno straordinario senso dell’umorismo ed è dolcissimo – dice per esempio Emmarie Cross, dipendente della stazione di servizio dove Mahurin ha acquistato il biglietto fortunato –. A volte mi preoccupo per lui, vive completamente solo. Lo vediamo spesso qui, passa anche tre, quattro volte al giorno per fare due parole». Se centrare il jackpot a volte può costituire una maledizione, vincitori come Mahurin dimostrano come tanta grana tutta insieme possa benissimo non dare alla testa. Alla domanda di un reporter che insistentemente gli chiedeva se avesse voglia di concedersi qualche lusso, ora che se lo può permettere, Dennis è scoppiato in una fragorosa risata: «Io vivo in tenda, non potrei essere più felice. Vivo qui, nella natura».

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la gente di Jannacci

Giovanni Telegrafista Ellittico da buon telegrafista tagliando fiori, preposizioni per accorciar parole, per essere più breve nella necessità, nella necessità. Conobbe Alba, un’Alba poco alba neppure mattiniera, anzi mulatta che un giorno fuggì, unico giorno in cui fu mattutina per andare abitare città grande piena luci gioielli

di Fabiano Ambu

Giovanni Telegrafista (1968)

«Il testo italiano è mio, ma in verità è una traduzione di una bella poesia di Cassiano Riccardo, che ricorda un poco le poesie del nostro Palazzeschi e in genere il futurismo italiano nel suo stile telegrafico, nel caso specifico molto adatto all’argomento.» (Ruggero Jacobbi) (canzone inserita nell’album “Vengo anch’io. No, tu no” (1968), anche lato b del 45 giri “Vengo anch’io”)


Acli. Un mondo di servizi. Una rete di solidarietĂ . Le imprese sociali e il sistema dei servizi permettono alle Acli di incrociare, in un paese in continua trasformazione, bisogni e fragilitĂ fornendo risposte concrete.

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