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numero 179 anno 18 marzo 2014

300€

Spedizione in abbonamento postale 45% articolo 2, comma 20/B, legge 662/96, Milano

il mensile della strada

de’tenis www.scarpdetenis.it

ventuno Vacanze in paradiso (fiscale)

Baby-azzardo Figli delle macchinette Si illudono di esercitare le loro abilità. In realtà entrano in un tunnel: centinaia di migliaia di minori italiani “giocatori problematici”

Milano Il tempo prezioso Como Alternativa su misura Torino Sosta e Merenda Genova Aggrediti, resteremo Verona Vendite e fede Vicenza La Praga di Honza Rimini Reagire si può Firenze Impoveriti in centro Napoli Non li scorderemo Salerno Accettato, dirompente Catania Relazione o dipendenza?


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L’ETICA HA MESSO RADICI FORTI NON MANDARE IN FUMO

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editoriali

Smaltire uomini è peccato. Da cinquant’anni Paolo Brivio

I

nutile dividersi in difensori o accusatori. Perché l’attualità, patina superficiale del flusso profondo che si suole definire vita, inanella indifferente cronache di vittime e carnefici. Sgomenta registrare che nel salotto di città della civile Genova si aggirino canaglie che brutalizzano a bastonate, senza un perché, o in nome di un meschino perché xenofobo, persone senza dimora colpevoli di trovarsi a dormire nel posto sbagliato, la notte sbagliata. E per contrasto intristisce apprendere dell’homeless algerino che brandisce l’ascia contro un compagno di giorni e notti all’adiaccio, alla centrale stazione di Milano, o del “collega” indiano che, nella notte romana rotta da una musica a volume elevato, uccide con un cacciavite, al culmine di una rissa, il proprietario della rumorosa autoradio. Roberto Davanzo Non è dunque necessario risalire troppo indietro, nella compulsaziodirettore Caritas Ambrosiana ne delle cronache, per gonfiare la scia dell’orrore: sono episodi accaduti tutti tra gennaio e febbraio. Non è necessario perché l’attualità è coazione a ripetere, sinché non cambieranno le condizioni che la generaon passa giorno senza che la cronaca ci no, il truce minuetto della violenza di strada: oggi a subire sono i fracostringa a fare i conti con vicende ben gili che la abitano, i disperati che domani restituiranno l’offesa. poco edificanti che vedono coinvolti gli Invece delle cronache, dovremmo insomma interrogare la vita, adolescenti nel loro rapporto con il web, la rete, i il moto storico sotteso. E le strutture economiche, sociali, relaziosocial network... in una parola il sempre più pernali e psicologiche (o psichiatriche) in cui si organizza, nell’oggi vasivo mondo virtuale, tanto indispensabile e predelle nostre città: perché lasci – dovremmo chiederle – che dezioso, quanto insidioso e pericoloso. cine di migliaia di sventurati, in Italia, debbano adagiarsi ogni Già, perchè il binomio adolescenti-web si declinotte tra cartoni che non riparano dalle canaglie, né insena in innumerevoli campi minati: da quello che li gnano l’arte della gentilezza verso il prossimo? conduce sulle soglie del giocare d’azzardo a quello coChissà la vita, se avesse un ufficio stampa, che replica stellato da ambigui rapporti con adulti alla ricerca di avarticolerebbe. Intanto, prima di scivolare nella metafisica venture sessuali, a quello fatto di relazioni tra pari tanto (l’eterno attivismo del male, o giù di lì), potremmo azzarbanali e brutali da spingere alcuni a gesti disperati di viodarla noi – uomini e coscienze, soggetti sociali e istituziolenza, se non addirittura di suicidio. nali di un tempo che non cessa di produrre esistenze di La preoccupazione è grande: è praticamente impossiscarto, violentate e violente – una risposta che non ci asbile un’azione di contrasto rispetto all’accesso a un monsolva troppo presto, né troppo a buon prezzo. Perché ci do raggiungibile attraverso un qualsiasi smartphone; ma scandalizziamo. Ma meglio faremmo a indagare le dinadobbiamo essere preoccupati anche per l’impreparazione di molti genitori a fronteggiare sfide che non hanno attramiche che generano emarginazione. Le politiche inette a versato nei loro anni di adolescenza e che oggi, da adulprevenirla. Le prassi assistenziali inefficaci a superarla. Gli ti, sono ben lontani dal riuscire anche solo a comprenequilibri di bilancio che impongono di ignorarla. La voglia che dere. Che adulti saranno questi adolescenti così dipenabbiamo tutti un po’, di voltare lo sguardo altrove. Finché ci denti dal web? Quali saranno le loro fragilità rispetto alscappano lo sprangato o l’ammazzato. E allora ognuno a stula droga del gioco online? Come impareranno a far pirsi che la marginalità faccia rima con crudeltà. Patita, inflitfronte agli insulti che i cyberbulli diffondono nella reta, covata a ogni passo, lungo i vialoni dell’insicurezza urbana. te contro la vittima sacrificale designata? Quale geneUno di quei vialoni lo percorse, esattamente 50 anni fa (darazione di emarginati potenziali stiamo coltivando nel ta di pubblicazione: 12 marzo 1964), l’opera d’arte in musica seno delle nostre città moderne dalla banda larga? che dà il nome a questo giornale. Andate a rileggervi come fiQuestioni sempre nuove si affacciano all’orizzonnisce, la canzonetta del barbun in scarp del tennis, il cui ritornello te di quanti vogliono prevenire future situazioni di si fischietta allegro. Finisce con una morte. Non cruenta. Ma è emarginazione. E in modo rinnovato ci troviamo a risolo un dettaglio. Messaggi di pietà e giustizia come quello canconoscere il carattere indispensabile di relazioni belle tato da Jannacci non ci hanno insegnato che smaltire uomini e autentiche, capaci di distogliere da sirene ed evasioni è peccato. Finché non lo capiremo, agendo per riscattarci, tanto suadenti quanto dannose che si aggirano anche dovremo continuare a fingere scandalo di fronte a marnel mondo del web, anche per i nostri adolescenti. ciapiedi insanguinati.

Evasioni pericolose

N

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sommario Scarp Italia

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Fotoreportage Umani. A Milano p.8

L’inchiesta

Cos’è È un giornale di strada non profit. È un’impresa sociale che vuole dar voce e opportunità di reinserimento a persone senza dimora o emarginate. È un’occasione di lavoro e un progetto di comunicazione. È il primo passo per recuperare la dignità. In vendita agli inizi del mese. Scarp de’ tenis è una tribuna per i pensieri e i racconti di chi vive sulla strada. È uno strumento di analisi delle questioni sociali e dei fenomeni di povertà. Nella prima parte, articoli e storie di portata nazionale. Nella sezione Scarp città, spazio alle redazioni locali. Ventuno si occupa di economia solidale, stili di vita e globalizzazione. Infine, Caleidoscopio: vetrina di appuntamenti, recensioni e rubriche... di strada! Vendere il giornale significa lavorare, non fare accattonaggio. Il venditore trattiene una quota sul prezzo di copertina. Contributi e ritenute fiscali li prende in carico l’editore. Quanto resta è destinato a progetti di solidarietà.

Redazione torino associazione Opportunanda via Sant’Anselmo 21, tel. 011.65.07.306 opportunanda@interfree.it Redazione Genova Fondazione Auxilium, via Bozzano 12, tel. 010.52.99.528/544 comunicazione@fondazioneauxilium.it

Il viaggio Testimoni I figli degli sbarchi chiamano Alessandra p.28

L’intervista Domenico Quirico: professione commozione p.32

Scarp città Milano

Dove vanno i vostri 3 euro

Redazione centrale - milano cooperativa Oltre, via degli Olivetani 3, tel. 02.67.47.90.17 fax 02.67.38.91.12 scarp@coopoltre.it

L’approfondimento Homeless: “Prima la casa”. Anche in Italia p.18 Londra: accoglienza formato St. Mungo’s p.18

Come leggerci

Per contattarci e chiedere di vendere

Baby-azzardo: i ragazzi della macchinetta p.12

Chiara la pazza e il tempo prezioso p.34

Torino Sosta e Merenda, il tavolo fa progetti p.38

Genova Musica a Lagaccio, altitudine dei Sud p.40

Verona Cammino di vendite e di fede p.42

Vicenza I libri e il muro, la Praga di Honza p.44

Rimini L’azzardo, un guaio. Ma reagire si può p.46

Firenze Impoveriti in pieno centro p.48

Napoli

Redazione Vicenza Caritas Vicenza, Contrà Torretti 38, tel. 0444.304986 - vicenza@scarpdetenis.net

Impossibili da dimenticare p.50

Redazione rimini Settimanale Il Ponte, via Cairoli 69, tel 0541.780666 - rimini@scarpdetenis.net

Accettato, ma dirompente p.52

Redazione Firenze Caritas Firenze, via De Pucci 2, tel.055.267701 scarp@caritasfirenze.it Redazione napoli cooperativa sociale La Locomotiva largo Donnaregina 12, tel. 081.44.15.07 scarp@lalocomotivaonlus.org Redazione Catania Help center Caritas Catania piazza Giovanni XXIII, tel. 095.434495 redazione@telestrada.it

Salerno Catania Il gioco è relazione non dipendenza... p.54

Scarp ventuno Dossier Vacanze in paradiso (fiscale) p.58

Economia Business diete, ma la salute? p.62

Caleidoscopio Rubriche e notizie in breve p.67

Un anno di Scarp La carica delle 100 pettorine rosse: siamo in crescita! p.73

scarp de’ tenis Il mensile della strada Da un’idea di Pietro Greppi e da un paio di scarpe - anno 18 n. 179 marzo 2014 costo di una copia: 3 euro

Per abbonarsi a un anno di Scarp: versamento di 30 € c/c postale 37696200 (causale AbbonAmEnto SCArP DE’ tEnIS) Redazione di strada e giornalistica via degli Olivetani 3, 20123 Milano (lunedì-giovedì 8-12.30 e 14-16.30, venerdì 8-12.30), tel. 02.67.47.90.17, fax 02.67.38.91.12 Direttore responsabile Paolo Brivio Redazione Stefano Lampertico, Ettore Sutti, Francesco Chiavarini Segretaria di redazione Sabrina Montanarella Responsabile commerciale Max Montecorboli Redazione di strada Antonio Mininni, Lorenzo De Angelis, Roberto Guaglianone, Alessandro Pezzoni Sito web Roberto Monevi Foto di copertina Massimo Fiorillo Foto Archivio Scarp, Stefano Merlini, Disegni Luigi Zetti, Elio, Silva Nesi Progetto grafico Francesco Camagna e Simona Corvaia Editore Oltre Soc. Coop., via S. Bernardino 4, 20122 Milano Presidente Luciano Gualzetti Registrazione Tribunale di Milano n. 177 del 16 marzo 1996 Stampa Tiber, via della Volta 179, 24124 Brescia. Consentita la riproduzione di testi, foto e grafici citando la fonte e inviandoci copia. Questo numero è in vendita dal 7 marzo al 4 aprile 2014


Umani. A Milano Una ragazza che fa le bolle di sapone. Un signore in pantaloncini e maglietta a maniche corte nonostante le temperature di gennaio. Un uomo che mangia pasta aglio, olio e peperoncino in pausa pranzo. Una signora ucraina con una macchina rossa. Un fiorista cingalese e una anziana vestita elegante, appena uscita dal centro sociale. Loro e molte altre persone comuni sono i protagonisti del progetto fotografico “Umani a Milano”, ideato dallo scrittore e autore radiofonico Stefano D’Andrea, in collaborazione con Andrea Tilaro. Ispiratosi a “Humans of News York”, idea lanciata tre anni fa dal fotografo newyorkese Brandon Stanton e replicata in diverse città del mondo, l’autore tutti i giorni gira la città in cui vive, Milano, alla ricerca di persone da fotografare, per poi postarle su Facebook e Tumblr, dove ricevono ogni giorno moltissimi apprezzamenti dal popolo della rete. Un progetto fotografico e sociologico allo stesso tempo, che raccolta sui social network con immagini e (poche) parole le persone che ogni giorno vivono e lavorano a Milano, con la loro umanità e semplicità. Un’idea che sta riscuotendo sempre più successo. Da aprile a oggi sono stati oltre 280 gli “umani” fotografati... 6. scarp de’ tenis marzo 2014

Stefano D’Andrea Classe 1967, ideatore e realizzatore del progetto “Umani a Milano” (con la collaborazione di Andrea Tilaro), è anche autore radiofonico: insieme a Matteo Caccia scrive il programma “Voi siete qui”, in onda ogni giorno alle 16 su Radio 24. Parallelamente continua la sua attività di web editor per Yahoo! Italia, di scrittore di biografie personalizzate e di blogger. Alcuni suoi racconti sono visibili sulla rivista on line “Torno Giovedì”. Ha vissuto la sua infanzia a Roma, per poi arrivare a Milano, dove si è diplomato. Si è laureato con Umberto Eco presso il Dams di Bologna. A Milano è stato educatore professionale: si è occupato di minori maltrattati, ed è stato poi chiamato dal sociologo Marino Livolsi a occuparsi di ricerca e insegnamento nell’area della sociologia dei processi culturali, all’Università Iulm.


fotoreportage

Rosa bianca dal centro sociale (In alto a sinistra) «Sto tornando dal Centro Sociale. Io canto in un coro. Sono elegante? Non lo so, io vesto sempre così» Bolle trasparenti su leggins multicolori (In alto a destra) «Faccio bolle di sapone. Lo so che è una cosa da estate, ma io faccio bolle di sapone» Petali di velo islamico (a fianco) Non mi ha dato il permesso di fotografarla, ma il suo copricapo era così splendido che le ho detto che l’avrei ripresa mentre si allontanava. Lei ha abbozzato un sorriso imbarazzato e luminoso marzo 2014 scarp de’ tenis

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Umani. A Milano Leggerini per essere inverno... «Vieni Milo, che ci voglio fare una foto per “Pazzi a Milano”, visto che andiamo vestiti così a metà gennaio e non ci chiedono nemmeno perché»

Fioraio monosillabico (Sotto a sinistra) «Possiamo farle una fotografia?». «Sì». «Le piace vendere fiori?». «Sì». «Già. Freddo, eh?». «Sì...». «Peggio il freddo o il caldo?». «Sì»

Attesa fai-da-te (Sotto a destra) «Non ci sono tante sale d’aspetto, ma per me non è un problema, ho una valigia rigida»

8. scarp de’ tenis marzo 2014


fotoreportage

Spaghetto per due «Aglio olio e peperoncino. Buonissimo ne vuoi metà?» «No, grazie mille». «Ci sono anche crostini di pane tostato. Dai, mi fai un favore io non posso mangiarlo tutto». «Ok allora, una forchettata...». «Bravo!»

Rivoluzionaria da lontano. In Smart «Ho una Smart rossa ma mi guadagno da vivere facendo le pulizie. Se mi manca l’Ucraina? Ci sono le mie figlie, e le figlie delle mie figlie. Certo mi manca, ci torno appena posso. Ma non ci vivrei più»

marzo 2014 scarp de’ tenis

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lla a solidarietà solidarietà h ha au una na c carta piÚ arta iin np iÚ Se paghi la tua spesa alla Coop con car ta Equa dai un contributo corrispondente all’1% del valore della spesa a un fondo gestito da Caritas Ambrosiana, che ser ve ad aiutare persone bisognose. Coop raddoppia il tuo contributo. 8Q JHVWR GL VROLGDULHWj VHPSOLFH PD HI ¿FDFH Richiedi carta Equa nei supermercati e ipermercati di Coop Lombardia

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anticamera Aforismi di Merafina NEL DESERTO Nel deserto l’unica cosa che mi fa compagnia è la mia ombra LA SIGNORA SOLITUDINE La Signora Solitudine è fonte di ansia e paura. Mi spoglio dei miei peccati e dico: “Solitudine, vattene!”

Le fate Dove sono le Fate? E come le troviamo? Se bene le cercate, non occorre andar lontano. Di notte dove vanno, dopo aver danzato? Lo sa sol l’usignolo che per loro ha cantato. Oppure è un gran segreto che nessuno può svelare? Ma no, in ogni giardino si possono trovare! Non c’è nessun bisogno di essere viaggiatori; le Fate stan nei luoghi dove sbocciano i fiori! Mary

Il sogno Quei fiori di pesco che volavano una dolcezza pari all’amore ondulavano con il vento caldo. E io mi sentivo uno di loro, candido, profumato e bianco. Volavo e volavano, quella brezza, quella dolcezza, come poter dimenticare un soffio di vita pur essendo un sogno.

Vi aspettiamo

Cinzia Rasi L’albergo Villa Rosella è situato nel cuore delle Dolomiti: è la casa ideale per trascorrere le vacanze immersi in un suggestivo panorama montano di rara bellezza, circondati da boschi, bagnati dalle acque del torrente Avisio e a 60 metri dalle Funivie del Ciampac, dove iniziano i famosi sentieri escursionistici per la Val Contrin, per la Marmolada e il suo lago Fedaia, il Pordoi e la comoda pista pedonale eciclabile che in 10 minuti di passeggiata collega il Centro di Canazei e lo Stadio del ghiaccio di Alba, escursioni con paesaggi incantevoli e naturalistici adatti per Adulti e Bambini L’albergo dispone di 25 camere, doppie/matrimoniali, singole, triple e quadruple, alcune in confortevoli mansarde e altre con balcone con vista panoramica, tutte provviste di bagno con doccia, telefono, TV Sat, cassaforte e asciugacapelli. Sono a disposizione degli ospiti: sala bar, sala lettura, ascensori ai piani, tavernetta con TV, cappella, parcheggio interno custodito, campo da bocce e vasto parco/giardino con giochi per bambini, ping pong, sdraio con ombrelloni e spiaggia privata sul fiume. L’ottima cucina è curata dallo chef gestore A. Leonetti, che è lieto di favorire famiglie, sacerdoti, gruppi parrocchiali, comitive e single. E’ predisposto per accogliere persone portatrici di handicap. L’Albergo è inoltre dotato di un Centro Wellness, con sauna finlandese, bagno turco al vapore, vasca idromassaggio, docce emozionali e zona relax. !

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BABY-AZZARDO I ragazzi della macchinetta Giocano, illusi di mettere alla prova le loro abilità. In realtà, si introducono in un tunnel che conduce a un solo esito possibile: si perde. E magari persino ci si ammala. Centinaia di migliaia di minori italiani vengono reputati “giocatori problematici”: l’allarme, e i primi percorsi per reagire

12. scarp de’ tenis marzo 2014

di Stefania Culurgioni Gli adulti giocano d’azzardo perché nel profondo cercano un riscatto. La vita è dura, ci sono difficoltà economiche, il lavoro non va bene, la situazione familiare traballa. E allora si punta sulla fortuna, «perché – pensa, o in qualche modo sente il giocatore, anche se ovviamente ciò non sta scritto da nessuna parte e non è dimostrabile in alcun modo– se tutto va male, almeno quella andrà meglio». I minori invece giocano perché fraintendono il significato di quello che stanno facendo: complice la pubblicità ingannevole con cui vengono presentati i giochi, pensano di mettere alla prova le loro abilità intellettive. Invece è solo caso, e di solito si finisce spennati. ca che ci sta dietro – spiega Maurizio Una cosa però è certa: secondo EuFiasco, sociologo e consulente per dirispes, qualcosa come 30 milioni di itaverse associazioni anti-usura italiane –, liani giocano d’azzardo. Tra essi, 2 micioè lo scambio di significati, la loro allioni sono a rischio e quasi 800 mila orterazione. Il gioco d’azzardo è un gioco mai patologici. Insomma, numeri da totalmente aleatorio, casuale, e invece epidemia sociale. L’ultima ricerca sul viene fatto passare ai minori come gioco d’azzardo è stata realizzata dall’Iqualcosa che dipende dalle loro abilità. stituto di fisiologia clinica del Consiglio Per i ragazzi, in pratica, diventa un’enazionale delle ricerche (Ifc-Cnr). Rivesperienza che può attribuire loro un’ila che quasi il 50% della popolazione dentità, uno statuto». presa come campione, tra i 15 e i 64 anLa legge in realtà parla chiaro: il gioni, ha giocato somme di denaro almeco d’azzardo ai minori è vietato, ma le no una volta nel corso degli ultimi doforme di controllo sono pressoché inedici mesi. Andando nello specifico, e sistenti, o comunque troppo difficili da prendendo soltanto la fascia di età dei mettere in atto, soprattutto perché orgiovani tra i 15 e i 24 anni, è emerso che mai la maggio parte del gioco d’azzaril 36% di loro ha fatto una giocata neldo si è spostata in rete. «In Italia ci sono l’ultimo anno: di questi, il 27% si possono considerare “giocatori sociali”, men450 mila slot machine – continua Mautre il 9% “giocatori problematici”. Porizio Fiasco – e 14 mila sono le sale detrebbe sembrare una percentuale basdicate al gioco. Poi ci sono i pubblici sa, in realtà corrisponde a 500 mila esercizi, che sono 70 mila, anch’essi con persone. macchinette da gioco, e poi c’è l’online. I controlli, se ci sono, certamente non sono sufficienti; anzi, quello che sta In verità si perde sempre esplodendo, è proprio il fenomeno del Si pone, quindi, un problema nuovo: le gioco in internet, per il quale i giovani ludopatie giovanili. Sebbene giochino non si propongono più da soli, ma si asmeno in generale, i giovani presentano sociano in gruppo, si organizzano». più frequentemente, rispetto agli adulAd essere più esposta, secondo lo ti, situazioni di gioco problematico. «Il studio del Cnr, è la popolazione maproblema è la manipolazione semanti-


l’inchiesta

Un paese diviso in due L’Italia comunque appare un paese diviso in due. Si gioca di più nelle regioni del centro-sud, dove il primato spetta alla Campania (57%), seguita da Calabria e poi Lazio, Sicilia, Puglia e Abruzzo. Le regioni dove invece si gioca meno sono quelle del nord: Emilia Romagna (41%), Trentino Alto Adige (42%), Liguria e Veneto (44%). C’è però una precisazione da fare: alta prevalenza di giocatori non equivale necessariamente a soggetti dipendenti dal gioco. Nelle regioni meridionali, anche se il gioco

d’azzardo è più diffuso, si registrano secondo l’indagine Ifc-Cnr quote inferiori di scommettitori con profilo a rischio. Dove invece si azzarda di meno, come in Friuli Venezia Giulia, la quota di gambler, ossia dei giocatori compulsivi, è assai più sostenuta (8%). Unica eccezione è il Molise, che manifesta la percentuale più alta di gambler (13%). Sempre in Molise, inoltre, si riscontra la maggioranza di giocatori che tiene nascosta l’attitudine e l’entità delle giocate ai propri familiari (12%). Lo stesso atteggiamento emerge anche in Sardegna (11%) e nelle Marche (10%), regioni che non mostrano in genere percentuali significative di giocatori. Ma quando si può dire che la passione per il gioco diventa una malattia? E che costo ha questa dipendenza per la società? Certamente, il fatto di avvertire una frequente preoccupazione per il gioco, di avercelo come pensiero fisso, è un primo campanello d’allarme. Se poi si giocano somme maggiori di quelle preventivate, gli elementi di attenzione sono due. Quando poi la frequenza

Numeri da paura 30 milioni

gli italiani che giocano d’azzardo (vlt, gratta&vinci, scommesse, giochi online)

630 mila

i minorenni che almeno una volta nel corso dell’ultimo anno hanno giocato d’azzardo

2 milioni

i giocatori a rischio ludopatia

800 mila

i ludopatici in Italia

450 mila

le slot machine in Italia FONTI: EURISPES, IFI, CNR, TELEFONO AZZURRO

schile, sia giovani sia adulti. In generale, il 10% dei giovani maschi giocatori rischia di sviluppare dipendenza da gioco d’azzardo, cioè cinque volte di più rispetto alle coetanee, anche se la popolazione femminile ha probabilità doppia di cadere nel gioco problematico rispetto agli uomini nella fascia tra i 25 e i 64 anni (di recente, per esempio, la pubblicità ha puntato molto sulle donne, spingendo su giochi come bingo, gratta e vinci, lotto, superenalotto).

26%

la percentuale di bambini tra i 7 e gli 11 anni che hanno giocato soldi online e offline

14 mila

le sale da gioco nel nostro paese

10%

le percentuale di giocatori maschi che rischia di sviluppare dipendenza da gioco d’azzardo

marzo 2014 scarp de’ tenis

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I ragazzi della macchinetta delle scommesse si fa maggiore, le perdite di denaro sono tante e determinano un gioco più compulsivo, l’allarme dovrebbe cominciare a scattare. Il livello diventa ancora più serio quando, per giocare, si sacrificano importanti attività sociali, ricreative, lavorative della propria vita. Come per ogni vera dipendenza, anche in questo caso a un certo punto il gioco sfugge di mano e diventa il motivo e la bussola di ogni scelta quotidiana.

Minori, danni irreparabili «Non so se si può contabilizzare questo danno – conclude il sociologo Fiasco –,

ma posso certamente dire che i costi sono tanti. Il primo danno riguarda il fatto che i ragazzi rischiano di vedere la loro quotidianità ruotare intorno all’ap-

puntamento con il gioco, e questo è il danno più vistoso. Ma la riflessione è anche un’altra: si brucia il periodo della massima disponibilità all’apprendimento, sia lavorativa che relazionale. L’adolescenza è il periodo più delicato, tumultuoso e fertile; certo è difficile contabilizzarne il danno in termini economici, ma se in Italia c’è un’alta percentuale di giovani che non studiano, non sono in formazione e non lavorano forse è proprio per via dello stato di letargia, del dirottamento dell’energia vitale tipica dell’età giovanile verso un tipo di impiego, il gioco d’azzardo, che è per certi aspetti sedativo».

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Le app, illusione e iniziazione Pochi i controlli, scarsa prevenzione: l’azzardo raggiunge i minori in tante maniere «Abbiamo incontrato genitori che non si erano accorti che il figlio aveva una dipendenza fino al giorno in cui, per caso, la madre ha aperto il cassetto degli ori e si è accorta che il ragazzo aveva rubato e venduto tutto quello che aveva trovato, perché aveva bisogno di soldi». Una storia che fa pensare agli anni bui del primo diffondersi delle tossicodipendenze, quelli in cui a rubare in casa erano i giovani a caccia di soldi per una dose. Ma in questo caso, al ragazzo, i soldi servivano per giocare al poker online. Sono sempre di più i casi di ragazzini come questo, raccontato da Simone Feder, psicologo della Casa del Giovane di Pavia, da oltre dieci anni in trincea contro le dipendenze da gioco d’azzardo. In Italia l’azzardo è per legge vietato ai minorenni, ma qualcosa evidentemente non funziona, se la realtà che spesso si osserva nei bar e nelle ricevitorie è ben diversa. «Ci sono tabaccai che non si fanno nessuno scrupolo a vendere gratta&vinci ai minori; osserviamo ragazzini palesemente minorenni che giocano alle slot machine dentro esercizi pubblici, e nessuno sembra accorgersi o almeno trovare strano quanto sta succedendo», commenta Daniela Capitanucci, fondatrice dell’associazione And (Azzardo e nuove dipendenze), che da anni si dedica all’educazione e alla prevenzione delle patologie da gioco d’azzardo nei minori. L’iniziazione al gioco spesso è una questione di famiglia. «Molti bambini passano il loro tempo al bar accanto genitori che giocano alle slot», certifica Capitanucci. «È comune vedere mamme e nonni che giocano alle macchinette con bimbi in braccio o accanto, nel passeggino. E mai nessuno che dica niente, che intervenga», le fa eco Feder, che è anche tra le voci più importanti del “Movimento No Slot”. Che il fenomeno dei ragazzini che

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giocano esista è evidente. Ma di quanti ragazzi stiamo parlando, è difficile dirlo con precisione. «Il vero problema è che in proposito vi sono ricerche frammentarie, spesso solo stime. Sembra che nessuno, a cominciare dalle istituzioni e dagli enti che dovrebbero essere preposti a farlo, voglia raccogliere davvero questi dati», denuncia Capitanucci.

Maschio giocatori più a rischio Ma a cosa “giocano” i ragazzi? Le ragazze preferiscono giochi istantanei come il gratta&vinci e il lotto istantaneo, i maschi scelgono il poker, soprattutto online, e le scommesse sportive. Si scommette al bar o in ricevitoria (secondo la ricerca Espad per il 52,5% circa degli studenti che hanno giocato nell’ultimo anno), seguiti dalla casa di amici (39,1%), dalle sale scommesse e internet (22,5%), il 4% utilizzando il cellulare. «Le scommesse sportive hanno sostituito il vecchio totocalcio – commenta Capitanucci dell’And –, ma a differenza di quest’ultimo, che non ha mai generato patologie di dipendenza, le scommesse espongono di più al rischio». Anche se le ricerche intercettano solo in parte il fenomeno, gli operatori rilevano in crescita esponenziale l’uso delle app sul cellulare. «Sono applicazioni gratuite che imitano le slot machine, non si giocano soldi e si vince molto: il contrario di quanto succede con le slot, in


l’inchiesta

I dati

Più di 600 mila minori si “giocano” il futuro Secondo lo studio Espad (ricerca europea, realizzata per l’Italia dal Cnr di Pisa, finalizzata a monitorare i consumi di sostanze psicoattive e i comportamenti a rischio nelle scuole) sono oltre un milione gli studenti delle superiori che nel 2012 riferiscono di aver giocato soldi, in pratica quasi uno ogni due, e di questi 630 mila sono minorenni. I più coinvolti nel vortice del gioco sono i maschi (il 55,1%, contro il 35,8% delle ragazze). Un quinto dei ragazzi ha dichiarato di aver giocato somme di denaro più di venti volte nel corso dell’anno. Circa il 74% ha scommesso in media meno di 10 euro al mese, il 20% da 11 a 50 euro e

cui invece si giocano soldi – spiega Daniele Albanese, della Caritas di Biella, tra gli organizzatori del movimento “No Slot” –. Hanno lo scopo di illudere che vincere sia facile, e iniziano alla dipendenza». Alla Casa del Giovane di Pavia hanno svolto un’indagine sugli studenti delle province di Milano, Pavia, Lodi e Sondrio, da cui è emerso una sorta di profilo del ragazzo a rischio di dipendenza: «Sono quelli che usano molto internet e con poca consapevolezza, che sui social network hanno molti cosiddetti amici che però non conoscono nella vita reale. Sono giovani che spesso sottostimano la pericolosità del gioco d'azzardo, che dicono “tanto smetto quando voglio” – spiega ancora Simone Feder –. Spesso c’è anche una correlazione con l’uso o l’abuso di sostanze, alcol e marijuana in

il 6% oltre 51 euro. «Sebbene la maggior parte rientri tra i giocatori moderati e senza profili di rischio – spiega Sabrina Molinaro, responsabile della ricerca –, 70 mila, circa il 7%, risultano problematici, mentre 100 mila studenti, circa il 12%, è a rischio di debito da gioco». Ma a preoccupare non sono solo gli adolescenti. Nel 2013 Telefono Azzurro e Eurispes hanno presentato un’indagine secondo cui l’8% e il 15,3% dei bambini tra i 7 e gli 11 anni gioca a soldi online e offline. Solo il 74,1% dichiara di non averlo mai fatto. Ancora più nere le stime del giornalista Daniele Poto, che ha curato per Libera – Associazioni contro le mafie il dossier “Azzardopoli 2.0”, che indaga soprattutto il ruolo della criminalità organizzata nel mercato del gioco d’azzardo: giocherebbero, secondo questo rapporto, due milioni di minorenni, a partire dagli 11 anni. Insomma, dati divergenti, ma con una certezza: anche in Italia accade ciò che diverse ricerche testimoniano accadere in tante parti del mondo, dal Nord America all’Australia, passando per vari paesi europei e la vicina Svizzera. Nel Ticino, secondo dati cantonali, i giocatori regolari minorenni sarebbero il 4% della popolazione 14-17 anni.

primis». Ciò che tutti segnalano come pericoloso e preoccupante è che il gioco sia un comportamento socialmente accettato, considerato normale, tollerato. A partire dalla famiglia.

I genitori spesso incoraggiano «Molti genitori danno delle piccole cifre ai propri figli che giocano on line, pensando che in questo modo se ne stanno in camera e sono al sicuro dai pericoli del mondo là fuori – racconta Feder –. Dopo tempo, però, capita che arrivino a chiedere aiuto a noi, perché hanno scoperto che al figlio quei 30 euro settimanali non bastavano più e ha fregato loro la carta di credito». «Oppure è il genitore ad acquistare un gratta&vinci per il figlio, per poi grattarlo insieme, pensando che sia una cosa carina», rincara la dose Daniela Capitanucci.

Anche tra gli stessi ragazzi, giocare d’azzardo è un comportamento considerato normale. «Eppure comportamenti a rischio ne vediamo – spiega Daniele Albanese, che con la Caritas di Biella entra nelle scuole per fare educazione su questo tema –. Uno di questi è non avere la percezione delle cifre giocate. Uno studente mi ha riferito orgoglioso di aver vinto 300 euro con una puntata a una slot: gli ho chiesto quanto avesse giocato in tutto. Ha saputo dirmi che quella volta aveva giocato solo pochi euro, ma non aveva idea di quanto avesse perso nel tempo. Non sapere la differenza tra le entrate e le uscite è uno dei primi comportamenti a rischio». La prevenzione è allora fondamentale, e sono tutti concordi nel dire che bisogna partire dall’educazione nelle scuole. È da percorsi come questi che sono nate iniziative interessanti, che portano proprio la firma dei giovanissimi. È il caso della canzone Azzardopati, un pezzo scritto da quattro ragazzi pavesi che, dopo aver seguito gli incontri con la Casa del Giovane, hanno raccontato nel loro rap la storia di Emilio, che alle macchinette ha perso tutto: non solo i soldi, ma da quando ha rubato alla figlia ha perso anche famiglia, amici, casa. In pratica, la vita...

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I ragazzi della macchinetta

Vinco se educo: perché al gioco si perde Si moltiplicano le iniziative per contrastare la diffusione dell’azzardo tra i minori. Il problema è che spesso le famiglie incoraggiano comportamenti a rischio

di Marta Zanella Il gioco d’azzardo sta diventando sempre più un’emergenza anche per i più giovani. Non a caso sono tantissime le iniziative nate per lottare contro l’azzardo “dal basso”. Chi lavora su questi temi da una decina d’anni è la Casa del Giovane di Pavia. «L’episodio che ci ha fatto muovere risale al 2004 – racconta Simone Feder, psicologo –, quando arrivò da noi un ragazzo di 15 anni che chiedeva aiuto per il padre. L’uomo era divorziato dalla moglie e Fabio abitava con lui, ma da qualche mese il padre viveva solo per giocare d’azzardo e il ragazzo non riusciva più a distrarlo da quell’attività. Si stava mangiando tutti i soldi e Fabio, che provava a gestire il conto per entrambi, non riusciva più a controllare la situazione. Con quel caso abbiamo iniziato a renderci conto che c’era qualcosa che non andava in questa società, e che avremmo dovuto fare qualcosa». La cultura è la miglior difesa Quello di Fabio è stato il primo di Quello che sostengono più o meno moltissimi casi che la realtà pavese ha tutti è che l’unica arma per combatteseguito: da quello della ragazzina che re il rischio della dipendenza è la culaveva installato un gps sull’auto del patura: bisogna fare educazione, entrare dre per poterlo controllare e andare a nelle scuole per sensibilizzare e metriprendere ogni volta che si fermava in tere in guardia. È necessario spiegare un bar o una sala gioco, alle venti donai ragazzi che matematicamente, con ne accompagnate dal giudice per chieil gioco d’azzardo, si perde sempre e dere di bloccare i conti dei mariti che non si vince mai, che tenere sotto constavano dilapidando i risparmi familiatrollo entrate e uscite è fondamentale, ri. «L’ultimo caso risale a qualche giorche anche se comprare un gratta&vinno fa – illustra Feder, come se concluci sembra innocuo non lo è, e sopratdesse un bollettino di guerra –. Ci è artutto far capire che ci sono altri modi rivata la richiesta di aiuto da parte di di giocare, di passare il tempo, di stare una donna di Torino, il cui marito ha insieme. appena venduto la casa per pagare i deE se questo è anche uno degli obietbiti di gioco fatti al gratta&vinci». tivi dichiarati di iniziative come gli Slot Il tema delle dipendenze da azzarMob, tra i loro scopi c’è anche quello di do è sotto i riflettori mediatici da non dare una sveglia alla politica. Locale e più di un paio d’anni, ma chi lavora nel nazionale. «Molti sono i sindaci che, a settore è preoccupato da molto prima. seguito delle iniziative di sensibilizzaA Pavia, città tristemente nota come cazione, hanno approvato regolamenti pitale italiana del gioco d’azzardo, in sul tema – spiega Albanese –. A Biella, funzione del rapporto spropositato del ad esempio, il comune ha approvato numero di macchinette in rapporto agli due delibere, una che prevede sgravi fiabitanti, quando sono scesi in piazza scali per gli esercizi commerciali che riper cercare di attirare l’attenzione sul nunciano al gioco d’azzardo, l’altra che problema, al loro fianco si sono ritrovamette al bando tutte le pubblicità del ti anche il vescovo della città, monsigioco d’azzardo dalle concessionarie gnor Giovanni Giudici. pubbliche».

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Ma anche a Genova, per citare solo un caso, è stato approvato un regolamento comunale che impone limiti molto restrittivi all’apertura di esercizi come videolottery e all’installazione di slot machine nei bar.

No Slot, movimento in crescita Il Movimento No Slot, costituito ufficialmente come associazione a ottobre 2013, nato, oltre che dal Gruppo di Pavia, anche dal magazine Vita, dai gruppi No Slot di Lodi, Milano, Latina, Cuneo e molti altri soggetti, da tempo fa pressioni anche sulle regioni perché si dotino di leggi contro l’azzardo. Attualmente se ne sono dotate Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Ligu-


l’inchiesta ria, Lombardia, Puglia, mentre se ne sta discutendo in Calabria, Molise, Piemonte, Umbria, Toscana, Veneto. Anche in parlamento, con grande lentezza, qualcosa si sta muovendo. Alla camera e al senato sono stati depositati, solo in questa legislatura, almeno 25 disegni di legge, dalla cura della ludopatia ai divieti di pubblicità, dai limiti all’installazione delle slot machine alle distanze che la sale da gioco devono avere dai luoghi considerati sensibili come parrocchie, scuole, ospedali. E a febbraio è finalmente partito l’iter di approvazione di una legge nazionale sul gioco d’azzardo. Intanto prosegue anche una raccolta di firme in tutto il territorio nazionale per promuovere una legge di iniziativa popolare contro il gioco d’azzardo, portata avanti nell’ambito delle campagne Mettiamoci in gioco e Fa’ la cosa giusta. I 22 articoli del disegno di legge mirano a tutelare le fasce deboli della società, in particolare i minori, a contrastare le infiltrazioni mafiose e l’evasione fiscale, a contenere la pubblicità e garantire cure reali per le persone affette da dipendenza, e darebbe ai sindaci il potere di autorizzare o meno l’apertura di sale da gioco. La raccolta di firme è partita da Milano in ottobre e finora sono stati oltre 460 gli amministratori pubblici, in tutta Italia, ad aver aderito al progetto di legge.

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Da Biella a tutta Italia

Barista, rinunci a incassi facili? Ti premiamo con lo Slot Mob... Scelgono un bar, si organizzano e lanciano l’appuntamento. Poi, il giorno prefissato, si ritrovano in quel locale per fare colazione, o un aperitivo, tutti insieme. Per l’occasione propongono anche eventi culturali, letture, concerti, organizzano tornei di calcio balilla o di “giochi di una volta”. Il bar, ovviamente, viene scelto con un criterio ben preciso: si va solo in locali che hanno deciso di togliere l’azzardo. Via le slot machine, via i gratta&vinci, via le scommesse. Una scelta che costa, soprattutto in tempi di crisi, per gestori che, mettendo anche solo un paio di “macchinette mangiasoldi”, si ritrovano un guadagno facile di mille euro al mese. Ma una scelta da premiare, secondo gli organizzatori di questi eventi, perché sul guadagno economico è prevalso l’aspetto etico: l’intento di tutelare chi davanti alle slot perde soldi e lucidità. Li chiamano “Slot Mob”, come i Flash Mob: manifestazioni (apparentemente) improvvise, convocate tramite la rete, in questo caso dedicate a dire no alle slot. Il primo è stato organizzato a Biella a settembre e ha visto partecipare 600 persone. Da allora gli Slot Mob hanno percorso l’intera penisola: ormai ne sono stati organizzati una trentina. «E molte sono le città che si sono già prenotate. Alcune, come Biella, hanno già fatto il bis – racconta Daniele Albanese, della Caritas del capoluogo piemontese, tra gli organizzatori degli Slot Mob –. L’obiettivo è “il voto col portafoglio”, cioè la possibilità, per i cittadini, di fare fronte comune e decidere come indirizzare le scelte economiche e politiche. Se siamo in tanti a decidere di frequentare locali senza giochi d’azzardo ed evitare quelli che lo permettono e incentivano, i gestori dei bar possono rendersi conto che non avere quella che sembra una fonte di introiti facili in realtà porta più clienti. E che quindi, oltre che etico, può essere anche conveniente, fare la scelta coraggiosa di togliere l’azzardo...». Durante gli Slot Mob non solo si consuma, ma si passa anche del tempo insieme. Un bar che ha sei, otto macchinette non è più un luogo di socialità, come tradizionalmente lo sono stati i bar italiani, soprattutto quelli di quartiere o di paese. «In occasione dei Mob organizziamo tornei di ping pong, messo sui tavoli i giochi tradizionali, organizzato concerti. E non tutto finisce con quell’evento. Vogliamo creare l’abitudine quotidiana a scegliere un locale in base alla presenza o meno dell’azzardo». Ad aiutare i consumatori nella scelta, da un anno è nato anche il sito www.senzaslot.it, su cui chiunque può segnalare gli indirizzi dei locali “azzardo free”: finora ne sono stati segnalati migliaia in tutta Italia. I gestori coinvolti nei Mob, di solito, sono entusiasti. La proprietaria del Freedom Bar di Biella, dove si è tenuto il primo Slot Mob italiano, all’inizio era titubante. Il suo è un piccolo bar di quartiere, e la pressione mediatica un po’ la spaventava. «Ma poi ne è stata contentissima – racconta Albanese –. Ci ha riportato che, dopo la nostra iniziativa, in molti hanno iniziato a passare anche solo per un caffè, e ha ricevuto diverse telefonate di persone che volevano complimentarsi o ringraziare per la scelta fatta». Sono molte le realtà che hanno aderito agli Slot Mob, quasi un centinaio di sigle, da quelli di senzaslot.it al Movimento No slot, da Libera a varie realtà Caritas, oltre a tantissime piccole associazioni impegnate, nei territori, su questo fronte. M.Z. marzo 2014 scarp de’ tenis

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HOMELESS “Prima la casa”. Anche in Italia servizi di Alberto Rizzardi

Housing first: prime esperienze, da nord a sud. Si costituisce il Network nazionale: saranno coinvolte più di 40 città La svolta è di quelle epocali. Quasi una rivoluzione, se nel tempo il termine non fosse stato abusato e privato del suo significato originario. Si tratta non solo di un cambiamento profondo delle politiche condotte negli ultimi decenni in materia di lotta all’homelessness, ma di un vero e proprio rovesciamento paradigmatico. Housing first (“Prima di tutto la casa”) è il nuovo approccio in materia, ideato negli anni Novanta dallo psichiatra statunitense Sam Tsemberis: è già realtà in alcune parti del mondo (Stati Uniti, Canada e Australia su tutte), ma si sta concretizzando anche in Europa. Come spesso accade, partendo dalla sua parte più a nord, in questo caso la Finlandia, per diffondersi nel resto del continente: in Francia (già dal 2010), Germania, Inghilterra, Spagna e Italia, tra gli altri. senzatetto come presupposto necessaNel dicembre scorso, a Lisbona si è rio per mettere a punto politiche efficatenuta la prima conferenza internazioci che conducano al superamento del nale dedicata ai programmi di Housing problema», con un invito a concentrarfirst, organizzata dall’Aeips (Associaziosi su alcune tematiche prioritarie, tra cui ne portoghese per lo studio e l’integra(oltre alla qualità dei servizi, alla prezione psicosociale), che ha visto la parvenzione e al problema dei giovani hotecipazione di rappresentanti di 15 paemeless) anche «l’adozione di metodi si, tra cui l’Italia: due giorni di lavoro, imche diano priorità all’alloggio». preziositi dagli interventi dello stesso Insomma, anche a Bruxelles si sono acTsemberis e di Josè Ornelas, responsacorti che Housing first può rappresenbile del programma portoghese “Casas tare il futuro, nella lotta all’homelesPrimeiro”, durante la quale si è fatto il sness. Anche perché all’orecchio del punto sulla ricerca internazionale. parlamento continentale sono arrivati i Anche le istituzioni continentali non dati delle sperimentazioni condotte in stanno a guardare. A gennaio il Parlaquesti anni, che dimostrano come non mento europeo ha approvato una risosolo il nuovo approccio crei concreta inluzione in cui esorta la Commissione a novazione sociale e produca benefici ai elaborare una strategia europea per le senza dimora coinvolti – che è poi l’elepersone senza dimora, invitando gli stamento prioritario –, ma sia anche effiti membri a concentrare maggiori atciente ed economico, se comparato ai tenzioni ed energie sulla questione. Non tradizionali modelli di politiche sociali solo. Nella risoluzione viene sottolineain materia. In una fase di crisi delle fita «la necessità di raccogliere dati esaunanze pubbliche, un fattore da non sotstivi e comparabili sul fenomeno dei tovalutare.

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La scala o l’ascensore? Immaginiamo il cammino che porta oggi un senzatetto ad avere una casa: è simile a una scala. E in effetti l’espressione inglese per definirlo è staircase. Un percorso, lungo e tortuoso, che unisce realtà istituzionali e terzo settore in una salita fatta di tanti gradini e varie forme di accoglienza e assistenza. Il tragitto dalla strada alla casa passa attraverso i dormitori pubblici, le comunità-alloggio, le abitazioni condivise, la casa regolare ma per un periodo limitato di tempo e senza garanzie. Infine approda all’abitazione regolare, con contratto d’af-


l’approfondimento Il presidente Fio.psd

Via italiana all’Housing first? «Puro non so. Certo profetico» Sì all’Housing first. Ma contestualizzato nel panorama italiano. Prevedendo forme di accompagnamento sociale prima dell’assegnazione dell’alloggio. E ripensando dal basso il modello d’intervento sociale. È il pensiero di Stefano Galliani, presidente della Federazione italiana degli organismi per le persone senza dimora (Fio.psd), organismo promotore del Network Housing first Italia. Presidente, che opinione hanno gli italiani delle persone senza dimora? Registro un interesse sempre maggiore riguardo alla condizione degli homeless, favorito dalla situazione di crisi, che porta ogni persona a sentirsi molto più a rischio di prima. Ma la sensibilità generale è ancora legata allo stereotipo del clochard, mentre la realtà è molto più complessa e variegata. Anche perché, in Europa e in Italia, manca una ricerca che analizzi l’intera scala del disagio abitativo. Ci sono dati poveri, che esprimono solo in modo superficiale la reale complessità di condizioni e bisogni. Il Parlamento europeo sollecita la Commissione, che però non ritiene di dover essere soggetto promotore di una strategia europea comune sull’homelessness e il disagio abitativo, e sollecita a sua volta i singoli stati. In Italia ci sono gli strumenti, operativi e culturali, per sostenere un nuovo approccio al tema della lotta all’homelessness? Credo che Housing first sia uno slogan fondamentale per muovere politica e coscienze, per chiarire che non è più possibile considerare i senza dimora come persone che si possono accontentare di un piatto in mensa o un letto in dormitorio. Ma nella sua concezione più pura, non corrisponde alla cultura dei servizi sociali italiani, né alle nostre capacità tecniche di sostegno alla persona. In Italia non siamo preparati per un Housing first puro. Dobbiamo elaborare progetti che abbiano la casa come elemento determinante, ma prevedano forme di accesso e accompagnamento sociale articolate.

fitto e piena garanzia di godimento. Nel migliore dei casi. Volendo insistere su questa metafora, l’approccio Housing first è, di fatto, l’ascensore che permette di saltare i gradini intermedi, arrivando subito alla casa. L’abitazione viene offerta subito, non alla fine del percorso, in nome di un approccio incentrato sull’individuo e la responsabilità. Il che non vuol dire, tuttavia, che le persone vengano abbandonate a loro stesse, una volta alloggiate. Nelle realtà europee e internazionali in cui l’approccio Housing first è stato testato, gli utenti hanno beneficiato del-

Cosa ci divide dagli altri contesti? I nostri sistemi culturali e di welfare cercano di mettere in relazione la persona con la comunità circostante. Nei paesi anglosassoni, ci si concentra sull’individuo. Altro elemento culturale differente è che l’Housing first puro è basato sulla cosiddetta “riduzione del danno”, ovvero sulla teoria che una persona, se inserita in un alloggio, possa ridurre il rischio di devianza sociale o l’abuso di sostanze: ma tale modello non è prioritario in Italia. Infine, per un reale utilizzo dell’alloggio come diritto e luogo in cui esprimere le proprie capacità di essere cittadino attivo e in salute, sono necessari percorsi di accompagnamento prima dell’assegnazione della casa e durante la permanenza, sia con il singolo sia nella comunità in cui si trova l’alloggio. Dunque da noi quell’approccio va cambiato? Il periodo impone di riformare i servizi sociali, a causa della restrizione delle risorse finanziarie. In questo quadro, occorre capire se la risposta Housing first sia anche conveniente; dato non ancora certo, almeno nel nostro paese. Invece è certo che la riconversione globale del welfare apre spazi sempre più ampi alla contaminazione tra servizi formali e risposte informali, tra istituzioni e soggetti sociali. E ci impone di costruire comunità locali accoglienti, che sappiano rispondere anche in termini di reciprocità e mutualità alle fragilità. Il tema Housing first non è avulso da questo mutamento di quadro. Difficile da applicare, in Italia, ci esorta però a ripensare i servizi, per de-istituzionalizzare gli interventi e responsabilizzare i beneficiari. Sfida doppia. E profetica. marzo 2014 scarp de’ tenis

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Prima la casa. Anche in Italia

Se potessi «avere una casa tutta per me, come prima cosa vorrei dormire, passare una notte intera senza nessuno che ti sveglia. E poi mi piacerebbe passare i pomeriggi a letto, invece che dover girovagare da mattina a sera, anche quando stai male

»

Federica Tescaro Vicenza l’intera gamma di servizi sociali e sanitari abitualmente erogati ai senza dimora. I percorsi Housing first riconoscono dunque nell’alloggio un diritto umano fondamentale, da cui partire per sistemare tutto il resto. E alle obiezioni relative alla sicura bontà filosofica del nuovo approccio, cui farebbe però da contraltare la scarsa applicabilità, rispondono i numeri che arrivano dalle sperimentazioni. Su tutte il programma Progress per il lavoro e la solidarietà sociale, promosso dalla Commissione europea, nell’ambito del quale è stato condotto un test di due anni in dieci città: in cinque di queste (Glasgow, Amsterdam, Copenaghen, Budapest e Lisbona) si è adottato il metodo Housing first; nelle altre cinque (Dublino, Göteborg, Vienna, Gand ed Helsinki) si è seguito il modello tradizionale di gestione dell’homelessness. Dai dati presentati lo scorso giugno ad Amsterdam, è emerso che nelle cinque città Housing first ben otto homeless su dieci inseriti nel programma erano in grado, al termine del biennio di sperimentazione, di sostenere i

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costi della casa. Di contro, nelle cinque città in cui è stato seguito il percorso tradizionale staircase, solo due su dieci riuscivano a raggiungere il traguardo finale, cioè la casa regolare con contratto d’affitto e pieno godimento, e appena uno su dieci riusciva a mantenerla nel tempo.

La rete nasce a Torino E in Italia? Per ora latita la scintilla che accende il motore della macchina Housing first: il reddito minimo garantito. In tutti i paesi inseriti nella sperimentazioni, anche i cittadini senza dimora possono godere di un pur minimo sussidio pubblico. In Italia, ancora no. Per questo il nostro paese è stato inizialmente escluso dalla sperimentazione europea, poiché poter disporre di denaro per contribuire al pagamento dell’affitto e delle spese è uno dei cardini su cui poggia l’impalcatura Housing first. Sono passati più di vent’anni dalla raccomandazione 92/441, con cui l’allora Comunità economica europea sollecitava gli stati membri a introdurre il reddito minimo garantito come fattore

d’inserimento sociale dei cittadini poveri. Le richieste si sono ripetute negli anni, ma in Italia questa misura ancora manca, nonostante il dibattito politico si sia riacceso nell’ultimo anno, con proposte concrete. Però ciò non ha impedito che di Housing first nel nostro paese ci si cominciasse a occupare. Con iniziative anche eccellenti, da nord a sud, realizzate con una sorta di declinazione italiana del modello originario, per essere più integrabile nel contesto e meno traumatizzante. Ora, però, sta scattando una seconda fase: quella del fare rete, del creare un metodo e una base di lavoro comuni. Una tappa fondamentale è stata l’incontro, il 28 febbraio e il 1° marzo scorsi a Torino, per creare il Network Housing First Italia: nella due giorni di lavoro, un centinaio di rappresentanti di decine di soggetti (realtà del terzo settore, ma anche enti locali) di 42 città hanno discusso di come costruire la rete nazionale, raggruppando le professionalità interessate e unendo esperienze e conoscenze maturate in diversi territori. «Il network si sta costituendo formalmen-


l’approfondimento

te – conferma Marco Iazzolino, segretario generale della Federazione italiana organismi per le persone senza dimora (Fio.psd), che ha promosso l’incontro – . Negli ultimi due anni sono partite esperienze di Housing first in molte realtà. Finora abbiamo cercato di richiamare l’attenzione su un’esperienza alternativa al dormitorio per i senza dimora, cercando nel contempo di promuovere percorsi di formazione nelle realtà ordinarie d’accoglienza, e nelle realtà che già promuovevano esperienze di stampo nuovo, ma senza metodo. Dopo Torino intendiamo raccogliere l’esito di questi lavori, per fare sistema, nel tentativo di accompagnare operatori e volontari in un percorso costante di formazione, monitoraggio e aiuto, per un’applicazione coordinata ed efficace in Italia del modello Housing first».

Avamposto Sicilia In attesa che il network italiano diventi realtà, nei territori sono molteplici, come detto, le iniziative che via italiana all’Housing first. La Sicilia è un avamposto di innovazione, su questo fronte. Lì si

sperimenta da qualche tempo un progetto regionale, che riunisce e rafforza i progetti delle singole realtà. Ad Agrigento la Fondazione Mondoaltro, braccio operativo della Caritas diocesana, ha ristrutturato l’ex Istituto Granata, nel centro storico della città, da due anni di proprietà alla diocesi. Al secondo piano è stata inaugurata il 25 febbraio “Casa Rahab”: 7 piccoli appartamenti, dedicati a un programma di Housing first. «Abbiamo cercato una soluzione che si adattasse al nostro contesto, in relazione anche alla disponibilità di immobili – spiega Valerio Landri, direttore della Caritas agrigentina –. L’ospitalità non è gratuita. C’è una quota fissa da pagare. Si dà quel che si può; se gli ospiti non sono in grado di contribuire con il denaro, lo fanno con volontariato e lavori nella stessa struttura o in altre della Caritas. Noi crediamo in un progetto d’accoglienza che non si ferma alla sola abitazione, ma contempla anche l’accompagnamento della persona con un sostegno sociale e multidisciplinare. A Casa Rahab ci sono camere da letto individuali, ma anche spazi collettivi: sala pranzo, sala tv e cucina. Per favorire un percorso di socializzazione e reinserimento delle persone coinvolte, per noi fondamentale». Più a sud di 130 chilometri c’è Ragusa. Qui Housing first si traduce in “Tetti colorati”, progetto partito ad agosto, cui cooperano Caritas diocesana, Fio.psd, Iacp Ragusa, Confcooperative Sicilia, Immobiliare Europa, Asp Ragusa e i comuni di Ragusa, Vittoria e Santa Croce Camerina. L’iniziativa offre, attraverso uno Sportello Casa, attivo per l’intero periodo del progetto (scadenza al momento fissata per giugno), un programma integrato di servizi, azioni e strumenti per l’accompagnamento di persone senza casa e il reperimento di alloggi nel Ragusano. Obiettivi: migliorare e rafforzare le condizioni abitative attraverso l’accesso ad alloggi con canone calmierato, creare contesti residenziali di qualità e sperimentare nuove forme di abitare sociale in cui gli inquilini siano parte attiva del tessuto sociale, per arrivare alla creazione di un soggetto operatore (Agenzia Casa Non profit) capace di gestire la filiera compresa tra l’accoglienza e l’alloggio ordinario e stabile, unendo pubblico e privato. «Ci siamo resi conto – spiega Do-

potessi avere una « Secasa tutta per me, avrei di sicuro più fiducia e speranza nel futuro. Avere un letto tutto mio, i miei spazi senza limitazioni, mi farebbe sentire di nuovo parte di questa società, con uguali possibilità rispetto alle persone già “integrate”. Sarebbe un vero toccasana

»

Zaira Sambasile Catania

un tradizionalista. « Sono Niente cucina living e altre americanate simili: stanza per pranzare; stanza per dormire; stanza per soggiornare, studiare, leggere, suonare. Tinte calde, color ciliegio, stile un po’ country, oggettistica prevalentemente di legno, in armonia con il tutto

»

Giuseppe Del Giudice Napoli

potessi avere una «Secasa tutta per me, la vorrei confortevole, allegra, ossigenata, profumata, ecologica, ma soprattutto ospitale, aperta per accogliere un amico in difficoltà o che ne avesse bisogno, come è accaduto a me, grazie alla Locanda del Samaritano. Così ho imparato la lezione

»

Tony Bergarelli Catania marzo 2014 scarp de’ tenis

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Prima la casa. Anche in Italia

potessi avere una casa tutta per me, cercherei « diSecondividerla non con un amico o con un collega ma con una donna, anche se ha dei figli; così potrei avere di nuovo la sensazione di avere una famiglia che ti aspetta quando ritorni la sera

»

Massimo De Filippis Napoli menico Leggio, direttore della Caritas diocesana ragusana – che il classico centro d’accoglienza è superato. Le persone finiscono per starci parecchio tempo, riducendo il tutto a una mera dimensione di assistenzialismo. Abbiamo, perciò, approfondito il tema dell’Housing sociale prima e dell’Housing first poi, per realizzare un percorso che riconosca il diritto all’abitare, dia dignità all’individuo e valorizzi nel contempo il patrimonio immobiliare del territorio. Abbiamo attivato due Sportelli casa, a Ragusa e Vittoria, dedicati per ora solo a immigrati non comunitari, registrando un interesse e una disponibilità da parte dei proprietari d’immobili che ci fanno ben sperare per il futuro. Finora siamo riusciti ad aiutare 20-25 persone. Gli inquilini compartecipano alla locazione ma, qualora non riescano a pagare, c’è un’integrazione offerta dai partner dell’iniziativa e stiamo anche lavorando a un fondo di garanzia. Nel frattempo la

Se potessi avere « una casa tutta per me, inviterei a casa vecchi amici di liceo e università, ormai tutti quasi sessantenni. Chiederei di venire tutti insieme, così come entravamo nell’aula del nostro liceo Genovesi. Quando busseranno alla porta il cuore inizierà a battere forte, sono anni e anni che non ci si vede

»

Aldo Cascella Napoli

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diocesi ha fatto partire un censimento di tutti i beni patrimoniali delle parrocchie, per capire se vi siano beni non utilizzati da dedicare al programma».

Nuovo approccio in Triveneto Risalendo l’Italia, un altro esempio di applicazione dei dettami dell’Housing first lo si registra a Trento, dove nel 2009 la provincia autonoma ha introdotto il reddito di garanzia, un contributo simile al reddito minimo adottato in buona parte d’Europa, e nell’ottobre scorso è partito il progetto “Km 354” della Fondazione Comunità Solidale, braccio operativo della Caritas trentina, che vede coinvolti anche comune di Rovereto e Comunità della Vallagarina: l’ispirazione di base è quella dell’Housing first, declinata all’insegna della coabitazione in semi-autonomia tra ospiti, con il supporto di operatori e volontari. Nell’ex casa cantoniera “Km 354” ci sono fino a un massimo di otto posti letto per altrettanti homeless, segnalati dai servizi pubblici o dal privato sociale. L’approccio prevede la compartecipazione degli ospiti alla vita e alla gestione della struttura; a loro sono assicurati attività di sostegno per l’inserimento lavorativo, colloqui individuali, orientamento, segretariato sociale e accompagnamento sociale. A Padova, invece, l’esperienza di Housing first sta nascendo proprio in questo periodo: «Come Caritas diocesana – spiega il direttore, don Luca Facco – abbiamo gestito per molti anni un piccolo centro d’accoglienza per 14 persone presso una parrocchia, fino a quando la convenzione non è scaduta. Contemporaneamente abbiamo avuto a disposizione due appartamenti in città, e altri ne stiamo già gestendo. Da qui è partita l’idea di aprirci al modello Housing first, facendo formazione specifica. Nei primi mesi d’attività abbiamo constatato che il nuovo approccio produce effetti concreti e visibili: quasi il 70% delle persone inserite nel progetto esce dalla logica della strada, perché

trova una sistemazione; in generale, abbiamo notato che questo approccio permette di valorizzare e responsabilizzare le persone, che devono pensare loro stesse a mangiare, lavarsi e lavare le proprie cose, come non avviene nelle mense e nei dormitori. Certo, la nostra è un’esperienza appena avviata e i numeri sono piccoli. Ma già vediamo che le persone sono maggiormente e meglio inserite nella realtà territoriale, vengono chiamate per nome, sono riconosciute e coinvolte in piccoli servizi. Ciò valorizza le persone e sensibilizzare la comunità, diversamente da quanto accade con i dormitori». C’è poi Pordenone, dove l’esperienza in tema di abitare sociale è decennale, ma che ora si vuole ripensare, coinvolgendo altre Caritas del Friuli Venezia Giulia, le realtà istituzionali e il privato sociale, aprendo anche un filone dedicato all’Housing first. Inizialmente con tre alloggi e la creazione di un fondo di solidarietà che consenta di compartecipare alla spese d’affitto degli inquilini, e coinvolgendo anche persone sfrattate e in situazioni di disagio abitativo, non solo homeless, nella convinzione che la casa dev’essere in diverse situazioni il punto di partenza per riprendere percorsi d’inclusione sociale.

L’agenzia di Bologna Accanto al privato sociale, si muovono


l’approfondimento

Il progetto. Rimini cambia, il comune investe sull’Housing first Dalla città simbolo delle vacanze estive, uno bel regalo di Natale per chi sta in fondo alla scala sociale. Il 24 dicembre il comune di Rimini ha infatti dato via libera a un progetto triennale di Housing first, finanziato con oltre 200 mila euro fino al 2016 (22,5 mila euro per il 2014, 90 mila all’anno per 2015 e 2016). L’obiettivo è favorire il rapido inserimento abitativo di persone senza dimora presenti nel territorio e segnati da forme di disagio psico-sociale. «Nel 2012 alla Caritas di Rimini ci fu un convegno dedicato al tema dell’emergenza abitativa – spiega Gloria Lisi, vicesindaco e assessore a welfare, politiche di integrazione, socio-sanitarie e abitative –. In quella sede Fio.psd ci lanciò alcuni spunti su come cambiare il nostro approccio, basato sui dormitori ma anche su percorsi d’inserimento abitativo temporanei. Inizialmente ero perplessa: in un periodo in cui molte famiglie sono in difficoltà, avevo paura di non affrontare correttamente l’emergenza casa a tutti i livelli, investendo così tante risorse sulla sola questione dei senza dimora». A Rimini, come nel resto d’Italia, è in forte aumento il numero di persone che rischiano di perdere la casa. In città, stando a dati ufficiosi, ci sarebbero un centinaio di senza dimora, molti con una mobilità frequente. Sono invece meno gli homeless presenti nel territorio da almeno quattro anni e alle prese con problemi psichici, cui il progetto è rivolto. «La svolta è stata a Dublino – spiega il vicesindaco –, quando furono presentati vari progetti e sperimentazioni di Housing first condotte in altre città europee, per esempio Lisbona, anch’esse a forte vocazione turistica. Abbiamo

anche le istituzioni. A Rimini il comune ha dato il via libera a un progetto triennale di Housing first, finanziato con ol-

quindi intrapreso un percorso di passaggio dal welfare assistenziale a un “welfare della capacità”, che mette al centro la persona, la valorizza e ne fa un soggetto attivo, cui noi mettiamo a disposizione gli strumenti per poter abbandonare la marginalità. Responsabilizzare una persona che abita in strada da tanto tempo e in situazioni psichiche molto precarie, dandole le chiavi di un alloggio, significa ridarle dignità, reinserendola nel tessuto sociale da cui è esclusa. E spesso neanche vista». Il progetto partirà quest’anno con cinque alloggi, che aumenteranno almeno fino a dieci nel biennio 2015-2016. Simbolicamente, il primo stabile in cui verranno ricavati spazi dedicati all’Housing first è un bene sequestrato alla mafia, che sorge in zona Marina centro, a ridosso del mare. Gli altri alloggi saranno sparsi per la città, integrati nel contesto residenziale, e gli inquilini dovranno compartecipare al pagamento dell’affitto e delle spese, seguiti da un’équipe multiprofessionale per un costante supporto sociale, psicologico e legale Deliberato il progetto, resta il nodo degli alloggi da reperire: «Finora – ammette Lisi – non siamo stati così bravi da stimolare il mercato privato. Avere una forte vocazione turistica significa anche avere affitti molto alti, specie in estate, e molte case sfitte. Da noi circa 15 mila. Non c’è penuria di abitazioni, ma una ritrosia dei proprietari privati nel concedere alloggi, complici l’attuale situazione economica e l’elevato numero di sfratti. Abbiamo aperto nei mesi scorsi uno Sportello per l’abitare, per cercare di unire domanda e offerta. Vedremo se la seconda saprà crescere, per rispondere almeno in parte alla prima».

tre 200 mila euro, che prevede il rapido inserimento abitativo di persone sole, senza dimora, presenti da tempo nel territorio riminese e alle prese con problematiche di disagio psico-sociale. L’inserimento sarà affiancato da forme di supporto e accompagnamento sociale e psicologico da parte di un’équipe multiprofessionale. Si parte quest’anno con un parco alloggi di cinque unità, che aumenteranno almeno fino a dieci nel 2015-2016. E c’è, infine, il caso di Bologna. All’ombra delle due torri, nel 2013 l’associazione Amici di Piazza Grande ha inaugurato il progetto “Tutti a casa” insieme al comune felsineo (con un investimento di 250 mila euro all’anno), ad Asp Poveri e Vergognosi, all’Istituzione contro l’esclusione sociale Serra Zanetti, al dipartimento di salute mentale dell’Ausl di Bologna e alla Fondazione Del Monte. È stata costituita un’agenzia sociale per l’affitto, che si rivolge al mercato immobiliare privato per reperire appartamenti sfitti (molti, a Bologna, come nel resto d’Italia), in cui inserire per-

sone o famiglie senza dimora. Una ricetta semplice, che molti indicano come una delle possibili chiavi per contribuire a ridurre l’emergenza abitativa nel nostro paese. Ma che trova spesso difficile applicazione, a causa della ritrosia e dei timori dei proprietari di non vedersi pagato l’affitto o di ritrovarsi l’alloggio rovinato. A Bologna è l’agenzia a garantire un affitto sicuro, la gestione e il mantenimento in buono stato dell’appartamento, oltre all’assistenza giuridica e amministrativa agli inquilini. Piazza Grande diventa dunque l’affittuario ufficiale dell’appartamento, e sceglie gli inquilini insieme ai servizi sociali del comune e al Dipartimento di salute mentale. Il progetto sembra dare buoni frutti: nel 2013 sono già state alloggiate 40 persone. L’obiettivo è aumentare il più possibile il loro numero. La macchina Housing first, insomma, è stata avviata anche in Italia. Le strade esistono e sono ben battute. Occorre ora mettere benzina e guidare. La lotta all’homelessness, per il futuro, può aver imboccato la direzione giusta».

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STRADE di LONDRA Accoglienza formato St. Mungo’s Visita all’organizzazione londinese che gestisce decine di centri di ospitalità, accoglie ogni notte e accompagna più di duemila persone di Stefano Lampertico

Grazie al progetto europeo See Light, Scarp ha incontrato i rappresentanti di una delle organizzazioni di accoglienza per senza dimora più importanti del Regno Unito. Laboratori di riqualificazione professionale studi di registrazione, stage in ristoranti di qualità: la solidarietà oltre il tetto sulla testa

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C’è un grande cartellone, appeso alla parete, nella sede di St Mungo’s in King’s Bench Street. Sono le success stories. Storie che hanno come protagonisti felici molti degli homeless che hanno trovato nel tempo accoglienza in una delle decine di strutture gestite proprio da St Mungo’s. Qui, a King’s Bench Street, St Mungo’s ha la sede della sua unità operativa per il ricollocamento e per il lavoro. Rod Cullen è il coordinatore di questo settore. È lui ad accogliere la delegazione di Caritas Ambrosiana e degli altri enti che partecipano al progetto europeo See Light nella sua tappa britannica. «St Mungo’s ha quattro pilastri sui quali poggia le proprie attività. Sono i nostri valori e i nostri obiettivi. Prevenire l’homelessness e le cause che la generano, rispondere ai bisogni che gli homeless manifestano, seguirli nei percorsi di reinserimento sociale e da ultimo influenzare la politica perchè trovi strumenti concreti di risposta alla povertà e all’esclusione sociale. Noi pensiamo che tutti abbiano il diritto ad avere un posto decente dove vivere, di godere di buona salute, anche di avere qualcosa di significativo da fare. Certo, abbiamo una missione. Ovvero ospitare persone che chiedono un letto, sotata a Londra un’organizzazione di rifestegno e cure perchè sono vulnerabili, o rimento per l’accoglienza e la cura degli a rischio di rimanere senza dimora. A homeless. Accoglie ogni notte, nei divertutti loro diciamo che è possibile misi centri sparsi per la città, oltre duemigliorare la propria qualità di vita». la persone, seguendole nel loro percorso di reinserimento sociale e cercando per ciascuno di ricostruire un profilo di Colosso dell’accoglienza reinserimento lavorativo. «Un progetto Che strana la storia di questa organizzazione, che non si richiama a principi di stage, un periodo di tirocinio, un perreligiosi, ma porta nel nome il santo pacorso di riqualificazione professionale, trono di un villaggio del Galles dove un impego quando lo si trova – ci spienacque il suo fondatore. St Mungo, apga Rod –: per ciascuno cerchiamo di ripunto, venerato come santo dalla chiecostruire una storia». sa cattolica, dalla chiesa anglicana e dalSono tante le storie di vita, molte la chiesa ortodossa. con i tratti di un futuro meno duro, che Dal 1969 a oggi St Mungo’s è divencolpiscono. Come quella di David, ex

Un santo gallese, nel nome di una organizzazione che accoglie ogni notte in città più di 2000 persone


il viaggio

Dopo la strada, si torna al successo A sinistra, l’immagine della brochure istituzionale di St Mungo’s. Sopra a destra, le storie di successo degli ex homeless ospitati nei centri di St. Mungo’s appese alla parete dell’Unità operativa per il ricollocamento e la formazione. Sotto, i terrazzi sistemati dagli ospiti che hanno partecipato al laboratorio di giardinaggio. St Mungo’s propone per i propri ospiti numerosi corsi e laboratori di riqualificazione professionale

tossicodipendente, ora partecipante attivo al laboratorio di edilizia. Lo troviamo a ripulire i mattoni e a costruire un muro, nello spazio ricavato sotto il Centro di accoglienza vicino alla stazione di Euston: «Questo muro, questo lavoro, è la mia salvezza. Sto imparando i segreti dell’edilizia, ma spero di trovare presto un lavoro in un cantiere». O come la storia di Mary, che ha molto faticato per abituarsi alla vita difficile da homeless e che ora ha trovato un impiego, in un fast food biologico. Come Dave, che grazie al progetto Putting down roots, progetto di guerrilla gardening, in parole povere “mettiamo dei fiori nelle vostre

fioriere”, sta imparando l’arte del giardinaggio. E i risultati, a vedere il giardino curato dagli operatori e dagli ospiti che hanno scelto il laboratorio di giardinaggio alla St Johns Church, a due passi dalla Stazione di Waterloo, sono davvero sorprendenti.

La sorpresa al piano meno uno Il St Mungo’s Endell Street Hostel è una struttura di accoglienza davvero particolare. Anzitutto perché si trova nel quartiere di Covent Garden, cuore della città, uno dei luoghi più caratteristici di Londra. Ma soprattutto, quel che colpisce sono le decine di attività che vengo-

no proposte agli ospiti del Centro di accoglienza: lettura dei giornali, corsi di informatica, corsi di cinema, educazione alla salute. La sorpresa, però, sta al piano meno uno. Qui opera uno studio di registrazione professionale aperto agli ospiti dei diversi centri (www.endellstreetstudio. com). «Qui i nostri ospiti – afferma Matt, ingengere del suono e responsabile musicale dello studio – hanno l’opportunità di suonare e di registrare la propria musica, con criteri e modalità professionali. La musica è una delle attività per riprendersi la propria autonomia. Qui è possibile cantare, registrare cd, marzo 2014 scarp de’ tenis

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Accoglienza formato St Mungo’s

A Covent Garden c’è uno studio di registrazione. Molti utenti provano a prodursi un cd. Diventano artisti di strada, per dare una svolta alla vita St Mungo’s, chi sono gli oltre 2000 utenti 73% uomini, 27% donne

71% ha un’età compresa tra i 25 ei 54 anni, il 13% ha meno di 25 anni e il 16% sono over 55

52% ha problemi di uso di sostanze (droghe e alcool). Il 67% ha problemi di salute fisica (problemi di salute generale, problemi di vista, che necessitano di terapie regolari)

60% ha problemi di salute mentale (diagnosi, malattie sospette, depressione e autolesionismo). Un terzo degli utenti non ha competenze di alfabetizzazione necessarie a completare un questionario da solo

49% è un senza tetto 9% è stato preso in carico 3% è un ex militare delle forze armate inglesi

45%

sono ex delinquenti o sono stati in carcere

formare nuove band, produrre un album. E anche apprendere qualche segreto di un lavoro molto particolare, come quello di tecnico del suono». Molti degli ospiti di St Mungo’s che si sono cimentati con la musica ora sono artisti di strada e ottengono spesso un discreto successo. «Sono stato davvero felice di avere potuto registrare qui un mio cd – sostiene uno degli ospiti del centro –. Mai avrei pensato di poter produrre un mio disco. Ho avuto due anni davvero difficili, ma con la musica si ricomincia a vivere». Il centro di Endell, con lo studio di registrazione, è stato riaperto nel 2008, grazie al contributo del dipartimento di Camden, con un investimento superiore ai 3 milioni di sterline. Oggi ha 53 posti letto per uomini e donne in situazioni di disagio.

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La grande questione Sopra, la pettorina rossa è il segno distintivo del venditore di strada della rivista The Big Issue. A destra, due immagini della redazione di Vauxhall: la parete con alcune copertine e la mappa di Londra con i centri di distribuzione

The Big Issue, il giornale di strada Venduto da homeless e persone in difficoltà, è un brand ormai consolidato in tanti paesi. “Sorridi, guarda le persone negli occhi, parla con un tono di voce alto, che possano ascoltarti bene. E poi, ordinato nell’aspetto, lavora sempre nelle stesse ore del giorno e prendi la vita in maniera positiva”. La ricetta per il buon venditore è tutta qui. E funziona, stando ai numeri. The Big Issue (“La grande questione”) è la più importante rivista della strada al mondo: nel Regno Unito vende più di 100 mila copie a setimana. Siamo stati nella sede londinese di Vauxhall, il centro di distribuzione più importante di Londra. L’accoglienza è affidata a una ragazza di origine italiane, Nadia Manganello, team leader per Londra e il South East. A lei fanno capo venditori e distributori della rivista. Qui, poco lontano dal centro della metropoli, c’è il cuore della rivista. Uno spazio per i giornalisti, ma soprattutto il materiale per i venditori: la map-

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pa con i centri di distribuzione, le buone regole per vendere il giornale, le pettorine rosse. C’è anche uno spazio per l’accoglienza. È qui che i venditori del giornale, per lo più homeless, disoccupati, persone in difficoltà, acquistano le copie del giornale, che poi rivenderanno. Acquistano la copia a una 1 sterlina 25 pence, la metà del prezzo di copertina. E la rivendono a 2,50 sterline. Un meccanismo consolidato, simile a molti giornali di strada nel mondo. Qui però i numeri sono davvero importanti. Nel 2013 The Big Issue ha lasciato nelle tasche dei propri venditori oltre 5 milioni di sterline.


il viaggio

Al Brigade

L’arte della buona cucina, gli homeless a scuola dallo chef Nella vecchia palazzina dei Vigili del Fuoco, conservata e ristrutturata con gusto, proprio sotto l’avveniristico palazza a vetri che è sede londinese di Price Waterhouse Coopers, Simon Boyle, chef di fama internazionale, ci accoglie tra i tavoli del Brigade, il suo ristorante. Il Brigade è anche il cuore di una Fondazione, pensata insieme alla società di revisione. Si chiama The Beyond Food Foundation e offre alle persone in difficoltà, che hanno conosciuto l’accoglienza nei centri di St Mungo’s, l’opportunità di prendere parte a un progetto di reinserimento lavorativo. A rotazione, e per sei mesi, sedici ex homeless imparano, in questo ristorante incantevole, le basi della cucina di alta qualità, ma apprendono anche come rapportarsi con il cliente, come fare una buona spesa per un ristorante, come scegliere un buon cibo. «Molti di loro – afferma Simon Boyle – al termine dei sei mesi trovano lavoro nei ristoranti della città». La responsabilità sociale d’impresa qui dà buoni frutti.

diventato marchio globale Lo scorso anno ha distribuito oltre 5 milioni di sterline ai suoi lavoratori britannici Reddito, capacità di reinserimento sociale e alternativa all’elemosina. Su questi presupposti, la rivista era stata pensata nel 1991 da Gordon Roddick e John Bird. Come risposta concreta alla povertà crescente. In 23 anni The Big Issue è diventato un brand conosciuto e apprezzato nel Regno Unito e anche negli altri paesi in cui è distribuito. Da Johannesburg a Tokyo, da Sidney ad Addis Abeba. E ha ispirato nel contempo una serie innumerevoli di altri giornali di strada, Scarp tra questi, oggi realtà consolidate di informazione indipendente. Quella che gli inglesi chiamano la self-help revolution.

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I numeri di The Big Issue 2200 sono i venditori di The Big Issue in Gran Bretagna

5 milioni sono le sterline rimaste nelle tasche dei venditori nel 2013. I venditori pagano il giornale 1 sterlina e 25 pence, e lo rivendono a 2,50 sterline

105 mila le copie di The Big Issue che vengono vendute ogni settimana

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Il figli degli sbarchi chiamano Alessandra In “La vita ti sia lieve” l’avvocato genovese racconta le storie dei migranti che incontra nei Cie di Lampedusa e Ponte Galeria. E che da ovunque la cercano, contro i soprusi

di Daniela Palumbo

Un giorno «dovremo spiegare ai nostri nipoti di quali mostruosità il nostro paese è stato capace, ma anche a cosa serve lottare per i diritti

»

Contro le ingiustizie Sopra, Alessandra Ballerini, 42 anni, genovese, avvocato, specializzata in diritti umani e immigrazione. Nel riquadro, la copertina di “La vita ti sia lieve”, edizioni Melampo

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Certe volte si chiede anche lei: «Ma chi me lo fa fare?». Di prendersi in carico tanto dolore, di essere svegliata di notte per intervenire al di là del mare, di essere considerata l’avvocato delle cause perse, di lavorare sempre gratis per gli ultimi della vita. Alessandra Ballerini, genovese, 42 anni, avvocatessa civilista, specializzata in diritti umani e immigrazione, è stata consulente della commissione diritti umani del Senato per il monitoraggio dei centri di accoglienza e detenzione per stranieri. Alessandra collabora con Terre des Hommes, Caritas, Amnesty International e la Comunità San Benedetto al Porto di don Gallo (a cui ha dedicato il suo libro). Presta gratuitamente la sua opera per gli affidi di minori, la tutela di emarginati e di donne vittime di violenza. Ogni tanto ad Alessandra glielo chiedono, chi glielo fa fare a difendere chi non ha voa chiamare centri di accoce. Lei risponde con un nuglienza, dormire da tre mesi mero. L’articolo 3 della Cosu materassi lerci e pieni di instituzione italiana recita: setti. Il mercato delle schede “Tutti i cittadini hanno pari telefoniche che spetterebbero dignità sociale e sono eguagratuitamente ai migranti per li davanti alla legge, senza telefonare a casa, ma che vendistinzione di sesso, di razgono loro vendute a prezzi za, di lingua, di religione, di esorbitanti con la complicità, opinioni politiche, di condio l’omertà, di chi è dentro i zioni personali e sociali”. Cie. E molto altro. Lei c’è sempre. I mi«Quell’articolo parla chiaro – affergranti si scambiano il suo numero di tema Alessandra – tutti devono avere palefono. Qualcuno lo ha scritto su una ri diritti, senza distinzioni. Dare voce alporta di un bagno pubblico, a Genova: le persone a cui questi diritti sono in“Amico, se sei in difficoltà chiama Alesgiustamente tolti, significa lottare anche sandra Ballerini”. Segue numero di celper me stessa. Io difendo il diritto di tutlulare. ti alla dignità, e dentro quei tutti ci sono anche io». Alessandra ha scritto un libro di stoAlessandra, perché ha voluto per forrie sui migranti, editore Melampo: La za questo titolo? vita ti sia lieve. Il contenuto però è tutQuando senti tanto dolore, tanta ingiutaltro che lieve. È un macigno che offustizia, hai bisogno di alleggerire il tuo sca il cuore, è una ricerca di verità che carico. E di vederlo alleggerito anche in mette a nudo gli uomini-carnefici e le chi ti sta di fronte. Da un po’ di tempo, istituzioni ipocrite. quando mi separo dalle persone che Alessandra va e viene dai Cie di Ponhanno avuto tanta sofferenza, penso te Galeria e Lampedusa e i poliziotti e i sempre: «Che d’ora in poi la vita ti sia crocerossini, di cui narra senza ipocrilieve». È la mia speranza. sia, la sopportano a fatica. Perché racconta gli orrori e le botte, le mani bruLa prefazione del tuo libro è di Erri De ciate dai manganelli elettrici, i bambini, Luca. È bellissima la descrizione imimprigionati in quelli che continuiamo maginaria che fa di Alessandra bam-


testimoni sentirsi in colpa, anzi vuole essere rassicurato. In realtà, ovunque mi sia trovata a raccontare le esperienze dei migranti, la platea si è sempre mostrata attenta e interessata e ha chiesto di poter «fare qualcosa per cambiare le cose». La gente è molto meno pigra o insensibile di quanto sembri.

bina: «Me la invento che arrossisce in presenza di un sopruso subito...». Risale all’infanzia la sua intolleranza alle ingiustizie? Sì, Erri De Luca, al quale sono profondamente grata per come mi “accompagna”, ha detto bene. La mia intolleranza per le ingiustizie è quasi innata e deriva certamente da una educazione sentimentale della quale sono immensamente riconoscente ai miei genitori. Lei racconta in particolare tante storie di profughi minorenni, per i quali la vita è tutt’altro che lieve. Non dovrebbero essere raccontate nelle nostre scuole, le loro storie? Infatti da anni e sempre più spesso vado nelle scuole a parlare con i ragazzi dei loro coetanei. Ed è una delle esperienze più belle che mi capita di vivere grazie al mio lavoro. I ragazzi sono attenti e sensibili e le loro domande sono stimolanti. Sanno riconoscere verità e passione. Perché la stampa e la tv (tranne eccezioni) non raccontano l’intollerabile ingiustizia di quei luoghi? Perché si crede (erroneamente) che gli esseri umani siano incapaci di empatia, ma anche perché raccontare ingiustizie in qualche modo genera senso di colpa. E il lettore o chi guarda la tv non vuole

Telefono, casa “Signal” di John Stanmeyer della VII Photo Agency ha vinto il World Press Photo of the Year 2013. È, insomma, la foto dell’anno: scattata a Gibuti, mostra alcuni migranti africani alzare al cielo i loro celullari per catturare il segnale dalla vicina Somalia e contattare i parenti lontani

Noi facciamo memoria, giustamente, dei lager nazisti. Ci sarà memoria dei cosiddetti centri di accoglienza per migranti nei nostri libri di storia? Il nostro paese ha precedenti... fa fatica a fare i conti con la propria storia peggiore. Spesso con i miei amici della campagna “LasciateCiEntrare” sogniamo il giorno in cui i Cie non ci saranno più e dovremo spiegare ai nostri nipoti di quali mostruosità il nostro paese è stato capace e complice, ma anche a cosa serve lottare per i diritti di tutti. Non credo si potrà dimenticare o giustificare cosa abbiamo fatto ai migranti. Ci sono troppi documenti e troppi testimoni che ci inchiodano alle nostre responsabilità. Said è un ragazzino di 14 anni. Viene dalla Libia ma è originario del Camerun. È a Lampedusa insieme a Moussa, della stessa età, anche lui del Camerun. Moussa è orfano, è stato accolto e cura-

Said cerca ancora la sua bellissima mamma Ecco la lettera che Said Islam Yacoub, nato in Camerun il 17 settembre 1997, ha scritto a sua mamma Kadiatou. L’ultima volta che si sono visti era il 17 marzo 2013 a Sebha, in Libia. (per gentile concessione di Melampo editore) Alla mia mamma L’amore di un bambino per la sua mamma. Scrivo questa lettera per dirti che ti amo. Da quando ci siamo separati ti penso giorno e notte, la notte è molto lunga per me lontano da te. Tu sei la più bella donna del mondo, tutti i bambini sognano di averti sulla terra, tu sei la miglior madre che io abbia mai potuto pensare. Un giorno mi sono separato da te mamma. Sai, se fossi un fiore io ti pianterei nel mio cuore, ti innaffierei con le mie mani. Quando ti penso le lacrime cominciano a scendere. Se oggi sono qui senza di te io mi sento solo al mondo e non c’è niente da fare, tu sei la persona che conta di più per me, la più cara del mondo. Io sogno per me un giorno di ritrovarti sana e salva, le tue piccole filastrocche, canzoni mi fanno salire il morale, e mi danno la speranza di essere un bambino amato da sua madre. Io vorrei essere il più felice al mondo come gli altri bambini della terra, vorrei gioire della tua presenza, ti prometto che combatterò come posso con tutte le mie forze per ritrovarti. Io so che sei viva e mi pensi, io sarò sempre concentrato in tutto quello che faccio a pregare Dio misericordioso, il più misericordioso: io so che Tu mi ascolti, senza sonno né sonnolenza, Tu sei presente nel tuo trono, tra tutti i bambini aiuta me a ritrovare la mia famiglia, vorrei essere il più felice del mondo e sarebbe un giorno indimenticabile della mia vita. Mi aiuti a farmi uscire da questa griglia? Said Islam Yacoub, 14 anni, orfano di padre, figlio unico

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in cartellone

MARZO APRILE 2014 sabato 8 e 15 marzo h 20.30 domenica 9 e 16 marzo h 16

Soirée Ravel... Bolero

balletto in due atti musica di Maurice Ravel solisti e corpo di ballo del Balletto di Milano

mercoledì 16 aprile ore 20.30 giovedì 17 aprile ore 20.30 venerdì 18 aprile ore 20.30

Passio Jesu Christi

balletto con musica di Maurice Ravel solisti e corpo di ballo del Balletto di Milano

IL NUOVO PALCOSCENICO DELLA DANZA Via Fezzan 11 20146 Milano Biglietteria aperta da martedì a sabato Orari: 11.30-14.00 e 16.30-19.00 Informazioni: tel 02 42297313 Contatti: biglietteria@teatrodimilano.it

sabato 26 aprile domenica 27 aprile lunedì 28 aprile martedì 29 aprile ore 20.30

DanzaMilano

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ASSOCIAZIONE AMICI DI SCARP DE’ TENIS

IDEE E PROGETTI A FAVORE DEI SENZA DIMORA


testimoni to dalla madre di Said in Libia, dopo le torture subite dalla polizia libica nei campi di detenzione per i migranti, pagati anche con i nostri soldi. Un giorno i due ragazzi sono stati separati dalla donna. Said e Moussa si sono ritrovati imbarcati in un viaggio mostruoso che li ha gettati a Lampedusa. Sono stati imprigionati nel Cie e poi, grazie ad Alessandra, sono andati in una vera casa di accoglienza. Said ha scritto una lettera alla mamma chiedendo ad Alessandra di diffonderla, per ritrovare la donna. Said ha ritrovato la sua bellissima mamma? L’ho sentito ancora ieri. Non ha trovato la sua mamma, ancora la cerca. Ha ritrovato degli zii. Gioca a calcio e parla un perfetto italiano (con lieve accento siciliano). È un po’ triste perché il suo amico-fratello Moussa ha trovato una famiglia affidataria e lui ancora no. Ma i miei amici palermitani si stanno adoperando per trovargliene una e conoscendo la tenacia dei comboniani sono certa che a breve Said avrà una famiglia. Spero prestissimo di vederlo sorridere. «Io non ce l’ho più un futuro»: lo dice un ragazzo giovanissimo rinchiuso nel Cie, di cui racconta nel libro. Quel ragazzo ha escluso la speranza. Alessandra, dentro di lei c’è speranza? Sono piena di speranza. Non faccio altro che incontrare persone eccezionali, forti e belle, appassionate, instancabili e giuste. Per ogni persona che infligge un torto ne ho conosciute almeno dieci che tentano di ripararlo gratuitamente. Avere la fortuna di conoscere e frequentare donne e uomini “giusti” non può che far sperare e provare un’immensa gratitudine nella vita.

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La storia

“Traslator4children”, le traduzioni che salvano vite «Translators4children è un messaggio di pace che supera e abbatte le barriere religiose, culturali e sociali. È un progetto di mecenatismo culturale che agisce come un intervento etico per supportare le traduzioni impossibili con componenti emozionali e professionali di non semplice soluzione». Con queste parole cariche di significato ed emozione, il dottor Marco Squicciarini, medico romano, descrive il senso profondo del network da lui ideato, il cui obiettivo è tradurre le cartelle cliniche di bambini che necessitano di viaggi sanitari da e per l’Italia. Il funzionamento del portale è molto semplice: coloro che hanno bisogno di aiuto caricano online la loro richiesta e traduttori, interpreti, medici, pediatri e infermieri mettono a disposizione tempo e competenze per garantirne la traduzione, che altrimenti costerebbe decine di migliaia di euro. T4C nasce da un’intuizione del dottor Squicciarini, avuta dopo diverse missioni internazionali da volontario della Croce Rossa Italiana, durante le quali ha constatato l’importanza di conoscere bene una lingua, quando si tratta di traduzioni di cartelle cliniche. È nato così Translators4children (“Traduttori per bambini”), l’unico progetto al mondo volto a superare un muro linguistico che impedisce di curare bene, o addirittura di salvare la vita a moltissimi bambini. «Su T4C offriamo diversi servizi – continua Squicciarini –: traduzioni di cartelle cliniche, pareri medici, assistenza in ospedale, traduzioni di refertazioni provenienti da ogni paese, assistenza a genitori che richiedono consulti all’estero, traduzioni di fascicoli sanitari di famiglie con bambini disabili e con gravi malattie che si devono trasferire in un altro paese e assistenza a organizzazioni internazionali in caso di operazioni multiple in Italia a bambini provenienti da zone di guerra». Da quando il sito è online (1 settembre 2012), quasi 150 mila persone lo hanno visitato da 77 paesi del mondo e sono stati seguiti circa una trentina di casi. «Il primo di cui ci siamo occupati è stampato nella mia mente come fosse accaduto poche ore fa. Mi scrisse un sacerdote missionario di Medjugorje, don Ermanno, chiedendomi la traduzione di una cartella clinica scritta in croato-bosniaco-cirillico, per aiutare un bambino povero (figlio di pastori) con un tumore alla testa – racconta Squicciarini –. Una traduzione definita impossibile da molti, a meno che qualcuno non trovasse 10 mila euro, cifra di cui ovviamente la famiglia non disponeva. In 15 giorni, però, facemmo il miracolo: la traduzione fu completata, il bambino riuscì a salvarsi». Una storia simbolo, dal lieto fine reso possibile grazie al lavoro dei volontari di T4C. «Il mio sogno sarebbe di vedere questo progetto utilizzato come strumento dalle grandi organizzazioni internazionali che aiutano i bambini di ogni paese – conclude Squicciarini –. T4C è una nuova e innovativa metodologia di assistenza ai bambini poveri e malati che poggia su tre pilastri: la donazione del proprio tempo, del proprio sapere e dell’amore verso i bambini». Simona Brambilla marzo 2014 scarp de’ tenis

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Professione commozione Domenico Quirico, inviato de La Stampa: il rapimento in Siria non l’ha fermato, e mentre riflette sul suo mestiere, vola in Ucraina per girare pagine nuove della Storia

di Paolo Riva «Pentito? Assolutamente no. Negli ultimi tempi la professione è diventata più complicata, ma fino a quando ci saranno da raccontare storie di uomini che soffrono, questo sarà un mestiere con una sua logica». La voce tramite il cellulare arriva dalla zona imbarchi di un aeroporto. Non potrebbe essere altrimenti per Domenico Quirico, inviato de La Stampa di Torino, giornalista di grande esperienza e inviato di altrettanta qualità. «È solo attraverso la condivisione che ci si guadagna il diritto di raccontare la sofferenza altrui – prosegue convinto –. L’unico sistema per farlo in modo onesto e leale credo sia attraversare il dolore delle persone di cui si scrive: provare le loro stesse emozioni, speranze e delusioni». Un metodo che ha un prezzo, a volte anche salato. E infatti il nome di Quirico si è fatto conoscere al grande pubblico l’anno scorso, a causa del suo rapimento in Siria. La prigionia nel paese mediorientale, però, è stato solo uno degli ultimi capitoli della carriera di questo distinto sessantatreenne di Asti, dalla erre moscia e dalla parlata cordiale. Prima di scomparire per cinque mesi nel “Paese del Male”, Quirico è stato in moltissimi dei principali teatri di guerre, crisi e rivoluzioni degli ultimi decenni. E ora è di nuovo in partenza per Kiev. sperienza alla coscienza e, infine, alla conoscenza. È un punto chiave del laNel pianto c’è giornalismo voro giornalistico: senza il pianto, uno «Negli articoli che scriverò nei prossimi scatto fotografico, un articolo di giornagiorni – preannuncia prima di salire a le o un servizio tv non hanno senso». bordo – non voglio spiegare al mio pubEppure la figura dell’inviato è divenblico l’Ucraina o il suo futuro. Io vado in tata una specie in via d’estinzione nelun posto, attraverso quel luogo, inconl’ecosistema dei media italiani. Le possitro le persone che ci vivono e racconto bilità di vedere con i propri occhi le esattamente quella piccola sezione di realtà, soprattutto le più lontane, sono realtà e di storia che ho potuto vedere. sempre meno per chi lavora nelle redaAnche perché credo che sia proprio la zioni. «I giornali sono molto cambiati – gente la protagonista ultima della Storia, concede Quirico –, oggi si fanno con quella con la s maiuscola». strumenti diversi che non mi appartenDel suo, del nostro mestiere, Quirico gono completamente e nei quali non ho ha un’idea ben precisa. «È la creazione molta fiducia. Internet su tutti». della commozione, la sofferenza umana Il punto però, continua il giornalista (che ritengo sia una delle grandi ricpiemontese, «è che i lettori diminuiscochezze del mondo), il materiale con cui no perché evidentemente sono insoddilavoro. E le parole sono i miei strumensfatti del modo in cui si fa informazione, ti. La commozione è fondamentale per del fatto che vengano dedicate 27 pagicompiere il passaggio che porta dall’e-

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La Storia la fanno i piccoli Sopra, Domenico Quirico, inviato de La Stampa. A sinistra, preghiera di pace per il Centrafrica, conflitto “dimenticato”. A destra, il dramma dei profughi siriani

ne al barbiere di Renzi e nessuna, o molte molte meno, alla situazione di stati come il Sud Sudan o la Repubblica Centrafricana. E la colpa è anche dei giornalisti. Abbiamo assistito impotenti e passivi all’involuzione dei giornali, alla morte di figure professionali come l’inviato e il corrispondente. Lo abbiamo accettato in nome della pigrizia, delle tutele e di una scarsa lungimiranza».

Non abbiamo testimoniato Le conseguenze sono non solo economiche. E non solo italiane. Quirico, per esempio, proprio perché su quel fronte si è impegnato in prima persona, ha più volte ribadito che in Siria «il dovere di testimoniare non ha funzionato». Il racconto dei media nazionali e internazionali, ha ammesso con amarezza, non ha contribuito a un miglioramento della si-


l’intervista

Il giudizio

«La Siria, paese del Male rischia la “somalizzazione”» Nell’aprile 2013 Domenico Quirico viene rapito in Siria insieme al collega Pierre Piccinin da Prata. Rimarrà prigioniero per cinque mesi, fino all’8 settembre: 152 giorni da ostaggio, che ha raccontato nel libro Il Paese del Male” (Neri Pozza). «In tutti gli stati in conflitto in cui sono stato – spiega – ho sempre trovato qualcuno che si rifiutava di accettare le leggi del Male, professando pietà e misericordia. In Siria, invece, per la prima volta ho trovato il dominio del Male su tutti. E questo non vuol dire che tutti i siriani siano cattivi, piuttosto che in Siria le condizioni storiche hanno reso obbligatorio essere cattivi, feroci e spietati. Gli uomini non si possono permettere la misericordia, altrimenti verrebbero spazzati via, uccisi. È la contraddizione più mostruosa della vicenda siriana». Quale può essere il futuro per una nazione così devastata, dove continuano a parlare le armi, non i negoziati. Per Quirico, che in Siria era già stato varie volte prima del sequestro, le ipotesi sono due. «La prima è una vittoria del regime, che nelle ultime settimane è diventata un poco più probabile. Oppure, nel caso in cui questo sostanziale stallo prosegua, una “somalizzazione” del paese. Come è avvenuto nel paese africano, immagino una frammentazione dello stato in potentati retti dai vari attori in campo: regime, jihadisti, gruppi banditesco-rivoluzionari e cosi via». (pr)

tuazione. E, a ben vedere, potrebbe non trattarsi di un caso isolato. «Credo che dovremmo interrogarci in merito agli effetti sempre più deboli che i giornali hanno sulla creazione della coscienza collettiva – riflette –. La Siria può essere considerata un caso estremo, ma credo che questo fenomeno sia visibile, per esempio, anche nella politica interna italiana. Il rapporto tra società, storia e giornali mi sembra si stia rapidamente sfilacciando. Credo sia stata la guerra in Vietnam l’ultima volta in cui i media abbiano in qualche misura condizionato davvero gli eventi storici, cambiando l’opinione della società».

Nonostante questo lucido pessimismo, Quirico continua il suo lavoro e, anche dopo la liberazione dalla prigionia siriana, non ha smesso di macinare miglia nei cieli e, soprattutto, chilometri sul terreno. Anzi. Uno dei suoi più recenti viaggi è stato in Bosnia ed Erzegovina, dove quest’anno si celebra il centenario dell’inizio della prima guerra mondiale, causato dall’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria, avvenuto il 23 giugno 1914 a Sarajevo. «La Grande guerra – ragiona il giornalista, da sempre appassionato di storia – è stata la fine dell’Europa. In quelle trincee è morta la Grande Europa, non

nel senso dei grandi imperi, ma nel senso della civiltà europea: si è andato spegnendo l’apporto del continente al genere umano in termini di creatività. Da lì è cominciato il declino. L’Europa di oggi, così avara, timorosa di diventare povera, incapace di produrre cultura, scienza e politica, è la conseguenza di quei colpi di pistola. Questo non è un anniversario storico, ma contemporaneo». Un anniversario arrivato insieme a un’ondata di proteste di piazza, scoppiate in molti centri del paese, che rimane uno dei più poveri del continente. «Il carattere straordinario delle proteste che a febbraio hanno scosso la Bosnia è, per la prima volta dalla guerra nella ex Jugoslavia, l’assenza del fattore etnico. Si tratta di un passaggio epocale – osserva Quirico –. A mio parere quello bosniaco è un movimento che fa parte di un fenomeno più grande, all’interno del quale vanno ricondotti anche i fatti avvenuti in Ucraina. É la fine del postcomunismo. Mi spiego: la liquidazione del totalitarismo nell’Europa dell’est è avvenuta attraverso un’operazione di vertice. I popoli di quelle nazioni vi hanno partecipato in minima parte, ma si sono ritrovati a subire nomenclature, apparati e ladrocini frutto del passaggio dal comunismo al liberismo. Ora quei popoli, in particolare le nuove generazioni, hanno deciso di agire e fare i conti con questo passato che sembrava non finire mai».

Tharir e Maidan, anteprime Insomma, dopo diverse analisi calzanti, ma pessimiste, ciò significa che all’orizzonte internazionale compaiono anche segnali di speranza? «Direi proprio di sì – conclude Quirico con un certo piglio –. Si tratta di un cammino lungo, ma se questi giovani non vengono schiacciati da altri poteri, credo che rappresentino un segnale di speranza. Come, del resto, lo sono stati i giovani della Primavera araba, in Tunisia o Egitto. Noi occidentali abbiamo la tendenza a considerare certi processi conclusi troppo presto. Piazza Tahrir in Egitto, così come piazza Maidan in Ucraina, non sono che le anteprime di libri ancora tutti da scrivere. Nella Storia accade spesso: una volta che alcune persone hanno superato una soglia e hanno guardato oltre una porta fino ad allora chiusa, poi è molto, molto difficile ricacciarle indietro…».

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milano

Chiara la pazza e il tempo prezioso Il Sapre aiuta le famiglie dei bimbi colpiti da malattie genetiche gravi. La fondatrice: «La cura non esiste. Ma insegnamo a vivere al meglio il rapporto che è concesso»

Como L’“Alternativa su misura” diventerà sistematica? Torino La Sosta e la Merenda, il Tavolo fa progetti Genova Cinque homeless aggrediti: «Genova è il nostro futuro» Verona Michaoui con Scarp, percorso di vendite e fede Vicenza I libri e il muro, la Praga nascosta di Honza Rimini L’azzardo, un guaio. Ma reagire è possibile! Firenze In pieno centro l’ascolto degli impoveriti Napoli «Dov’ero?» Momenti impossibili da dimenticare Salerno Il bere: accettato ma dirompente Catania Il gioco è relazione, mica dipendenza...

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di Ettore Sutti Paola e Fabrizio hanno appena fatto il bagnetto al loro piccolo Claudio e lo stanno asciugando con il phon. Il bambino ride divertito. Una scena assolutamente normale per una famiglia con un bimbo di pochi mesi. Ma una situazione tutt’altro che semplice, se il bambino in questione è affetto da una malattia genetica dagli effetti devastanti, che gli impedisce di mangiare, deglutire o stare semplicemente seduto. Tanto che un bagnetto fatto dai genitori diventa una grande conquista. Un modo, anche, per riavvicinarsi al proprio figlio, per ridere e scherzare con lui, non fermandosi alla sua malattia. Paola e Fabrizio vengono dal Lazio e sono una delle tante coppie che, da tutta Italia, si rivolgono al Sapre (Servizio di abilitazione precoce) dell’Ospedale Maggiore di Milano, una struttura unica nel suo genere, dedicata ai bambini malati di Una formazione che deve essere neSma I e II. Qui troviamo Chiara Mastelcessariamente precoce... la. «Ma tutti mi chiamano tutti “Chiara Della Sma si conoscono ormai decine di la pazza”», sorride. Fisioterapista, alla varianti, ma la Sma 1 è la forma più grasua forza e alla sua determinazione si ve e può portare alla morte del bambideve la nascita, avvenuta 16 anni fa, delno dopo pochi mesi di vita. Esistono, la struttura di riabilitazione. però, anche forme meno aggressive. In questo caso se la formazione dei genitori viene fatta tempestivamente, e non Chiara, cos’è il Sapre? sopraggiungono imprevisti, grazie ai È una struttura pensata per le famiglie presìdi su cui possiamo contare oggi di bambini malati di Sma, malattia che (aspiratore, macchina per la tosse, soncolpisce un bambino ogni 6 mila nati e dini) i bambini possono vivere molto di rappresenta la principale causa genetipiù rispetto al passato. E possono viveca di morte per minori sotto i 2 anni. Noi ci occupiamo di colmare quella re bene. A casa, insieme ai loro genitori, “terra di nessuno” che circonda i geninon attaccati a qualche macchina in tori dopo la diagnosi, per cercare di trauna corsia di ospedale. sformarli rapidamente da spettatori in “esperti” della malattia e della sua evoCome si fa a dire a una papà e una luzione. In Italia non esiste un sistema mamma che il loro figlio potrà vivere che consenta di affrontare queste patosolo qualche mese? logie in un’ottica di continuità, occuCercando di far capire che il bambino pandosi della qualità della vita dei bamha bisogno di loro, della loro vicinanza e bini e delle famiglie. I reparti ospedaliedel loro amore. Noi ripetiamo spesso ri si limitano a formulare la diagnosi. che i genitori sono i veri esperti del deMa quasi nessuno spiega l’evoluzione corso della malattia, perché nessuno della malattia. La nostra idea è semplipotrà mai conoscere il figlio così bene. ce: formiamo precocemente i genitori, Noi operatori non possiamo fare nulla per metterli in grado di affrontare un contro la malattia – per cui non esiste percorso in cui la salute residua del ficura –, ma possiamo aiutare la famiglia glio si conquista attraverso piccole ma ad affrontare al meglio il tempo che refondamentali azioni di cura quotidiana. sta da vivere insieme.


scarpmilano Recentemente è salito agli onori della cronaca il caso Stamina Foundation di Vannoni e Andolina, che promette di curare la Sma con un terapia a base di staminali... Non è la prima volta che accade. Qualche anno fa c’era una fondazione svizzera che prometteva le stesse cose e mandava le famiglie a fare un terapia simile in Cina. Anche loro promettevano meraviglie. E i bambini che hanno seguito quella cura, purtroppo, oggi non ci sono più. Io non sono un medico e non mi occupo della malattia, ma sarei la donna più felice di Una struttura unica Qui sopra, Chiara questo mondo se una Mastella. A fianco cura esistesse. Purla sede milanese troppo il caso Stamidel Sapre na sta creando divisione tra le famiglie dei malati, si generano faide tra i pro-Stamina e i contrari. E così si perde tempo prezioso che, invece, andrebbe dedicato a se stessi e ai propri figli. Non è facile, però, per una coppia con un bimbo piccolo, accettare il fatto che il figlio non crescerà con loro... Nessuno dice che è facile. Però quello che noi cerchiamo di far comprendere fin dall’inizio è che si può creare una relazione bella e forte con il proprio figlio. Questi bambini non possono parlare, camminare, spesso non riescono nemmeno a stare seduti. Però sono belli come tutti bambini, hanno una buona intelligenza di base. E il loro cervello è assolutamente nella norma, così come la loro voglia di comunicare è identica a quella dei loro coetanei. Se i genitori “imparano” ad ascoltare i bisogni e le necessità dei loro bambini, allora riescono a instaurare quel rapporto che fa abbattere tutte le barriere e che fa dimenticare sondini, aspiratori e quant’altro. In quell’attimo la malattia non c’è più: ci sono solo una mamma, un papà e il loro bambino. Lei passa qui buona parte della sua giornata e ha due cellulari sempre accesi, perché i genitori possano chiamarti in ogni momento della giorna-

L’iniziativa

“Mio figlio ha una 4 ruote”, la carrozzina veicolo di relazioni É in programma dal 15 al 22 giugno a Lignano Sabbiadoro la sesta edizione di “Mio figlio ha una 4 ruote” ’iniziativa pensata per le famiglie (mamme, papà, fratelli ma anche nonni, amici e operatori) di bambini affetti da malattie neuromuscolari (Sma 1, Sma 2, distrofie muscolari e simili), tra 1 e 8 anni, che siano in grado di guidare la carrozzina manuale o elettronica. Si tratta di uno stage teorico-pratico promosso dal Sapre (Settore abilitazione precoce dei genitori, dell’unità operativa di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza della Fondazione Irccs Ca’ Granda Policlinico di Milano) per acquisire conoscenze e competenze, svolgere il proprio ruolo in modo pro-attivo, favorendo il miglioramento della qualità di vita. Conducendo un mezzo a quattro ruote, sia all’interno della casa che fuori, in strada, si sveleranno regole e trucchi per guidare in totale sicurezza e per salvaguardare “il proprio mezzo”. I bambini potranno imparare a giocare con la carrozzina e con gli altri dallo stesso punto di vista, sia misurandosi con le proprie capacità che confrontandosi con i propri limiti, soprattutto alla ricerca del più naturale piacere di divertirsi. Tutti potranno rendersi conto concretamente di come sia possibile vivere con la carrozzina, giocando, esplorando, imparando, ballando, cantando, facendo nuove amicizie... ta. La Sma è la sua vita... Pensi che mio figlio maggiore prega spesso Dio perché guarisca tutti bambini malati e faccia tornare sua mamma a casa presto... Quando ho iniziato, 17 anni fa, di questa malattia non si sapeva quasi nulla e la diagnosi si faceva esclusivamente sui sintomi. Allora lavoravo in una specie di scantinato, a stretto contatto con bambini gravissimi e genitori distrutti dalle notizie che i medici avevano appena comunicato. Ho iniziato a documentarmi, a parlare con

medici e terapisti che affrontavano la malattia con diversi approcci. Ho gridato, lottato, litigato e urlato ancora – da qui il soprannome “la pazza” –, finché siamo arrivati a essere quello che siamo oggi: una struttura con tre dipendenti e tre collaboratori, che è diventata un punto di riferimento importante per medici e famiglie. E quando lavori qui, in mezzo a queste persone, non puoi mica chiuderti la porta alle spalle e far finta che tutto questo non esista più, fino alla mattina dopo...

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l’altra Milano Magliaio di strada. Dopo quarant’anni di fabbrica tra Romania e Italia

Copriletti e calze in Centrale, Giovanni ha lana da tessere di Tony Meraviglia

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A CRISI GALOPPA, NONOSTANTE QUALCUNO sporadicamente affermi il contrario, e la co-

da alle mense si allunga; ma chi ha stimolo, volontà e capacità di non stare a guardare, anche in un contesto economico avverso e lontano dal proprio paese, può realizzare se stesso attraverso un’attività di successo. Ne è la dimostrazione Giovanni, 60enne romeno, che è riuscito a fare di un passatempo serale il suo lavoro. E oggi è in grado di guadagnarsi il pane senza chiedere la carità, ma realizzando i suoi manufatti. Giovanni, in Romania, lavorava in un lanificio di stato e maneggiando il morbido materiale che ben conosce gli è sempre balenata l’idea di creare qualcosa. Ma certo non avrebbe mai immaginato di lavorare a maglia on the road in uno stato straniero, per sopravvivere! Con la caduta del socialismo e la chiusura delle fabbriche di stato, Giovanni ha pensato di venire in Italia a cercarsi un lavoro, considerata la facilità a ottenere il visto per il nostro paese. Così, alla fine degli anni Novanta, ha chiuso porta e valigia ed è arrivato a Milano. In quel periodo non ha avuto grossi problemi a trovare un impiego. «Ho trovato subito lavoro in una tessitura alle porte di Milano – racconta Giovanni –; tutto sommato, sono stato pure fortunato, dal momento che le macchine già le conoscevo e la vita di fabbrica mi era familiare. Certo, ero distante migliaia di chilometri dal mio paese ma, in qualche modo, mi sentivo a casa». Per una decina d’anni tutto è andato bene, poi il lavoro gradualmente è diminuito. Fino a che, nel 2008, dopo più di quarant’anni di fabbrica tra Italia e Romania, si è ritrovato a vivere per strada. L’idea di lavorare la lana gli è balenata con l’arrivo dei primi freddi: «Ho pensato che se avevo freddo io, lo avevano pure gli altri – racconta –. Così ho investito qualche centinaio di euro in materiale: lana, ferri, uno sgabello. E mi sono piazzato in un angolo della stazione Centrale, iniziando a sferruzzare con una certa abilità». All’inizio la gente lo guardava con diffidenza, forse per il suo aspetto un po’ bizzarro. Ma dopo aver rotto il ghiaccio con qualche pendolare, ha iniziato ad avere estimatori. «Adesso sono qui quasi tutti i giorni – racconta –: facendo qualcosa il tempo passa, non mi annoio e non penso ai problemi». I lavori di Giovanni sono belli ed originali, spazia dai copriletti alle calze, e gli permettono di guadagnare il necessario per vivere. «Abito fuori Milano – conclude – e pago pochissimo di affitto; mia moglie aiuta alcune signore anziane a svolgere lavori domestici, quindi riesciamo a mettere insieme pranzo e cena. Non avrei mai immaginato di finire in strada. E forse tra qualche mese mi daranno un piccolo sussidio». Intanto, va di ferri che è un piacere...

Ho sempre lavorato. La crisi mi ha portato in strada. Ma pure gli altri dovevano avere freddo. Così ho investito...

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latitudine como Possibilità di lavoro fuori dal carcere: sperimentazione di successo

L’“Alternativa su misura” diventerà sistematica? di Salvatore Couchoud

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LTERNATIVA SU MISURA” ERA IL TITOLO DI UN PROGETTO SPERIMENTALE, promosso da

Fondazione Cariplo e regione Lombardia per il biennio 2011-2013, diretto a facilitare l’accesso alle misure alternative dei soggetti sottoposti all’amministrazione giudiziaria, e funzionale alla messa a punto di un modello organizzativo di presa in carico e accompagnamento sul territorio della provincia di Como. Quattro gli enti promotori dell’iniziativa (Consorzio Solco, Consorzio Mestieri, cooperativa Questa Generazione e Acli Como) anche se in realtà sono state molte di più le istituzioni aderenti al progetto, dalla casa circondariale Bassone al tribunale, dalla camera penale al comune di Como. Tutti disposti a collaborare, per innalzare la quota di detenuti ammessi alle misure alternative sul totale dei potenziali aventi diritto, evitando l’ingresso in carcere di alcuni, oppure agevolando l’uscita dei condannati a pene lievi o in attesa di scarcerazione. Il progetto non ha mancato, ed è stato questo uno dei suoi punti di forza, di puntare sulla riqualificazione dei percorsi di reinserimento sociale, in modo da garantire risposte adeguate ai bisogni di persone alle prese con gravi difficoltà di ricostruzione del proprio vissuto, a cominciare dagli aspetti psicologici e relazionali, per giungere a quelli più segnatamente pragmatici e organizzativi. Tra le azioni specialistiche che hanno dato corpo al progetto, infatti, sono da segnalare il supporto all’inserimento lavorativo, attraverso l’orientamento, la formazione e il sostegno alla ricerca attiva del lavoro, il tirocinio formativo e lo strumento della borsa lavoro. Ma non si possono trascurare anche azioni potenzialmente innovative, che sono state adottate per agevolare il recupero occupazionale, a cominciare dalla creazione d’impresa. Accanto a ciò, coloro che hanno avuto accesso alla pena sostitutiva hanno potuto giovarsi di interventi di verifica e consulenza, dell’introduzione in associazioni di volontariato, di azioni a sostegno della genitorialità e della ricostruzione delle reti sociali primarie e secondarie. I risultati della sperimentazione, resi pubblici in un convegno tenutosi nei locali dell’Università dell’Insubria, hanno ampiamente soddisfatto le attese. Ma hanno soprattutto avviato un dibattito sulle prospettive che tale modello operativo potrebbe spalancare, in termini di ricaduta territoriale in funzione delle misure alternative e dei lavori di pubblica utilità, se fosse reiterato nel tempo sino ad assumere i caratteri della regolarità e della sistematicità. A volte è proprio la politica dei piccoli passi la scelta giusta per rimettersi in moto.

Molti soggetti coinvolti, per evitare l’ingresso in prigione o agevolare l’uscita di condannati a pene lievi

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torino Il Tavolo senza dimora coordina soggetti religiosi e laici: si studiano risposte condivise ai bisogni di chi vive in strada

Sosta e Merenda, il Tavolo fa progetti di Vito Sciacca Il contrasto alla povertà estrema, per essere efficace, necessita di un coordinamento fra i vari soggetti operanti nel settore. A tale scopo nel 2009 è stato istituito a Torino un “Tavolo senza dimora”, organismo coordinato dalla Caritas diocesana con lo scopo di confrontarsi con varie realtà, sia religiose che laiche, attive in ambito sociale, al fine di armonizzare le linee d’intervento, oltre che per attivare e gestire progetti comuni. Per saperne di più Scarp ha incontrato padre Gherardo Armani, che nell’ambito Caritas si occupa dell’area di promozione umana. «Al Tavolo – spiega padre Armani – partecipano gruppi, associazioni e cooperative, oltre al Servizio di prevenzione delle fragilità sociali e sostegno agli adulti in difficoltà del comune di Torino e l’Ufficio Pio della Compagnia di San parrocchie da associazioni che già sePaolo. Il passaggio dalla fase progettuaguono gli interessati, allo scopo di svolle a quella realizzativa risale al dicembre gere una funzione d’accompagnamen2011, quando il vescovo di Torino, Ceto e di filtro per evitare situazioni posare Nosiglia, volle incontrare per Natatenzialmente conflittuali. Nonostante le i senza dimora per ascoltare le loro qualche comprensibile resistenza iniistanze: una di esse, particolarmente ziale il progetto è decollato e, a tutt’ogsentita, era la richiesta di un centro gi, le chiese che hanno aderito al prodiurno ove poter trascorrere qualche getto sono passate dalle quattro delora lontano dalla vita di strada e dai suoi l’anno scorso a dodici, per un totale di disagi. Da quest’incontro nacque il cenventicinque persone ospitate». tro diurno “La Sosta”, che oggi annovera una media di cento frequentazioni al giorno e di cui è in previsione l’ampliaUna merenda per tutti mento dei locali, grazie al supporto del Nel Natale scorso è emersa poi un altro comune, al fine di assicurare una magproblema che affligge chi è privo di cagiore capacità d’accoglienza». sa: la mancanza di una mensa nelle ore serali. Se, infatti, le necessità per il pranzo vengono esperite da numerose menUn angolo di casa se, alla sera ne è operativa soltanto una Nel 2012 ha preso il via “Un angolo di in città, nettamente insufficiente alla ricasa”, progetto finalizzato all’accoglienchiesta. Normalmente si cerca di fare za, da parte delle parrocchie, di persone fronte a questo bisogno con la distribusenza dimora. «Voluto anch’esso da zione di panini che, se possono essere monsignor Nosiglia – prosegue padre una soluzione di ripiego per un’utenza Gherardo Armani –, il progetto intende normale, si rivelano totalmente inadeassicurare un posto letto a chi non ce guati per le persone anziane o in cattive l’ha nella stagione invernale, ma anche consizioni di salute. sensibilizzare e coinvolgere le comunità «La soluzione concertata al Tavolo parrocchiali in merito a questa realtà. senza dimora – spiega ancora padre ArNel concreto è stato chiesto alle parrocmani – è stata l’attivazione del progetto chie di mettere a disposizione una stan“Merenda cinoira” (in dialetto piemonza dove una persona possa trascorrere tese, piccolo pasto, frugale ma sostanla notte. Le persone sono segnalate alle

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zioso, fatto alcune ore prima di cena). L’iniziativa è stata attivata poco prima del Natale scorso. Situata in corso Principe Oddone 22 e aperta tutti i giorni, esclusi i festivi, dalle 17,15 alle 18,45, può accogliere fino a 25 persone. Vi si accede tramite una tessera personale rinnovabile, della durata di un mese. Da ultimo, ma non per importanza, va ricordato il progetto “Scarp de’ tenis Torino” gestito da Caritas con il supporto dell’Ufficio Pio della Compagnia di San Paolo e della Compagnia stessa, che vuole essere un aiuto concreto attraverso cui persone in difficoltà possono esprimersi, ma anche avere una piccola fonte di guadagno, e questo avviene attraverso la vendita diretta del giornale prevalentemente nelle parrocchie».


scarptorino La storia

Nicola ce l’aveva quasi fatta, troppi ostacoli per chi è in strada

Il progetto Scarp sembra rispecchiare in maniera diretta la visione di solidarietà di padre Armani: «Credo che la cosa fondamentale – conclude –, prima ancora dell’aiuto materiale, sia dare dignità alle persone. Prima di tutto vengono le relazioni: bisognosa o meno, quella che ci si trova davanti è sempre e comunque una persona. Per questo non mi sono mai piaciute le distribuzioni di massa, si finisce per ragionare in base ai numeri. Mi piacerebbe che, da parte delle comunità cristiane e della società civile, s’instaurasse una solidarietà diffusa. Ma soprattutto occorre ridare la persona a se stessa, farle ritrovare fiducia, dignità. Dobbiamo provare a essere, anzitutto, compagni di vita per l’altro».

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Incontrai Nicola per la prima volta una sera di qualche anno fa, in uno scenario difficile da accettare e da comprendere: un mondo al confine fra la vita e la non vita, quella dei cosiddetti invisibili. Quella sera faceva molto freddo: lui era davanti alla stazione di Porta Susa insieme a un suo compagno di viaggio (preferisco questa definizione alle etichette come clochard o senza dimora). La stazione non era ancora quella struttura aliena di vetro che la sera scintilla come un gioiello cui siamo abituati oggi, ma piuttosto la confortante palazzina ottocentesca che ancora oggigiorno, ormai abbandonata, le sorge accanto. Nicola e il suo compagno stazionavano in un androne, seduti su un gradino, non distanti da un angolo pieno di rifiuti. Fu lui a chiedermi se avevo una sigaretta da offrirgli: ricordo che feci fatica a estrarla dal pacchetto tanto il freddo mi aveva rattrappito le mani. Non riuscii a fare a meno di chiedermi come facessero a resistere seduti su quel gradino. Stavo per salutarli quando vidi avvicinarsi la squadra degli operatori Boa, gli incaricati del servizio notturno di assistenza ai senzatetto: due ragazzi giovani, che dopo avere loro offerto una bevanda calda chiesero con tatto se non desiderassero essere condotti in una struttura per la notte. I due accettarono e Nicola, mentre raccoglieva lo zaino, mi sorrise e mi fece un cenno con la mano che ancora reggeva la sigaretta. Lo rincontrai dopo qualche settimana, mi disse che adesso aveva un posto fisso in un dormitorio, in cui esisteva anche una mensa serale; anzi, era proprio in quella mensa che adesso lavorava come volontario, e aggiunse che la cosa gli faceva molto piacere, non soltanto perché poteva contare su un posto letto e una cena tutte le sere, ma soprattutto perché finalmente si sentiva una persona, con uno scopo. Notai che anche il suo aspetto era più curato. «Sai – mi disse – ci sono buone speranze che io vada a vivere in una casa tutta mia. Ci sono solo da risolvere alcuni intoppi burocratici». Tuttavia, tutto questo purtroppo rimase un sogno, e Nicola ritornò in strada. Troppi sono gli ostacoli che incontra chi è in difficoltà: tempi lunghi per ottenere la residenza, orari rigidi per le colazioni, per i pasti, per accedere ai dormitori. Tutto costa fatica, in termini di salute, di freddo e di stanchezza, data la lontananza dei luoghi da raggiungere. Nicola non chiedeva mai nulla, sia perché non voleva sentirsi privato della sua dignità, sia per orgoglio. Soprattutto, non voleva sentirsi cucito addosso l’abito dell’emarginato, condizione non certo voluta. Accade infatti che ci sia chi si lascia andare, non vedendo possibilità di migliorare la propria vita, che ci rende attori o spettatori di un teatro che ci sta stretto, poiché non ci permette di salire sul palcoscenico da protagonisti. Nemesi marzo 2014 scarp de’ tenis

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genova Nel quartiere di collina, terminale di successivi flussi migratori, un laboratorio crea opportunità di integrazione. Per tanti ragazzi

Musica a Lagaccio, altitudine dei Sud di Paola Malaspina Alle spalle del centro storico genovese, su uno spazio già collinare, si trova il Lagaccio, quartiere dormitorio un tempo, fucina di nuove esperienze sociali oggi. Una periferia molto “connessa”, tra problemi e risorse di integrazione. Risalgo gli ultimi scalini della ripida mattonata – il sole che fa capolino tra gli alberi, i rumori del porto già lontani – con il fiato in gola, io così “cittadina” e abituata ai brevi tragitti dei vicoli. Penso che quando si deve spiegare a un non genovese il concetto di creuza, maltradotto nell’italiano “mulattiera”, nulla funzioni meglio di quella che porta dalla stazione Principe, col grande Palazzo Doria alle spalle, fin su al Lagaccio. Dai luoghi dei signori a quelli del popolo, su per una salita con una vista mozzafiato sull’insenatura del porto genovese, in un mondo nuovo e per certi versi sempre differente da se stesso. Perché il Lagaccio, sviluppatosi a essere considerato il quartiere dei “non partire dagli anni Sessanta come quargenovesi”, con una cattiva fama, in partiere dormitorio a sostegno della crescite immeritata, circa la sicurezza delle ta urbana, ha sempre saputo essere un sue strade e l’opportunità di frequenaccogliente rifugio degli stranieri e detarle, in quanto considerate da molti gli ultimi, “una felice altitudine del Sud”: “malfamate”. il sud Italia prima, con un importante Minore presenza di luoghi di aggreflusso migratorio di persone dal nostro gazione per giovani, maggior rischio di Meridione, che hanno trovato nel Lafenomeni di “bullismo” urbano, in alcugaccio un buon inserimento personale ni casi presenza di microcriminalità. e familiare, ora il sud del mondo, con un Tutto questo, rilevato attraverso un preimportante insediamento di nordafriciso studio sociologico, ha rischiato e ricani ed ecuadoriani, che spesso hanno schia tuttora di compromettere il poindividuato qui soluzioni abitative più tenziale sociale della zona. Anche se, decorose e idonee di quelle del vicino come per ogni regola, ci sono chiare eccentro storico. cezioni.

Tra integrazioni e problemi

Ri-percussioni in movimento

La situazione è ben evidenziata in un recente saggio di Andrea Fravega per il centro studi Medì: Lagaccio. L’integrazione ruvida. Da una parte, questo quartiere collinare costituisce un’opportunità di inserimento non trascurabile per i migranti: le case sono dignitose, hanno prezzi relativamente contenuti e offrono a famiglie migranti, magari bi-reddito, la possibilità di acquistare con mutuo un appartamento grande a sufficienza per tutta la famiglia. D’altro canto, non ha mai smesso di

Dire a Genova «sono del Lagaccio» è una dichiarazione di appartenenza forte: il quartiere ha mantenuto negli anni una sua precisa identità. Ed è proprio grazie a questa scelta identitaria forte che le poche realtà sociali presenti hanno saputo creare risposte innovative ai bisogni di aggregazione. Una su tutte, la Società di Mutuo Soccorso Fratellanza Artigiana, presente nel quartiere dal lontano 1877, punto di riferimento dei “decani” di Lagaccio. Dotata di spazi non utilizzati e necessitanti di ristrutturazione, ha individuato

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nel laboratorio Ri-percussioni Sociali un “partner” in grado di creare aggregazione e valorizzare quella risorsa. E così dal lavoro paziente di circa dieci musicisti (ma tra soci e simpatizzanti sono molti di più), da un’attenta raccolta fondi e da un po’ di sano olio di gomito, è nata una struttura in grado di ospitare laboratori musicali, sala registrazione e ogni progetto musicale con valenza educativa che si possa intraprendere. Attraverso le competenze di un gruppo di educatori e musicisti, oggi tutto questo è un work in progress, ma anche una già valida realtà. A spiegarmelo sono Riccardo, Olmo, Marco F. e Marco T., “zoccolo duro” del gruppo: «Attraverso i laboratori di percussioni, alcuni di noi, da anni, si sono impegnati nel recupero e nell’educazione di ragazzi a rischio. Da lì è nata l’idea di am-


scarpgenova Brutalità e solidarietà

Cinque homeless aggrediti: «Ma Genova è il nostro futuro»

pliare questo interesse e potenziare le attività del laboratorio, seguendo i diversi filoni dei nostri interessi musicali, dalla musica folk al rock americano, senza dimenticare l’espressione corporea e la fonica. Tutte queste risorse e competenze sono a disposizione di chi vuole venirci ad aiutare». Così, tra laboratori aperti alle scuole, in cui si sperimentano strumenti autorealizzati, e veri e propri concerti, con tributi ad autori quali De André e Nick Drake, l’attività del Laboratorio va avanti da più di dieci anni. Calce e mattoni sono ancora in azione, ma i risultati già si vedono: «I ragazzi delle scuole hanno cominciato a interessarsi al nostro lavoro e chiedono di venire a trovarci nel pomeriggio. Noi siamo contenti, perché muoversi in questo quartiere, da sempre casa geno-

Ri-percussioni Sociali I laboratori di percussioni, funzionano benissimo per il recupero di ragazzi a rischio.

In video salutano con il sorriso timido dei miti, ringraziano tutti i genovesi che hanno offerto loro aiuto, dicono di voler restare in città. In piedi, nell’atrio dell’ospedale Galliera, mani e braccia ingessate, davanti alle telecamere si trovano proprio loro, due dei cinque senza dimora aggrediti brutalmente con spranghe e manganelli la sera del 28 gennaio (nella foto una sequenza del pestaggio ripreso dalla telecamere). La loro è una storia di povertà come tante: l’addio al loro paese, la Slovacchia, l’arrivo in Italia, la difficoltà di trovare lavoro e casa. Di lì, una vita di espedienti: lunghe giornate di elemosina, aiuti dalla gente, un letto improvvisato, al riparo da pioggia e neve, sotto i portici di piazza Piccapietra. Ed è proprio sotto quei portici che, a tradimento, sono stati svegliati una notte di fine gennaio da colpi di tubi e manganelli, addirittura da un coltello. Un’aggressione improvvisa e implacabile, concepita come una vera e propria spedizione punitiva, che li ha lasciati feriti e choccati, soccorsi a pestaggio avvenuto dalle forze dell’ordine, nel frattempo chiamate da alcuni passanti, allertati dalle loro urla. Ne sono seguiti il ricovero ospedaliero, la ricostruzione dei fatti, l’indagine giudiziaria che sta cercando di stringere il cerchio sui possibili responsabili, anche grazie a un passamontagna insanguinato reperito nel luogo dell’aggressione. Ma anche una reazione collettiva di indignazione e solidarietà, che il 31 gennaio ha portato all’iniziativa di un sit-in di solidarietà in Galleria Mazzini: “Io è te. Dormire per svegliare”. Hanno aderito centinaia di persone: munite di sacchi a pelo, materassini, termos, hanno trascorso la notte nella Galleria storica della città, vicino a dove è successo il fatto, per manifestare, come dichiarato nella pagina Facebook dell’evento, la più totale solidarietà agli aggrediti. Nel frattempo, i cinque senza dimora sono stati dimessi e hanno trovato temporanea ospitalità presso le strutture della Fondazione Auxilium e, tramite quest’ultima, presso una parrocchia. Una soluzione provvisoria, certo, che lascia spazio, però, a possibili iniziative di aiuto e recupero per il futuro, anche considerando la volontà dei cinque di non lasciare la città, perché ormai affezionate a Genova e ai genovesi. Fa specie non sentire una parola di rancore, neppure un’eco di risentimento, nelle loro dichiarazioni; eppure certi episodi di intolleranza molto fanno pensare. E sollevano interrogativi rispetto alla capacità della città di gestire le situazioni di disagio sociale ed economico, tanto più in una stagione, come l’attuale, in cui le situazioni di indigenza si stanno rapidamente ampliando ed evolvendo. L’aggressione del 28 gennaio è una brutta ferita da rimarginare subito, un episodio cui porre rimedio per ridare equilibrio agli assetti solidali di cui Genova ha bisogno per progettare il suo futuro. Anche i cinque sfortunati senza dimora stanno cercando di pensare al loro. E lo desiderano proprio nella città che li ha pestati e ospitati. vese di ogni sud del mondo, era una scommessa e una sfida. Ma noi amiamo la musica non solo come fine, ma

anche come mezzo per unire le persone. E qui abbiamo modo di tradurre in realtà questa convinzione».

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verona In passato, errori e dolori. Poi l’Arena. Infine Scarp. Esperienza anche spirituale...

Cammino di vendite e di fede di Michaoui Younes Tutto ebbe inizio nel marzo del 2012, quando – uscendo da un situazione di difficoltà – trovai un progetto che mi accolse a braccia aperte, offrendomi un alloggio e un’opportunità di reinserimento sociale. Iniziai un tirocinio come addetto all’accoglienza e sorveglianza in uno dei monumenti più visitati d’Italia, nonché patrimonio mondiale dell’Unesco: l’Arena di Verona. Per me era un occasione da sfruttare, per ripartire e dare un taglio al passato, con i suoi errori e i suoi dolori. L’ambiente lavorativo era accogliente e privo di pregiudizi, il che rendeva il mio operato una gioia. Passarono sei mesi: l’esperienza doveva finire, prima o poi, dato che si trattava di un tirocinio. L’addio fu difficile, ma grazie al sostegno degli operaEro terrorizzato dal tori della struttura in cui risiedevo e ad dover girare col giornale. alcuni amici sono riuscito a superare Avevo paura del pregiudizio della coquel momento critico. Dopo qualche munità. Provate a pensare: un musulmese un operatore mi propose di dimano che va in giro nelle parrocchie a ventare venditore di Scarp. L’idea non proporre una rivista promossa dalla Cami entusiasmò subito, ma fui “costretritas… Ma questa scelta forzata si rivelò to” ad accettare, considerate le difficoltà fondamentale per il prosieguo del mio in cui ero immerso. cammino verso una vita migliore.

Perdersi nella nebbia C’è sempre, nell’arco di una stagione, normalmente nel periodo freddo, un periodo in cui cala la nebbia. La nebbia: un fenomeno più che naturale, ma se ti prende alla sprovvista può crearti non pochi problemi, la nebbia quella fitta. La regola sarebbe: non andare mai in un posto sconosciuto, senza qualcuno che quel posto lo conosca bene. Mantenendosi a questa regola, però, non avremmo scoperto niente, saremmo all’età della pietra. Può benissimo succedere però che nell’arco della vita ti trovi in un luogo che non conosci e ti trovi smarrito e poi cala la nebbia che ti avvolge tutt’intorno. Non sai più cosa fare, non sai che direzione prendere, ti senti smarrito e perso. Poi cala la notte e tutto diventa nero e ti sale la paura, la paura di non uscire da quel labirinto. L’unica speranza che ti tiene in vita è che arrivi presto l’alba, e con quella la luce. Con la luce del nuovo giorno potresti trovare il sentiero giusto. La fame, la sete ti attanagliano lo stomaco, la stanchezza ti paralizza e l’umidità ti entra in corpo, ti blocca. Cerchi di accendere un piccolo fuocherello di speranza, per riscaldarti e avere qualcosa di vivo intorno, oltre l’abbraccio della nebbia. La voglia di lasciarti cadere a terra e dormire è enorme. L’alba non è ancora spuntata e la nebbia non si è diradata. L’unica cosa che puoi fare è aspettare fino a che spunti di nuovo il sole e la nebbia R.T. si diradi, sperando che qualcuno ti indichi la via del ritorno.

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Venivo da un momento buio dal punto di vista spirituale, non credevo più a nulla. All’inizio mi limitavo ad assistere alla fine della funzione religiosa e a farmi notare dal celebrante con la mia casacca rossa. Poi cominciai ad arrivare un po’ prima, assumendo sempre una posizione di rispetto durante i momenti di raccoglimento e preghiera. Mi sentivo in pace con me stesso in quell’ambiente. Sono arrivato al punto di partecipare alle messe recitando alcune preghiere come il Padre Nostro, il che ha suscitato la curiosità di qualche parroco e mi ha permesso di avviare un confronto interreligioso: lo scambio tra culture e civiltà, per vincere le mie paure e accrescere la mia fede.

Prenotazioni, ma con Scarp Ora frequento regolarmente un cammino formativo sui dieci comandamenti in una parrocchia dove vado una volta al mese a proporre la rivista. E le soddisfazioni continuano perché sono riuscito a trovare una collocazione come impiegato al Cup (Centro unico prenotazioni dell’Ulss) e ciò mi ha permesso di avere la mia indipendenza alloggiativa. Nonostante il mio nuovo percorso, ho chiesto al responsabile veronese della distribuzione della rivista di poter proseguire la collaborazione con Scarp: per me rappresenta un processo di crescita continuo. E soprattutto conto di poter dare il mio contributo a coloro che si trovano nelle condizioni in cui stavo fino a poco tempo fa.

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FONDAZIONE SACRA FAMIGLIA ONLUS

in collaborazione con

Fondazione Sacra Famiglia Onlus lancia la Stagione Teatrale nel teatro appena ristrutturato della sede di Cesano Boscone Milano

STAGIONE TEATRALE 2014

QUESTA VOLTA RIDIAMO...

SUL SERIO! GiovedĂŹ 13 ore 21

MARZO 2014

AGRODOLCE GiovedĂŹ 10 APRILE ore 21

2014

I CONSUMISTI MANGIANO I BAMBINI GiovedĂŹ 8 ore 21

Ironizzando sulle nostre abitudini a WDYROD OœDWWRUH SDUOD GL IURGL VR¿ VWLFD]LRQL alimentari e ristorazione, dipingendo un intero popolo, quello degli italiani, per cui mangiare è una cosa sacra

MAGGIO 2014

SECONDO ORFEA FONDAZIONE SACRA FAMIGLIA Ăˆ UNA ONLUS FONDATA NEL 1896

DOMENICO POGLIANI. ATTRAVERSO LE SUE FILIALI IN LOMBARDIA, PIEMONTE E LIGURIA ASSISTE OGNI ANNO PIĂ™ DI 5MILA PERSONE FRAGILI ALLE QUALI OFFRE SERVIZI RESIDENZIALI, DIURNI, DOMICILIARI E AMBULATORIALI DA DON

Una parodia di uno slogan storico che il comico trasforma in una provocazione: i consumisti non mangiano i bambini, però tutti noi, da tempo, stiamo mangiando il loro futuro

Storia di una donna che vive a Gerusalemme nell’anno zero, vedova di un centurione romano, una vita consumata nella tranquillità , un giorno vengono ad abitare vicino a lei una coppia di giovani sposi...

Per info e prenotazioni: eventi@sacrafamiglia.org tel. 02.45677740 dal lunedĂŹ al venerdĂŹ dalle ore 8.00 alle ore 17.00

ENTRATA AUTO DA INGRESSO CARRAIO VIA GOZZOLI - MILANO

Teatro Fondazione Sacra Famiglia Piazza Monsignor Moneta 1 Cesano Boscone MI con il contributo di

Fondazione Istituto Sacra Famiglia

www.sacrafamiglia.org


vicenza Pragulic: giro turistico nella capitale ceca. Con guide homeless

I libri e il muro, la Praga di Honza di Paolo Meneghini Il campanile di piazza Jirí z Podeˇbrad batte le 18, l’ora prefissata. I turisti si avvicinano alla coppia – una guida e l’interprete – che dà l’idea di essere il loro appuntamento, ma quando parte il giro di presentazioni la guida porge la mano dicendo solo: «Homeless». Quello che sta per iniziare è un tour di Praga in compagnia di chi vive per la strada. E solitamente questa gente non ha nome, né volto. Ma un nome, Honza, si rivela presto averlo anche questo originale accompagnatore. E, oltre al nome, una specializzazione: raccogliere libri. È un sistema che ha trovato per sopravvivere con dignità. Cerca nei cassonetti i volumi che altri buttano via e li rivende ai turisti o a qualche negozio che commercia nell’usato. Ma i libri non sono soltanto il suo profitto, piuttosto un simbolo: del suo lavoro in una casa editrice negli anni buoni, del suo amore per la letteratura, dei capitoli di bandonare certi pregiudizi e vedere la storia che ha vissuto. realtà da una prospettiva diversa. Lo «Questo libro è in lingua ceca – fa scopo del progetto è ridurre la distanvedere –. È importante. C’è stato un za tra chi la casa ce l’ha e chi invece tempo in cui la nostra lingua ha ril’ha persa: distanza così facile da colschiato di sparire: allora, tutti parlavano mare, cadendo. tedesco e i nostri padri sono dovuti anLe stime, per difetto, parlano di oltre dare nelle campagne per imparare e 3 milioni di homeless in Europa, 30 miconservare l’identità della nazione». la in Repubblica Ceca, 4 mila soltanto a Honza è una guida del progetto Praga, e di un fenomeno in continua Pragulic (www.pragulic.cz). Nel suo espansione a causa della crisi econotour conduce gli ospiti tra le vie del suo mica e finanziaria. In Repubblica Ceca peregrinare quotidiano e intanto sfoe nei paesi post-comunisti la condizioglia le pagine della sua vita, raccontanne di senza dimora è relativamente redo gli alti, i bassi, e le passioni da cui si cente, successiva alla caduta del muro è sempre lasciato travolgere. di Berlino. In epoca comunista la figura degli homeless era sconosciuta, ma di quel periodo Honza non ha alcuna La città vista dagli homeless nostalgia. Pragulic è nato come idea di tre stu«La differenza tra adesso e prima? denti universitari nell’estate 2012, ma La libertà», afferma. Si ricorda bene, ha le carte in regola per diventare un Honza, di quando era vietato pubblicaprogetto importante. Seguendo i pasre e diffondere certe idee. «Ma io pubsi dei senza dimora, i turisti scoprono blicavo sui muri le mie poesie, i pensieangoli nascosti di Praga, ascoltano le ri degli autori proibiti. C’è una parete storie di esistenza randagia, aprono gli famosa a Praga, che appare in tutte le occhi sui disagi della società e sui tenguide turistiche, piena di disegni, di tativi di porvi rimedio. Ogni guida discritte, di slogan. Sono felice perché la segna l’itinerario secondo la propria prima frase lì l’ho scritta io, nel 1976 – esperienza. Per chi vive in strada è commenta con una risata rauca –. Il un’occasione per lavorare, per recupemio problema è che mi innamoro semrare fiducia, per guadagnare qualche pre di persone strane…». corona, e chi partecipa al tour può ab-

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Un aiuto concreto Sono tanti i motivi per cui uno si ritrova in strada, difficile sciogliere i grovigli dei percorsi personali, ma pesa anche una mancanza di politiche adeguate di accoglienza e di prevenzione. «Ci si ricorda dei senzatetto solo in certe stagioni – afferma Tereza Jurecˇkova, cofondatrice e amministratore delegato di Pragulic –. Durante l’inverno, perché la temperatura scende, o in certe stagioni politiche, quando è l’ora di aumentare i consensi». La considerazione della gente nei confronti degli homeless continua a essere fortemente contrapposta fra chi trova giusto tendere una mano e chi invece li vorrebbe tenere a distanza in quanto pericolosi, sporchi e non meritevoli di aiuto. Per questo, il fatto che Pragulic in

Praga vista dal basso Honza racconta la sua esperienza di homeless durante il Pragulic tour


scarpvicenza un anno e mezzo di attività abbia avvicinato circa 2.300 persone al mondo della strada è un buon risultato, ma le prospettive sono ancora incerte: quale sarà il futuro di Pragulic? E in generale dei senzatetto? Durante l’inverno a Praga funziona una sinergia tra le realtà che si prendono cura degli homeless: gli operatori dell’Esercito della Salvezza accompagnano le persone senza dimora al dormitorio cittadino galleggiante, l’Hermes Boat sul fiume Vltava, che accoglie oppure indirizza verso altre strutture pubbliche o gestite da associazioni come Nadeˇje (www.nadeje.cz) e Caritas. Un rimedio alla situazione dei senza dimora si può trovare a partire da qui: dal saper combinare e integrare costantemente le azioni, ciascuno con la propria specifica vocazione. Per Pragulic significa accompagnare sempre più persone a conoscere la vita della strada e, nel verso opposto, quanti più senzatetto possibile verso il riscatto. Intanto con Honza sono trascorse due ore, durante le quali i turisti hanno visitato cassonetti, quartieri popolari e luoghi solcati dalla storia personale di chi li ha guidati. «Ecco un dono per voi», dice Honza alla fine del tour: ha frugato e scovato un vecchio libro illustrato di Praga, in italiano. Un gesto bellissimo di attenzione e accoglienza. Ma il dono più grande, ancora una volta, è aver condiviso la vita, l’esperienza.

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Il racconto

Ibrahim nel deserto: «Sono uno dei rimasti» Dal Ghana volevo andarmene, a tutti i costi. Via, lontano dalla mia famiglia, senza nemmeno una meta, purché i chilometri di distanza fossero molti. Troppo doloroso rivangare i motivi di questa partenza, ma forse quello che ho affrontato dopo racconta meglio di tanti discorsi questo desiderio di fuga. Un passaggio in auto mi ha permesso di attraversare velocemente il Burkina Faso e mi sono ritrovato in Niger, dove sono stato contattato per strada da improvvisati organizzatori di viaggi-salvezza. Ti vedono con lo zaino e ti fermano proponendoti di andare in Libia in camion. È così che mi sono ritrovato con centinaia di persone radunate su uno spiazzo, i camion erano due e siamo saliti: i bagagli sotto e noi appollaiati in cima. In Niger bande di ribelli, Tarek, e forze governative si contendono il monopolio dei pozzi petroliferi del deserto; per impossessarsi delle vie di comunicazione piazzano bombe sotto la sabbia in modo da bloccare l’avanzata gli uni degli altri. Quando il tuo mezzo sale su una mina, in realtà non ti accorgi di niente, senti un boato fortissimo e pensi che stia succedendo a qualcun altro. Solo dopo, quando ti riprendi e vedi che intorno a te è pieno di morti, e senti le grida dei feriti, capisci cosa è successo. E così è capitato quando il camion su cui viaggiavo è saltato per aria, mentre l’altro continuava la sua marcia. Dopo la tragedia, noi sopravvissuti abbiamo cominciato a correre di qua e di là, e così altre bombe, altri morti. Quando siamo riusciti a calmarci, ci siamo radunati, e siamo ripartiti a piedi attraverso il deserto. Dove puoi incontrare bande di Tarek. Può andarti male se incontri persone disumane che pretendono da te tutti i soldi, anche quelli che non hai, e per essere sicuri ti uccidono aprendoti la pancia per controllare se per caso li hai inghiottiti. Noi abbiamo incontrato una banda di ribelli “buoni”: ci hanno creduto, non avevamo nulla, e ci hanno lasciato passare dandoci anche un po’ d’acqua e della manioca. Ne abbiamo incontrati anche altri, uomini che vivono nel deserto, che ci hanno insegnato la direzione e come fare per non perderla. Di notte bisogna dormire con la faccia rivolta verso la tua pista, altrimenti la mattina non ti sai più orientare. Invece così ti alzi e riprendi a camminare seguendo il tuo stesso sguardo, che non deve mai spostarsi dalla meta. Arrivati a Janet, una cittadina vicina al confine con l’Algeria, siamo rimasti a riposare due o tre giorni. Poi via di nuovo, sempre a piedi, fino alla montagna chiamata Sarakkà. Posta all’estremo nord del Niger, è una montagna altissima e sul ripido pendio ci sta solo una persona alla volta. Sulla cresta si cammina in fila, alla tua sinistra lo strapiombo, alla tua destra il baratro, un piede davanti all’altro mantenendo l’equilibrio su quei trenta centimetri di sentiero impervio e tra le mani le bottiglie d’acqua. Ci vogliono cinque o sei ore, ma devi camminare veloce, sennò l’acqua finisce, oppure il gruppo seguente ti raggiunge e ti preme per farti andare più veloce. Altri del nostro gruppo li abbiamo persi lì, su quelle montagne, la stanchezza li ha fatti precipitare nel vuoto. Quando siamo arrivati in Algeria eravamo rimasti in sessanta, stremati, distrutti. Io sono uno di quelli. Ibrahim Abubakara

Ibrahim è poi arrivato in Libia, da dove è ripartito con un barcone, che lo ha scaricato a Lampedusa. Inserito nel progetto di sostegno avviato dalle diocesi italiane nel 2011, è stato trasferito a Vicenza, ospite della città, alloggiato alla Società San Paolon. Oggi abita in uno degli appartamenti dell’Albergo cittadino in attesa di trovare lavoro. Intanto collabora alla redazione di Scarp. marzo 2014 scarp de’ tenis

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rimini Rimini è tra le province in cui la spesa pro capite per i giochi è più elevata. Asl, comuni e associazioni non stanno a guardare

L’azzardo, un guaio. Ma reagire si può! di Paolo Guiducci Più che un azzardo, è un guaio. Alcune cifre fanno perlomeno riflettere. Con 100 miliardi di fatturato, che rappresentano il 4% del Pil nazionale, il gioco d’azzardo si configura di fatto come la terza industria italiana, in grado di “produrre” 8 miliardi di tasse all’anno. Parliamo però di un “gioco” che si porta via il 12% della spesa delle famiglie italiane: 15 milioni i giocatori abituali, 3 milioni quelli a rischio patologico, circa 800 mila quelli già patologici, per i quali sono necessari 5-6 miliardi l’anno di cure. Senza dimenticare che spesso attorno ai luoghi del gioco d’azzardo lecito si organizza la microcriminalità dei furti, degli scippi e dell’usura. Gli italiani giocano ovunque. In posta, sconfortati dopo il pagamento di una bolletta; al bar, col resto di una colazione; in edicola, facendo “panino” con il quotizardo. Ogni riminese spende in media diano; in tabaccheria, con gli spiccioli di 1.834 euro l’anno (1.890 euro è il picco resto delle sigarette. Sempre alla ricerca italiano). Mettiamoci pure che la perspasmodica del gratta e vinci fortunato, centuale dei giocatori salga pericolosaquello in grado di cambiare la vita. E inmente durante l’estate per colpa dei tutanto non si accorgono che il gioco moristi, ma il dato resta alto. Se incrociato difica le loro esistenze. E che non è più con quelli del Sert, il centro servizi per le (solo) il giocatore a cercare il luogo del tossicodipendenze dell’Ausl di Rimini, gioco, ma è il gioco a venirgli incontro a che però oggi si occupa anche di casi di braccia aperte, attraverso tutti i canali e ludopatia, deve far perlomeno riflettere. da tutte le direzioni possibili. Il Sert riminese ha preso in carico 263 persone, in netta maggioranza (il 54,8%) per dipendenza da “videogiochi tipo bar Rimini dodicesima in Italia o sale gioco”; seguiti, con il 22,9%, “diRimini è la dodicesima città in Italia per pendenti” da lotto, superenalotto, lottecifre investite pro capite nel gioco d’azrie, ecc... Negli ultimi tre anni in media si sono registrati accessi di circa 50 persone all’anno. A esse si aggiungono altre persone che hanno il problema del gioco secondario rispetto a quello dell’alcol (bevono, di conseguenza giocano, ndr). «Il 12% sono anziani, un dato in leggera crescita – racconta la dottoressa Emma Pegli, referente del Sert in materia di gambling –. Il problema,

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però, è che per arrivare a richiedere il nostro aiuto, le persone devono essere in grave difficoltà economica. Ci sono pensionati che si giocano tutto, e arrivano a ipotecare case. La stragrande maggioranza dei giocatori, invece, gioca tanto, ma non arriva al punto di rottura. Sono “caduti” anche diversi titolari di esercizi, vittime delle proprie macchinette. Basta fare un giro nelle sale slot la mattina e vedere quante persone giocano». Ma il problema di fondo si annida in una cultura che gioca con le vite degli altri. «Il gesto del gioco è stato banalizzato – sintetizza la responsabile dell’Unità operativa dipendenze patologiche, la dottoressa Daniela Casalboni –, reso normale, quasi innocuo. Il gratta e vinci è proposto come resto della spesa, la pubblicità è perlomeno ingannevole. La diffusione della proposta non conosce limiti. Un atteggiamento devastante».

Verso una tassa per il gioco Come l’albero che cade fa più rumore di una foresta che cresce, così fa più clamore una vincita al Win for life di tante perdite costanti: il 20% delle somme giocate è matematicamente perduto. Ma non tutti “grattano” a cuor leggero. C’è anche chi scende in campo contro i giochi d’azzardo a suon di firme e di proposte alternative. Il sindaco di Rimini ci prova: ha chisto di «istituire una una tantum sul gioco d’azzardo per il 2014, per non far pagare la mini Imu ai cittadini». Andrea Gnassi ha sposato la tesi di altri colleghi emiliano-romagnoli, ma il governo è rimasto muto. I comuni di Cattolica, Morciano e Verucchio hanno però aderito alla campagna di contrasto del gioco d’azzardo, promossa dalla Scuola delle buone pratiche. Una strada


scarpmodena seguita a spron battuto anche dai vicini di San Mauro Pascoli e Savignano sul Rubicone, provincia di ForlìCesena, ma stessa diocesi.

Chiesa in prima linea La Chiesa riminese in effetti ha più volte messo in evidenza i drammatici risvolti sociali legati al gioco. I comuni chiedono più voce in capitolo sulla collocazione delle sale gioco e delle slot machine nei territori, sugli orari e sulla distanza rispetto a luoghi sensibili. Savignano è persino scesa in strada, in un fine settimana, portando la raccolta di firme contro videopoker e slot in piazza e raccogliendo un centinaio di “autografi”. Ma è una battaglia durissima. Nel solo comune di Rimini sono presenti circa mille apparecchi, distribuiti in 211 esercizi, oltre a 22 sale collaudate e 222 videolotterie. «Le vlt sono devastanti – assicura la dottoressa Pegli –. Molti che prima si barcamenavano, con le videolottery vano a fondo: si gioca e si perde molto di più». Numeri importanti anche a Riccione: circa 350 gli slot attivi in 61 esercizi, a cui si aggiungono un centinaio di videolottery e sei sale collaudate. La proposta di legge di iniziativa po-

polare per disciplinare il settore sta facendo il giro della provincia anche via mail. «Firma e fai conoscere la petizione per legalità e riordino gioco azzardo», è l’invito di Carlo Pantaleo (Associazione di comunità). Anche diverse parrocchie si sono mobilitate. E si è costituito un comitato provinciale riminese per la raccolta delle firme, cui aderiscono tredici

Buone pratiche

Cattolica: meno tasse a chi non installa le Vlt Più d’un esercizio commerciale, in giro per l’Italia, ha restituito le “macchinette”, rimettendoci un’entrata sicura ma guadagnandoci in relazioni. Cattolica si lancia su questa strada: l’amministrazione sta pensando di ridurre le tasse ai locali che decideranno di non installare macchinette da gioco e slot machine. L’idea è di Luca Ercolessi, capogruppo Pd ed esperto locale in materia economico-finanziaria. Perché questo tipo di sensibilizzazione? Conosciamo troppe persone del nostro territorio che si rovinano con il gioco, in particolare con i giochi video dilagati negli ultimi anni. Vogliamo intervenire dando un segnale forte, a livello politico e sociale. Il comune di Cattolica fa già parte del cartello dei “Municipi

sigle, tra cui Gruppo antimafia Pio La Torre, Associazione Ilaria Alpi, Masci e Anpi. Oltre ai risvolti economici, preoccupano anche le ore sottratte dall’azzardo al lavoro, alla vita affettiva, al tempo libero. E la sofferenza prodotta: psicologica, di relazione, educativa, materiale, di aspettativa di futuro... È una battaglia. Non più rinviabile.

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italiani per la legalità contro il gioco d’azzardo”. Cercate di compiere un ulteriore passo in avanti? La proposta arriverà a giorni sui banchi della maggioranza. Inizialmente si potrebbe intervenire pensando a sgravi fiscali, come riduzione di tasse (Imu o Tarsu, ad esempio) a chi decidesse di non allestire all’interno del proprio locale tali macchinette. Naturalmente il nostro resta un segnale politico e morale: gli incassi di tali macchinette superano di gran lunga il valore di un’imposta comunale ancorché ridotta, ma vogliamo dimostrare sensibilità su tale tema. Da cosa nasce tale decisione? C’è chi in due settimane si gioca lo stipendio di un mese di 1.200-1.500 euro e poi va in crisi personale e magari rovina dietro la famiglia. Non si può accettare una cosa del genere. I comuni possono far poco su concessioni o leggi. Ma possono dare segnali. A quando il vostro? Cercheremo di rendere operativi gli sgravi fiscali a chi non installa macchinette già nel prossimo bilancio comunale. Luca Pizzagalli marzo 2014 scarp de’ tenis

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firenze L’indigenza, problema non solo nelle periferie. Giornata in una Caritas nel cuore storico della città: richieste d’aiuto in aumento

Impoveriti in pieno centro di Leonardo Chiarelli

Felicità perduta Avere una compagnia mi dava felicità. Avere una famiglia mi dava felicità. Avere due figli meravigliosi mi dava felicità. Tornare a casa e avere tutti intorno mi dava felicità. Giocare con loro mi dava felicità. All’improvviso, fra me e mia moglie questa felicità si è rotta. E per andare avanti ho dovuto sempre rincorrere la felicità Umberto D’Amico

48. scarp de’ tenis marzo 2014

I poveri a Firenze aumentano. Molte famiglie fiorentine, e non, fanno sempre più fatica ad arrivare a fine mese senza dover chiedere aiuto. E non arrivare a fine mese vuol dire spesso non avere abbastanza cibo per sé e per i propri figli. Per una piccola associazione, o Caritas parrocchiale, è impossibile aiutare ogni individuo. Ma è possibile provare ad aiutare in modo concreto, singoli cittadini e intere famiglie. La Caritas parrocchiale di Sant’Ambrogio e San Giuseppe opera in pieno centro storico. Sono quattro i volontari che si spendono, quasi a tempo pieno, sottraendo tempo non tanto al loro lavoro, ma al riposo o a un hobby, se non addirittura alla famiglia. Altri quattro volontari aiutano a rotazione, sono per lo più studenti. Otto volontari: non sono molti; la tessera possiamo compilare meglio i non sempre soggetto di carità riesce a registri che il Banco alimentare ci rieesere l’intera comunità. chiede ogni sei mesi ed essere più precisi quando arrivano i controlli, per Una tessera per aiutare meglio esporre con certezza il rendiconto di «La nostra scelta, anche in questi tempi quanto ricevuto e distribuito». di crisi, è aiutare un numero magari miIl servizio di distribuzione al pubblinore di persone, ma in modo sostanziaco avviene ogni martedì. Non c’è bisole – spiega una volontaria –. Abbiamo gno di tessera per i generi che riguardadeciso di dare a ciascuno dei nostri no la cura della persona, i vestiti o le utenti una tessera nominativa, in modo scarpe. «È chiaro – spiega un secondo da definire la residenza e quanti sono in volontario – che se qualcuno viene per famiglia. Lo sappiamo con certezza, prendere qualche indumento di cui ha perché chiediamo il certificato contebisogno, e ci chiede qualcosa da manstuale. La scheda ci permette anche di giare, anche senza la tessera, cerchiamo accertare le reali condizioni di chi viene di aiutarlo. Sovente sono persone che a chiedere un aiuto. Prima capitava che vivono per strada; quindi diamo loro alcuni dichiarassero di essere in sei in scatolette o biscotti, un pasto da consufamiglia e non era vero, o che erano somere anche su una panchina». li mentre vivevano con figli o parenti auI volontari cercano sempre di andatosufficienti; in altri casi c’era chi facere incontro alle richieste. Non si tratta va il giro di più Caritas parrocchiali o alsemplicemente di garantire di che cotri istituti caritatevoli, cercando di racprirsi o sfamarsi, è qualcosa di più. «Ci cogliere quanto più possibile. Oggi sono donne che sono mogli, madri, seguiamo una quarantina di famiglie in nonne; ci sono uomini che sono padri, pianta stabile, che ogni 15 giorni vengolavoratori; ci sono i bambini. Proporre no con la tessera a prendere ciò di cui o scegliere il vestito che più si avvicina hanno bisogno per tirare avanti nelle al gusto di chi lo indosserà non svela due settimane successive». una sete di vanità, ma di dignità. Pasta, riso, legumi e tonno in scatoI vestiti che vengono donati alla Cala, marmellata, biscotti, farina e altri ritas parrocchiale vengono sottoposti a prodotti semplici ma in grado di garanselezione: inevitabile, dato che capitatire il fabbisogno di una famiglia: «Con


scarpfirenze Gli aiuti

In un anno duemila richieste

no anche vestiti ancora da lavare o addirittura indumenti bucati».

Fare rete funziona «Abbiamo stretto rapporti con altre associazioni – continuano i volontari –: siamo in contatto con l’Opera San Francesco, con la Caritas di Castiglion Fiorentino e il loro progetto che riguarda le ragazze madri, quando abbiamo un surplus di abiti premaman o per bambini molto piccoli li portiamo a loro. Teniamo sempre presente il vicino centro anziani (capita che ci arrivino prodotti alimentari a brevissima scadenza che non riusciamo a distribuire: prima che scadano, li portiamo lì, perché possano farci merenda). Poi con il gattile e canile, a cui portiamo i maglioni bucati o sciupati che ci arrivano, a loro fanno comodo per i ricoveri dei piccoli animali. Siamo in contatto anche con Mani Tese». In una città sempre più multietnica, in cui è in crescita la presenza di musulmani e fedeli di altre religioni anche di seconda generazione, c’è la necessità di aiutare le persone nel rispetto delle loro usanze, tradizioni e fedi. «Molti sono musulmani – spiegano i volontari –; lo si capisce dal fatto che chiedono omogeneizzati solo di frutta o verdura, per-

ché non possono mangiare la carne; anche quelli di carne bianca, poiché non si sa in che modo vengono macellati i capi di bestiame, non sono consumati». Si tratta di richieste legate alle diverse tradizioni culturali, a cui è abbastanza semplice venire incontro. Insieme ai genitori arrivano spesso anche i bambini; a loro viene regalato qualche giocattolo usato, se disponibile, o qualche dolce. «Molti stranieri che bussano alle nostre porte sono persone ormai integrate – confida un volontario –; i loro bambini frequentano la scuola del quartiere. C’è anche spazio per qualche battuta, le diversità non ci dividono, anzi, ci scherziamo su. Purtroppo durante la distribuzione i tempi sono abbastanza stretti e non sempre c’è l’occasione per fare due chiacchiere in più».

Italiani in crescita Negli ultimi due anni è aumentato molto anche il numero dei fiorentini che si rivolgono alla Caritas del centro, famiglie che arrivano e raccontano di situazioni di grosso disagio, soprattutto quando non lavora nessuno e l’intero nucleo familiare vive con una piccola pensione. «Poi – concludono i volontari – ci sono le persone anziane, a cui

La Caritas parrocchiale di Sant’Ambrogio e San Giuseppe nel 2013 ha registrato un totale di 1.935 richieste (865 riguardanti generi alimentari e abbigliamento, 530 solo abbigliamento, per erogare il quale non c’è bisogno della tessera). Invece sono 38 le famiglie seguite nel territorio parrocchiale. Grazie ai proventi dei mercatini parrocchiali è stato possibile integrare gli aiuti consueti, arricchendo i pacchi di Natale e Pasqua, oltre che procurandosi beni di prima necessità non forniti dal Banco Alimentare. In un anno, la Caritas parrocchiale ha distribuito: 1.372 chili di pasta 639 chili di riso 481 chili di biscotti 700 litri di latte 179 chili di pecorino 100 chil di grana 176 chili di farina 257 chili di olio 31,5 chili di confettura 150 chili di pelati 70 chili di zucchero 80 chili di burro 30 chili di caffè 262 chili di legumi 50 chili di tonno 60 chili di prodotti per l’infanzia 80 chili di detersivi Per le feste son stati inoltre distribuiti 30 pacchi pasquali e 35 pacchi natalizi.

portiamo i generi alimentari a casa, anziani soli o con situazioni personali e familiari molto difficili. Quando vengono i fiorentini, e il pudore impedisce loro di chiedere ciò di cui (magari quel particolare vestito) hanno effettivamente bisogno, capita che siamo noi a dire: questo le starebbe bene, è anche la sua taglia, perché non lo prende? Allora si aprono un po’, e i colloqui e le richieste si fanno più approfonditi».

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napoli Il terremoto in Irpinia, la bomba alla stazione di Bologna, l’attentato alle Torri gemelle: attimi che hanno segnato vite

Impossibili da dimenticare di Aldo Cascella Da pochi giorni con Antonella e Matteo, il nostro cagnolino, siamo a Napoli per un residuo di ferie. Abbiamo lasciato Roma perché non la si poteva sopportare, l’invasione dei coreani, dei cinesi, dei giapponesi. Taxi, autobus introvabili... Roma in quel periodo non è più la stessa: afa terribile e il ponentino che se ne sta tranquillo a rinfrescare altri posti. Quindi meglio lasciarla in compagnia dei nuovi barbari. Napoli, sembra un paradosso, in settembre è più malleabile. Ma forse noi abbiamo questa sensazione perché ne siamo ospiti due o tre volte all’anno. Fattostà che trascorriamo giorni spensierati: lunghe passeggiate con soste nella stupenda cornice di piazza San Domenico Maggiore, per sorseggiare un buon

La riflessione

La dolce ricetta della felicità, ma basta niente per l’infelicità Prendere 200 grammi di spensieratezza, 400 grammi di generosità, 500 grammi di serenità, mille di allegria, mille di amore e mille di pazienza. Versare in una ciotola 200 grammi di spensieratezza e con lo sbattiuovo della felicità mescolare, aggiungere 400 grammi di generosità, continuare senza fermarsi con il frullatore della felicità e aggiungere 500 grammi di serenità, mille grammi di allegria e versare in una teglia che avete spolverizzato con mille grammi di amore. Mettere in forno pieno di calore e aspettare la cottura con mille grammi di pazienza. Ecco a voi il dolce della felicità: non costa niente, basta volersi più bene. Io ho provato a essere felice con la spensieratezza; sono felice quando dono un sorriso, sono felice quando dono gratuitamente, sono felice quando sono serena, sono felice quando sono allegra, sono felice quando mi danno amore e sono felice quando riesco ad avere pazienza (non sempre). Se questa per me è la felicità, allora posso provarci a essere felice, senza dire sempre «oggi è una giornata no» e senza pensare sempre ai problemi. Il mio stato d’animo così sarà migliore e vivremo meglio io e la mia famiglia. Ecco cosa posso fare per essere felice: vivere la vita con spensieratezza, essere più convinta delle mie qualità ed essere più sicura. Nei fatti però – è brutto dirlo – non vedo speranza, perché la speranza me l’hanno rubata. Ma voglio ricordare un attimo di felicità: un giorno ho portato i miei figli alle giostre: i miei figli erano felici e io ho capito la differenza tra sorriso e risata. Quando rido mi sento felice, quando i miei figli stanno bene sono felice, quando riesco a fare le cose in tempo mi sento soddisfatta ma dentro sono infelice. Sono arrivata alla conclusione che sono felice perché mi sveglio, guardo la luce del sole e sono viva. Basta poco per essere felice; basta niente per essere infelice. Maria Esposito

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caffè, con Matteo che finge di fare il filo a Teresina, una piccola cagnetta senza dimora, ma tra loro nulla accade: differenza di classe, pensa forse Matteo. E poi le cene da Mimì alla Ferrovia, con Erminio il cameriere che fa l’impossibile per accontentarci. Il ritorno in albergo per il meritato riposo, e non solo; un salto su a San Martino, una visita al Museo archeologico, a Palazzo Reale, la gioia di rivedere il Teatro San Carlo dove, molti molti anni fa, papà mi portò, vestito da pinguino, per assistere a un’opera di Verdi. Ma si sa, le cose belle durano un battito di ciglia. E così l’11 settembre, a malincuore, si ritorna a Roma, sperando di trovarla libera e non più città aperta. Dopo aver consumato l’ultimo


scarpnapoli pasto da Mimì, con Erminio che quasi lacrima – non dirò mai la ragione del suo pianto –, ci avviamo in stazione. Eurostar, non ancora alta velocità: inizia il viaggio di ritorno, mi appisolo, cosa ti combina un buon rosso! D’improvviso, un vocìo fastidioso occupa l’aria. Cerco di destarmi per capire perché devo spendere tanti soldi e ascoltare quelli che sembrano litigi fra vecchie comari. No, il vocìo ha un ragione: tramite messaggi telefonici, veniamo a conoscenza che c’è stato un attentato in America, la certezza arriva in un baleno. Le Twin Towers, uno dei simboli di New York, sono state distrutte: la grande e inviolabile America viene, per la prima volta, violata, offesa e vilipesa. La notizia sconvolge i presenti, si fatica a credere a una cosa del genere. L’America no, la protettrice di tutti noi si è improvvisamente ritrovata nuda e indifesa: migliaia di morti. E quegli aerei che bucano le torri, bucando anche l’anima di tutti noi: io rimango esterrefatto. Pensandoci, l’unica considerazione che sorge è la seguente: sono lontano dalle religioni organizzate, pongono troppi limiti e dogmi, le torri forse sono vittime di questi fanatismi a buon mercato, il tutto ebbe inizio con le crociate. A distanza di secoli, ne paghiamo ancora le conseguenze.

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Strage di Bologna

Io in viaggio per l’Italia, il treno sfiorato dalla bomba Nel giorno del mio diciottesimo compleanno, avvenuto nel 1980, decisi che, alla fine della scuola, avrei fatto un viaggio senza meta, per conoscere la nostra bella Italia. E così feci. Alla fine di maggio andai alla stazione di Caserta a comprare il biglietto chilometrico al prezzo di 56.900 lire, valido per due mesi o tremila chilometri. E così quasi un mese dopo partii. Presi il treno delle 17 da Caserta per Napoli e da lì la coincidenza per Roma. Passai qualche ora nella capitale, poi un giorno a Firenze, poi ancora Bolzano, Merano, Sluderno, un paese a confine fra Italia e Austria. Da lì andai a Milano e poi Torino e provincia, feci anche un lavoro nel settore della disinfestazione alla Fiat. Durante il viaggio da Bolzano a Torino, conobbi una ragazza, ma questa è un’altra storia... Passai qualche giorno in provincia di Torino ad Alpignano, poi decisi di andare a San Giovanni Rotondo, in provincia di Foggia, e presi il treno. Voi state sicuramente pensando: qual è il giorno importante? Ci arrivo. Durante il trasferimento per Foggia, arrivai a Bologna verso le 10 di mattina. Indovinate di quale giorno? Sì, proprio il 2 agosto del 1980: il treno fece sosta per dare precedenza a un altro convoglio, poi dopo circa un quarto d’ora ripartimmo. Avevamo percorso tre o quattro chilometri, quando sentimmo un’esplosione e il treno si fermò. Tutti guardammo dai finestrini e vedemmo polvere e fumo. Alcuni poliziotti vennero a ispezionare i vagoni; poi, dopo tre ore ripartimmo, la linea era stata ripristinata. Ecco dov’ero quel giorno, 2 agosto 1980, giorno della strage: ero a poche centinaia di metri dalla stazione di Bologna. Non lo dimenticherò mai, perché se il mio treno fosse partito con qualche minuto di ritardo, chissà se stavo qui a raccontarlo... Bruno Limone

Terremoto in Irpinia e a Napoli

L’ascensore cominciò a ballare, imparai che il tempo è relativo Non avevo mai visto un ascensore ballare, prime di quel 23 novembre 1980. Io ero giù che aspettavo, e dentro quella cabina c’era Anna. Eravamo all’interno, nel chiostro di un convento. E all’improvviso tutti i vetri delle tante finestre si misero a vibrare, un casino... l’ascensore ballava, le persone cominciarono a urlare, e finalmente si udì: «‘O terremoto!». E chi lo aveva visto mai, un terremoto? In quel momento per istinto pensai: «Menomale, il convento è antico e resistente». Qualcuno gridò che era meglio andare tutti all’aperto, verso il pozzo centrale, altri avevano paura proprio del pozzo e quell’ascensore scendeva ballonzolando il suo carico umano e isterico con una lentezza esasperante. È proprio vero che il tempo è relativo: erano passati pochi minuti, ma quando da quella maledetta cabina schizzò fuori la mia ragazza pareva che non ci vedessimo da ore, addirittura che non dovessimo vederci mai più! E così, abbracciati, uscimmo a vedere cosa era successo nel resto del mondo.

Massimo De Filippis

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salerno Dipendenze che nascono da abitudini socialmente ammesse. Per esempio il bere: i Cat aiutano alcolisti e famiglie a uscirne

Accettato, ma dirompente di Michele Piastrella Si chiamano “Club alcologici territoriali”, un tempo conosciuti come “Club alcolisti in trattamento”, spesso siglati in Cat. Rappresentano una delle terapie più diffuse in Italia per la disintossicazione da alcol, accanto agli “Alcolisti anonimi”. I Cat utilizzano il metodo dello psichiatra croato Vladimir Hudolin. Il metodo (detto anche “approccio ecologico-sociale”) si basa sul concetto secondo cui l’alcolismo è un problema non solo per chi ne è dipendente, ma anche per la famiglia o i conviventi di quest’ultimo. Così, dalle idee di Hudolin, prima nella ex Jugoslavia, poi in Italia nacquero i Club di alcolisti in trattamento. Ogni settimana si riuniscono un certo numero di alcoldipendenti, accompagnati da uno o più familiari, e discutono dei problemi connessi all’alcolismo, di come stanno affrontando l’astinenza, e facilmente diffondersi nella società, così via. Infatti, per accedere ai club il perchè basate su abitudini che afferibevitore deve imporsi di non bere più, scono al mondo della legalità e non dele da qui cominciare un percorso comla criminalità. È infatti legale, oggi, acplesso insieme alla famiglia. Con gli alquistare alcol (almeno per i maggiorencolisti e i loro familiari nel club vi è un ni), ma anche giocare d’azzardo nelle servitore o facilitatore, che coordina i sale slot o nei bingo, o nelle ricevitorie lavori. È una modalità simile a quella del lotto. E così è più facile, rispetto alle dei gruppi di auto-mutuo-aiuto, in cui droghe, diventare dipendenti da queste persone affette da uno stesso disagio si abitudini, socialmente accettabili, ma riuniscono per aiutarsi l’un l’altra. non per questo meno pericolose. I dati del Gruppo Logos sulla diffuL’azione del Logos sione dell’alcolismo a Salerno sono inA Salerno i Club alcologici territoriali quietanti: si comincia a bere ormai a 11 sono diffusi da molti anni grazie all’attianni, quasi sempre nel gruppo dei pavità del Gruppo Logos, associazione beri. E, molto spesso, i genitori sono assonemerita, fondata dal dottor Aniello Balutamente impreparati all’interazione selice, che si occupa della prevenzione e con i figli che alzano il gomito; non sandella riabilitazione dall’abuso di alcol. no riconoscere, infatti, i segnali di un Più in generale, il Gruppo Logos si occomportamento da “bevitore problecupa delle dipendenze che possono più matico”. E, purtroppo, sono proprio le carenze educative dei genitori, l’assenza di regole e di controllo verso i figli, la scarsa attenzione e a volte lo scarso affetto a essi riservato che fanno sfuggire di mano le situazioni problematiche... Così, ragazzi che cominciano a bere una birra il sabato sera passano a due, poi a tre, poi dal solo fine settimana cominciano a bere tutti i giorni. Successivamente iniziano a sfogare nell’alcol le proprie insoddisfazioni, fino a

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sfociare nell’alcolismo. Non tutti sanno che già una semplice sbornia, che molti hanno provato almeno una volta nella vita, può determinare la perdita definitiva di un certo numero di cellule cerebrali. Alla lunga il bere può provocare praticamente ogni sorta di problemi psicologici e fisici, e letteralmente distruggere la vita futura di un giovane.

Divertimento sobrio I Cat, dunque, considerano giustamente il problema dell’alcolismo come “familiare” e non “individuale”: per fare un esempio, è chiaro che in una casa in cui vive un alcolista non possono esserci bottiglie di whisky o di vino a portata di mano. Dunque, la famiglia dovrà necessariamente collaborare per aiutare la persona alcoldipendente nel


scarpsalerno Il caso

Schiamazzi, alcol, droghe: la “movida” assalta il centro

percorso di astinenza. Attraverso questo sistema, sono davvero tanti i giovani e gli adulti che hanno smesso di bere, aiutati da una comunità di persone (il club, appunto) che condivide lo stesso obiettivo (la sobrietà) e che crea attorno al bevitore un clima di amicizia e di serenità. Ma anche la prevenzione è importante; bisogna agire nelle famiglie prima che i problemi sorgano o sfuggano di mano, bisogna sensibilizzare nelle scuole e attraverso i mass media. È un problema culturale, in Italia e nel mondo. Basti pensare ai tanti spot pubblicitari, che dicono che “non c’è festa senza alcol” (tanto per parafrasarne uno dei più noti)... Bisogna portare una cultura alternativa nella società: quella del divertimento sobrio.

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Ho abitato per anni nel centro storico di Salerno. Una zona che negli ultimi vent’anni è stata davvero recuperata, dal punto di vista urbanistico e sociale. Ma che, da qualche anno, forse proprio a causa del suo rinnovato aspetto, è diventata teatro di nuovi problemi sociali. Il centro storico recuperato, infatti, si è riempito di frequentatissimi locali serali e notturni, essenzialmente pub e birrerie, e si è generato il fenomeno della movida, ovvero il passeggio dei giovani, che ciondolano tra un locale e l’altro. E se fosse solo passeggio, nulla di male: servirebbe a far trascorrere una bella serata nel centro storico. Ma ai giovani evidentemente non basta. E così, si registra un continuo e costante aumento del consumo di alcolici tra i frequentatori della movida salernitana. Che è diventata luogo di ritrovo non solo degli indigeni, ma di ragazzi provenienti da tutta la regione. Il consumo di alcol è ormai abitudine massificata, un trend tipico della globalizzazione. Ma in una città con alto tasso di disoccupazione, diventa una valvola di sfogo e può portare a conseguenze nefaste. Ne sanno qualcosa gli abitanti del centro storico di Salerno, quale ero io fino a un paio di anni fa. Di notte rumori e urla la fanno da padrone; a nulla servono gli interventi della polizia per sedare risse e placare gli animi, accesi dal consumo di whisky o birra. E così, si è fatto tanto per migliorare la vivibilità di una zona, con marciapiedi nuovi, strade ristrutturate, arredo urbano e così via, ma intanto i giovani salernitani hanno peggiorato il loro stile di vita e le loro abitudini e rendono meno vivibile di un tempo quella zona. Difficile comprendere perchè, per i giovani di oggi, sia necessario bere e sballarsi per divertirsi. La mancanza di valori forti, non più trasmessi in maniera incisiva dai genitori, la presenza sempre più ingombrante dei mass media da soli non bastano a spiegare questa situzione. Ciò che mi ha colpito, negli ultimi tempi, è l’aver appurato quanto anche le droghe siano diffusissime tra i giovani salernitani. Non solo le “vecchie”, cocaina o eroina: oggi, mi diceva un amico che lavora nel campo della disintossicazione da stupefacenti, tra i giovani salernitani sono diffuse varie forme di sostanze di cui fino a poco fa si ignorava anche l’esistenza. Sono sostanze sintetiche, hanno nomi improbabili, talvolta inquietanti: “Shabu”, “Yaba”, droghe che possono avere effetti terrificanti negli assuntori. Altre sostanze usate, come “speed” o “cobret”, le avevo sentite nominare alla tv, ma non avrei mai immaginato che potessero essere diffuse anche nella mia città. L’amico che lavora in questo settore mi ha anche spiegato la nuova vera modalità di vendita di queste sostanze: internet. Esistono numerosi siti specializzati in questo, di solito con base all’estero: così, anche a un ragazzino è possibile acquistare anche da casa, in forma anonima. È un fenomeno in costante crescita, molto difficile da contrastare, dato che lo sostanze, spesso, non sono ancora classicate come pericolose. In definitiva i pericoli per i giovani sono sempre maggiori e l’attenzione dei genitori nei loro confronti è sempre minore. E a Salerno non ce la passiamo molto bene, in quanto a lavoro e condizioni sociali: tutto ciò è davvero preoccupante. Antonio Minutolo marzo 2014 scarp de’ tenis

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catania Anche Catania nella rete nazionale che propone mobilitazioni a supporto dei bar che rinunciano ai facili introiti delle slot

Il gioco è relazione, non dipendenza... di Roberto De Cervo Pensionati sul lastrico, giovani e adulti che sperperano il loro stipendio, la loro “paghetta” o la loro pensione; persone che, nella disperata illusione di ottenere una vincita che non arriverà mai, affollano i locali dove si trovano le diaboliche slot machine. Ma non esiste un lieto fine. Solo disperazione, che coinvolge anche le famiglie dei giocatori. Ad arricchirsi in realtà sono solo le industrie e le multinazionali del gioco d’azzardo. Succede a Catania, come in ogni città italiana. Ma molti cittadini si stanno mobilitando contro la dipendenza creata dal gioco d’azzardo, nel tentativo di arginare il dilagare di un fenomeno che riempie i centri di cura delle Asl e foraggia il terreno per l’azione della criminalità organizzata. Anche a Catania esiste un coordinamento provinciale contro il gioco d’azzardo, del quale la nostra redazione fa parte. Il coordinamento ha aderito alla campagna nazionale “Mettiamoci in gioco” e sta organizzando una serie di Slot Mob (flash mob contro le slot machine) in diverse città italiane, dal titolo “Non stiamo più a questo gioco!”: l’intenzione è divulgare il messaggio che un bar senza slot ha più spazio per le relazioni tra le persone.

Gli Slot Mob si moltiplicano Il primo Slot Mob si è svolto a Biella il 27 settembre e ogni settimana in altre città si vanno organizzando nuovi Slot Mob. La manifestazione catanese sarà la ventisettesima in Italia, dopo tante altre svoltesi, tra l’altro, a Milano, Benevento, Trento, Pavia, Palermo... Lo Slot Mob è il ritrovarsi insieme di un consistente numero di persone alla stessa ora nello stesso bar, per dare un segno visibile della mobilitazione dei cittadini e sostenere un locale che ha deciso di rinunciare alle macchinette. Nell’attesa di prendere un caffè, si gioca in modo sano e relazionale al biliardino, al ping pong e a quant’altro viene dettato dall’iniziativa dei partecipanti. Flavia Cerino è la referente catanese di Slot Mob, il coordinamento con-

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tro il gioco d’azzardo in Italia, di cui Telestrada è tra i soci fondatori. «È un’iniziativa che sta coinvolgendo molte persone in tante città italiane – spiega Flavia –, nata per sostenere cittadini ed esercenti che dicono basta alle slot machine nei loro locali. Oggi sappiamo che aderire è una scelta difficile, dato che una slot è garanzia di guadagno sicuro. Quindi dire di no è un atto di coraggio da parte dell’esercente, che preferisce non veder più gente rovinarsi, giocandosi l’intero stipendio o la pensione». Gli aderenti a Slot Mob vogliono ringraziare gli esercenti «che hanno

avuto il coraggio di dire no alle slot – continua Flavia Cerino –: lo facciamo riunendoci in massa nel loro locale per trascorrere tutti insieme, tra le duecento e trecento persone, qualche ora, magari per fare colazione e chiacchierare divertendoci. Così vogliamo far capire che un locale senza slot ha più spazio per le relazioni».

Disciplinare l’ubicazione Un altro importante obiettivo del coordinamento provinciale contro il gioco d’azzardo è ottenere regolamentazioni per l’ubicazione delle sale gioco. «Durante la scorsa campagna elettorale – ricorda la Cerino – “Libera”, con tutti i suoi candidati, si è fatta promotrice di un’iniziativa che chiede a tutti di prendere un serio impegno in materia. Fra tutti i candidati alla carica di sindaco, l’unico che ha aderito è stato Enzo Bianco. Lo scorso dicembre, proprio il nuovo sindaco Bianco ha aderito a un manifesto italiano delle città contro l’azzardo promosso da “Lega Autonomie”, promuovendo una manifestazione che ha coinvolto parecchie associazioni. Il sindaco Bianco sta promuovendo una raccolta di firme nelle municipalità. Sarebbe un bene che ci fosse più informazione in merito e che il comune arrivasse infine a prendere l’iniziativa di una delibera utile a rivedere l’ubicazione delle sale gioco. Che siano lontane dai luoghi sensibili: scuole, parrocchie, circoli sportivi, e dai posti dove c’è tanto tempo per l’attesa, come stazioni ferroviarie e ospedali. Meglio ancora se lontano dagli sportelli bancomat, dove si può velocemente attingere, per poi andare a giocare».

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scarpcatania Il progetto

L’ex Sert diventerà un centro per senza dimora Un nuovo dormitorio, ma soprattutto un centro di integrazione aperto alla città. È quello che stanno realizzando i missionari vincenziani in via Sant’Agostino 3, a Catania, nei locali dell’ex Sert (nella foto), affidati loro dall’Asl, in comodato d’uso gratuito. Un segnale positivo per il territorio catanese. Fino a un mese fa, la struttura era occupata da un gruppo di anarchici, che intendevano farne un centro di aggregazione giovanile. Adesso i giovani l’hanno finalmente restituita a padre Mario Sirica, responsabile anche del centro di accoglienza “Locanda del Samaritano”. «I ragazzi mi hanno consegnato le chiavi e si sono dimostrati dialoganti – spiega padre Mario –. Sin dall’inizio, ci siamo confrontati e si sono persino resi disponibili ad aiutarmi nei lavori di ristrutturazione...». Entro breve, i locali saranno ristrutturati e resi idonei per l’accoglienza dei numerosi senza dimora di Catania: diventeranno anzitutto un dormitorio maschile, ma anche un centro di accoglienza che intende lavorare sul reinserimento sociale dei soggetti presi in carico. «Stiamo creando un nuovo spazio sociale a servizio della nostra città», racconta Angus, uno dei potenziali fruitori del centro di via Sant’Agostino. «Stiamo parlando di una

struttura di accoglienza che non sarà concepita semplicemente come un dormitorio, ma come luogo di condivisione e centro di aggregazione, dove avviare percorsi di reinserimento: una dimora reale», aggiunge Marcello, anche lui giovane senza dimora, attualmente ospite della “Locanda”. I padri vincenziani sono già protagonisti, a Catania, di importanti progetti di reinserimento sociale e lavorativo. Supportano anche il progetto Scarp de’ tenis e la realizzazione di un orto sociale, entrambe opportunità di impegno e guadagno per soggetti accolti nelle strutture, soprattutto per i disoccupati di età superiore ai 50 anni. Alessandra Mercurio

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poesie di strada

Ho visto Ho visto soffrire. Ho visto morire. Ho visto il più forte cadere giù. Ho visto la rabbia di chi perdeva l’amore. Ho visto di notte splendere il sole. Ho visto lo scemo, l’intelligente, ho visto anche un saggio, ma non diceva niente. Ho visto la fame. Ho visto chi mangia. Ho visto del latte buttato per strada e un bambino che lo guardava. Ho visto il cielo cambiare colore. Ho visto in Tv troppo dolore. Ho visto la guerra dei cristiani, religioni divise da troppi ideali, prima piantavano alberi grandi dicendo: fratelli, mangiatene i frutti. Ma se un fratello poi si stancava, buttava giù gli alberi e i frutti schiacciava. Ho visto, non volevo vedere. Ho sentito e ho odiato sentire. La giustizia che gioca sulla pelle degli altri, politici stronzi ma molto importanti. Camorra, mafia, ladri banali, troppi disastri sopra i giornali. Mi guardo allo specchio rendendomi conto, che mi vergogno di essere al mondo, troppe ingiustizie da sopportare e troppo è lo schifo che si deve pulire. Ho visto già tanto e non voglio vedere, oggi tutti pensano al proprio sedere. Per questo son stanco di vivere a lungo, e chiedo alla morte che venga il mio turno.

Fabio Schioppa 56. scarp de’ tenis marzo 2014

Bentornato Perfida Marzo la realtà Il grigiore e il cammino delle nubi più lente, finalmente spazzati via dal vento, adesso, già dal primo mattino il sole fa capolino dando inizio al concerto di archi e di violini, della dolce musica degli uccellini. Gli alberi di pesco fioriti, rivestiti di bellissimi fiori rosa fan da contrasto al giallo della mimosa, mentre i prati si rivestono di fiori multicolori e sotto il cielo azzurro mi sfugge un sussurro nell’ammirare di te tutto lo sfarzo: bentornato tra noi, bentornato Marzo. Mr Armonica

Ricordi d’amore Sofferenze intime, spine acute dal dolore sepolte nelle ceneri del tempo. Il grigio del mio pianto prigioniero sulle strade desolate cerca emozioni giovanili accese e poi spente. Il cuore lentamente indugia percorrendo le tappe felici che sfuggono veloci nel lento franare della vita. Fra nostalgia e solitudine, un ramoscello di mimosa serbato nel libro silente della vita riporta il remoto profumo mai dimenticato: dolce sigillo di un amore senza tempo. Gaetano Tony Grieco

Questa perfida realtà stritola la mia anima, irrigidisce i miei pensieri inasprendoli e forzandoli e disturbando la mia razionalità. Il “buon senso”, perduto in chissà quale tempo scivola in un suolo soffice cedendo facilmente, sprofondando completamente e lasciando il posto alla desolazione mentale di ogni essere stolto compiaciuto del regalo avuto. Portatori di germi devastanti, destinati a razziare nelle menti il senno del giusto iniettando la perfidia e l’odio per il prossimo. Vorrei non conoscere queste realtà che deturpano ogni presente, ogni persona, insinuandosi nelle vite sane e in quelle che si vogliono recuperare. Non lo permettono, non lo accettano, non vogliono rispettarsi e la presunzione forsennata autorizza l’appropriazione di menti e sentimenti. Mi sforzo per scansare e deviare le minacce, mi rifugio nella mia piccola “nuvoletta” per essere al sicuro. La voglia di recuperare i valori buttati per nulla, regola la mia “ragione”, difendendola da attacchi vigliacchi e meschini. Non riusciranno a sopraffare una forza così tenace che mi porterà a ritrovare il rispetto per la mia vita. Non posso sottopormi a un fine squallido, non posso ignorare esperienze che hanno stravolto la mia vita. Domenico Casale


ventuno Ventuno. Come il secolo nel ventunodossier Agenzie online: quale viviamo, come l’agenda cosa si nasconde dietro il business per il buon vivere, come dei viaggi fai-da-te? Quali sono l’articolo della Costituzione sulla libertà di espressione. i riflessi sulle economie locali? Perchè Ventuno è la nostra i portali più conosciuti hanno sede idea di economia. Con qualche proposta per nello stato americano del Delaware? agire contro l’ingiustizia e di Andrea Barolini l’esclusione sociale nelle scelte di ogni giorno.

Ventunostili Diete che affare! Inchiesta su un mercato che genera miliardi. Ma spesso si dimentica dell’educazione alimentare...

21 di Sandra Tognarini

ventunorighe Cosa nutre la vita?

del cardinale Angelo Scola tratto dal volume “Cosa nutre la vita?” (Edizioni Centro Ambrosiano, 2013)

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21ventunodossier Un click in internet, e sei già in viaggio. Ma cosa si nasconde dietro il mercato delle grandi agenzie di viaggio online?

VACANZE IN PARADISO (fiscale) di Andrea Barolini

Un mercato che genera cifre da capogiro. Che favorisce il turismo, e velocizza le pratiche per prenotare e organizzare un viaggio. Ma dietro il business delle Online travel agencies (Ota) vi sono aspetti opachi. Commissioni rilevanti che mettono in difficoltà i piccoli esercenti, portali famosi con sede in territori “tax free”, ricavi non tassati nei luoghi dove sono realizzati: è la globalizzazione dei viaggi, che delocalizza pezzi di patrimonio nazionale...

58. scarp de’ tenis marzo 2014

Miliardi sottratti al nostro fisco

Il week end a Roma, le tasse in Delaware... Un click, e il viaggio è prenotato. Volo, albergo, affitto della macchina. E a prezzi stracciati. Alzi la mano chi non si è imbattuto in Expedia, Edreams, Booking.com, Opodo, TripAdvisor, Virtualtourist o Voyage-Sncf (soltanto per citarne alcuni). Noi utenti le conosciamo attraverso questi marchi, ma per gli addetti ai lavori sono le Online travel agencies (Ota). E a cambiare non è solo il nome: quelle che per i consumatori sono un utile strumento di semplificazione e di risparmio, per molti operatori del settore si sono trasformate nel tempo in un grande problema. Proviamo infatti ad allargare un momento lo sguardo, non soffermandoci unicamente sulle nostre esigenze di viaggiatori. Proviamo cioè a mettere a fuoco un punto di vista economico sulla vicenda, ragionando attraverso quelli che – nostri monumenti, le nostre unicità, insiestro malgrado – costituiscono i pilastri me a tutto ciò che rende il nostro paese del sistema globale: la massimizzazioun’attrazione unica al mondo per ricne dei profitti, da un lato, e la globalizzachezza e varietà, in alcuni casi fanno zione, dall’altro. In questo senso le parte del nostro patrimonio solo geoagenzie di viaggio telematiche hanno graficamente. Economicamente, una compiuto un mezzo miracolo: sono riuparte di essi ha abbandonato i confini scite nell’operazione, quasi inimmagiitaliani. Proprio “grazie” alle Ota. E sennabile, di delocalizzare ciò che è sempre za neppure fare troppo rumore. stato considerato, intrinsecamente, “non delocalizzabile”. Come funziona l’agenzia online Le spiagge del Salento, infatti, sono Torniamo allora all’utente medio. È evinel nostro immaginario un bene della dente a tutti il fatto che, al giorno d’ognazione Italia. Così come le arcate del gi, organizzare un viaggio senza passaColosseo sono un elemento costitutivo re per uno o più di questi colossi del della rappresentazione di Roma, e piazweb-turismo è quasi impossibile. Le za San Marco è l’emblema di Venezia. agenzie di viaggio online sono comodisEppure le nostre bellezze naturali, i nosime: a differenza di quelle tradizionali,


Viaggi online

non hanno un orario di apertura e sono disponibili 365 giorni all’anno. In più offrono tutta una serie di servizi accessori: mappe interattive, link ad altri siti interessanti. E soprattutto le recensioni: valutazioni sulla pulizia delle stanze di un bed&breakfast, opinioni sulla cordialità degli esercenti, sulla disponibilità del personale o ancora sulla puntualità di una compagnia aerea. Se a tutto ciò si aggiunge il fatto che, molto spesso, le Ota sono in grado di offrire i prezzi meno cari sul mercato, il gioco è fatto. Eppure ciò che viene offerto con una mano, pronto e infiocchettato, a volte viene tolto con l’altra.

Il primo modello: gli intermediari I meccanismi utilizzati dagli operatori del web-turismo possono variare a seconda del caso, del modello utilizzato, della piattaforma informatica. Possiamo però individuare alcune caratteristiche comuni, che consentono di delineare due modelli. Il primo è quello che fa delle Ota uno strumento intermediario tra, ad esempio, un albergatore e un suo clien-

Le spiagge del Salento? Almeno in parte, dal punto di vista dei proventi, non sono più Italia.... te. L’agenzia di viaggi online pubblica le fotografie delle camere, della reception, del giardino. E lancia una serie di offerte sul proprio sito internet. Gli interessati cliccano, scelgono, prenotano e pagano: a volte direttamente sul web, altre volte ritirano un voucher e saldano il conto sul posto (magari dopo aver comunicato i dati della propria carta di credito come “caparra”). Le Ota, a quel punto, chiedono una commissione all’esercente. Un pagamento che è giustificato dal fatto che il cliente ha trovato l’hotel, il campeggio o il ristorante, grazie ad annunci, foto e recensioni pubblicate sui loro portali internet. Qui nascono i problemi. Innanzitutto il prezzo che viene richiesto per

tale servizio: di norma, il “prelievo” sul totale fatturato è compreso tra il 15 e il 35%. Cambia, ad esempio, in funzione del livello di visibilità che gli albergatori ottengono sui siti: banalmente, se si vuole veder campeggiare il nome del proprio esercizio commerciale direttamente sulla homepage, occorre sborsare percentuali più alte. «Ho sentito parlare addirittura di commissioni che arrivano a toccare il 60% – racconta Marco Michielli, presidente di Federalberghi Veneto –, ma quando si arriva a questi livelli dobbiamo dire che non si tratta più di collaborazioni: questi non sono altro che dei cappi stretti attorno al collo degli albergatori». Difficile dare torto ai rappresentanti della categoria. Soprattutto se si tiene conto di un altro aspetto, che si affianca (e si intreccia) a quello puramente finanziario. Il fatto cioè che per gestori di hotel, ristoranti o b&b non c’è quasi scelta: “affiliarsi” a uno di questi colossi sembra inevitabile. O, per lo meno, è la strategia più facile per evitare di perdere, almeno potenzialmente, una grossa fetta della clientela. marzo 2014 scarp de’ tenis

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ventunodossier

La proposta

E se usassimo un portale pubblico? La guerra che oppone esercenti e agenzie di viaggio online è molto simile a quella che riguardò il settore alimentare negli anni Sessanta. L’avvento della grande distribuzione organizzata, ovvero delle catene di supermercati, impose un intermediario quasi “obbligato” tra consumatori e produttori. Anche in quel caso, facendo leva sulla comodità (ad esempio quella di trovare in un unico luogo tutti o quasi i prodotti di cui si ha bisogno) e sui prezzi, tenuti bassi anche grazie alle condizioni imposte ai fornitori delle merci. Ma se i prezzi praticati della Ota sono imbattibili, e se la loro forza economica è incontrastabile, quale potrebbe essere la soluzione? «Si dovrebbero oscurare i siti di coloro che hanno sede nei paradisi fiscali. Stigmatizziamo spesso la Cina che oscura parti di internet, ma non ci rendiamo conto che loro non fanno altro che difendere la propria economia», sostiene Renato Andreoletti, direttore della rivista specializzata Hotel Domani. Un’altra opzione, forse più immediata e praticabile, passa per la concorrenza. Esiste già un sito internet – Italia.it – che dovrebbe costituire la vetrina istituzionale del nostro paese nel mondo. Ad oggi, non consente di effettuare prenotazioni online: se lo si sfruttasse in questo senso, si potrebbe rilanciare il turismo, fare respirare gli esercenti, e contribuire alla lotta all’evasione fiscale...

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Molti esercenti, in sostanza, si sentono di fatto “costretti” a firmare i contratti con le agenzie di viaggi online. La porzione di mercato che queste ultime controllano è infatti enorme: difficilissimo rinunciare a una “vetrina” come quelle che possono offrire Opodo o Edreams. Il rapporto tra le parti è squilibrato. Lo certifica il fatto che il cosiddetto e-tourism è riuscito – secondo uno studio di Xerfi-Precepta, citato dal mensile francese Alternatives Economiques – a triplicare il proprio giro d’affari nel giro di soli sei anni. Non esiste, infatti, una Ota che non sia in grado di proporre decine di migliaia di soluzioni per ciascun paese. Prendiamo un colosso come Booking. com: le cifre che pubblica sul proprio portale parlano di 359 mila tra hotel, ville e appartamenti proposti. D’altra parte, «soltanto in termini di pubblicità su Google le agenzie online investono cifre che noi non potremmo mai neanche sognarci. Competere è semplicemente impossibile», prosegue Michielli.

Il secondo: acquisto e cessione Ma è il secondo modello quello ormai più diffuso tra le agenzie di viaggio online. Si tratta dell’acquisto e della rivendita. Le Ota, in questo caso, comprano un determinato quantitativo di notti in albergo. Senza, però, pagarle per intero: all’esercente normalmente viene versata una quota pari a circa il 75% del prezzo di una notte. Quando poi un cliente, collegandosi al sito internet dell’agenzia, decide di prenotare una camera – pagando (o impegnandosi a pagare in loco) ovviamente la cifra intera – il restante 25% finisce nelle casse della Ota. Con una vasta serie di clausole. «A tutti noi – accusa ancora il presidente di Federalberghi Veneto – vengono imposti numerosi vincoli. A partire dalla parity rate, ovvero dal divieto di proporre prezzi diversi da quelli presenti sul sito dell’agenzia online. In pratica, ci viene impedito il marketing. Perfino nei confronti di quei clienti che si presentano in hotel senza essere passati attraverso i portali web». E non è tutto: gli albergatori sono anche costretti a cedere l’uso del marchio. È per questo che quando si prova a scrivere il nome di un hotel su un mo-

tore di ricerca internet, molto spesso i primi risultati che vengono visualizzati non sono relativi al sito web “privato” dell’albergo, bensì le pagine di agenzie come Expedia o Opodo. Certo, a guadagnarci qualcosa sono anche gli albergatori. In primo luogo, grazie alla possibilità di raggiungere un bacino di clienti che altrimenti forse non sarebbero riusciti a trovare. Ma si tratta di un ragionamento piuttosto teorico: «In realtà, occorrerebbe maggiore coraggio da parte degli esercenti – spiega Renato Andreoletti, direttore della rivista specializzata Hotel Domani –, perché internet è una rete libera, e facendo un portale come si deve, si potrebbe per lo meno minimizzare il problema. Le Ota, in questo senso, sfruttano un analfabetismo informatico diffuso nel nostro paese». I singoli potrebbero dunque battere i colossi? Non è così semplice. Se è vero che i gestori di hotel possono immaginare di fare concorrenza alle agenzie online per quanto riguarda il proprio esercizio, è vero anche che uno dei grandi vantaggi dei portali delle Ota è che offrono, in una sola pagina, decine e decine di possibilità per scegliere. Ancor di più: il turista può sfruttare le agenzie per mettere a confronto velocemente le offerte e spuntare il miglior prezzo. «Per questo – aggiunge Andreoletti – si potrebbero offrire soluzioni diverse, pacchetti all inclusive o altre offerte, per convincere i clienti. Altrimenti, come accade oggi, è inevitabile che le Ota diventino un oligopolio che impone le proprie condizioni».

Non tassabile! Fin qui i problemi degli addetti del settore. Ma in realtà a perderci siamo tutti noi. Il motivo? Tra le delocalizzazioni operate dalle Ota ce n’è una che tocca direttamente le casse dello stato: una parte dei guadagni, infatti, “migra” dal territorio italiano, e non è dunque tassabile per il fisco della penisola. Prendiamo due casi emblematici: il gruppo Expedia e il gruppo Priceline (quest’ultimo proprietario del portale Booking.com). Il primo risiede nello stato americano del Delaware. Un luogo che la ong Tax Justice Network considera a pieno titolo un “paradiso fiscale”.


Viaggi online

Le Ota acquistano pacchetti di notti dagli albergatori. Non le pagano per intero. Quando scatta la prenotazione, a loro resta il 25% dei ricavi...

In Europa

Grandi catene e associazioni, si ribellano pure i colossi Il direttore generale del grande gruppo alberghiero francese Accor, Dennis Hennequin, dopo aver accusato una perdita netta di 599 milioni di euro sull’esercizio 2012, ha deciso di contrastare le agenzie di viaggi online. «Le Ota – ha dichiarato nel febbraio 2013 – hanno guadagnato altre porzioni di mercato lo scorso anno, e rappresentano ormai un volume d’affari da quasi un miliardo di dollari nei nostri hotel». Per questo, il gruppo punta a far sì che almeno il 50% delle prenotazioni arrivi direttamente dal loro sito, e non attraverso gli intermediari. Se così fosse, a guadagnarci sarebbero anche le casse pubbliche dei luoghi dove fisicamente sono presenti gli alberghi, dal momento i profitti rimarrebbero in loco. E sarebbero regolarmente tassati. Negli ultimi anni, anche alcune associazioni di albergatori europee hanno deciso di tentare di opporsi all’egemonia dei colossi delle prenotazioni online. In Francia sono state coinvolte sia la Commissione d’esame delle pratiche commerciali che l’Autorità per la concorrenza. In Germania, l’Autorità per la concorrenza ha imposto ai siti internet delle Ota di rivedere alcune clausole contenute nei contratti proposti agli albergatori. Procedure simili sono state avviate anche nel Regno Unito e in Svizzera. In Italia, invece, almeno per ora non sono state presentate denunce analoghe.

Ciò significa che tutte le volte che prenotiamo un hotel italiano sulle loro piattaforme – e paghiamo loro (spesso inconsapevolmente) una parte del prezzo finale – facciamo defluire denaro al di fuori dei confini fiscali del nostro paese. Quella parte di ricavi contribuirà a rimpinguare le casse di un tax heaven: «Esaminando i dati di Bankitalia possia-

mo dedurre che queste “multinazionali dell’intermediazione online” sottraggono all’Italia da 10 a 20 miliardi di euro in termini di commissioni. Il che equivale a circa 5 miliardi di euro di tasse non pagate», aggiunge Andreoletti. Cifre da capogiro. Priceline, in questo senso, è perfino più “trasparente”: sul proprio rapporto annuale ammette

senza nascondersi che gli albergatori iscritti a Booking.com versano le commissioni dovute su un conto corrente olandese. Perché in Olanda? Perché lì il sito è considerato “attività innovatrice”. In quanto tale, è autorizzata a pagare soltanto il 5% di tasse sui propri ricavi. Il danno alla collettività è dunque evidente. Si potrebbe eccepire che, grazie al notevole incremento dei flussi di turisti derivante dalle intermediazioni delle Ota, il totale incassato dal Tesoro potrebbe alla fine risultare più alto. «Niente di più falso – prosegue il direttore di Hotel Domani –. Prendiamo Roma: da quando è stato eletto papa Francesco, evidentemente più carismatico del suo predecessore, il giro d’affari degli alberghi ha ripreso di colpo vitalità: cosa c’entrano in tutto questo le Ota?». Ancora, si potrebbe osservare che anche prima esistevano intermediari, ovvero le agenzia di viaggi “classiche”. «Ma loro chiedevano commissioni ben più basse, nell’ordine del 10-15%. E fornivano un servizio», sottolinea Michielli. Il mondo globalizzato è anche far vacanze in un paradiso: fiscale.

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21ventunoeconomia Tutti vogliono dimagrire in fretta: giro d’affari, nel mondo, da 200 miliardi di dollari. Eppure in Italia il tasso di obesità cresce...

Business diete, ma la salute? di Sandra Tognarini Tra qualche settimana, sarà Pasqua. Ovvero l’ultimo dei periodi festivi prima dell’estate. Ci si ritrova a tavola con parenti e amici e non manca mai l’abbuffata di uova di cioccolata e “colombine”. Anche i più salutisti non possono evitare di ingrassare un po’, ma la prova-costume è ormai dietro l’angolo. Parlare di diete è di moda soprattutto in questo periodo, anche se sarebbe buona norma tenere d’occhio il proprio peso tutto l’anno. Ma esiste una dieta migliore delle altre? E quante sono? Qualcuna è addirittura pericolosa per il nostro organismo? E quanto vale il mercato delle diete in Italia? Lo abbiamo chiesto a due medi-

ci, specializzati in nutrizione. «Nel corso degli anni ci sono state centinaia di mode dietetiche – afferma la dottoressa Maria Chiara Bardelli, di Pistoia –. Le più note sono la Mediterranea, la Atkins, la Scarsdale, quella a Zona, la Proteica, la Cronodieta, quella a Punti, la Vegetariana, la Dissociata e la Mozzi». A livello statistico non si sa molto sulla frequentazione delle singole diete, «o in quale percentuale la popolazione segue o ha seguito una dieta – prosegue la dottoressa Bardelli –. Io posso dire che in una città di provincia come Pistoia ho eseguito più di 6.500 diete (monoindirizzo) e so con certezza che con le fotocopie si arriva a tre volte tanto. Non mi

è mai interessato cosa dicono gli altri a proposito dell’argomento. Io, in quanto medico, ho sempre pensato che la dietologia dovesse essere la medicina preventiva per eccellenza e, come tale, solo fonte di salute e benessere, non causa di sofferenza e di conseguenze dannose per la salute. E dannose lo sono state e lo saranno la miriade di diete che io definisco “usa e getta”, saltate fuori nel corso degli anni, cavalcando l’onda del “belli a tutti i costi” e del “non conta chi sono ma come appaio”. La cultura dell’apparire porta a fare qualsiasi sacrificio pur di rientrare

Mediterranea

Dissociata

Punti

Caratterizzata da un elevato consumo di cereali, preferibilmente integrali, frutta e verdura, legumi, pesce, olio di oliva, latticini, carne in quantità moderata. Si tratta dell’alimentazione tipica del nostro paese, lontana dalle mode che giungono da oltre oceano. È una dieta completa, varia e bilanciata e presenta poche controindicazioni (morbo celiaco e intolleranze al glutine). Andrebbe corretta negli sportivi con un maggior uso (ma non eccessivo) di proteine e lipidi.

Si può genericamente definire dissociata la dieta che ordina e gestisce gli alimenti in base alla loro associabilità. In sintesi, si distinguono gli alimenti in tre categorie: lista A (proteine), lista B (alimenti neutri), lista C (carboidrati); le liste A e C non possono essere associate tra loro, ma solo con B. Questa dieta, se ben interpretata, può essere considerata corretta dal punto di vista nutrizionale e indicata per quasi tutte le categorie di persone, ad eccezione dei diabetici.

Inventata vent’anni fa da un dietologo italiano, propone un’estesa tabella che assegna ai diversi alimenti una data quantità di punti; viene chiesto di sommare i punti relativi ai cibi assunti senza superare un tetto massimo prefissato. Non si effettua il calcolo delle calorie. È tendenzialmente sbilanciata, con prevalenza di proteine e grassi e ridotta presenza di carboidrati. Sconsigliata a chi soffre di problemi cardiaci, renali, epatici e a bambini, anziani e donne in gravidanza.

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l’industria del dimagrimento nei canoni ufficiali della bellezza. Ritengo invece essenziale fare chiarezza, iniziando con il dire che la materia “alimentazione” è stata resa volutamente difficile e ingarbugliata, cosicché il santone di turno potesse dire la sua facendo le più assurde proposte alimentari, supportato magari da qualche medico o pseudoscienziato compiacente. Così vai con il best seller dell’anno e con le varie trasmissioni tv, promozioni su riviste e creazione di linee alimentari ad hoc... Con la schiera di vip che dietro sonoro pagamento si prestano a mostrare il fisico così ottenuto».

«La dietologia è invece materia semplice ed estremamente naturale – prosegue Maria Chiara Bardelli –. Può essere proposta senza caricarla delle accezioni negative che solitamente si porta dietro come affamante, deprimente, complicata, costosa. Io sono solita affrontare l’argomento nella veste di “educatore alla sana alimentazione”, che si basa non tanto su di un “metodo” per dimagrire, ma sull’imparare a usare tutto il cibo, applicando i tre principi della sana ali-

mentazione: quantità, qualità e temporalità. Li possiamo anche tradurre in quanto, cosa e quando mangiare. Se cioè siamo sovrappeso o sottopeso vuol dire che abbiamo commesso uno o più errori che rientrano per forza in queste tre categorie. Quindi al paziente non devono interessare concetti che sono solo tecnici, come la caloria o il nutriente o l’abbinamento dei cibi fra di loro o sapere se è il caso di mangiare la frutta, questo incredibile agente fermentante, subito dopo il pasto o se sia il caso di mangiare o no il pomodoro così maltrattato dai test sulle intolleranze alimentari anch’essi senza alcun fondamento scientifico. “Educazione alimentare” significa prendersi cura del paziente che spesso si porta dietro da anni tanta sofferenza, sia legata alla sua storia, fatta spesso di ferite molto gravi, sia legata alle conseguenze psicologiche, relazionali e di salute che il sovrappeso determina». La dottoressa Bardelli dichiara di essere «sempre stata molto fedele a questi concetti: non sono mai caduta nella tentazione di vendere fumo come tanti colleghi fanno. Ritengo che se sei un

Zona

Mozzi

Atkins

Si basa sull’ipotesi che si possa creare una condizione favorevole al dimagrimento raggiungendo un particolare rapporto tra insulina e glucagone. Questo rapporto si raggiungerebbe facendo rientrare i due ormoni in un particolare intervallo o “zona”. In ciascuno dei cinque pasti giornalieri si dovrebbe raggiungere il rapporto 40-30-30 tra carboidrati, proteine e lipidi. Gli alimenti preferiti sono cibi ricchi di proteine e carboidrati non raffinati.

Dimmi di che sangue sei e ti dirò cosa mangiare. Potrebbe essere il motto della cosiddetta dieta del gruppo sanguigno, un regime nutrizionale ideato ormai più di 15 anni fa dal naturopata americano Peter D’Adamo e recentemente rilanciato in Italia da entusiasti seguaci che ne decantano i benefici per la salute. Come Pietro Mozzi, “medico secondo natura”, che vive in mezzo ai monti della provincia di Piacenza, in uno spartano ecovillaggio senza acqua calda, tv e detersivi (autore di vari libri, il più noto è La dieta del dottor Mozzi. Gruppi sanguigni e combinazioni alimentari). O come Roberto Mazzoli, una laurea triennale in scienze e tecnologie del fitness e dei prodotti della salute all’Università di Camerino (dove ora insegna), che nel suo più recente volume, La dieta italiana dei gruppi sanguigni, dispensa consigli sui cibi da privilegiare e quelli da evitare a seconda del gruppo sanguigno di appartenenza.

Nata 30 anni fa, si basa sul concetto secondo cui l’organismo umano produce un ormone definito fat mobilizing hormone, responsabile della mobilizzazione del grasso dai suoi depositi; questo ormone avrebbe una concentrazione inversamente proporzionale alla presenza di carboidrati in circolo. Questa dieta pertanto vieta l’uso dei carboidrati (pane, pasta, riso, cereali e farinacei, frutta, latte e yogurt) in maniera integrale nella prima fase (di dimagrimento), con preferenza per cibi proteici (carne, pesce e uova); seguono una fase ponte e una di mantenimento, nella quale si reintroducono alcuni alimenti come formaggi, legumi e verdure. Si tratta di una dieta iperproteica e quindi sbilanciata, che può portare ad alcuni effetti collaterali, prevalentemente danni a livello renale. È sconsigliata ad anziani, cardiopatici, nefropatici, epatopatici e durante infanzia e gravidanza.

Primo, educazione alimentare

Scarsdale Nata negli anni Settanta, è una dieta sbilanciata, da seguire per brevi periodi (circa due settimane); abbastanza standardizzata, con un migliaio di calorie al giorno, è iperproteica con prevalente assunzione di carni magre, pollame, pesce, uova, formaggi magri, verdure e frutta.

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ventunostili

Proteica Prevede l’assunzione, nel corso della giornata, di proteine preassimilabili ad alto valore biologico, oltre a quantità predeterminate e precise di sali minerali, vitamine e fibre. La versione attenuata, preferibile a quella assoluta, è sufficientemente sicura se attuata correttamente e sotto stretto controllo del nutrizionista. Secondo il creatore avrebbe due grossi vantaggi: scomparsa dopo 48-72 ore del senso di fame e protezione della massa muscolare. Favorirebbe un calo rapido e importante del peso corporeo e in particolare a livello di vita, glutei e cosce. Pertanto sarebbe in grado di combattere la cellulite.

Cronodieta Alla base di questa dieta vi è l’osservazione in base alla quale l’assimilazione dei cibi è in relazione diretta con la situazione ormonale e il tipo di alimento assunto. Ha dunque molta importanza l’orario di assunzione dei singoli alimenti: l’assunzione dei carboidrati viene consigliata nella prima parte della giornata, mentre quella delle proteine in serata, per la maggior presenza dell’ormone somatotropo ipofisario, che favorirebbe il consumo dei grassi e la sintesi proteica muscolare. Poiché questa dieta è in realtà una dissociata, ma non sbilanciata, è applicabile a tutte le categorie di persone.

Vegetariana Consiste nell’eliminazione dall’alimentazione quotidiana della carne, ma anche di pesce e insaccati. Se vengono eliminati dalla dieta anche tutti gli altri derivati di origine animale (latticini, uova, ecc.) si parla di dieta vegana. Se la dieta si ferma all’eliminazione di carne e pesce, si possono sostituire questi alimenti con legumi e soia, magari ricorrendo a qualche integrazione (ferro e vitamine). Più complesso è il discorso se si eliminano tutti i prodotti di derivazione animale. Questa dieta comunque non è consigliata a bambini e anziani.

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medico nel senso più profondo del termine, la verità e l’onestà scientifica devono essere le tue compagne quotidiane. Questo mi ha dato e mi sta dando grandi risultati: i miei pazienti con orgoglio mi mostrano a distanza di anni il risultato raggiunto, sia in termini di peso che di salute in generale».

Attenzione allo stile di vita L’attenzione mediatica alle diete ha auto inizio nei primi anni Ottanta, ricapitola invece il dottor Carlo Gerbella di Genova. «All’inizio – rievoca – con la cosiddetta “Cura di Marsiglia”, che si basava sull’uso smodato dei farmaci anfetaminici. Migliaia di persone si sono sottoposte al trattamento con esiti disastrosi, addirittura in qualche caso letali. Da allora è stato un susseguirsi di metodi più o meno leciti, tesi esclusivamente a ottenere il rapido calo ponderale. Ma la cosa che balza inevitabilmente agli occhi è che, nonostante questo proliferare di metodi, il tasso di obesità in Italia è aumentato a dismisura, fino al 16% della popolazione, e inoltre abbiamo assistito a un incremento del peso nei bambini che oggi è stimato intorno al 20% (ovvero un bambino su quattro ha problemi ponderali). Quindi bisogna rassegnarsi al fatto che la dieta intesa solo come periodo di restrizioni e anche di punizione in effetti non funziona. Bisogna affrontare il discorso in un’altra ottica, cioè valutare la dieta nel senso letterale del termine, come stile di vita. Indipendentemente da fattori patologici (che non superano il 5% della popolazione obesa), occorre accettare che nei paesi industrializzati si mangia molto più del necessario perché è aumentata, e di molto, la disponibilità di cibo, senza contare altri aspetti fondamentali che sono socialità, piacere, gratificazione, golosità eccetera». E il mestiere del nutrizionista? Come distinguersi dai tanti guru-stregoni del dimagrimento miracoloso? «Non dovrebbe limitarsi – prosegue Gerbella – a consigliare 70 grammi di pasta più 100 grammi di carne, bensì dovrebbe puntare all’insegnamento; cioè informare l’utenza sulle necessità reali dell’organismo, l’importanza dei principali nutrienti, quali preferire per mantenere un buono stato di salute. Inoltre si do-

vrebbe spiegare la fisiologia umana facendo capire quanto sia difficile per il nostro organismo perdere peso, e soprattutto intervenire per prevenire l’eccesso ponderale. Tutte queste cose però non hanno appeal, oggi ci chiedono di dimagrire velocemente, a qualunque costo. Così hanno buon gioco i venditori di fumo, che barattano prodotti improponibili come ultimi ritrovati della scienza, a costi ovviamente esorbitanti e con fatturati degni di una grande industria. Oggi non ci si rivolge al medico in caso di obesità, si va da chiunque perché in effetti tutti (manca una legislazione in merito) sono autorizzati a dare consigli. Di certo occorrerebbe un po’ più di attenzione, in quanto l’obesità non è un fattore solo estetico, ma una malattia e le sue complicanze incidono pesantemente sulla sanità. I costi per curare alcune patologie derivate da eccessiva alimentazione (diabete, ipertensione, patologie articolari, malattie cardiovascolari) sono veramente ingenti».

Un mercato che vale miliardi Secondo una recente inchiesta del quotidiano Repubblica, in tutto il mondo, per controllare il proprio peso, si spendono ogni anno circa 200 miliardi di dollari. Un mercato con cifre da capogiro, che si rivolge alla produzione di prodotti a basso contenuto calorico, strategie, programmi. Secondo gli autori dell’inchiesta, negli Stati Uniti le entrate annuali per la promozione delle diete e dei prodotti dietetici nel 2012 è stata di circa 60 miliardi di dollari. In tutto il mondo, si diceva, il mercato delle diete è valutato intorno ai 200 miliardi e si stima che raggiungerà i 216 miliardi entro i prossimi due anni. Il dato, diffuso dall’azienda americana di ricerche di mercato Transparency Market Research, segna una crescita annua dell’11% rispetto alla rilevazione del 2011. Un altro dato dell’inchiesta di Repubblica fa riflettere: anche la crisi economica degli ultimi anni sta favorendo l'industria delle diete. Secondo Coldiretti, sarebbero più di 16 milioni gli italiani a dieta, e poco meno della metà (7,7 milioni) dichiara di esserlo in pianta stabile.

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ventun righe di cardinale Angelo Scola tratto dal volume Cosa nutre la vita? (Edizioni Centro Ambrosiano, 2013)

Cosa nutre la vita? Se “nutrire il pianeta” significa lavorare perché tutti e ciascuno abbiano accesso al pane quotidiano, è indispensabile ricordarsi che il bisogno di nutrirsi, fra gli esseri umani, ha un valore che eccede il fatto bio-chimico di fornire energia al corpo. Cucinare è proprio della famiglia umana, prendere cibo insieme è uno dei momenti alti del vivere insieme. Ogni tradizione e cultura hanno un valore e un sapore la cui dimensione simbolica nutre la persona in modo reale, indispensabile alla vita quanto proteine e calorie che alimentano il corpo. Inoltre nutrirsi, per gli esseri umani, è legato alla convivialità e all’ospitalità, dimensioni costitutive della comunità umana e, prima ancora, alla bontà, alla solidità e all’equilibrio delle relazioni primarie, costitutive. Non a caso ai gravi disagi a questo livello profondo sono legati disturbi alimentari (penso all’anoressia e alla bulimia) purtroppo sempre più diffusi nel mondo giovanile. Quindi, le buone politiche perché ciascuno abbia accesso al pane quotidiano non possono limitarsi a una distribuzione più equa ma anonima degli alimenti, slegata dal contesto comunitario in cui la persona bisognosa di aiuti alimentari vive. Non si vive di solo pane, ma anche di parole buone, eco delle «parole che escono dalla bocca di Dio» (Mt 4,4). Il sostegno efficace è orientato a far sì che alle persone e alle famiglie sia restituito un accesso sostenibile a condizioni di vita dignitose: attraverso occasioni di lavoro, oppure, quando fosse necessario, mediante l’inserimento in una realtà stabile di accoglienza e sostegno.

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lo scaffale

Le dritte di Yamada La recensione che apre la porta alla primavera è su un libro che è una magica riserva di luce e fuga: la sua lettura mi ha regalato la sublime possibilità di scaraventarmi indietro nel tempo fino al 1893, anno Il cardinale L’anoressia, di nascita di Louis Cuchas, il protagonista di questo picdalla parte conviverci degli ultimi è difficile colo romanzo di Georges Simenon, scritto in soli nove giorni (è Simenon a dichiarare: «Il 5 ottobre 1964 Il nuovo libro L'anoressia è una mi piazzo davanti alla macchina per scrivere e dell’arcivescovo malattia sociale il 13 dello stesso mese metto la parola fine»). di Manila, Luis e psicologica, Non avevo ancora letto niente dei 450 tra romanzi e Antonio Gokim tragicamente Tagle, all’insegna diffusa tra racconti del Nostro, e l’occasione mi si è presentata con della provocazione gli adolescenti e L’angioletto, che ho notato per la sua copertina celeste evangelica, sempre i giovani e ancora con al centro il frammento di un quadro di Bonnard. dalla parte degli molto difficile da C’era una tenerezza tale in quell’immagine (una figuultimi: «È uno affrontare e curare. rina tutta sghemba e scura, che sembrava disegnata da scandalo che ogni Difficile è giorno abbia luogo la convivenza con un bambino), che è stato un attimo decidere di entrare una cancellazione questa patologia, nella storia di Louis Cuchas, soprannominato “angiodi tanti ultimi sia da parte letto” per tutta la sua vita. nel mondo», scrive di chi ne è affetto, Il libro inizia con un flashback: avrà avuto 4-5 anni il porporato. sia da parte quando di colpo, nel dormiveglia notturno illuminato Tagle affronta di familiari e amici. la missione della L’autrice dal lampione a gas della strada, Louis mette in relazione chiesa nel mondo accompagna lo spazio dove si trova con le persone a lui vicine. sotto tre aspetti: i lettori nel Guarda bene, e nota altri quattro pagliericci, maleodoil primato della suo percorso ranti e identici al suo, in cui dormono i suoi fratelli: Parola di Dio; dentro e fuori i due gemelli dai capelli rossi di 7 anni, sua sorella Alice la centralità dalla malattia, dell’Eucaristia; in un arco di 9, e il fratello più grande, Vladimir, undicenne. il ruolo dei cristiani temporale lungo Al di là di un lenzuolo pieno di buchi e teso in mezzo nel contesto e costellato alla stessa stanza, a mò di separé, c’è la culla in cui asiatico, dove da situazioni dorme la piccola Emilie e un grande letto in noce dove i credenti in Cristo ed episodi la madre Gabrielle (vitale allegra e forte) dorme con sono una piccola comuni alle minoranza. persone affette un uomo diverso (quasi) ogni notte, da quando dalla malattia. il marito se n’è andato. Il teatro della vita di Louis e Luis Antonio della sua famiglia è Rue Mouffetard – dove abitano – Gokim Tagle Serena Libertà che brulica di vite, odori, occupazioni e povera gente. Raccontare Gesù Anoressia Il piccolo Louis (il cui cognome, a differenza dei fraEditrice delle passioni Missionaria Italiana Albeggi edizioni telli, è quello della madre da nubile) possiede un sorriso Euro 6,90 euro 10 sereno e gli occhi invasi da una luce interiore che incantano chi lo guarda; a sua volta viene incantato da tutto quello che riesce a entrare nel suo sguardo e nel suo naso. Simenon è super-bravo a fermare nelle parole la meraviglia del piccolo Louis di fronte, ad esempio, a una nuvola “leggera, bianca e rosa, sospesa nel cielo, proprio sopra a uno degli ippocastani”, che lui osserva mentre è in classe e dovrebbe fare le aste sulla lavagnetta: per osmosi, chi legge si sente leggero e grato perché può tornare al tempo rallentato e denso dei bambini. Vi ricordate? Tutto veniva appreso, notato, tutto era interessante: poteva durare per sempre, il tempo del guardare. Con Louis, vediamo quello che vede lui, con le luci e gli odori in cui è immerso lui, e si è rapiti dalla sua fondante e rara necessità di guardare tutto senza stancarsi, godendone infinitamente. Il candore di Louis, il suo “egoismo” impermeabile e nutrito dalla bellezza del mondo che – scandagliato – vuole “inocularsi”, lo renderanno un pittore famoso e “toccato dalla grazia”, coi suoi quadri nei più importanti musei. Non abbruttirà mai, non dispererà mai. Libro scritto divinamente: Simenon provoca un (indimenticabile) effetto-domino di beatitudine su Louis. E da lui su noi. L’Angioletto di Georges Simenon, Feltrinelli 2014

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Il problema dei giovani? Gli adulti Stefano Laffi, ricercatore sociale ed esperto delle culture giovanili, sposta il problema dei giovani – senza valori, senza futuro, senza progettualità – sugli adulti. Graffiante la sua tesi: «Dalla culla alla scuola, dall’università all’interminabile precariato lavorativo, il mondo degli adulti progetta e produce le nuove generazioni per soddisfare i propri bisogni e le proprie aspirazioni. L’eterno limbo in cui oggi sopravvivono molti giovani garantisce lo status degli adulti». Stefano Laffi La congiura contro i giovanii Feltrinelli 14 euro


Milano e Jannacci

Scarp 50: omaggio con noir a fumetti e concerto-teatro Il 12 marzo 1964 usciva in vinile il brano di Enzo Jannacci “El purtava i scarp del tennis”. A 50 anni esatti dalla pubblicazione del brano, lo sceneggiatore Davide Barzi celebra il grande cantautore milanese, scomparso nel marzo 2013, con il libro a fumetti “Unico indizio le scarpe da tennis”, liberamente ispirato al brano di Jannacci. Il libro, edito da ReNoir Coomics, è un noir metropolitano con un tocco di follia, ma soprattutto un sentito e doveroso omaggio a un poeta che Davide Barzi ha conosciuto e amato come amico: «Questo libro – racconta lo sceneggiatore – l’ho scritto e riscritto mille volte, perché è un omaggio che cerca di lavorare su diversi livelli: c’è una storia noir, che può piacere al lettore; c’è la Milano della fine degli anni Cinquanta, che ha richiesto un lungo e attento lavoro di ricostruzione storica; c’è Jannacci come guest star. Ma soprattutto c’è “la sua gente”, gli ultimi, i diseredati. È un libro ampio, articolato, stratificato eppure spero godibile e a suo modo leggero. Uscirà in una doppia edizione: grazie alla sensibilità di ReNoir Comics,

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una parte degli incassi di quella cartonata in tiratura limitata andrà al nostro giornale, “Scarp de’ tenis””. Il libro parte dalla celebre canzone per raccontare in flashback la vita di un vagabondo trovato morto a Milano. L’indagine, compiuta da un commissario calabrese trapiantato al nord, porta alla luce volti, voci e personaggi della Milano del boom, raccontando la ricostruzione postbellica, le speranze disattese, le luci e le ombre di una città. Milano è protagonista a tutto tondo del libro: la Milano dei diseredati che lottano per arrivare a fine giornata, degli immigrati che si sforzano di integrarsi nel tessuto sociale. Ma anche la città della “mala”, quella raccontata dallo scrittore Giorgio Scerbanenco, il luogo dove il melting pot è umano ma anche linguistico e l’idioma di Carlo Porta si contamina con gli accenti del sud. Il libro verrà presentato a Cartoomics sabato 15 marzo (ore 16.30, spazio Agorà, alla Fiera di Milano) dall’autore Davide Barzi (G&G, Don Camillo, Padre Brown, Nathan Never) e delle prestigiose matite che lo hanno illustrato: il disegnatore Sergio Gerasi (G&G, Don Camillo a fumetti, Le Tragifavole) e il giovane e talentuoso esordiente Marco “will” Villa. Altro omaggio ai 50 anni della canzone e al suo autore verrà proposto da Andrea Pedrinelli e Susanna Parigi: il loro concerto teatrale “Il saltimbanco e la luna”, prodotto da Eccentrici Dadarò, ispirato alle canzoni del maestro Jannacci, sarà proposto per tre serate consecutive a Milano, al Teatro alle Colonne di San Lorenzo, il 28, 29 e 30 marzo (quest’ultima sarà una pomeridiana). Oltre allo spettacolo, la compagnia organizza momenti di dibattito e testimonianza con tanti ospiti illustri del mondo della musica, dell’arte, del giornalismo e della solidarietà, per ricordare il cantautore poeta. E riflettere sulla sua eredità. INFO www.cartoomics.it

Genova

Quattro colori, 50 foto: il mondo secondo il National Geographic Un’esposizione fotografica di National Geographic Italia focalizza l’attenzione

Pillole senza dimora A Milano struttura sanitaria per curare gli homeless dimessi dall’ospedale Le persone senza dimora hanno ora a disposizione una struttura sanitaria con venti posti letto a Milano. È stata aperta a gennaio in via Mambretti 33 da Medici senza frontiere e Fondazione Progetto Arca. È un luogo di assistenza sanitaria a cui gli homeless milanesi, una volta dimessi dagli ospedali, ma ancora esposti a ricadute e a un peggioramento della propria condizione di salute, potranno fare riferimento. Il nuovo servizio funziona 24 ore su 24, è inserito nella rete dell’Asl Milano ed è gestito in collaborazione con il comune. La struttura vedrà all’opera una équipe di 11 operatori sanitari e medici che offriranno assistenza gratuita ai pazienti senza dimora. Lo scorso anno Msf ha condotto una valutazione delle condizioni di salute dei senza dimora di Milano; in particolare, la ricerca ha riguardato gli homeless ricoverati e dimessi dagli ospedali durante i due anni precedenti. Secondo questa analisi, circa 850-900 pazienti senza dimora che erano stati dimessi avevano ancora bisogno di cure mediche e di essere seguiti per varie patologie e problemi di salute, tra cui infezioni respiratorie, infezioni della pelle, o malattie che richiedono un’attenzione medica costante come disturbi cardiaci, cancro, malattie epatiche o renali, Aids, polmonite e tubercolosi. Queste patologie sono estremamente difficili da curare o stabilizzare tra le personesenza dimora, dato che richiedono un periodo di convalescenza che non può certamente essere fatto in strada. INFO www.medicisenzafrontiere.it

su “I colori del mondo”. Organizzata dalla rivista PhoTo Progetti per la fotografia e promossa da Genova Palazzo Ducale Fondazione per la cultura, fino al 1° aprile propone nella Loggia degli Abati del Palazzo Ducale una selezione di cinquanta immagini inedite, di trentadue fotoreporter, declinate attraverso


caleidoscopio Miriguarda di Emma Neri

Social Street, vicinato nell’era Facebook: «I problemi degli amici? Sono i miei»

quattro colori per descrivere il presente e il futuro del mondo. Rosso, colore della terra, del fuoco, delle comunità, degli usi e costumi, del cuore, del sangue, della passione. Verde: la natura e il mondo “green” in tutte le sue espressioni, compresa quella simbolica della speranza. Bianco: l’immacolato dei luoghi colpiti dal riscaldamento globale, degli animali a rischio di sopravvivenza, dell’innocenza, della purezza. Azzurro: il colore dell’acqua e del cielo, dei mari e dei suoi abitanti, della gioia di esistere e della tranquillità. Insomma, un viaggio fotografico originale, realizzato con gli scatti di grandi fotografi che collaborano con il magazine a livello internazionale. INFO www.photoprogetti.com

Milano

L’Italiano è per tutti. Ma i soldi non bastano: parte la raccolta fondi La scuola di italiano per stranieri di Villa Pallavicini, che ha la sua sede storica in via Meucci, nella zona di via Padova, rischia di chiudere. Dal 2006 l’associazione culturale di villa

Il Social street nasce nel settembre del 2013 da un'idea di Federico Bastiani, giornalista. L'obiettivo è socializzare con i propri vicini di casa, ricreare quel senso di comunità che nelle città ormai è difficile da trovare. Partecipare è facile: basta iscriversi al gruppo su facebook e partecipare alle discussioni on line, o rispondere a un’esigenza del proprio vicino di casa attraverso un post. Oggi le esperienze sono oltre 150, da Milano e Bologna alla Nuova Zelanda. Abbiamo chiesto a Federico come si spiega l’incredibile successo della sua idea. Eravamo così soli prima di Social Street? Probabilmente sì, la definirei una solitudine sociale. La società è sempre più individualista e materialista e questo bene o male sfocia in aridità dei rapporti umani. Social Street ha solo acceso una miccia, una necessità latente nello spirito dell’essere umano. Social Street nasce su Facebook, dove tutto è veloce ma si consuma anche velocemente. Temi che il fenomeno si esaurisca presto? Io credo che Social Street stia iniziando una nuova era: socialità a partire dal proprio vicinato, con la possibilità di replicare le buone pratiche di ogni strada a livello più ampio. Penso che sia destinato a durare, perché non è un progetto nato a tavolino, bensì supportato da moltissima gente piena di entusiasmo. In Social Street non si dà per avere in cambio... si dà e basta. È la crisi a farci diventare solidali? La risposta è molto più semplice. Se un tuo caro amico viene a casa tua per darti una mano a mettere una mensola, sono sicuro che il tuo amico lo fa perché tiene a te. Tu magari potrai offrirgli una bottiglia di vino ma sicuramente non sarà il suo primo pensiero, il tuo amico è venuto ad aiutarti perché tiene a te. Ecco, io tengo ai miei vicini di casa, un problema di un vicino è anche un mio problema e se posso fare qualcosa per aiutarlo, perché dovrei aspettarmi per forza qualcosa in cambio?

INFO www.socialstreet.it

Pallavicini gestisce una scuola gratuita di italiano per stranieri. La scuola è aperta a immigrati adulti, donne con bambini, rifugiati, minori non accompagnati, minori neoricongiunti, minori che frequentano la scuola dell’obbligo ma necessitano di supporto linguistico. Ma a breve la scuola potrebbe chiudere per mancanza di fondi... Rischiano di rmanere senza corsi circa 500 studenti e si perderà un’importante occasione di formazione, conoscenza, solidarietà, integrazione. Per continuare a fare cultura e integrazione, Villa Pallavicini ha lanciato una campagna di raccolta di fondi attraverso un progetto di crowdfunding: “L’italiano è per tutti”. Chi volesse contribuire: http://crowdfundingitalia.com. Sul sito possibile acquistare collane fatte a mano dalle volontarie. INFO www.villapallavicini.org

Milano

Il Politecnico coopera: partenariato con tre università della Tanzania Un ampio know-how scientifico e didattico in cinque settori dell’ingegneria, oltre alle competenze amministrative del Politecnico di Milano, saranno messi a disposizione di tre università della Tanzania: il Dar es Salaam Institute of Technology, il Mbeya Institute of Science and Technology e l’Arusha Technical College. L’obiettivo, che sarà raggiunto formando docenti e personale amministrativo locale, è il consolidamento di competenze e capacità, in particolare nei campi dell’ingegneria meccanica, elettronica, delle telecomunicazioni, civile e chimica. Beneficiari saranno in primo luogo lo staff delle tre Università, gli studenti tanzaniani e un ampio spettro di marzo 2014 scarp de’ tenis

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cinque domande a... Giacomo Campiotti di Danilo Angelelli

Una tv che racconti il paese? Non è mai troppo tardi... Negli ultimi anni ha diretto quel genere di fiction che il pubblico di Raiuno mostra di amare. Erano infatti firmati da Giacomo Campiotti i biopic tv su Giuseppe Moscati, Bakhita, Filippo Neri e Maria di Nazareth. Per la stagione in corso il regista ha invece lavorato a due proposte sulla carta più rischiose. Ma è andata bene, sia con Braccialetti rossi, i sei ragazzi impauriti e coraggiosi, arrabbiati e sorridenti di un ospedale pediatrico, sia con il maestro Alberto Manzi, che negli anni Sessanta, dai teleschermi dell’allora Programma Nazionale, occupava il preserale, insegnando a leggere e scrivere a un milione e mezzo di italiani. La trasmissione aveva per titolo Non è mai troppo tardi, come il film tv trasmesso in febbraio. Come l’auspicio e la tendenza di alcuni dirigenti Rai, tornati a scommettere su prodotti capaci di raccontare davvero il paese, senza stereotipi né patetismi. Nel sessantesimo anniversario della televisione (1954-2014), la Rai si autocelebra rilanciando un alfiere della tv pedagogica. Si vuole assomigliare a quella televisione? Secondo me sì. Il progetto sul maestro Manzi era rimasto bloccato a lungo. Credo sia il primo recuperato dalla nuova dirigenza. Anche Braccialetti rossi non sarebbe mai stato realizzato dalla Rai degli ultimi anni. Figurarsi: la storia di sei ragazzi malati! Oggi la Rai è consapevole che ha bisogno di una forte identità, altrimenti scompare. E proprio nei momenti di crisi arrivano le idee più belle. Cosa l’ha affascinata del maestro Manzi? La sua profonda umanità e il fatto che fosse una persona ispirata e non frammentata, un uomo unico. La sua energia era spesa ovunque. Lei è laureato in pedagogia, così come lo era Manzi. Sente vicina questa figura? Vicinissima. Io ho lavorato molto con i bambini prima di arrivare al cinema. Ci tenevo a parlare di certi temi, ad accendere una luce sullo stato drammatico della scuola

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Manzi, pedagogista catodico A fianco, Giacomo Campiotti (accovacciato) sul set di Non è mai troppo tardi, film tv che racconta la storia del maestro Alberto Manzi, protagonista della tv pedagogica anni Sessanta. Sotto, un primo piano del regista Giacomo Campiotti

oggi. La figura di Manzi me ne ha dato la possibilità. Lui non trasmetteva nozioni, insegnava a pensare, a scegliere, a usare gli strumenti del discernimento, lavorava con i ragazzi per formare uomini liberi. Ha dimostrato che chiunque, se armato di buona volontà, può fare tantissimo. Il film tv è costruito intorno a due esperienze della vita di Manzi: l’insegnamento in carcere e il programma tv. Cosa hanno rappresentato per lui? L’incontro con i ragazzi in carcere ha affrettato il suo percorso. Era alla prima esperienza, non era amico di nessuno, assunse un incarico che nessuno voleva. Si è trovato nell’emergenza, con 90 giovanissimi: ma le persone di valore nell’emergenza danno il meglio. Quanto all’esperienza televisiva, si è trattato di un incontro magico tra la grande intelligenza di un uomo originale e quella dei dirigenti di un’istituzione conservatrice come la Rai. Lei ha partecipato anche alla sceneggiatura del film. Non c’è traccia dei viaggi di Manzi in America Latina e del suo impegno a favore dei contadini più poveri: perché? Quando si racconta una vita così piena si rischia di trattare mille cose superficialmente. Abbiamo scelto di circoscrivere l’attenzione all’esperienza del carcere e del programma tv. Anche il suo lavoro di scrittore non c’è nel film. Eppure è stato autore di molti libri, come Orzowei, tradotto in 32 lingue. Ma nel film è presente la sua tenacia, la capacità di non arrendersi mai, di fare tutto il possibile: la cosa più importante da comunicare, oggi.


caleidoscopio soggetti pubblici e privati con cui le università interagiscono. L’iniziativa di cooperazione è destinata ad avere un forte impatto sullo sviluppo socio-economico del paese africano, attraverso il miglioramento delle strutture di formazione e istruzione di tipo tecnico-ingegneristico e un sostegno sul versante dell’occupazione e dell’inserimento dei giovani tecnici e ingegneri africani nel mercato del lavoro. INFO www.polimi.it

Vicenza

Il Tibet in esilio: bambini e anziani, mostra e libro di foto L’associazione Sidare e la città di Sandrigo (Vicenza) organizzano la mostra fotografica “Bambini dal Tibet”. La rassegna è a scopo benefico e i proventi sono destinati alla cura e all’educazione dei bambini tibetani orfani. La mostra è aperta fino al 23 marzo 2014. Evento correlato alla manifestazione è la presentazione del libro fotografico di Alessandro Molinari: “Faces of Tibet in exile – Ritratti di una generazione che sta scomparendo”, che si terrà nella sala conferenze della Biblioteca comunale di Sandrigo venerdì 14 marzo alle 20.45. Si tratta di una singolare testimonianza fotografica dedicata agli anziani tibetani, che da cinquant’anni vivono in esilio – in particolare in India – e che con grande sacrificio e sofferenza hanno contribuito a salvare il proprio

Ricette d’Alex Anatra al forno con le mele, ricetta veneta del Cinquecento

Alex, chef internazionale, ha lavorato in ristoranti dopo aver appreso l’arte della cucina nell’albergo di famiglia, a Rovigo. Oggi – i casi della vita... – vende Scarp.

Piatto per quattro porzioni. Prendete un’anatra bene in carne. Sotto le ali mettete delle foglie di salvia e legate le ali lungo il corpo. Questa operazione vi permette di mantenere la carne tenera anche durante la cottura. Salate, aggiungete rosmarino e aglio intero. In una teglia da forno rosolate l’anatra per sgrassarla. Eliminate il grasso. Rinnovate l’aglio e il rosmarino, spruzzate di vino bianco, passate al forno e cuocete a 180 gradi. Quando sarà a tre quarti di cottura, aggiungete tre mele renette a spicchi, che una volta cotte passerete al passatutto. Al passato di mele aggiungete un po’ di panna e del rafano fresco grattugiato (cren). Sarà la vostra salsa per accompagnare l’anatra. Se volete, come contorno aggiungete delle patate a spicchi, che cuoceranno con l’anatra.

patrimonio culturale. INFO www.sidare.it

Tecnologia digitale

App del cibo, la qualità a tavola passa per il telefonino Aumentano le famiglie che scelgono la rete per individuare aziende che producono ecosostenibile e a chilometri zero. Anche il cibo passa dallo smartphone: grazie alla geolocalizzazione, l’applicazione è in grado di dire al cliente potenziale dove potrà comprare. Sembra che siano soprattutto le donne a preferire il sistema digitale per acquistare prodotti genuini e sostenibili. Un’indagine della Coldiretti rivela

che già nel 2011 frutta e verdura comprate dalle mani dei contadini erano aumentate del 53% rispetto al 2010, poi nel 2012 questo settore ha raggiunto i tre miliardi di euro di fatturato. E Coldiretti fa sapere che il trend 2013 è addirittura cresciuto. Ecco qualche indirizzo utile. Il portale www.quicibo.it è nato per promuovere la filiera corta e rappresenta un sistema integrato di 702 aziende agricole sparse in tutta la penisola, in grado di intercettare i bisogni di qualità e velocità (con prezzi ragionevoli) degli italiani: 605 prodotti disponibili. Oppure www.prodotti-a-km-zero.it, una piattaforma per la vendita diretta di prodotti agricoli. INFO www.coldiretti.it

pagine a cura di Daniela Palumbo per segnalazioni dpalumbo@coopoltre.it

Tarchiato Tappo - Il sollevatore di pesi

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street of america Il comune vuole liberare l’area, affacciata sulla baia di San Francisco

Baraccopoli tra natura e arte, sloggiano i sessanta del Bulb di Damiano Beltrami da New York

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Angolo di paradiso “The Bulb”, ad Albany, California, ha ispirato il lavoro di molti artisti, che hanno creato una bizzarra e fascinosa galleria d’arte a cielo aperto. Passeggiando per le stradine di questo villaggio verdeggiante ci si imbatte in un’opera che raffigura un gigante vestito di stracci, con i capelli che gli spiovono sulle spalle. Braccia aperte e occhi al cielo, sembra chiedere giustizia per gli homeless

INO A QUANDO IL MIO PARTNER PHYL ED IO SIAMO VENUTI A VIVERE QUI AL “BULB”, ogni volta che

avevo provato ad abitare da qualche parte era andata male, molto male. Ma in questo angolo di paradiso abbiamo trovato più di un rifugio: abbiamo trovato una casa». A parlare è Amber Whitson, quarantenne senza dimora che dall’ottobre del 2006 vive al “Bulb”, una comunità autogestita di senzatetto, sorta su una discarica abbandonata ad Albany, vicino a San Francisco. Qui, a partire dagli anni Ottanta, si è sviluppata una micro-città, composta da persone rimaste senza casa. Il comune di Albany ha cercato di sgomberare l’accampamento a più riprese (per esempio nel 1993 e nel 1999) offrendo agli homeless soluzioni abitative alternative. Ma alla chetichella la tendopoli si è sempre ripopolata. Recentemente il comune ha deliberato che la zona diventi parte del parco naturale Sylvia McLaughlin Eastshore, e quindi l’accampamento illegale sta per essere smantellato, questa volta in modo definitivo. Agli homeless è stato proposto di trasferirsi in un prefabbricato mobile (una sorta di ostello temporaneo) in attesa di essere sistemati in alloggi con affitti calmierati. Whitson e la sessantina di residenti del “Bulb”, però, non vogliono fare le valige. In parte perché non credono che gli affitti delle abitazioni popolari siano sostenibili nel medio periodo (quasi nessuno di loro ha un lavoro), e in parte perché al Bulb si sentono a loro agio e credono di avervi costruito qualcosa di importante. «Per tutta la vita ho avuto problemi di salute, sia fisici sia mentali – spiega Whitson, una donna dal viso smunto e dallo sguardo fiero –. Sono una che la gente descriverebbe come “nevrotica”. Eppure, da quando sono qui al Bulb, mi sento più serena. Se ricordo tutto il sudore, le lacrime e il cuore che ci ho messo nel renderlo un rifugio confortevole, il pensiero di doverlo abbandonare e tornare a vivere in strada mi terrorizza». Di tendopoli come il “Bulb” in America ne esistono molte. Ma questo spazio è qualcosa di diverso da una semplice villa miseria. Affacciata sulla luccicante baia di San Francisco, questa discarica trasformata in accampamento ha ispirato artisti fuori dagli schemi, creando una bizzarra e fascinosa galleria d’arte a cielo aperto. Passeggiando per le stradine di questo villaggio verdeggiante sconosciuto ai più, ci si imbatte per esempio in un mini-castello ornato di murales e nelle sculture dell’artista Osha Neumann. In una di queste due amici fatti di latta, ferro rugginoso e legno siedono su una panchina uno accanto all’altro, lo sguardo rivolto alla baia. Un’altra opera raffigura un gigante vestito di stracci, con i capelli che gli spiovono sulle spalle. Braccia aperte e occhi al cielo, sembra chiedere giustizia per conto dei residenti-homeless. «Non ho dubbi – dice Whitson, che già ad aprile potrebbe dover sloggiare dal Bulb –: questo luogo, questa natura tutt’intorno, ci hanno dato qualcosa di speciale, a livello fisico, mentale e persino spirituale. Spero con tutto il cuore di poter restare».

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un anno in numeri Scarp nel 2013

Macchè crisi, siamo in crescita! La carica delle 100 pettorine rosse

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Diocesi e province raggiunte da Scarp [febbraio 2014)

UNGO IL SUO CAMMINO,

ormai entrato nella maggiore età (il 2014 è il 18° anno di pubblicazione ininterrotta), Scarp de’ tenis incontra sempre più persone: venditori, operatori sociali e della comunicazione, volontari, lettori di un numero sempre più ampio di territori. Per il giornale di strada edito dal 1996 da cooperativa Oltre, promossa da Caritas Ambrosiana, e sostenuto nel suo sviluppo nazionale da Caritas Italiana, il 2014 è stato un anno di lavoro intenso. Di fatiche, dettate dalla crisi. ma anche di inoppugnabile sviluppo. Svelato dai numeri. Che ogni tanto conviene lasciar parlare, come fanno le tabelle di queste pagine, ben sapendo che dietro hanno volti e traiettorie di vita intensi, provati da cadute e insuccessi, ma sempre aperti alla prospettiva della speranza e del riscatto. Nel 2013 Scarp de’ tenis ha distribuito circa 150 mila copie della rivista. La vendita è avvenuta nelle parrocchie, ma anche

Milano (Varese, Lecco, Monza Brianza) Como / Bergamo Torino Genova Verona / Vicenza Rimini Firenze Napoli Salerno Catania

interessate a collaborare Biella, Venezia, Pescara

Persone coinvolte nel progetto Scarp (anno 2013)

Venditori

Milano Torino Genova Vicenza Verona Como Modena Rimini Firenze Napoli Salerno Catania Totale

46 7 5 7 3 3 3 2 6 13 3 2 100

Collaboratori, partecipanti laboratori, Titolari volontari diritti d’autore

25 6 0 9 0 1 0 0 1 11 4 3 63

10 10 4 16 0 1 1 4 7 2 9 6 80

Operatori professionali

15 2 2 2 3 1 1 3 1 4 4 1 39

Le prime tre categorie (venditori, percettori diritti d’autore, collaboratori a vario titolo e partecipanti a laboratori) non vanno sommate. Vi sono persone che esercitano tutte le funzioni, o alcune di esse: vendono, collaborano a vario titolo (anche come volontari), partecipano a laboratori o li animano, scrivono (o disegnano o fotografano) ricevendo pagamenti con diritto d’autore. Difficile stabilire un numero esatto. Ma si può affermare che i beneficiari del progetto Scarp (persone gravemente emarginate o con disagio abitativo e sociale, che vendono, scrivono o partecipano a laboratori) siano attorno ai 150. A essi si aggiungono una quota di volontari (alcune decine) e 39 operatori professionali. Le persone con problemi di povertà, esclusione e disagio sociale, retribuite in forma continuativa o saltuaria nell’anno 2013, sono quelle delle prime due colonne: venditori e titolari di diritti d’autore. Il totale, anche in questo caso, non è dato dalla somma (molti venditori sono anche titolari di diritti d’autore), ma si attesta a quota 126 persone. marzo 2014 scarp de’ tenis

.73


un anno in numeri Profilo dei venditori (anno 2013) Venditori

Milano Torino Genova Vicenza Verona Como Modena Rimini Firenze Napoli Salerno Catania

46 7 5 7 3 3 3 2 6 13 3 2

Totale

100

maschi

femmine

83

17

38 5 5 4 3 3 3 2 5 11 2 2

8 2 0 3 0 0 0 0 1 2 1 0

età 20-30 età 31-40 età 41-50

7 0 0 1 0 1 0 0 0 0 0 0

9

8 0 0 6 0 0 2 0 2 2 0 0

20

8 3 0 0 2 1 1 1 3 3 1 0

23

età 51-60

età 61-70

italiani

stranieri

36

12

70

30

16 3 3 0 1 1 0 1 1 6 2 2

7 1 2 0 0 0 0 0 0 2 0 0

26 6 5 6 2 1 1 2 3 13 3 2

20 1 0 1 1 2 2 0 3 0 0 0

in strada e in altri luoghi (mercati, supermercati, aziende, feste, eventi). L’attività diffusionale è il principale elemento di sostegno ai percorsi di reinserimento sociale dei beneficiari (persone senza dimora, ma più in generale provate da vicende di povertà, esclusione, disagio sociale). A essa si aggiunge la collaborazione ad altri aspetti dell’attività del giornale (come autori, o partecipanti a laboratori). Inoltre gli staff del progetto collaborano con le reti e i servizi dei singoli territori sul fronte dell’accompagnamento sociale dei beneficiari: li sostengono nell’iscrizione all’anagrafe, nella domanda di alloggi, nella ricerca di lavori più stabili, nella ritessitura dei rapporti con le famiglie, nella cura della salute, nella soluzione di problemi economici e nella gestione di “carriere” di dipendenza o detenzione. Tra i risultati principali, anche nel 2013 alcuni venditori e collaboratori hanno potuto lasciare dormitori e strutture di accoglienza, avendo raggiunto un grado di autonomia che consente loro di vivere in affitto. Quanto ai percorsi di reinserimento lavorativo, la sede di Milano ha avviato 3 borse lavoro in altre aziende o realtà, destinate a beneficiari di Scarp (2 terminate con contratto di lavoro). Numerose nel 2013 sono state le segnalazioni da parte del territorio (dai servizi Caritas, dai cen-

Parrocchie raggiunte (2013)

Milano Torino Genova Vicenza Verona Como Modena Rimini Firenze Napoli Salerno Catania Totale

369 21 40 57 12 50 12 54 32 105 29 20 801

74. scarp de’ tenis marzo 2014


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con il contributo di IED


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