Aldo Rosini, "Società e lavoro"

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GIORNATA DELLA FAMIGLIA CARMELITANA Foggia 1 maggio 2015 Relazione di Aldo Rosini su “Società e Lavoro” Mi si chiede di parlare della società, della nostra società, del mondo che ci circonda e che quotidianamente ci condiziona nelle nostre scelte, nei nostri propositi, nel nostro vivere. Mi guardo intorno e ci metto poco a rendermi conto che la nostra società è qualcosa di complicato e difficile da definire. Io appartengo a quella generazione per cui la sera, in famiglia, dopo Carosello bisognava andare a letto; quella generazione che per primi hanno visto le immagini in bianco e nero di un televisore, che usava il disco di vinile nelle feste sul terrazzo di casa e che per telefonare alla fidanzata doveva aspettare che la famiglia di sopra liberasse il duplex. Oggi i nostri ragazzi non sanno nemmeno cos’era il duplex. Questa parola, però, mi da lo spunto per entrare in un certo modo nel nostro argomento. Per chi non lo sa e per chi non lo ricorda, il duplex era la linea telefonica che dava l’accesso alla rete a due utenti diversi che generalmente abitavano nello stesso stabile. Il sistema aveva dei grossi limiti: i due utenti non potevano telefonarsi, se uno dei due telefoni era occupato, risultava occupato anche l’altro e se quindi l’altro era occupato non si poteva telefonare… quante liti condominiali ha provocato questa cosa! Ed io? giovane diciassettenne innamorato che doveva telefonare a Paola per prendere un appuntamento e il telefono della signora di sopra non me lo permetteva? Che dovevo fare? Semplicemente ASPETTARE! Già, aspettare, tempo infinito del verbo della prima coniugazione aspettare… e a volte il tempo di attesa era veramente infinito. Aspettare, attendere, sperare, bramare, indugiare, prevedere, temere, pazientare… sono tutti sinonimi di aspettare. Ma è un verbo, questo, che oggi è andato in disuso, è frequentato ormai da poca gente, forse i più nostalgici, oggi si direbbe i più sfigati. In pochi decenni la nostra società è mutata notevolmente, passando dalla ricostruzione lunga e paziente di un 1


tragico dopoguerra a un sistema capital-edonistico in cui l’unica filosofia di vita è il “tutto e subito”… aspettare? Non esiste più! Colpa della tecnologia? Colpa di Internet? La tecnologia è frutto dell’intelligenza dell’uomo, e l’intelligenza è dono di Dio, dunque non può essere una cosa negativa, anzi la tecnologia applicata al lavoro e al quotidiano ci rende la vita meno complicata. Allora è colpa di Internet! Ma anche internet è frutto di tecnologia. Internet ci immette in un mondo nuovo, un mondo veloce, comunicativo, pensate, mi permette di incontrare mio cugino che vive a New York in pochi istanti, e mentre sto a Foggia, comodamente seduto in poltrona, di colpo posso essere proiettato a Berlino, a Londra, in un museo, in uno stadio, a un concerto… dove voglio. Ma Internet crea anche grosse confusioni: i mezzi di comunicazione e di viaggio veloci, i confini abbattuti, la liberalizzazione dei mercati, l’incontro, o lo scontro, con culture diverse, con ideologie politiche agli antipodi, con usi e costumi che possono andare al di là del nostro immaginario, con ideologie religiose che si perdono nel misterioso e nell’apocalittico, con la facile illusione della migrazione… in una parola, Internet aiuta a creare il fenomeno della globalizzazione. Allora la nostra piccola società foggiana, la nostra piccola società mesagnese, con la propria piccola cultura contadina, con i propri preziosi usi e costumi quotidiani, con le proprie certezze, con le proprie sicurezze, ecco che di colpo si vede proiettata sul grande schermo del mondo globalizzato, il che, se da un certo punto di vista può essere positivo perché avvicina i mercati e dà la possibilità di conoscere culture diverse, da altri punti di vista può diventare pericoloso provocando un’omogeneizzazione delle culture e quindi incisive trasformazioni nelle società contemporanee caratterizzate appunto da una varietà di culture ed etnie.

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Davanti ad una nuova società multietnica e multiculturale non ci si può limitare alla produzione di qualche nuova normativa, è necessario promuovere degli orientamenti culturali comuni, per fare in modo che le differenze non siano motivo di divisioni ma di reciproco arricchimento. «Non si tratta di ammainare una bandiera per issarne un’altra o di sacrificare una pizzeria a vantaggio di un ristorante etnico, bensì di far convivere e interagire persone con storie e tradizioni diverse, chiamate dal corso degli eventi storici a essere coprotagonisti di una storia comune»1. Oggi non c’è bisogno tanto di una cultura universale quanto di un “universalismo delle culture”. Il fenomeno della globalizzazione rende le organizzazioni nazionali inefficienti con il conseguente sopravvento del potere economico su quello politico. Chi ne paga direttamente le spese sono i singoli individui e l’incontro fra di loro, con conseguenze che vanno dall’insicurezza sociale alla perdita d’identità. Insomma, una società multiculturale si trova ad affrontare al suo interno problemi più seri della semplice convivenza. Si assiste allora, oggi, a quel diffuso relativismo che crea la crisi di ogni identità. Oggi non vengono negati i valori assoluti, si crede soltanto che due individui non li concepiscano e non li vivano allo stesso modo, considerando del tutto normale che uno stesso soggetto cambi idea dall’oggi al domani su ogni verità, considerata immutabile nel tempo. La conseguenza di ciò è l’incapacità di legarsi oggi a qualcosa e a qualcuno. Questa trasformazione del modo di vivere parte dall’intimo dell’uomo e non trova le sue cause nella società di appartenenza, né da giochi economici. Possiamo considerarci tutti nomadi,

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P. VANZAN – F. ROSSI, «Respingere o integrare?», in Vita Pastorale, (2009) 7,19.

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emigranti, non perché non abbiamo un territorio di residenza o una casa, ma perché siamo soli e rifiutiamo un vero incontro con l’altro. Ecco che il dialogo diventa una condizione necessaria. Perché esista questo dialogo, e questo sia costruttivo, è necessario l’incontro, dove i portatori di una determinata cultura abbiano consapevolezza di essa e, nello stesso tempo, sappiano prenderne le distanze. Il fenomeno della “globalizzazione” necessita di una nuova riflessione sui temi dell’identità, della differenza, della tolleranza e del rispetto reciproco. Per poterlo fare bisogna chiarire un equivoco dei nostri giorni. All’inizio dell’epoca moderna, per l’uomo occidentale, il progresso tecnico- economico non veniva disgiunto dal progresso spirituale e morale che ne rappresentava il presupposto. Nell’era della globalizzazione invece, si ha una visione unidimensionale del progresso, cioè, si ritiene che il miglioramento delle condizioni umane coincida solo con il progresso scientifico ed economico. Questo sistema ha ridotto l’attività politica a semplice “gestione imprenditoriale”, aumentando ancora di più la differenza tra ceto facoltoso e classi disagiate. La tecnologia favorita dalla globalizzazione accresce la disoccupazione; la concorrenza dei paesi a bassi salari provoca nei Paesi occidentali un’altra causa di disoccupazione, di lavoro nero e di sfruttamento dei lavoratori a bassa qualificazione. Chi ne fa le spese? È Antonio di Taranto, sposato, con tre figli a carico, operaio dell’Ilva, che per una politica ambientale poco attenta ed edonistica, a 57 anni si ritrova disoccupato; è Giovanni di Caivano, 20 anni, costretto come suo padre e come suo nonno a emigrare per un lavoro che spesso non è neanche dignitoso; è Francesco, di Bari, 27 anni, laureato, specializzato, con un ricco curriculum, lavora da operaio, sottopagato e non

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valutato per le sue capacità professionali… poi ci lamentiamo per la fuga dei cervelli all’estero… e la lista è ancora lunga! In questi nuovi contesti sociali, la Chiesa è chiamata a farsi presente con una analisi adeguata, indipendente dalle mode e emotività di certe facili cronache. La verità professata dal cristianesimo può sicuramente essere illuminante. Ciò che viene messo in gioco è la dignità della persona e la sua cultura. Nella società multiculturale le differenze, però, rischiano di causare anche tra i credenti più conflitti che consensi, infatti la fede si manifesta attraverso i diversi atteggiamenti religiosi. Le maggiori religioni del mondo hanno importanti valori in comune, come la costante ricerca del principio, del fine e del senso, il problema della morte e del suo superamento, ecc. Bisogna dunque promuovere il dialogo tra le religioni per rendere più efficace il dialogo tra le culture. È significativa in questo senso l’espressione sintetica di Hans Kung, teologo svizzero: “Non c’è pace tra le nazioni senza pace tra le religioni. Non c’è pace tra le religioni senza dialogo tra le religioni. Non c’è dialogo tra le religioni senza una ricerca sui fondamenti delle religioni.”2 Nel secondo decennio del terzo millennio, la Chiesa si pone l’obiettivo della buona educazione alla fede, a una fede viva, partecipe e coinvolgente in tutti gli ambiti, dalla catechesi alla liturgia e alla carità, dove il cristiano prende coscienza di sé e dell’altro e sappia dialogare in un rapporto di parità nel rispetto di ogni cultura e religione. Oggi l'umanità chiede: maggiore giustizia nell'affrontare il fenomeno della globalizzazione; attenzione per l'ecologia e per una corretta gestione degli affari pubblici; grande sensibilità per le problematiche che emergono dal mondo del lavoro e il conseguente aumentare dei nuovi poveri; riduzione del divario fra Paesi meno sviluppati e Paesi ricchi e 2

H. KUNG, Ebraismo, BUR, Milano1995.

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per le conseguenze che può provocare la liberalizzazione dei mercati. In tutto questo la Chiesa non può mancare di far sentire la propria voce. La vera protagonista della vita sociale é la persona umana. Dio ha donato ad essa la dignità di creatura e di persona per cui la Chiesa si rivolge ad essa per sostenerlo verso la pienezza della sua vocazione. Tale rapporto fra l’essere umano e Dio si determina nella dimensione sociale della natura umana. La vocazione di uomo e donna é quella di essere, non solo in relazione fra loro e con Dio, ma anche con le altre creature. Quando l’uomo scavalca la propria vocazione e forza i suoi limiti di creatura arrivando a sfidare Dio, corrompe la creazione e lascia spazio al peccato. Questo non solo allontana l’uomo da Dio ma rovina anche il suo rapporto con gli altri uomini. Per questo il peccato non apre solo una ferita personale, ma anche sociale. Infatti, come é vero che ogni persona é legata alle altre nel bene, così anche le conseguenze negative del male ricadono su tutti gli uomini. Questa considerazione sta alla base del richiamo continuo che la Chiesa propone per distogliere l’uomo peccatore dal comodo alibi di attribuire responsabilità esclusivamente personali agli altri, addossandole a generici capri espiatori della società, su insegnamenti sbagliati, su falsi modelli di vita, su ideologie e mode di tendenza. Riguardo al problema del lavoro il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa cita testualmente: «Il lavoro è un diritto fondamentale ed è un bene per l’uomo». Nel giardino dell’Eden, Dio invita l’essere umano a custodire e governare il Creato, azione, questa, che sottolinea il compito sociale e socializzante del lavoro dell’uomo: custodire e governare per sé e per gli altri. In questa dimensione il lavoro oltre ad esprimere la personale dignità umana, diventa un obbligo e un dovere. La relazione sociale dell’uomo,

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che si esprime nella famiglia, nella società e nello Stato, porta l’uomo, dal punto di vista morale, ad essere autore del futuro delle generazioni che verranno: enorme responsabilità che va controllata e difesa, soprattutto oggi, a causa dei repentini cambiamenti dell’economia mondiale. Occorre, allora, consolidare le rappresentanze sindacali, valorizzare l’associazionismo, tutelare i lavoratori a favore di una giusta retribuzione, di una attenta previdenza, di pari opportunità e di adeguati ammortizzatori sociali. Il lavoro è spesso nascosto e coinvolge minori e immigrati, agevolando lo sfruttamento e gli infortuni; è sovrainvestito, non si ha limite all’orario di lavoro e si sacrifica il riposo e la festa. Per il credente, che è condizionato dai cambiamenti sociali, si svilisce il rapporto tra lavoro e festa, per cui occorre favorire la conciliazione tra i tempi lavorativi e quelli dedicati alle relazioni umane e familiari. La Chiesa invita ogni uomo di buona volontà a investire su nuove regole per l’economia che possano far fronte alla globalizzazione e ai vari periodi di transizione, favorendo la crescita del lavoro senza sacrificare gli aspetti fondamentali della vita dell’uomo, e cioè la formazione, l’educazione, la famiglia, le relazioni con la società. Attraverso l’azione pastorale, l’insegnamento della Chiesa deve privilegiare l’inculturazione della fede, con la quale, in forza del Vangelo, l’uomo contemporaneo possa arrivare a possedere criteri di giudizio, valori determinanti, linee di pensiero e modelli di vita coerenti. La frattura tra Vangelo e cultura, che nel mondo secolarizzato sminuisce la visione della salvezza, tende a ridurre anche nel cristianesimo questa separazione, producendo una mentalità poco coerente con la propria fede e quindi col messaggio evangelico. La Chiesa, che è consapevole di ciò, nella sua evangelizzazione, deve procedere ad un nuovo dinamismo missionario. In questa prospettiva pastorale si situa l'insegnamento sociale destinato a quei fedeli laici impegnati nel campo sociale e politico, per i quali è

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indispensabile una conoscenza più esatta della dottrina sociale della Chiesa, infatti tale patrimonio dottrinale non è adeguatamente insegnato e conosciuto. L’opera formativa deve rendere i cristiani laici idonei ad affrontare i compiti quotidiani negli ambiti culturali, sociali, economici e politici, sviluppando in loro il senso del dovere praticato al servizio del bene comune. Concludo citando il numero 20 della Regola carmelitana che parla del lavoro in se stesso e il suo valore per la vita spirituale. «Dovete fare qualche lavoro, così che il diavolo vi trovi costantemente occupati e non avvenga che, a motivo del vostro ozio, egli possa insinuarsi nelle vostre anime. In ciò avete l’insegnamento e l’esempio dell’apostolo San Paolo, per bocca del quale parlava Cristo, e che Dio ha costituito e dato quale predicatore e maestro delle genti nella fede e nella virtù: seguendo lui non potrete sbagliare. Santa e buona è questa via: camminate in essa». La Regola cita lungamente la seconda lettera di san Paolo Apostolo ai Tessalonicesi. Lui aveva fatto del lavoro la condizione di base della sua vita e della sua attività pastorale. Egli parla del lavoro come parte integrante della condizione umana. Esso garantisce il sostentamento. La dura realtà della vita, segnata dal lavoro, è parte integrante del cammino che conduce a Dio. Non esiste altro cammino. Perciò il lavoro era un elemento fondamentale e comune della vita monastica ed eremitica. Era in questa dura vita di lavoro che i monaci cercavano di vivere l’ideale della ricerca di Dio. Il lavoro era un’arma di lotta contro il diavolo. È questa lotta contro il diavolo, che portò i primi Carmelitani ad assumere il lavoro come elemento di base del loro cammino verso Dio. Secondo la Regola, sulla porta dell’anima di ogni persona ci deve essere scritto: Occupata, lavorando! Il lavoro impedisce l’ingresso di ospiti indesiderati, crea resistenza

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nello spirito contro l’erosione e la disintegrazione interiore. Fa pure sì che le relazioni tra i membri della comunità siano armoniosi, dato che impedisce che uno sia un peso inutile per gli altri. Mantiene l’equilibrio, crea armonia attraverso una buona e saggia distribuzione dei compiti.3

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C. MESTERS, Intorno alla fonte, Edizioni Carmelitane, Roma 2006.

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